Terza dose sì o no? Per ora è “forse”

Abbiamo concluso la somministrazione della seconda dose di vaccino, per alcuni neanche è stata effettuata la prima, e si parla già di una terza. La notizia che sta correndo nei media è che altri Paesi, quali Israele e Gran Bretagna stanno già procedendo ed è giusto seguire l’esempio. Dunque è stato già deciso. Quali sono i dati in nostro possesso? C’è da sorridere quando il virologo americano Fauci, riconosciuto essere un vero luminare, ha dichiarato “una terza dose di Pfizer può aumentare fortemente la protezione contro la variante Delta, oltre alla protezione offerta dalle due dosi standard, nuovi dati rilasciati da Pfizer”, per poi scoprire che i “dati rilasciati” dal produttore si fondano su 23 casi non pubblicati. Inviare a una rivista scientifica, neanche troppo rigorosa, uno studio su 23 pazienti significa rifiuto immediato. La terza dose non deve essere fatta? Per gli stessi motivi. Piuttosto dovremmo dare uno sguardo alla situazione globale, spingendoci oltre il nostro cortile. Milioni di persone nel mondo (anche in Italia) non hanno ricevuto neanche la prima dose. Nei Paesi poveri la causa è la mancanza di dosi e di un piano vaccinale efficiente. Prima della terza dose è necessario impiegare tutte le energie per proteggere, almeno con una dose, l’intera popolazione: “Al momento i dati non indicano il bisogno di una terza dose – ha detto in una conferenza stampa Soumya Swaminathan dell’Oms – Ci opponiamo fermamente alla terza dose per tutti gli adulti nei paesi ricchi, perché non aiuterà a rallentare la pandemia. Togliendo dosi alle persone non vaccinate i booster favoriranno l’emergere di nuove varianti”.

La posizione è stata ribadita da Bruce Aylward, un altro esperto dell’Oms. “Ci sono abbastanza vaccini per tutti, ma non stanno andando nel posto giusto al momento giusto. Due dosi devono essere date ai più vulnerabili in tutto il mondo prima che i richiami vengano dati a chi ha completato il ciclo, e siamo ben lontani da questa situazione”

Pure i negazionisti del Rdc ignorano i numeri e gli studi

Le critiche al Reddito di cittadinanza provengono per lo più da gente che non ha idea di come funzioni o cosa faccia. Tanto è vero che quelle sensate dal punto di vista dei dati le fanno solo gli esperti, non i politici. Breve guida.

“Il Reddito di cittadinanza disincentiva il lavoro”. Purtroppo manca un monitoraggio costante, ma i dati dicono altro. A ottobre 2020, nonostante la pandemia, oltre 350 mila percettori del Rdc avevano firmato almeno un contratto di lavoro, quasi sempre precario: si tratta di quasi il 32% degli 1,1 milioni tenuti al Patto per il lavoro. Gli altri, per vari motivi, non possono o sono in grado di lavorare.

“Preferiscono prendere 780 euro anziché accettare un contratto stagionale”. In realtà i famosi 780 euro al mese sono la cifra massima che può prendere un single, ma nella pratica la media è appena 548 euro al mese: si va dai 447 euro dei single ai 702 euro per le famiglie con quattro componenti. Cifre molto basse e del tutto incapaci di spingere i beneficiari a rifiutare offerte del lavoro, escluse le offerte indecenti, che però non mancano.

“I navigator sono stati un fallimento e stanno rubando lo stipendio”. Intanto i navigator, per volere delle Regioni, non hanno il compito di trovare lavoro ai beneficiari del Rdc, ma solo di prestare assistenza tecnica alle Regioni: un compito che svolgeranno – salvo proroghe – fino a dicembre. Sono le Regioni, tramite i propri Centri per l’impiego, ad avere in mano le politiche attive del lavoro e per questo hanno ottenuto due anni fa i fondi per assumere nei loro Centri ben 11.600 nuovi operatori: a oggi – con dati aggiornati a marzo 2021 – ne hanno assunti solo mille.

“Il Rdc aiuta evasori e mafiosi”. L’ultima rilevazione dice che i beneficiari del Reddito sono 3 milioni e 71 mila. Difficile pensare che siano tutti furbetti o mafiosi: questa convinzione (nonostante numeri esigui rispetto alla platea) deriva dal profluvio di notizie di cronaca sulle operazioni della Gdf che revoca il Rdc a gente che non ne ha diritto (ieri due) e che paiono in realtà dimostrare che i controlli funzionano.

“Nonostante il Reddito, la povertà aumenta”. La platea coperta dal Rdc è di poco superiore alla metà dei 5,6 milioni di poveri conteggiati nel 2020 dall’Istat (peraltro non è detto che le due platee siano sovrapponibili). Fino a marzo 2021 erano stati spesi quasi 13 miliardi di euro: nel primo anno di operatività, il 2019, il Reddito ha ottenuto un buon risultato: povertà diminuita del 9%, poveri assoluti passati da 5 milioni a 4,6 milioni. Poi c’è stato il Covid, che ne ha creati un altro milione, ma la stessa Istat ha segnalato che i numeri sarebbero stati assai peggiori senza i sussidi.

“Il Rei (reddito di inclusione) funzionava meglio”. Il Rei, introdotto dal governo Gentiloni, sotto alcuni aspetti era architettato meglio, perché privilegiava un percorso coi servizi sociali rispetto all’obbligo di ricerca lavorativa (ma c’era anche quello). Si trattava però di un sussidio che: disponeva di finanziamenti scarsi (meno di 4 miliardi in due anni, non tutti usati); garantiva cifre molto basse (massimo 540 euro al mese per le famiglie numerose; 308 euro l’assegno medio); fu un flop perché in un anno e mezzo raggiunse 1,4 milioni di persone su una platea potenziale di 2,5 milioni.

“Il Rdc penalizza il Nord e le famiglie numerose”. Queste due critiche sono basate su dati di fatto e infatti non vengono mai citate dai “negazionisti” del Rdc. Il Reddito, basandosi su parametri uguali in tutta Italia, penalizza infatti chi vive nelle zone più ricche e quindi ha un costo della vita più alto. E ancora: la cosiddetta “scala di equivalenza” (il meccanismo per cui il sussidio aumenta al crescere dei componenti del nucleo) è costruita in modo tale che le famiglie più numerose si ritrovano ad avere importi troppo bassi. Il contributo per l’affitto, poi, si ferma a 280 euro, pochi per chi vive nelle grandi città. Come se ne esce? Più fondi.

“Bisogna soffrire” (magari dopo le vacanze)

L’ estate sta finendo, come da citazione dei Righeira. Gli sgoccioli di agosto portano con sé un senso di struggente malinconia. Il crepuscolo è particolarmente intenso per una banda di amici che ha preso il nome di Italia Viva: estate dopo estate la durata della legislatura si accorcia, l’orizzonte politico si restringe, la prospettiva personale e collettiva si fa asfittica. Del doman non c’è davvero certezza, in questo caso. Ma come sempre, chi vuol esser lieto, sia: Italia Viva è più di un partito, è una confraternita. I suoi affiliati sono pochi ma hanno i pensieri lunghi e la mente fina.

Sono quelli che odiano il reddito di cittadinanza. Che lo ritengono una misura “diseducativa”, una distorsione delle savie dinamiche del mercato, un sussidio che impedisce agli imprenditori di trovare forza lavoro a condizioni cripto schiavistiche: i pelandroni, incredibile, preferiscono starsene a casa a farsi pagare dallo Stato. Il reddito è “una vita in vacanza”, per citare un’altra canzone cara alla compagnia. I giovani invece devono essere forgiati negli stenti, “devono imparare a soffrire”. Parola di Matteo Renzi.

In effetti loro – quelli di Italia Viva – soffrono. Soffrono tanto e in genere soffrono insieme. Come quella volta che si fecero un selfie di gruppo in vacanza su un motoscafo. Era la prima estate in pandemia.

Quest’agosto niente natanti, ma c’è un senso di rinascita, si torna a viaggiare all’estero. Si va a Formentera. Luciano Nobili, Francesco Bonifazi, Federico Lovadina (il pistoiese piazzato da Renzi alla presidenza di Sia, la società di Cassa depositi e prestiti) e il coordinatore romano Marco Cappa: tutti insieme per un grande viaggio spirituale.

Ci sarebbe piaciuto poter ignorare la circostanza, ma come si fa? Sarà pure bassa sociologia, antropologia d’accatto, ma è soprattutto una questione estetica. Il diario di viaggio è su Instagram e le foto sono di una bellezza sconcertante. A metà tra Muccino e Vanzina: un po’ tardo adolescenti romantici, un po’ vitelloni italiani alla conquista delle Baleari.

Come si può ignorare il selfie abbacinante di Lucianone Nobili dopo la passeggiata al faro? Occhiali da sole, sorriso sfrontato e maglietta “Politics is like sex”. Erotismo e potere, fascino e mistero. Una foto da ammirare a specchio con quella di un Bonifazi languido, in camicia di lino e lenti scure, sullo sfondo si intravedono morbide dune e il mare celeste.

In quei giorni c’era la crisi afghana, certo. C’era Renzi che simulava un ritorno lampo in Senato, per presidiare le istituzioni in una fase tanto delicata sul piano internazionale, d’accordo. Ma non rompeteci le scatole.

I renziani in vacanza sono una “Band of brothers” (hashtag #Summer2021), come scrive Nobili. Una didascalia piena d’amore sotto una grande foto di gruppo. Si respira fratellanza, malgrado il commento goliardico di Marco Agnoletti (ex portavoce di Renzi): “Il Lovadina sembra sotto l’effetto di droghe pesanti: ma forse è solo la vicinanza del Nobili a fare questo effetto”.

Si va a cena tutti insieme al ristorante “A mi manera” e si aggiunge anche Andrea Ruggieri di Forza Italia. Confessiamo una certa invidia – qui è quasi ora di cena – per le bistecche da 70 euro (ma solo per i palati esigenti che scelgono la carne di Wagyu, volendo c’è un più abbordabile menù fisso da 90 euro a persona, bevande escluse).

I nostri ci regalano selfie, abbracci, foto in spiaggia, momenti di relax casalingo mentre studiano le prossime scorribande, ma il momento catartico della vacanza è senza dubbio il video insieme all’attore spagnolo che interpreta “Arturito”, il personaggio un po’ infamello della Casa di carta. Arturito, apparentemente a poche bracciate dal collasso etilico, inizia a intonare “Bella Ciao”. “O partigianooo, portami viaaa”. Subito dietro di lui si fanno spazio nell’inquadratura due figure imponenti, sono Cappa e Nobili: “O bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciaooo”. È una scena che si può descrivere in un solo modo: raggelante. Ma non preoccupatevi, non c’è niente di politico, è solo Netflix.

Sappiamo bene di essere dei moralisti: non c’è niente di male a divertirsi in vacanza. Però viene in mente una frase del socialdemocratico svedese Olof Palme (non a caso molto amata da Walter Veltroni): “Il nostro dovere è combattere la povertà, non la ricchezza”. Quelli di Formentera combattono i poveri e la ricchezza la esibiscono.

“No a patti modello ‘93, i salari devono crescere. Cambiare il green pass”

Nel corso dell’estate Maurizio Landini, segretario della Cgil, ha tenuto banco soprattutto per le polemiche sul Green pass. Dei temi generali del lavoro si è discusso poco e di questo ora il leader sindacale vorrebbe parlare.

Segretario Landini, qual è la posta in gioco di autunno?

Siamo a un passaggio fondamentale per produrre un cambiamento del modello sociale e di sviluppo. Al centro va posto il lavoro nella sua qualità e nel suo significato più profondo: cosa si produce, perché e con quale sostenibilità ambientale e sociale. Abbiamo l’occasione del Pnrr che esige la necessità di fare i conti con la transizione ambientale, digitale e generazionale. Noi rivendichiamo che il mondo del lavoro sia messo nella condizione di poter partecipare e decidere sulle scelte che verranno compiute. Per questo rivendichiamo che si definisca il protocollo nazionale con le parti sociali per la realizzazione del Pnrr.

Il segretario del Pd, Letta, ha proposto di rinverdire il modello Ciampi.

Rispetto al 1993 non abbiamo bisogno di moderazione salariale, anzi il contrario. Servono riforme precise, non è sufficiente un Patto generale di intenti. Siamo in un’altra fase storica e quel modello non rappresenta la complessità della situazione attuale.

Preferite quindi un confronto puntuale sui singoli punti?

Nel 1993 dovevamo entrare in Europa, oggi dobbiamo costruire una nuova Europa e c’è bisogno di fare riforme: fisco, pensioni, diritti dei lavoratori, una politica industriale che manca da venti anni. Serve un sistema partecipato per poter intervenire su diverse scelte.

Ma potete fidarvi di un governo come quello Draghi? Sui licenziamenti non è andata bene.

Siamo abituati a fare i conti con i governi che ci sono. I temi indicati sono tutti da affrontare a partire dalla prossima legge di Stabilità e noi chiediamo di avere lo spazio per discutere. Quanto ai licenziamenti, essere riusciti a strappare il ricorso alla Cig, anziché licenziare, può consentire ai lavoratori di essere tutelati e alle imprese di riorganizzarsi. E per i settori che hanno la scadenza al 31 ottobre, fino alla riforma degli ammortizzatori è necessario il prolungamento del blocco dei licenziamenti. La partita è aperta e se possiamo rivendicare un ruolo del governo e delle associazioni imprenditoriali contro il far west delle multinazionali è anche merito nostro.

Sulle delocalizzazioni il governo continua a prendere tempo e ad annacquare il provvedimento.

Non si tratta solo di definire delle regole, peraltro presenti in altri paesi europei, ma di politica industriale. Dietro casi come Gkn, Gianetti, Whirlpool in realtà c’è il tema del ruolo pubblico nell’economia. Le maggiori imprese italiane hanno una presenza pubblica e occorre recuperare una dimensione di questa natura senza la logica delle decontribuzioni o dei finanziamenti a pioggia, ma individuando filiere e settori strategici in cui collocare gli investimenti. Solo che, innanzitutto, vorremmo poter discutere mentre finora non c’è stato un confronto con il sindacato e registro un’assenza di dibattito nel paese.

Se mancano lavoratori in alcuni settori è colpa del Reddito di cittadinanza o di lavori pagati poco?

No. Il lavoro povero o il part time involontario coinvolge almeno 4-5 milioni di lavoratori poveri, soprattutto giovani e donne. Su questo servirebbe una legge sulla rappresentanza che riconoscesse i contratti nazionali firmati da sindacati davvero rappresentativi. Abbiamo bisogno di lavoro stabile e di eliminare la precarietà, ma c’è anche il problema della formazione continua. In tempi di transizione digitale ci sono lavori che spariscono, ma anche molte altre attività che diventeranno lavoro.

Anche la Cgil pensa che il Reddito di cittadinanza vada rivisto?

Sono contrario a chi pensa che occorra cancellare un istituto che combatte la povertà, ma serve migliorarlo dal punto di vista dell’accesso ai servizi: casa, scuola, etc. Va poi separato dalle politiche attive che invece significano investimenti e un sistema formativo permanente.

E sulle pensioni? Quota 100 scade il 31 dicembre, che si fa dopo?

Occorre una revisione di fondo della legge Fornero, non c’è solo “quota 100”. Chiediamo che con 41 anni di contributi si possa andare in pensione senza vincoli anagrafici e che a partire da 62 anni ci sia una flessibilità in uscita. Occorrono regole diverse a seconda della gravosità del lavoro e poi chiediamo una pensione di garanzia per le giovani generazioni così come occorre riconoscere la specificità del lavoro femminile.

Nel corso dell’estate ha tenuto banco la polemica sul Green Pass. Davvero non è stata una strizzata d’occhio ai lavoratori no-vax?

Per noi vaccinarsi è una responsabilità e un dovere sociale. Già il 6 aprile abbiamo fatto un accordo per la vaccinazione nelle aziende. È il momento che Parlamento e governo si prendano la loro responsabilità. Noi siamo d’accordo sull’obbligo vaccinale e non abbiamo, in principio, nulla in contrario al Green pass, ma non va usato per aggirare l’inadempienza del governo sulla legge. Il problema non riguarda solo i luoghi di lavoro, ma tutto il Paese.

Sergio Cofferati vi critica dicendo che mensa e ristoranti sono la stessa cosa.

La mensa non è un ristorante, ma è un servizio e un diritto di chi lavora, già messa in sicurezza con i protocolli. Si rendano gratuiti i tamponi, non si può pagare per lavorare o per mantenere un diritto conquistato.

Il Fatto ha avviato una petizione per le dimissioni da sottosegretario di Durigon. È d’accordo?

Siamo una Repubblica democratica e antifascista, il nostro Paese ha riconquistato la libertà e la democrazia perché ha sconfitto il fascismo. Chi la rappresenta ha giurato sulla Costituzione e deve rispettarla, non sostenere il suo contrario. È una responsabilità che il governo si deve assumere.

Festa dell’Unità. I dem invitano il “gerarca” Bignami (FdI)

È colpa di Bologna. No, di Roma! Anzi di Fratelli d’Italia. Psicodramma per un ospite “inconsueto” alla Festa dell’Unità nazionale. Il 9 settembre, nella sala Nilde Iotti, al dibattito “Curare e rafforzare la democrazia, le riforme possibili” ci sarà il deputato Galeazzo Bignami, uno degli uomini forti di Giorgia Meloni. Un passato nel Fuan, recordman di preferenze, è noto per una foto in cui è vestito da nazista – “era un addio al celibato” – e per un video in cui andava in giro per Bologna mostrando i nomi degli stranieri assegnatari di una casa popolare. Negli stessi giorni il Pd prova a rimuovere Claudio Durigon, sottosegretario leghista che vuole intitolare il parco Falcone e Borsellino a Mussolini, e invita Bignami alla sua storica Festa. Pochissimi dem si sono lamentati. Tra questi Davide Di Noi, membro della direzione nazionale: “Bisognava evitare”. Mentre la sardina Mattia Santori (in lista coi dem) ha detto che non parteciperà al dibattito se Bignami sarà confermato. Gli organizzatori locali hanno spiegato che “il programma è gestito direttamente da Roma”. Fonti del Nazareno riprese dall’Ansa negano: “FdI ha dato il suo nome, la conferma che molti dirigenti di quel partito non hanno fatto i conti con il nazifascismo”. Chissà che ne pensano la senatrice Monica Cirinnà e l’assessore regionale Mauro Felicori, due dem ospiti della Festa dei Patrioti di Fdi a Poggio Renatico.

“Ora serve un fronte progressista: il Pd dia più spazio ai sindaci”

La prima idea per Bologna è farne “la città più progressista d’Italia”, come recita lo slogan che darà il senso del suo programma. Ma Matteo Lepore, candidato sindaco dem con una coalizione che va dalla sinistra al M5S fino a Iv, vuole la stessa rotta anche per il Pd: “Dobbiamo essere un partito laburista e innovativo”.

Come farà a governare tenendo assieme grillini, renziani e Sardine?

Il punto centrale è il livello alto delle proposte politiche. Tutte le forze che mi sostengono hanno sottoscritto il programma che presenterò entro i primi di settembre, e che afferma chiaramente cosa saremo: progressisti, con grande attenzione per il lavoro, l’ambiente, i diritti.

Iv è il partito di Matteo Renzi, ormai il gemello di Matteo Salvini…

Sarà Renzi a decidere il futuro politico di Iv. Ma Isabella Conti (la sua sfidante alle primarie, sostenuta dai renziani ndr) è una figura civica e ha allargato la coalizione alla società civile. Mi auguro che rientri nel Pd.

Conte vuole il M5S nel centrosinistra. Ma per il Pd quella con i 5Stelle è una strada obbligata?

C’è la necessità di costruire un fronte democratico e progressista. E bisogna iniziare, come sta facendo Enrico Letta, provando a costruire alleanze sui territori, per poi costruire un campo con i 5Stelle, la sinistra, sindacati, imprese e Terzo Settore.

Lei vorrebbe lo ius soli nello Statuto comunale, ma per diversi grillini “non è una priorità”.

Bologna è la città dell’accoglienza, e il nostro modello è stato adottato anche dal Viminale. L’idea di inserire lo ius soli nello Statuto è chiaramente simbolica, perché le leggi non possono farle i sindaci, e comunque ricordo che il M5S ha sottoscritto il programma. Però serve una vera legge sulla cittadinanza, e va realizzata in Parlamento, con una maggioranza ampia.

Il reddito di cittadinanza va difeso?

Soprattutto durante la crisi pandemica, ha rappresentato un supporto fondamentale per molti. Perfino a Bologna avremmo avuto problemi maggiori senza il reddito. Ciò non vuol dire che vada bene così. Va migliorato, specialmente nella parte di inserimento nel mondo del lavoro.

La Sardina Mattia Santori ha detto di essersi candidato col Pd per controllare il partito da dentro.

Conosco Mattia da tempo, e sono tra quelli che gli hanno chiesto di candidarsi con il Pd, per rilanciare l’azione politica dei partiti.

La sua idea dello stadio per il frisbee?

Dobbiamo discutere della lunghezza delle tribune (sorride, ndr).

Per il presidente di Confidustria Bonomi le norme contro chi delocalizza penalizzano le imprese.

Io ragiono su due piani. Su quello di Bologna, voglio un Comune da combattimento, vicino ai lavoratori delle multinazionali che non hanno sede in Italia. Ho proposto un patto con le aziende della logistica per garantire certi diritti, e sono convinto che i sindaci debbano lavorare per rimpiazzare le imprese “cattive” con quelle buone. Poi c’è il Pd, che per me deve essere un partito del lavoro. Dobbiamo coprire quel grande spazio politico, e per farlo serve anche più spazio per i sindaci e meno per i capi-corrente.

Bonomi è andato dritto contro il ministro del Lavoro, Orlando.

Finalmente un ministro che alza la mano su questi temi. Non serve una subalternità culturale nei confronti delle imprese, ma uno sviluppo vero. Le aziende devono capire che rispettando i diritti sono più forti. Il miglior esempio sono le imprese della manifattura dell’Emilia Romagna.

Il governo Draghi pende a destra?

Draghi sta lavorando con equilibrio e va sostenuto fino al 2023. Ma il governo deve ascoltare di più i territori e i sindaci, perché saranno loro a dover investire i soldi del Recovery Plan.

Secondo Letta l’agenda del governo Draghi è la stessa del Pd.

Noi dem dobbiamo avere la nostra agenda. Draghi è stato una salvaguardia, ma i partiti devono tornare al centro della politica.

Si è nel pieno del caso Durigon e ora c’è quello di Bignami, esponente di FdI invitato alla festa dell’Unità a Bologna, che nel 2016 si vestì da nazista.

Mi candido a essere il sindaco di una città medaglia d’oro della resistenza. Non ho certo paura di confrontarmi con Bignami.

Quando c’era Lui: disfida tra “voi”, “fesso” e “cesso”

È noto che a dettare il primato del “Voi” sul “Lei” fu il fiorentino Bruno Cicognani con un articolo pubblicato sul Corsera il 15 gennaio 1938 e intitolato “Abolizione del Lei”. Così facendo, a suo avviso, la razza italica sarebbe tornata alle sue vere origini. Approvata l’idea da Mussolini, ne discesero precise disposizioni fiorite nella vulcanica, e a volte grottesca, mente dell’allora segretario nazionale Achille Starace, che provocarono più di un cambiamento.

Tra i più conosciuti quello del settimanale Lei che mutò il titolo in Annabella. In più di una città sorsero cosiddette mostre “Antilei”. In una di queste un cartello istruiva in maniera siffatta i visitatori: “A chi ti dà del lei ancora adesso, non dar il voi né il tu, dagli del fesso”. Successe che il segretario della sezione bellanese Secomanni Turibio, dopo aver preso visione della strofetta su una delle riviste femminili che la moglie acquistava, da lui dileggiate per poi leggerle nascostamente, ne rimase talmente fulminato da provare dispetto per non esserne stato l’autore. Riflettendo però che ben pochi tra i camerati, nessuno in pratica, potesse averne contezza, decise di farla sua e diffonderla come se davvero l’avesse scritta lui. Non perse tempo, e due sere più tardi, nel corso di una riunione di sezione, annunciò di avere avuto due idee geniali. La prima, quella rimetta che declamò. La seconda, che avrebbe fatto stampare manifesti da esporre nei locali pubblici e affiggere nei luoghi preposti in cui si ribadivano le disposizioni staraciane con, in chiusura, il singolare distico. Detto, fatto.

In pochi giorni il paese fiorì di manifesti e cominciò subito a girare qualche voce su questo o quello che s’era già preso del fesso per bocca del Secomanni che non si peritava di dichiarare che non avrebbe risparmiato nessuno, fosse stato il podestà, il prevosto e anche quel tal maresciallo Ernesto Maccadò che con provocatoria pertinacia continuava a usare l’aborrito Lei. La voce giunse all’orecchio del Maccadò grazie a una soffiata del suo appuntato Misfatti cui ben poco sfuggiva di ciò che si mormorava in paese, in ciò aiutato anche dalla moglie, vero carabiniere in pectore. Vedremo, aveva risposto il maresciallo. E in verità gli sarebbe proprio piaciuto trovarsi prima o poi faccia a faccia col Secomanni. Cosa che capitò una mattina. Il Maccadò, da giorni di umore lieto grazie alla notizia che la moglie Maristella era in attesa del sesto figlio, era alla finestra dell’ufficio del Misfatti quando vide il segretario entrare al bar dell’Imbarcadero.

L’occasione gli parve imperdibile e, chiamato l’appuntato per condividere l’evento, lo invitò a scendere con lui per un caffè con l’intenzione dichiarata di rispondere al saluto del Secomanni con un esplosivo, Buongiorno a Lei! La delusione gli si dipinse in viso quando, entrato, del segretario non c’era più traccia. Non era lì fino a un secondo prima?, chiese a Gnazio Termoli, gestore del locale. Sì, confermò questi. Ma all’improvviso, dopo un’occhiata alla strada, gli aveva detto di aver bisogno del luogo comodo. I due carabinieri si guardarono sorridendo. Sarà per un’altra volta, commentò il Maccadò muovendosi per ritornare in caserma. La raggiungo tra un istante, disse invece il Misfatti. Rimasto solo chiese al Termoli carta e penna e scrisse: “Se chi ti dà del voi sta chiuso in cesso, come si fa a capir chi è il più fesso?”. Poi richiuse il biglietto e lo allungò al Termoli. Da consegnare, disse, appena esce.

La trattativa Stato-Durigon Lui: “Non mi faccio cacciare”

Il tema non è il se, ma il come. Perché il destino di Claudio Durigon ormai sembra segnato: nelle prossime ore, al massimo entro il fine settimana, si dimetterà da sottosegretario all’Economia. Ma tutto starà nel farlo uscire dal governo in maniera dignitosa e soprattutto – è quello che il premier Mario Draghi ha assicurato a Matteo Salvini – senza esibire lo scalpo di Durigon sulla pubblica piazza. Evitando dunque l’umiliazione del ritiro delle deleghe a inizio settembre quando Pd e M5S avrebbero presentato la mozione di sfiducia. Un modo per risolvere il caso e non provocare strappi dentro la sua maggioranza. Anche perché il sottosegretario leghista fino a martedì sera continuava a fare resistenza: “Non mi dimetto”. Una minaccia di facciata per alzare il prezzo della sua uscita: “Non mi farò cacciare da Conte e Letta”. Come dire: nel caso, me ne vado io. La trattativa è iniziata. Sulle modalità per gestire le dimissioni sarà risolutivo il faccia a faccia che il sottosegretario leghista avrà con Salvini che martedì, dal meeting di Cl a Rimini, aveva scaricato il suo fedelissimo: “Decideremo cosa è meglio per lui, per la Lega e per il governo”. I due potrebbero vedersi già tra oggi e domani (Salvini non ha impegni pubblici in programma) perché l’obiettivo è chiudere la partita il prima possibile visto che Durigon ha confermato la sua presenza di venerdì sera al festival di Affari Italiani in Puglia e non potrà farlo senza aver messo fine alla polemica scoppiata dopo la sua proposto di reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini invece che a Falcone e Borsellino.

La svolta è arrivata lunedì nel faccia a faccia a Palazzo Chigi tra Draghi e Salvini ma anche in quello, di poche ore più tardi, tra il premier e il capodelegazione della Lega nel governo Giancarlo Giorgetti. Draghi avrebbe messo Salvini di fronte all’aut aut (ritiro delle deleghe o dimissioni), un concetto poi ribadito al ministro dello Sviluppo Economico che negli ultimi giorni aveva già iniziato a muoversi per allontanare Durigon: “Questo problema va risolto” è stata la richiesta di Draghi a Giorgetti. Salvini ha preso tempo e chiesto qualche giorno per affrontare la questione per poi aprire pubblicamente alle dimissioni di Durigon, mentre ieri anche il vicesegretario della Lega dal meeting di Rimini ha di fatto scaricato il sottosegretario: “Quando si è investiti di responsabilità di governo bisogna essere molto attenti a quello che si fa”. Poi Giorgetti ha concluso: “Un membro del governo si dimette o perché glielo chiede il presidente del Consiglio, o il segretario del suo partito o per una decisione di coscienza”. Meno dritto il presidente del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga, salviniano del nord: “Durigon? Parole non condivisibili ma le richieste di dimissioni sono eccessive”.

Il sottosegretario però sta alzando la posta per lasciare. La trattativa è a due livelli: uno dentro la Lega e uno nel governo. Sul primo, Durigon non vuole uscire di scena subendo un’umiliazione e quindi dirà che è stato lui a fare il bel gesto. Ma soprattutto, dicono fonti vicine a Salvini, non sarà “depotenziato” nel partito. Anzi, sarà premiato: Durigon manterrà il posto da coordinatore del Lazio e di responsabile Lavoro ma si parla anche di una promozione a vicesegretario. Sul fronte del governo, invece, dopo le dimissioni, Salvini rivendicherà un credito nei confronti di Draghi. Lamorgese non sarà sacrificata ma a inizio settembre il leghista potrebbe ottenere quell’incontro richiesto con il premier e il ministro dell’Interno per chiedere un “cambio di passo” sugli sbarchi e, forse, le deleghe all’immigrazione al suo uomo Nicola Molteni. Nel frattempo si è aperta la partita della successione di Durigon: in pole c’è il padovano Massimo Bitonci, spinto dalla fazione del nord. Già sottosegretario al Tesoro del Conte-1, Bitonci sarebbe una garanzia su fisco e autonomia. Se le dimissioni di Durigon non arriveranno, continuerà la pressione di Pd e M5S. Elio Vito (FI) ha annunciato una manifestazione nazionale a Latina per difendere “i valori dell’antifascismo e dell’antimafia”.

Silenziare Assange: il “Potere segreto” tra giudici e stampa

Questo è un libro che dovrebbe farvi arrabbiare moltissimo. È la storia di un giornalista imprigionato e trattato con insostenibile crudeltà per aver rivelato crimini di guerra; della determinazione dei politici inglesi e americani di distruggerlo; e della quieta connivenza dei media in questa mostruosa ingiustizia.

Julian Assange è noto a tutti. WikiLeaks, in cui ricopre un ruolo determinante, ha fatto emergere gli sporchi segreti del conflitto in Iraq e molto altro ancora. Grazie ad Assange e alla sua organizzazione, abbiamo conosciuto l’orrore di crimini di guerra come quelli documentati nel video Collateral Murder o quelli commessi dai contractor americani, per esempio a Nisour Square, a Baghdad, dove nel 2007 furono sterminati quattordici civili, tra cui due bambini, e altre diciassette persone furono ferite. Negli ultimi giorni del suo mandato presidenziale Trump ha graziato gli assassini di quel massacro, ma si è assicurato che Assange rimanesse in prigione.

Stefania Maurizi ha seguito il caso fin dall’inizio. Usando le leggi di accesso agli atti, che vanno sotto il nome di Freedom of Information, ha scoperto documenti che rivelano gli attacchi a Julian Assange. Ha seguito nel dettaglio questi straordinari eventi per oltre un decennio.

Al cuore di questa storia c’è il prezzo terribile pagato da un uomo, trattato con estrema crudeltà per aver messo a nudo un potere che non risponde a nessuno, nascosto da un’apparenza di democrazia.

Mentre scrivo, il caso è nelle mani del sistema giudiziario del Regno Unito. La Gran Bretagna si vanta del fatto che le sue corti sono indipendenti, che rispetta lo stato di diritto e che i suoi giudici sono incorruttibili. Be’, vedremo. Julian Assange è un giornalista il cui unico crimine è stato quello di rivelare la verità. È per questo che ha perso la libertà e ha passato gli ultimi due anni isolato in una prigione di massima sicurezza, con effetti devastanti, del tutto prevedibili, sulla sua salute mentale.

Se sarà estradato negli Stati Uniti rimarrà in carcere per il resto dei suoi giorni. Le corti inglesi consentiranno un’ingiustizia così mostruosa?

In Gran Bretagna ci sono anche altri aspetti di questa vicenda che ci riguardano da vicino: il grande esborso di denaro e risorse pubbliche per tenere Assange confinato nell’ambasciata dell’Ecuador; l’abietta vigliaccheria della stampa e dei media, che si sono rivelati incapaci di difendere la libertà del giornalismo; nonché l’accusa che il Crown Prosecution Service, in quel periodo guidato da Keir Starmer, abbia tenuto Assange intrappolato in un incubo legale e diplomatico.

Se riteniamo di vivere in una democrazia dovremmo leggere questo libro. Se ci sta a cuore la verità e una politica onesta dovremmo leggere questo libro. Se crediamo che la legge debba proteggere gli innocenti, infine, dovremmo non solo leggere questo libro, ma anche pretendere che Julian Assange sia un uomo libero.

Per quanto ancora possiamo accettare che il meccanismo del potere segreto, responsabile dei crimini più vergognosi, continui a farsi beffe dei nostri tentativi di vivere in una democrazia?

Camici, lo staff di Fontana bloccò il cronista: “Dissero ‘non scrivere, danneggi la famiglia’”

Pressioni o “richieste”. Arrivate direttamente dallo staff del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana per non pubblicare un articolo sull’inchiesta dei camici che vede oggi il governatore leghista indagato per frode in pubbliche forniture. Motivo: non danneggiare Fontana e la sua famiglia. L’articolo non sarà pubblicato. La vicenda, che non ha riverberi penali, emerge dalle carte dell’indagine e riguarda un giornalista (non indagato) del sito Affari Italiani definito negli atti “giornale di area politica vicina alla Regione”. Tutto avviene a giugno 2020, quando il caso dei camici venduti alla centrale acquisiti della Regione (Aria) dal cognato di Fontana è da poco di dominio pubblico. Il giornalista, che dagli atti appare vittima di un sistema di potere, viene sentito dai pm l’8 maggio. Spiega: “Volevo scrivere un articolo durissimo di commento contro Filippo Bongiovanni (ex dg di Aria indagato, ndr) perché (…) una volta saputo della fornitura di Dama (l’azienda del cognato Andrea Dini, indagato, ndr) avrebbe dovuto chiamare Fontana e chiedere spiegazioni”.

L’articolo non uscirà mai anche a causa, ragionano gli inquirenti, delle lamentele di Bongiovanni arrivate ai vertici regionali. “Non ho anticipato a Bongiovanni che avrei scritto, non so chi possa averglielo detto”. Di certo il giornalista ne parla con Paolo Sensale, portavoce di Fontana. “Ricordo di aver detto che Bongiovanni aveva sbagliato. A Sensale ho detto che stavo per scrivere questo articolo durissimo”. Prosegue: “Non ho più scritto l’articolo perché Sensale mi ha convinto dicendomi che Fontana avrebbe avuto dei problemi con la sua famiglia”. Aggiunge: “Escludo sia stata una imposizione, ma una richiesta, e quando nelle intercettazioni parlo del presidente faccio riferimento al suo portavoce o alla sua segreteria”. Le intercettazioni sono con l’ex presidente di Aria Francesco Ferri. Qui Ferri dice “di sapere quale fosse il motivo per il quale Fontana aveva chiesto di non scrivere più sulla vicenda Dama”. Spiega Ferri a verbale: “Fu Bongiovanni a dirmi che lui sarebbe andato a parlare con i magistrati a riferire quanto a sua conoscenza se fossero continuati gli articoli di stampa contro di lui, in particolare di Affari Italiani. Mi disse che ne parlò con Antonello Turturiello (segretario generale della Regione non indagato)”. Interrogato sul punto Bongiovanni dice: “Ferri mi disse che quel giornale voleva indicarmi come capro espiatorio. In quel periodo Fontana raccontava una versione non veritiera”. Il giornalista, prima di rinunciare a scrivere, il 15 giugno incontra il deputato leghista Paolo Grimoldi. “Non fu Grimoldi a dirmi di non scrivere”. Richiesta che venne a suo dire dal portavoce del presidente.