“Martina, simbolo degli stupri sommersi”

“Dopo 10 anni di dolore, oggi sapremo se avremo giustizia”. Bruno Rossi risponde dal treno che lo sta portando a Roma, dove questa mattina la Cassazione metterà la parola fine sulla vicenda di sua figlia Martina, morta nel 2011 dopo essere caduta dal balcone di un hotel di Palma di Maiorca. Per i giudici d’Appello la 20enne genovese perse la vita per sfuggire a un tentativo di violenza sessuale: per questa accusa i due imputati, Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, sono stati condannati a 3 anni mentre quella di morte per conseguenza di altro reato è prescritta dal dicembre 2018. A gennaio la Corte aveva annullato la prima sentenza di 2° grado che assolveva i due: in caso di nuovo annullamento anche per il tentato stupro la prescrizione sarebbe inevitabile.

Signor Rossi, come si sente?

Dopo 10 anni aspettiamo giustizia. Ma nostra figlia non ce la ridarà nessuno. Quando penso che una giovane di vent’anni è morta perché due persone le hanno messo le mani addosso mi sale una rabbia che non si può spiegare…

Ha fiducia nella giustizia?

Fiducia è una parola grossa dopo che una parte del reato è stata prescritta, una vera vergogna, e vedendo come funzionano i processi, con gli avvocati che cercano di rallentare sempre di più l’accertamento della verità. In questi anni ci sono stati anche magistrati e giudici validissimi che hanno fatto il loro lavoro. Ma c’è anche una questione economica…

Ovvero?

La giustizia in Italia è classista: non tutti possiamo permetterci un processo del genere. Io ho fatto tanti sacrifici, mi sarei potuto comprare un palazzo con tutti i soldi che ho speso. E per cosa? Per avere una pena di tre anni…

Cosa significa questa sentenza?

Spero che Martina diventi il simbolo di tutte le ragazze normali che ogni giorno vengono violentate e su cui spesso si passa sopra. Voglio che sia un giudice a stabilire la verità su quella notte. Io la conosco, ma deve certificarla anche la giustizia. Poi spero che mia figlia possa essere riabilitata: avevano detto che aveva fumato, che era scivolata… Tutte bugie. E c’è anche un altro motivo.

Cioè?

A Genova continuerà il processo per falsa testimonianza per gli amici dei due imputati che hanno detto menzogne. Devono pagare tutti.

Che ricordo ha di Martina?

Io e mia moglie l’abbiamo aspettata per 26 anni, da quando ci siamo conosciuti. Per noi è stata un dono. Ogni anno Martina vinceva il primo premio in un concorso di pittura che si tiene a Cervo, vicino a Imperia. Ci torneremo, speriamo con un peso in meno.

L’allarme di Telefono Rosa: “Reato di stalking a rischio”

Una delle sei proposte referendarie messe in campo dal Partito Radicale e dalla Lega rischierebbe di depotenziare gli effetti del reato di stalking. L’allerta la lancia Telefono Rosa, una delle più importanti associazioni italiane che si occupa di assistere le donne e i minori vittime di violenza. Allarme che arriva nei giorni del dibattito seguito al femminicidio di Vanessa Zappalà, la ragazza di 26 anni uccisa a colpi di pistola dall’ex fidanzato, con quest’ultimo che era stato destinatario di un ordine restrittivo su denuncia della stessa giovane.

Il quesito contestato è il numero 5, quello che vorrebbe imporre “limiti agli abusi della custodia cautelare”. I promotori chiedono di intervenire sull’articolo 274 del Codice di procedura penale, che disciplina l’applicazione delle misure cautelari per gli indagati. In particolare, si chiederà ai cittadini di abrogare la seconda parte del comma c, riguardante la cosiddetta “reiterazione del reato”, cancellando la frase in cui si afferma che la misura cautelare si applica in occasione di delitti “della stessa specie di quello di cui si procede”. Il problema è che la “reiterazione del reato” è proprio una caratteristica dello stalking. Il filo qui è labile. Il comma c prevede che le misure cautelari si adottino qualora sussista il “concreto e attuale pericolo che questi (l’indagato, ndr) commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale”, passaggio che non verrebbe abrogato dal referendum. Ma è una soluzione che non protegge, secondo l’associazione, l’efficacia del reato di stalking. Anzi. “Si darebbe ancora più forza alla discrezionalità del giudice – afferma Antonella Faieta, avvocato e vice presidente di Telefono Rosa – perché lo stalking non è solo minaccia concreta di violenza, ma anche messaggi, appostamenti, pedinamenti”. Il reato di stalking, disciplinato dall’articolo 612 bis del Codice penale, prevede che chi lo commette cagioni “un perdurante e grave stato di ansia o di paura” nella vittima, con “condotte reiterate”, attraverso minacce e molestie.

Il Partito Radicale, contattato dal Fatto, definisce “infondate” le preoccupazioni di Telefono Rosa: “Lo stalking è un reato che prevede come pena massima oltre i cinque anni di carcere, dunque con il referendum non c’entra nulla”, afferma la tesoriera Irene Testa. In realtà, proprio il quesito promosso insieme alla Lega si propone di cancellare la parte del comma c dell’articolo 274 c.p.p. in cui le misure di custodia cautelare si dispongono solo per i “delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni”, oppure “in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni”. “Bisognerebbe preoccuparsi piuttosto di quei magistrati e di quei giudici che non tutelano le donne e lasciano libero di agire un potenziale assassino”, dice ancora Testa. Ma per Faieta “questo referendum va a indebolire la posizione delle donne davanti al giudice, ed è questo che dobbiamo evitare”.

Il riferimento della tesoriera radicale è ancora ai fatti di Catania, dove giudici e magistrati in queste ore si interrogano sulle decisioni prese nei confronti dell’assassino di Vanessa. “Ho parlato con il mio giudice, sta vivendo un momento di grande travaglio interiore dopo la morte di Vanessa Zappalà, mi ha detto: ‘non potevo fare niente di diverso’”, ha affermato il presidente dell’ufficio gip del Tribunale di Catania, Nunzio Sarpietro, difendendo il collega che non ha convalidato gli arresti domiciliari chiesti dalla Procura di Catania per il 38enne Tony Sciuto, convertendoli in divieto di avvicinamento. Divieto violato dall’uomo la notte dell’agguato, costato la vita alla giovane Vanessa. “A livello normativo sono stati fatti dei progressi, anche se la legge va perfezionata: non hanno previsto l’aumento di pena minima a due anni per il reato di stalking, cosa che ci impedisce di effettuare il fermo, un limite enorme”, spiega la pm Marisa Scavo che coordina a Catania il pool violenze di genere. “La misura cautelare – aggiunge Scavo – lo ripeto sempre, è temporanea, ha un inizio e una fine e non può essere risolutiva”.

Oggi tocca ai presidi “Con queste regole lezioni in alto mare”

Ieri i sindacati, con la Uil Scuola che ha deciso di ritirare la sua delegazione ai tavoli del protocollo del rientro al suon di “Non vogliamo essere complici”, oggi i presidi che denunciano una situazione “in alto mare”. A chiudere il quadro, anche un inedito Pd che dal Parlamento fa notare al ministro dell’Istruzione che non ci siamo. Che, ormai è una certezza, il rientro di settembre non sarà indolore.

Bianchi sta in parte subendo il fuoco di fila che tocca a tutti i ministri dell’Istruzione: in tempi di pace, l’approssimarsi della riapertura dell’anno scolastico diventava il terreno di scontro per i temi dei trasferimenti, dei concorsi, dei supplenti e dei ricorsi. In tempo di pandemia, si aggiunge la raffica delle complicazioni da Covid 19. Filo comune, l’incapacità di rinnovare la scuola davvero, di ridurre i numeri di alunni per classe, di assumere più insegnanti, di garantire quindi un distanziamento naturale e definitivo. Insomma, di mettere dei soldi veri sull’istruzione. Risultato: linee guida da applicare “ove possibile”, deroghe alle regole, finestre aperte pure con la grandine, test salivari a campione e molte, moltissime incognite che rendono ancor più dirimente l’obbligatorietà del Green Pass.

“Sulla questione Green pass siamo in alto mare – ha detto ieri Mario Rusconi, presidente dell’Associazione nazionale presidi di Roma – Stiamo aspettando indicazioni per capire come bisognerà procedere. Ma se le scuole devono controllare tutti i giorni i certificati di docenti e personale rischiamo che si inizi a mezzogiorno”. Il garante della Privacy, infatti, ha respinto l’ipotesi di concedere ai presidi e alle scuole l’accesso alle liste del personale vaccinato. I presidi possono solo verificare il possesso di una certificazione valida. Anche perché sarebbe così difficile verificare se intanto il professore o il dipendente si sia ad esempio contagiato. Neanche la soluzione suggerita dal sottosegretario leghista all’Istruzione Rossano Sasso, ovvero il ricorso all’autocertificazione, sembra essere percorribile perché non prevista per legge e comunque, in caso, dovrebbe solo limitarsi a indicare l’assenza di condizioni che impediscono l’ingresso a scuola. “Ciò che va comunque evitato – ha detto il Garante Pasquale Stanzione a Repubblica – sono le discriminazioni in base alle scelte vaccinali e l’indebita conoscenza, da parte di soggetti non legittimati, dei dati sanitari degli interessati”. La soluzione che arriverà in fase di conversione del decreto legge sul Green Pass sarà probabilmente una piattaforma che le scuole potranno utilizzare e su cui si sta lavorando in queste ore, anche col garante.

Dicevamo, poi, che queste ore sono state interessate da un inedito, seppur rapido, evento. Una interrogazione dei deputati dem Walter Verini e Lucia Ciampi al ministro dell’Istruzione per chiedere che sia concesso più tempo per l’assegnazione delle cattedre ai vincitori del concorso straordinario indetto dall’ex ministra Lucia Azzolina e conclusosi questa estate. “Il Ministero dell’Istruzione – dicono i dem – deve prendere provvedimenti urgenti per evitare che, a causa dei ritardi degli uffici regionali, i vincitori del concorso straordinario perdano la cattedra che spetta loro di diritto”. A rischio, al solito,

Cure a domicilio, i medici contro la Sardegna

È la regione con i peggiori dati del Paese e che marcia verso la zona gialla (ieri 487 nuovi casi, tasso di positività del 5,8%, terapie intensive impegnate all’11%, reparti Covid al 12%). Quindi non è un caso se la Sardegna da tre giorni è terreno di scontro anche sulle terapie domiciliari. Un conflitto, rimasto sotto traccia, destinato a ripetersi a livello nazionale. Da una parte i medici fedeli alle linee guida del governo del 26 aprile, dall’altra quelli che invece abbracciano il protocollo del “Comitato Cura Domiciliare Covid”.

Una battaglia tecnico-scientifica diventata subito politica, visto che a esortare i medici di famiglia dell’Isola ad adottare terapie che fanno ricorso anche a farmaci discussi come l’idrossiclorochina o la Vermectina (quella che la Fda ha consigliato di non usare “perché non siete cavalli”), è stata una mail ufficiale dell’assessorato della Sanità sardo, contenente i Protocolli di Terapia domiciliare Covid “affinché i medici provvedessero ad attivarli”.

Una chiara apertura di credito della giunta sardo-leghista al Comitato, che ha determinato la levata di scudi degli Ordini dei medici di Cagliari e Oristano, nonché del sindacato dei medici di famiglia Fimmg. “La non aderenza alle linee guida ministeriali, l’utilizzo off-label di alcuni farmaci, l’inefficacia di altri come la letteratura scientifica sta certificando, nonché il carattere irrituale dell’invio e dei contenuti della comunicazione – scrivo l’ordine di Cagliari – hanno creato sconcerto non solo tra i destinatari, ma anche nell’intera comunità medica che gli Ordini rappresentano”. Più duro Fimmg che “deplora il tentativo di sedicenti organizzazioni di strutturare linee guida di cura domiciliare precoce della patologia Covid-19 non condivise per taluni aspetti ritenute controindicate dall’Aifa”. Il sindacato “deplora inoltre che questo tentativo abbia trovato sponda presso la Direzione Generale dell’Assessorato della Sanità della Regione”.

Un fronte del no al quale il presidente del Comitato, l’avvocato Erich Grimaldi, ha reagito con veemenza. “Siamo stati risucchiati in una disputa politica – spiega – che poco ha a che fare con la medicina. A proporre l’uso del nostro protocollo è stata la regione Sardegna, a guida leghista, quindi il Fimmg, che è Pd, si è scatenato. Sindacato che dovrà rispondere delle frasi infamanti rivolte nei nostri confronti. Come si può definire ‘sedicente organizzazione’, un gruppo che conta migliaia di volontari tra medici, ricercatori e scienziati, che fino a oggi ha salvato oltre 30 mila malati e che è seguito da 3-4 milioni di persone?”.

Sulle critiche dell’Ordine, invece, Grimaldi è più comprensivo: “Ci accusano di non avere studi pubblicati. Lo capisco, in effetti, quando abbiamo incontrato i vertici della Sardegna e il Cts a marzo, lo studio era in revisione. Oggi è in corso di pubblicazione e dimostrerà come abbiamo salvato migliaia di vite. Da mesi – conclude – stiamo incontriamo tutte le regioni. La Sardegna ha fatto questa scelta perché teme di tornare in zona gialla. Comunque molti medici sardi ci appoggiano. Andiamo avanti”.

Regioni e trasporti, 2 anni buttati. Speso appena il 22% del budget

A poco più di due settimane dalla riapertura delle scuole, prevista a partire dal 13 settembre (unicamente la Provincia di Bolzano ha anticipato al 6 l’inizio dell’anno scolastico), le Regioni hanno speso solo 257,8 milioni di euro, tra 2020 e 2021, per il potenziamento del trasporto pubblico locale, su una dote finanziaria statale complessiva che supera gli 1,1 miliardi: poco più del 22 per cento. Due anni buttati. Il ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini incontra oggi i presidenti delle Regioni per fare il punto sui piani regionali.

Sul tavolo la questione delle risorse per il rafforzamento dei bus, con i servizi aggiuntivi per ridurre l’affollamento. Poi quella dei controllori, per verificare la corretta applicazione delle misure anti Covid, a partire dalle mascherine. Su quest’ultima le Regioni hanno già messo le mani avanti: impossibile un controllore su ogni mezzo e pensare che possa anche fare multe per violazioni delle misure di sicurezza sanitaria, visto che non ha alcun titolo per farlo. E già ieri il governatore della Liguria Giovanni Toti anticipava che si può anche ragionare su un controllore su ogni mezzo, “ma al momento non ho ancora visto stanziamenti governativi, perché vuol dire assumere migliaia di persone e formarle”.

Sulla questione stanziamenti le cose non sono così semplici. “Il governo ha messo in campo risorse senza precedenti”, ha detto nei giorni scorsi il ministro Giovannini. Precisando che per “il secondo semestre di quest’anno ci sono oltre 600 milioni di euro che le Regioni devono mettere in campo sulla base dei cosiddetti tavoli prefettizi, e 800 milioni per compensare le perdite o i maggiori costi per la sanificazione. Tutto è pronto per la pianificazione”. In realtà tutto è molto più complicato, dato che finora i soldi già ripartiti tra le Regioni per il 2021 sono solo 195 milioni, a cui se ne sommano 62,8 utilizzati lo scorso anno. Vediamo perché. L’anno scorso (governo Conte 2) con il decreto 104, in agosto, furono stanziati 400 milioni per i mancati ricavi delle aziende di trasporto pubblico locale a causa del lockdown, mentre poco dopo un secondo decreto autorizzava le Regioni a utilizzare fino a 300 milioni di quella dote per istituire servizi aggiuntivi in vista della riapertura delle scuole. Solo che, scattata la didattica a distanza, le Regioni hanno tirato il freno a mano e utilizzato appena 62,8 milioni per rafforzare la rete degli autobus: il resto è stato dedicato a coprire i mancati ricavi. Così le danze sono ricominciate quest’anno. Come? Sempre l’anno scorso la legge 176 (conversione dei due decreti Ristori) ha stanziato altri 390 milioni per i mancati introiti, anche in questo caso dando la possibilità alle Regioni di utilizzarne 190 per il potenziamento dei mezzi. Poi è arrivata l’ultima legge Finanziaria, la 178, che ha previsto altri 200 milioni solo per i servizi aggiuntivi. E si arriva a quota 390. Peccato che solo il 50% – 195 milioni, appunto – sia stato già ripartito. Il resto dei soldi è fermo. Il decreto interministeriale di riparto è ancora all’esame della Corte dei Conti, come Il Fatto ha potuto ricostruire attraverso la Conferenza delle Regioni. A luglio (governo Draghi) con la legge 106 che ha convertito il decreto Sostegni bis, ecco altri 450 milioni solo per il potenziamento, di cui 45 per la sanificazione e le altre misure di sicurezza sanitaria. Così in tutto – tra leggi 104 e 176 del 2020, Finanziaria e legge 106 del 2021 – fanno più di 1,140 miliardi, ma di quest’ultima tranche ancora non c’è traccia.

Il problema non è dato unicamente dalle risorse. C’è tutta la questione della programmazione dei tavoli prefettizi, sulla base dell’accordo con le scuole. E bisogna tenere conto non solo del coefficiente di riempimento dei mezzi (fissato all’80%), ma anche delle fasce di rischio: rosso, arancione, giallo. “Se l’emergenza dovesse protrarsi nel 2022 dovranno esserci altri stanziamenti”, dice l’assessore ai Trasporti dell’Emilia-Romagna Andrea Corsini. Senza contare che reperire mezzi sul mercato è molto difficile. “Non li trovi al supermercato – spiega Corsini –. Per fabbricarne uno ci vogliono”.

Tutti dentro tutti fuori

Basta solo aspettare, poi la resa dei conti arriva sempre. Fino a un mese fa, tra i gargarismi “garantisti” contro i magistrati di Lodi che avevano osato arrestare e condannare l’ex sindaco Uggetti (poi assolto in appello), le pompe magne ai referendum radical-leghisti per una “giustizia giusta” (come no) e i salmi in gloria della “riforma Cartabia” per una giustizia rapida e senza la barbarie delle manette, la custodia cautelare in carcere era ai minimi storici del consenso politico-mediatico. Poi, ad Aci Trezza, lo stalker Tony Sciuto ha ucciso a colpi di pistola la sua ex Vanessa Zappalà dopo mesi di minacce. E ora tutti a strillare: ma perché non era in galera? La Procura, dopo l’arresto in flagranza per stalking, aveva chiesto i domiciliari, ma il gip aveva optato per la misura meno afflittiva introdotta dalle leggi sullo stalking e sul “codice rosso”: il divieto di avvicinamento alla vittima. Perché non il carcere? Senza precedenti penali specifici e violenze gravi, è impossibile che sia concesso per lesioni lievi e minacce come quelle denunciate dalla povera Vanessa: a furia di riformare al ribasso la custodia cautelare per non finirci loro, i politici l’hanno prevista solo come extrema ratio. Sta al giudice dimostrare che nessun’altra restrizione può impedire la reiterazione del reato. Infatti il gip ha ritenuto che il divieto di avvicinamento bastasse. Ma neppure i domiciliari avrebbero impedito a Sciuto di sparare alla ex: le evasioni dal domicilio sono all’ordine del giorno e non ci sono forze dell’ordine sufficienti per piantonare tutti.

Ora Francesco Merlo spiega su Rep che “solo il carcere ferma lo stalker”. Giusto. Chissà se è solo un omonimo di quel Francesco Merlo che il 6 luglio, sempre su Rep, esaltava “i sei referendum come una spinta e un aiuto al governo Draghi e alla ministra Cartabia, e come un monito al Parlamento… perciò mi fiderei ancora dei radicali” perché “dal 1946 solo i referendum hanno fatto volare l’Italia”. Ecco: mentre lui vola, magari scopre che il quesito n. 5 abolisce la custodia cautelare in carcere per tutti, salvo che si dimostri il “concreto e attuale pericolo” che uno reiteri “gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale o di criminalità organizzata”. Per tutti gli altri, niente manette. E, fra questi “altri”, oltre a ladri, scippatori, bancarottieri, evasori, frodatori, corrotti, corruttori, concussori, truffatori, falsari ecc, ci sono gli stalker. Le forze dell’ordine dovranno continuare ad arrestarli in flagrante. Però, dopo 48 ore, il gip non solo potrà (come oggi), ma dovrà scarcerarli. Se la porcata passerà, segnatevi chi l’ha voluta: radicali, Lega, FI, Iv, Udc e Merlo. Così, per sapere chi andare a ringraziare.

Col naso in su: “Il libro delle nuvole” tra goccioline, grandine e cristalli

Quante volte ci soffermiamo a guardare il cielo? Quante ricordiamo con nostalgia la saggezza dei nostri nonni che – con un solo colpo d’occhio – sapevano dirci se avrebbe piovuto o meno? Nell’epoca delle teste chine sui cellulari, una boccata d’aria (mento in su) accade sempre più di rado. Eppure ce ne sono di curiosità da scoprire. Ce le racconta con dovizia di particolari e rigore scientifico Il libro delle nuvole – Manuale pratico e teorico per leggere il cielo, edito da Il Saggiatore, a firma di Vincenzo Levizzani, dirigente di ricerca del Cnr e professore di Fisica delle nubi dell’Università di Bologna. Le nuvole fanno parte della nostra quotidianità più di quanto ne siamo consapevoli. “Sono vere e proprie compagne di viaggio della nostra vita e la influenzano moltissimo con le loro manifestazioni – ci racconta l’autore – un cielo plumbeo, per esempio, è precursore di pioggia in arrivo, mentre nuvole bianche e che sembrano batuffoli di cotone idrofilo ci dicono che il tempo sarà bello e possiamo uscire in bicicletta”. Ma non sono solo le informazioni meteorologiche a breve termine a renderle uniche e – si badi bene – ciascuna nuvola è unica (ci dice Levizzani). Da millenni affascinano l’uomo, che le ha studiate, riprodotte, interpretate. Si pensi ai vorticosi cieli dipinti da Vincent van Gogh così evocativi delle inquietudini dell’animo umano. Dal punto di vista storico, la previsione dei fenomeni atmosferici risale ai babilonesi. Però, “pochi sanno che i primi meteorologi in senso moderno non erano europei e neanche cinesi, ma coreani”. Entrare nelle nuvole – o per dirla meglio nelle nubi – non è un’impresa facile. Chiunque abbia viaggiato in aereo sa che quando il velivolo si avvicina alle nuvole iniziano le turbolenze e i sobbalzi. “La nube, specialmente quella temporalesca – spiega Levizzani – è tutto fuorché un ambiente accogliente in cui addentrarsi. Le temperature sono bassissime, il ghiaccio è dovunque, la carica elettrostatica è molto alta, si corre il rischio di venire colpiti da chicchi di grandine di grandi dimensioni”. Avvicinarsi dunque non è una buona idea, ma studiarle sì perché, assieme al clima che cambia, anche le nuvole, la loro distribuzione e conformazione cambiano e ci parlano del nostro pianeta. Per una volta – insomma – vale davvero la pena avere “la testa tra le nuvole” e imparare a conoscerle meglio.

 

Aurora, lo studente e le voglie masochiste del marito Leopold

L’ultima estate felice dei Sacher-Masoch fu forse anche la prima. Nel 1880 lo scrittore stava passando un periodo tormentato per i soliti motivi economici quando venne invitato a Budapest. La tournée si rivelò un successo. Leopold non sperava più di diventare ricco, ma ebbe conferma della popolarità di cui godeva in tutt’Europa. Tenne conferenze, incontrò ammiratori, scrisse interventi sui giornali, frequentò il belmondo grazie al “barone M.” e ricevette la visita del compositore Liszt.

Aveva da poco pubblicato Judengeschichten (Storie ebraiche) e particolarmente calda fu l’accoglienza della comunità israelitica. Fu con piacere che lui e la moglie Aurora Rümelin accolsero la proposta di trascorrere l’estate nel castello di Ecsted da parte di una famiglia ebrea, i Ries. Dopo un viaggio in treno, trovarono ad attenderli carrozze preistoriche condotte da giovani cocchieri scalzi e in camicia bianca. Presto il corteo abbandonò la strada maestra e si avventurò tra i campi dove il sole si rifletteva nelle buche d’acqua e i bambini facevano a gara a chi si prendeva più schizzi di fango addosso. Leopold e Aurora avevano due figli, Sasha e Mitchi, uno biondo e l’altro moro. Poi c’erano quelli dei Ries.

Leopold era commosso e incantato. Sembrava tornato al tempo in cui il padre, capo della polizia di Leopoli, lo aveva mandato a irrobustirsi da una famiglia di contadini ucraini, vale a dire nel ventre del mondo slavo, dal quale era riemerso indelebilmente segnato, tanto che avrebbe ambientato gran parte dei suoi libri in quella terra, la Galizia. Ora si trovava in viaggio dall’altra parte dei Carpazi e ritrovava le stesse sensazioni. Erano diretti al castello di Ecsted, una tenuta amministrata da un parente dei Ries. L’alloggio, alla buona e in comune con loro, dava su un vasto giardino selvaggio.

Di notte uomini avvolti in pelli facevano la guardia con lo schioppo al famoso scrittore. Dai monti Tatra scendevano briganti. Non fu la loro ombra a dare il via al suo gioco preferito. Il giardino selvaggio era perfetto per quello scopo. Leopold camminava tra sbalzi, voragini e cavità finché a un segnale convenuto gli altri lo assalivano. Dopo avere tentato di difendersi, si faceva legare e veniva trascinato in un boschetto dove il capo dei briganti, cioè la moglie, doveva castigarlo.

Aurora si sentiva lontana dalla lotta quotidiana contro i debiti che inghiottivano come un buco nero tutti i soldi. Al castello di Ecsted scriveva articoli per il Pester Journal e poi brevi racconti per i giornali di Berlino o Amburgo. Era un lavoro che faceva come spalla del marito, firmandosi a volte Sacher-Masoch e a volte Wanda von Dunajew, la protagonista del romanzo Venere in pelliccia. Erano storie brevi e commerciali e dovevano ricalcare il filone “crudele”, il marchio di famiglia. Per mettersi nello spirito giusto, indossava una pelliccia, caldo permettendo, e teneva sullo scrittoio una frusta da cani.

I Sacher-Masoch furono coinvolti nei riti religiosi dei Ries e assistettero all’arrivo di un “santo”, un asceta che aveva barba e capelli incolti e rifiutò il letto per dormire sotto al tavolo. Ogni tanto trovavano rifugio dai Gross, che abitavano vicino ma non vivevano da ebrei pur essendolo. Per la delizia di Leopold, Alexander Gross, studente di legge a Budapest, si infatuò di Aurora e faceva di tutto per trovarsi vicino a lei nei giochi e in ogni altra occasione. Da anni lo scrittore la ossessionava per convincerla a tradirlo così come nel romanzo Wanda tradisce Severin, umiliato nelle vesti di cameriere e insultato dall’amante Salvini, attore italiano. La corte di Alexander, un misto insopportabile di vanteria maschile e goffaggine adolescenziale, era evidente e Aurora/Wanda si vide costretta ad assecondarla. Leopold aveva trasformato il tradimento in un dovere coniugale: fallo per i figli. Proprio nel momento della massima felicità familiare la donna si decise a cedere. Fu tutto molto squallido anche perché non avvenne al castello, ma nel disadorno appartamento di Budapest dove i Sacher-Masoch erano tornati per riprender la via del ritorno dopo avere attraversato la distesa dell’estate tra giochi, danze popolari, scorpacciate nei frutteti, visite al villaggio degli zingari, avvistamenti di comete nel buio notturno che Leopold aveva spiegato ai bambini come il passaggio di Dio sul carro di fuoco.

L’ossessione per i rituali di umiliazione e tradimento non aveva trovato pace neanche in campagna. Aurora non si sentiva adatta alla parte, ricalcata sul rapporto tra lo scrittore e Fanny Pistor, il vero prototipo di Wanda, ma aveva ceduto anche se il matrimonio avrebbe iniziato ad andare a rotoli proprio dopo quell’estate. In seguito alla separazione il piccolo Sasha sarebbe morto di tifo mentre si trovava con il papà in Germania e Aurora era in transito verso la Francia con Mitchi e un nuovo amore, Armand, anche lui incoraggiato ad approfittare della perversione di casa Sacher-Masoch che il celebre trattato di Krafft-Ebing avrebbe immortalato con il nome di masochismo. Solo una parte del cognome fu utilizzata, la prima essendo ormai presa dalla torta. Del castello di Ecsted non restano che poche pietre tra l’erba alta.

Charlie, la prima pietra ha smesso di rotolare

No, non si incontreranno all’inferno, dove Keith ha già prenotato un girone tutto per sé e Mick verrà a patti con Lucifero. Charlie è atteso in purgatorio, poi si vedrà. Però è incredibilmente lui, il meno coinvolto con i peccatacci degli amici, il secondo Stones a dover raccontare a chi governa l’Altra Parte cosa significhi stare per sessant’anni dentro la band che ha spaccato in due la storia del rock. La dipartita di Watts è un grottesco paradosso: ma come, Charlie? L’eterno marito fedele alla sua Shirley tirato via dalla Terra prima di quella gang di puttanieri impenitenti? Charlie, il raffinato umarell che storceva il muso quando gli altri si davano alla pazza gioia? Come è possibile che i pedestri accidenti della salute si siano portati via il più saggio e posato della cricca? Il cancro alla gola diagnosticato nel 2004, lo sfibramento del cuore nelle scorse settimane, con operazione d’emergenza e l’annuncio della defezione per No Filter, il tour autunnale dove era già stato sostituito da un supplente di lusso come Steve Jordan. Troppi chilometri, evidentemente, per un motore arrivato logoro agli ottant’anni. Aveva dato per una vita intera il tempo a quegli sconsiderati con cui divideva il palco. Anzi, li aveva anticipati, proteggendoli dal rischio della catastrofe che incombeva sui Rolling Stones all’attacco di ogni canzone. Una volta Keith Richards ce lo confermò: “Tante sere sono così strafatto che non so quale accidente di pezzo stia per arrivare, anche se quella scaletta l’ho ripetuta mille volte. Se non ci fosse Charlie dietro i tamburi a dare la direzione del concerto saremmo perduti. Io seguo lui, io sono il suo chitarrista”. Ecco perché Watts era il più rock della combriccola. Regale per sobrietà, essenziale nel tocco. Lavorava per sottrazione: l’amore per il jazz, combinato con quello per il blues, gli suggeriva di cercare solo i suoni che servivano, evitando l’inutile fracasso con cui tanti altri batteristi r’n’r facevano circo. Tanti critici lo sottovalutavano, in questo accostandolo a Ringo: come se i due più leggendari gruppi di ogni era fossero stati sfortunati, o miopi, a scegliersi dei tamburini poco appariscenti. Ma nessuno può immaginare un suono dei Rolling Stones senza gli spazi aperti dalla discrezione di Charlie, quel tum-tum che non copriva mai la voce di Mick o le chitarre di Keith e di Ron Wood. Sottolineava ancora Richards: “Esiste una grande differenza tra chi si allunga sulla pista di decollo e chi veramente vola. Watts è un musicista fantastico”. E lui era il suo chitarrista. Perché il Capo parlava poco, ma quando voleva sapeva farsi rispettare. Eccome. Come quella notte ad Amsterdam, 1984. I saltimbanchi Stones alle prese con l’ennesima notte a base di tutto: alcol, droga, pollastrelle. Aggrovigliati alla fune della perdizione. Ne manca solo uno all’appello. Charlie dorme, a lui basta una donna sola, Shirley. Quando ormai il buio sta per cedere il passo all’alba, Jagger decide di telefonargli per convocarlo: “Hey, che fine ha fatto il mio batterista?”. Watts lo invita nella propria stanza, dove si precipita pure Keith. Ma qui Watts cambia pelle: prende per il bavero quel giuggiolone di Mick e gli molla un pugno sul naso, facendolo quasi precipitare giù dalla finestra. “Non azzardarti mai più a chiamarmi ‘il tuo batterista’. Semmai sei tu il mio cantante, intesi?”. Intesi. Ed era uno che perdeva raramente la calma, una pazienza che neanche Giobbe. Ovvio, aveva testimoniato ogni follia, sin dall’inizio. I concerti degli anni Sessanta, che duravano un quarto d’ora prima che le ragazzine infoiate dessero l’assalto al palco per aggrapparsi ai jeans del ‘cantante’, e giù il sipario. La morte di Brian Jones, entrato per primo nel club di quelli crepati a 27 anni, ma al live di tributo ad Hyde Park anche le farfalle che Jagger voleva si alzassero in volo erano già morte pure loro dentro le scatole. E l’orrore di Altamont, quando alla fine dei Sessanta mancano pochi giorni: il maxiraduno va in vacca, i criminali del servizio d’ordine, gli Hell’s Angels, ammazzano uno spettatore decretando anche la fine dell’utopia di Woodstock e la proroga dell’incubo di sangue già materializzato dalla setta di Charles Manson. E la paranoia dei Settanta, vissuti pericolosamente dagli Stones in Costa Azzurra, nella villa che era il bengodi di tutti i trafficanti di droga d’Europa. E dopo, il vivacchiare sornione dei miti. E poi la fine, adesso. Perché questa è la fine dei Rolling Stones, ladies and gentlemen. L’ha certificata Charlie Watts, che in purgatorio si è portato i disegni, tracciati dalla sua mano, di tutte le camere d’albergo che ha occupato in tour. Quando aveva nostalgia di Shirley lontana e si azzuffava con Mick.

Il concorso per la scuola e la “burocrazia sensitiva”

Al ministero dell’Istruzione esistono dei sensitivi che stilano a occhi chiusi le graduatorie per decidere dove finanziare le nuove scuole speciali. Il burocrate sensitivo è di certo una novità nel magico mondo della pubblica amministrazione, ed è ricavato dalla nota di risposta al nostro articolo, pubblicato ieri, sui criteri di selezione dei progetti per le scuole cosiddette innovative. Il ministero spiega che lo spirito del bando è di costruire “scuole nuove”, e fin qui ci siamo, che le renda “accoglienti e sicure”. Il progetto, scrivono, è contro lo spopolamento, quindi “si terrà conto del numero degli studenti di ogni singolo comune. L’avviso prevede di garantire l’innovatività del progetto”.

Ottimo. E come? Qui il ruolo della burocrazia sensitiva: dopo che il comune sia effettivamente certificato come il luogo perfetto per una nuova scuola, si provvede a selezionarlo. A quel punto si chiederà conto del progetto innovativo. Ce l’hai veramente o hai bluffato? Un po’ come se un professore dicesse allo studente: ti promuovo, però poi ti interrogo. In realtà, e purtroppo, pare un modo per agevolare ogni tipo di candidatura, ridurre il rigore d’ingresso nella selezione, far prosperare finanziamenti a pioggia. Era più semplice, ma effettivamente molto più rischioso, chiedere che chi avesse i progetti innovativi li mostrasse e poi magari scegliere, tra questi, i migliori.

Il ministro Bianchi non sa, o se sa non ha ancora capito bene. È infatti chiuso nel tipico silenzio riflessivo. “Lunedì prossimo presenterò un’interrogazione urgente. Chiederò al ministro se non sia il caso di integrare l’avviso e specificare il progetto culturale e sociale per il riconoscimento dell’innovatività dei progetti” annuncia Stefano Fassina, a cui si deve lo stanziamento del fondo e che comprensibilmente non ci sta, a soldi sganciati, a farsi gabbare.