Amici, alleati, partner: alcuni Stati hanno aperto le porte ai talib prima che si impossessassero dell’Afghanistan. La loro avanzata, quella diplomatica e politica, è cominciata mesi prima di quella militare ed è stata vinta con armi più silenziose dei kalashnikov: negoziati, accordi, incontri.
Che la comunità internazionale non debba emettere sanzioni contro i nuovi padroni di Kabul, ma “sostenere la possibilità di sviluppi positivi” lo ha detto ieri il ministro degli Esteri cinese, Wang Wenbin, a capo di un dicastero dove i talib sono entrati a luglio scorso. Durante il suo ultimo viaggio a Pechino, il mullah Baradar, volto politico del movimento, ha incontrato il diplomatico Wang Yi per rassicurare i vertici del Dragone, che si preparava ormai da anni a un loro ritorno. Alla Cina, che condivide con l’Afghanistan un minuscolo confine del suo sterminato impero, i talebani hanno assicurato che il loro territorio non sarà una base per attacchi terroristici della minoranza musulmana degli uiguri.
La stessa cosa hanno detto a Mosca, che vuole evitare la diffusione del jihadismo nelle ex repubbliche del blocco comunista dove mantiene ancora le sue basi militari. Che ai talebani “non c’è alternativa”, l’ha dichiarato subito l’ambasciatore russo a Kabul, Dmitry Zhirnov, il primo tra i diplomatici stranieri a incontrare i miliziani. A luglio scorso i talebani sono stati accolti a Mosca da Serghey Lavrov, ministro degli Esteri russo, che ha aperto loro le porte del Cremlino nonostante la Federazione non li abbia cancellati dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Ieri Putin, ribadendo che le sue truppe non torneranno laddove l’Urss ha combattuto dal 1979 al 1989, ha rassicurato il premier indiano Modi “sugli sforzi comuni” da compiere per la pace a Kabul, dove sia Russia che Cina non hanno evacuato le loro ambasciate. Mosca e Pechino non hanno ancora ufficialmente riconosciuto il governo dei miliziani, ma hanno già stretto patti con loro. Quando in tunica e kalashnikov i talebani hanno assediato la capitale, Baradar è rientrato nel Paese abbandonando la sua residenza a Doha, la città che ha ospitato i negoziati voluti da Trump e avviati nel 2018 tra islamisti e Usa. Il sito della mediazione non è stato scelto a caso: il Qatar ha concesso ai talebani di aprire sul suo territorio una sede diplomatica nel 2013 e sarà ora lo Stato che medierà tra loro e il resto delle petrolmonarchie ed Emirati del Golfo.
Ai vantaggi che si possono ottenere occupando un ruolo di mediazione tra la nuova Kabul e le altre potenze ha pensato anche la Turchia, unico Stato musulmano della Nato, che ha offerto ai talebani di rimanere sul territorio anche dopo la dipartita del resto delle truppe straniere. Il presidente Erdogan vuole incontrarli al più presto, mentre ha già stretto la mano ad alcuni dei loro leader il suo ministro della Difesa, Hulusi Akar. Mevlut Cavusoglu, ministro degli Esteri turco, ha riferito sin dalle prime ore di assedio che Ankara “accoglieva i messaggi positivi dei talebani”. Il portavoce Suhail Shaheen ha ribattuto pronto: i talebani si aspettano cooperazione e assistenza dalla Turchia, “grande fratello islamico”.
Islamabad, da sempre alleata e segreta finanziatrice degli “studenti di religione”, li appoggia da sempre. Il Pakistan, pochi giorni fa, ha ufficialmente chiesto ai talib afghani di istituire una commissione speciale per gestire il Ttp, il gruppo jihadista Tehrik-i-Taliban, meglio noto semplicemente come quello dei talebani pakistani, della stessa etnia pashtun dei nuovi signori di Kabul. Mentre gli islamisti afghani avanzavano, i talebani pakistani festeggiavano per le strade del Paese. Galvanizzati dalla riuscita afghana, dicono fonti dell’intelligence, hanno deciso di riorganizzarsi per fare lo stesso ad Islamabad.