Cina, Russia &C.: amici sulla strada per Kabul

Amici, alleati, partner: alcuni Stati hanno aperto le porte ai talib prima che si impossessassero dell’Afghanistan. La loro avanzata, quella diplomatica e politica, è cominciata mesi prima di quella militare ed è stata vinta con armi più silenziose dei kalashnikov: negoziati, accordi, incontri.

Che la comunità internazionale non debba emettere sanzioni contro i nuovi padroni di Kabul, ma “sostenere la possibilità di sviluppi positivi” lo ha detto ieri il ministro degli Esteri cinese, Wang Wenbin, a capo di un dicastero dove i talib sono entrati a luglio scorso. Durante il suo ultimo viaggio a Pechino, il mullah Baradar, volto politico del movimento, ha incontrato il diplomatico Wang Yi per rassicurare i vertici del Dragone, che si preparava ormai da anni a un loro ritorno. Alla Cina, che condivide con l’Afghanistan un minuscolo confine del suo sterminato impero, i talebani hanno assicurato che il loro territorio non sarà una base per attacchi terroristici della minoranza musulmana degli uiguri.

La stessa cosa hanno detto a Mosca, che vuole evitare la diffusione del jihadismo nelle ex repubbliche del blocco comunista dove mantiene ancora le sue basi militari. Che ai talebani “non c’è alternativa”, l’ha dichiarato subito l’ambasciatore russo a Kabul, Dmitry Zhirnov, il primo tra i diplomatici stranieri a incontrare i miliziani. A luglio scorso i talebani sono stati accolti a Mosca da Serghey Lavrov, ministro degli Esteri russo, che ha aperto loro le porte del Cremlino nonostante la Federazione non li abbia cancellati dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Ieri Putin, ribadendo che le sue truppe non torneranno laddove l’Urss ha combattuto dal 1979 al 1989, ha rassicurato il premier indiano Modi “sugli sforzi comuni” da compiere per la pace a Kabul, dove sia Russia che Cina non hanno evacuato le loro ambasciate. Mosca e Pechino non hanno ancora ufficialmente riconosciuto il governo dei miliziani, ma hanno già stretto patti con loro. Quando in tunica e kalashnikov i talebani hanno assediato la capitale, Baradar è rientrato nel Paese abbandonando la sua residenza a Doha, la città che ha ospitato i negoziati voluti da Trump e avviati nel 2018 tra islamisti e Usa. Il sito della mediazione non è stato scelto a caso: il Qatar ha concesso ai talebani di aprire sul suo territorio una sede diplomatica nel 2013 e sarà ora lo Stato che medierà tra loro e il resto delle petrolmonarchie ed Emirati del Golfo.

Ai vantaggi che si possono ottenere occupando un ruolo di mediazione tra la nuova Kabul e le altre potenze ha pensato anche la Turchia, unico Stato musulmano della Nato, che ha offerto ai talebani di rimanere sul territorio anche dopo la dipartita del resto delle truppe straniere. Il presidente Erdogan vuole incontrarli al più presto, mentre ha già stretto la mano ad alcuni dei loro leader il suo ministro della Difesa, Hulusi Akar. Mevlut Cavusoglu, ministro degli Esteri turco, ha riferito sin dalle prime ore di assedio che Ankara “accoglieva i messaggi positivi dei talebani”. Il portavoce Suhail Shaheen ha ribattuto pronto: i talebani si aspettano cooperazione e assistenza dalla Turchia, “grande fratello islamico”.

Islamabad, da sempre alleata e segreta finanziatrice degli “studenti di religione”, li appoggia da sempre. Il Pakistan, pochi giorni fa, ha ufficialmente chiesto ai talib afghani di istituire una commissione speciale per gestire il Ttp, il gruppo jihadista Tehrik-i-Taliban, meglio noto semplicemente come quello dei talebani pakistani, della stessa etnia pashtun dei nuovi signori di Kabul. Mentre gli islamisti afghani avanzavano, i talebani pakistani festeggiavano per le strade del Paese. Galvanizzati dalla riuscita afghana, dicono fonti dell’intelligence, hanno deciso di riorganizzarsi per fare lo stesso ad Islamabad.

“Restate, niente rischi”. Onu: “Abusi e violenze”

Non si sono fatti sfuggire l’occasione i talebani, ormai maestri di comunicazione, anzi di propaganda 2.0. Nelle stesse ore in cui prendeva il via il G7 straordinario sull’emergenza afghana, la dirigenza talib ha infatti indetto una conferenza stampa. Lo scopo principale è stato ostentare che il coltello dalla parte del manico, non solo in senso figurato, ora ce l’hanno gli “studenti coranici”, e la, a questo punto ex, superpotenza americana deve obbedire ai loro diktat. Ovvero sloggiare i circa 15 mila americani e gli occidentali ancora in Afghanistan entro la data fissata indipendentemente dalle difficoltà logistiche.

Il secondo obiettivo è stato tentare di dare a bere alla stampa internazionale che, da quando loro hanno riconquistato Kabul, “la situazione dell’ordine pubblico è migliorata”. Il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha esordito affermando che non ci sarà alcuna concessione circa la data del ritiro, come vorrebbero soprattutto inglesi, francesi e tedeschi: “Tutti i cittadini stranieri devono essere evacuati entro la scadenza del 31 agosto”, ha detto il portavoce, aggiungendo che “non siamo favorevoli a consentire la partenza di cittadini afghani”. Mujahid ha quindi esortato le migliaia di afghani che ancora si accalcano nei pressi dell’aeroporto a tornare a casa e ha ammonito gli Usa a non incoraggiarli a lasciare il paese perché “abbiamo bisogno dei nostri dottori e ingegneri”. Ha poi sostenuto che le scuole, le università e le madrasse, così come gli ospedali, il governo locale e le emittenti televisive e radiofoniche sono di nuovo operative. A proposito della resistenza radunatasi nella regione del Panshir, con a capo Ahmad Massud, ha assicurato che “non vogliamo nessuna guerra o battaglia, cerchiamo di incontrarli e risolvere i problemi” . Ha anche messo l’accento sul fatto che “non stiamo inseguendo e dando la caccia a nessuno, non abbiamo nessuna lista e abbiamo annunciato l’amnistia”. Ma è sul capitolo più spinoso, quello che riguarda le donne che il portavoce si è contraddetto. Dopo aver loro consigliato “di rimanere a casa per ora”, ha sottolineato che “non sono state rimosse o licenziate dal lavoro e i loro stipendi saranno pagati. È meglio astenersi per ora solo per ragioni di sicurezza, per prevenire qualsiasi maltrattamento”. Da parte di chi non l’ha specificato. Alcune donne hanno raccontato ai media di essersi recate al lavoro e di essersi sentite dire che non lavorano più lì, o che un parente maschio può prendere il loro posto.

Che la situazione sul campo sia ben diversa dall’immagine idilliaca spacciata da Mujahid, lo evidenzia il rapporto dell’Onu rivelato dall’Alto commissario per i Diritti umani, Michelle Bachelet. Secondo le notizie ricevute dalle Nazioni Unite i talebani stanno commettendo “esecuzioni sommarie di civili e soldati afghani”. La commissaria ha avvertito che ci sono prove che i talebani stanno limitando i diritti delle donne – come il loro diritto di muoversi liberamente – bloccando le ragazze dal frequentare la scuola e reclutando bambini soldato.

Bachelet ha esortato il Consiglio per i diritti umani dell’Onu a istituire un meccanismo per monitorare da vicino le azioni dei talebani.

Intanto la leadership talebana vorrebbe che i lavoratori dell’Onu rimanessero in Afghanistan sperando così di sfruttare gli aiuti internazionali. La presa del potere dei Talebani ha già gravemente colpito il lavoro degli operatori umanitari in Afghanistan. Circa 500 tonnellate di prodotti farmaceutici non possono essere consegnate per il blocco dei voli commerciali.

Il G7 non riconosce i Talib. Ma la Cia incontra Baradar

Joe Biden tira fuori le unghie e tiene duro: non con i talebani, ormai padroni dell’Afghanistan; ma con gli altri leader dei Sette Grandi, che gli chiedono di estendere oltre il 31 agosto il termine per completare il ritiro dal Paese degli stranieri che vogliono andarsene e dei collaboratori di vent’anni di presenza militare e umanitaria internazionale.

Il no di Biden alla proroga della scadenza, non coglie di sorpresa i partner: “Già irritati dalle modalità del ritiro – osserva l’Ap –, gli alleati Usa devono di nuovo adeguarsi a una linea che non condividono”. C’è l’ipotesi di anticipare a settembre il vertice del G20 in programma a ottobre, sotto la presidenza di turno italiana.

Il G7 traccia una ‘road map’: “La condizione numero uno – dice Boris Johnson, presidente di turno del vertice video – è che i talebani garantiscano un corridoio sicuro” a tutti coloro che vogliono lasciare il Paese anche dopo il 31 agosto. Johnson dice di capire il no di Biden: sui talebani bisogna essere “realisti”; e il G7 dispone di “enorme leve” per cercare di condizionarli dopo il ritiro, anche nella formazione di un governo “inclusivo”, con donne ed esponenti delle minoranze etniche.

Comunque Biden chiede al Pentagono di preparare “piani di emergenza” per prolungare la presenza a Kabul, se dovesse essere necessario. Bisogna però parlarne con i talebani: il discorso è già avviato. Lunedì, il direttore della Cia William Burns ha avuto un incontro segreto con il leader talebano Abdul Ghani Baradar: il faccia a faccia a più alto livello tra le due parti da quando gli ‘studenti’ hanno riconquistato il potere.

Il colloquio tra Burns e Baradar s’è svolto sullo sfondo degli sforzi in atto per evacuare quante più persone possibile, mentre la situazione all’aeroporto di Kabul e intorno allo scalo va deteriorandosi. Incontrando il direttore della Cia, il leader talebano ha chiuso l’insolito cerchio della sua vicenda: catturato dalla Cia nel 2011 in Pakistan e consegnato alle autorità di Islamabad perché marcisse in prigione; poi, scarcerato su richiesta di Washington per diventare protagonista dei negoziati di Doha sul ritiro degli occidentali culminati negli accordi di fine febbraio 2020; e, ora, leader in pectore del nuovo regime.

Anche il vertice di ieri del G7 aveva qualcosa di paradossale: poco più di due mesi or sono, i sette leader si erano ritrovati di persona in Cornovaglia e avevano dedicato a mala pena un paragrafo dei loro discorsi all’Afghanistan, mescolando la soddisfazione di portare a casa i ‘ragazzi’ stazionati lì da vent’anni con qualche timore. Ieri, il clima era d’emergenza, causa il precipitare degli eventi con una rapidità imprevista.

Johnson ha aperto e chiuso i brevi lavori, un’ora e mezza in tutto. A turno, tutti i leader – per l’Italia c’era Mario Draghi – sono intervenuti: Biden, in sette minuti, ha respinto l’ipotesi di proroga. La riunione voleva delineare una cornice internazionale di una risposta coordinata alla crisi afghana in tre dimensioni: umanitaria, di sicurezza e politica. Al centro della discussione, il coordinamento delle evacuazioni degli stranieri e degli afghani in pericolo e le misure da prendere per favorire la tutela dei civili e l’accesso agli aiuti umanitari, in continuità con la dichiarazione dell’Onu il 16 agosto.

Nelle conclusioni si legge che i talebani saranno ritenuti responsabili delle loro azioni sul terrorismo e sui diritti umani, “in particolare quelli delle donne”: l’Afghanistan “non deve mai più diventare rifugio sicuro per il terrorismo e fonte di attacchi terroristici contro altri Paesi”.

Nel suo discorso, Draghi ha detto che l’Italia dirotterà sugli aiuti umanitari le risorse già destinate all’Afghanistan e ha insistito sulla necessità di mantenere contatti in Afghanistan e con i talebani dopo il 31 agosto. Il premier ha poi sottolineato che il G20 può contribuire a coinvolgere altri Paesi nella soluzione della crisi afghana, tra cui Cina, Russia, Turchia, Arabia saudita e India. Sul fronte immigrazione, Draghi ha constatato che finora non c’è stato un approccio comune e coordinato: per riuscirci, “dobbiamo compiere sforzi enormi”. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, ha detto che “il riconoscimento dei talebani non è sul tavolo”. “La Nato – ha detto il segretario generale Jens Stoltenberg – si coordina per garantire un’evacuazione efficace. Bisogna anche assicurare che i gruppi terroristici non abbiano spazio per operare liberamente in Afghanistan”.

“Stato-mafia, Messina Denaro sapeva tutto. Nel ‘93 dietro Sicilia Libera c’era anche lui”

Il superlatitante Matteo Messina Denaro, l’ultimo padrino di Cosa nostra rimasto in libertà, sapeva dell’esistenza della Trattativa tra la mafia e pezzi dello Stato. È quanto si legge nelle motivazioni di condanna all’ergastolo per il boss di Castelvetrano firmata dai giudici della corte d’Assise di Caltanissetta lo scorso ottobre. Messina Denaro, detto “Diabolik” e “U’ siccu”, “rimase una costante di riferimento di Totò Riina nel consentire la buona riuscita del programma stragista”, ed era “pienamente a conoscenza” della Trattativa, considerata “la seconda faccia della medaglia della stagione stragista”. Negli atti si fa riferimento al “contrattacco” organizzato dagli uomini di Riina, poche settimane dopo la “sentenza della Cassazione del 1992”, chiamata “la missione romana”. Nella capitale venne inviato “un commando diretto da Messina Denaro e Giuseppe Graviano”, con l’obiettivo di eliminare “Giovanni Falcone, e in alternativa il ministro Claudio Martelli o il giornalista Maurizio Costanzo”. “Anche a non voler credere che Messina Denaro fosse a conoscenza di tutti gli snodi e i particolari della Trattativa”, scrivono i giudici nelle motivazioni depositate, il “boss trapanese fu presente proprio alla riunione avvenuta a Mazara del Vallo subito dopo la strage di via D’Amelio, riunione dove Riina comunicò che le richieste contenute nel Papello erano state ritenute esose”.

Messina Denaro ebbe anche un altro compito in Cosa nostra, lo sviluppo “del progetto politico autonomista, indipendentista-secessionista di Sicilia-Libera”, sorto nel 1993, “nella fase di grande fermento partitico seguita al terremoto di Tangentopoli”. Progetto che “mirava all’istituzione di un partito” come “proiezione” di Cosa nostra, con liste formate da candidati “all’apparenza puliti e presentabili”, e che avrebbe permesso alla mafia di “infiltrarsi nel mondo istituzionale”. Così, a Palermo nacque “Sicilia Libera nell’Italia Libera ed Europea”, mentre a Catania il “Movimento Federalista Lega Sicilia Libera”. Ma come scrivono i giudici, “maturò in Cosa nostra un ulteriore cambio di rotta, ritenendo più proficuo appoggiare tramite la figura di Marcello Dell’Utri il nuovo partito di Forza Italia, la cui genesi era da attribuirsi all’imprenditore Silvio Berlusconi, in vista della tornata nazionale della primavera del ‘94”.

Montino, 24 mila euro in cuccia del cane. ‘Non so di chi sono’

Stavano effettuando lavori di manutenzione nella tenuta, l’azienda CapalBioFattoria. Quando sono andati a rimuovere quello che restava della cuccia del cane, gli operai hanno trovato, incastrati tra le assi in legno, rotoli di banconote tenuti con elastici. Ventiquattromila euro in pezzi da 500. Il figlio di Esterino Montino, sindaco di Fiumicino e proprietario dell’appezzamento, che si trova nella cittadina in provincia di Grosseto, ha avvertito i carabinieri. Le banconote erano molto deteriorate, il che rende difficile capire da quanto fossero lì. “I militari hanno sequestrato il denaro, mio figlio ha firmato la denuncia – ha detto l’esponente del Pd al Messaggero, che ha reso noto il fatto –, ma credo che siano il frutto di qualche attività illecita, la refurtiva messa da qualcuno che poi non è mai venuto a riprenderla”. “È questo il comportamento corretto che ogni cittadino onesto deve tenere – hanno aggiunto ieri in una nota il sindaco e sua moglie, la senatrice dem Monica Cirinnà, parlando della consegna dei soldi alle autorità – e siamo orgogliosi di quanto fatto”.

Torino, esplode palazzina: morto bimbo di 4 anni

Un’esplosione fortissima, sentita anche ad alcuni chilometri di distanza, ha provocato il crollo di una palazzina e la morte di un bambino di 4 anni ieri mattina nella periferia nord di Torino. Altre tre persone, tra cui la madre del piccolo, sono state ricoverate negli ospedali cittadini. Secondo le prime ricostruzioni, l’esplosione è stata provocata da una bombola di gas gpl (la palazzina non era collegata alla rete di distribuzione). Sul posto sono intervenute la squadra cinofila e la squadra Usar (Urban search and rescue) dei Vigili del fuoco insieme alla polizia. Le prime persone a ricevere i soccorsi sono stati gli adulti. Una donna 34enne, madre della vittima, è stata la prima persona estratta dalle macerie e ha subito alcune lesioni lievi. Un geometra di 22 anni, invece, ha riportato molte ustioni e fratture. Ricoverato e intubato al Cto, la sua prognosi è riservata. I soccorritori hanno impiegato più tempo per recuperare il bambino, Aron. Al momento del ritrovamento, però, il piccolo era già deceduto.

Alitalia addio, Ita venderà biglietti da domani. Ancora tanti nodi: oggi incontro coi sindacati

Cala il sipario su Alitalia, entra in scena Ita. Il passaggio di testimone dalla commissariata compagnia di bandiera alla nuova società che prenderà il suo posto è ufficiale anche nella pratica. Dalla mezzanotte di ieri Alitalia non vende più biglietti aerei per i voli successivi al 15 ottobre. E da domani Ita, che ha conseguito le certificazioni dall’Enac, comincerà a vendere i propri voli previsti a partire dal 15 ottobre. La conferma è giunta al termine di un Cda di Ita che ha approvato l’offerta vincolante da inviare ad Alitalia per l’acquisto degli asset necessari a gestire il settore Aviation. E già oggi le due compagnie incontreranno i sindacati.

Ita è pronta a decollare con una flotta di 52 aerei e circa 2.800 dipendenti (di cui circa 1.550 naviganti e circa 1.250 di terra) che, secondo il piano industriale potranno salire fino a 5.750 entro il 2025 su 11 mila dipendenti totali. Chiede però massima collaborazione ai sindacati e prevede di applicare ai dipendenti il nuovo Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Trasporto Aereo “a condizione che sia rinnovato, entro e non oltre il 20 settembre”. La nuova società ha poi fatto sapere che proseguono i contatti con i principali costruttori per arrivare, entro fine settembre, “all’individuazione del fornitore strategico che consenta di disporre di una flotta omogenea di aerei in linea con le best practice dei concorrenti internazionali e con l’obiettivo di massimizzazione di sinergie operative”.

Il decollo di Ita coincide con la messa a terra di Alitalia, che da ieri non vende più biglietti per voli dal 15 ottobre. Il problema ora ce l’ha chi ne ha già acquistato uno, perché quelli finora emessi per voli successivi a quella data non saranno validi per i voli di Ita. Per garantire “la piena tutela dei consumatori – ha annunciato la compagnia – verrà data la possibilità di sostituire il volo con un altro equivalente gestito dalla compagnia entro il 14 ottobre; altrimenti sarà possibile ricevere il rimborso integrale del biglietto”. Il governo ha già stanziato un fondo di 100 milioni di euro per i rimborsi. “Non è ancora chiara la tempistica”, attacca il presidente dell’Unione consumatori, Massimiliano Dona. “Nell’avviso – spiega – si dice che i consumatori ‘potranno’ richiedere il rimborso integrale, ma rispetto alla tempistica non si dice che lo stesso avverrà entro 7 giorni dalla presentazione della domanda. Solo che la richiesta verrà presa in carico e definita il prima possibile. Una tempistica decisamente troppo generica”.

Interessi edilizi e caccia: ecco perché il governatore fa la guerra al Parco

Il Parco nazionale di Portofino potrebbe diventare il primo in Italia imposto da una sentenza del Tar e da una causa vinta da un gruppo di ambientalisti. All’indomani di una sconfitta bruciante ci ha pensato Giovanni Toti a farsi portavoce del centrodestra contro la sua nascita: “Nessun parco sarà imposto da gruppetti radical chic che odiano il turismo e lo sviluppo”. Forse in questa frase c’è il tentativo di far dimenticare la sconfitta politica e attirare l’attenzione sull’avversario ambientalista: una gauche caviar dai numeri ridotti, ricca e integralista, contraria all’economia che dà da mangiare al resto dei liguri. Poco importa se l’accostamento regge poco: “Tralasciando la crescente attenzione per i temi ambientali e il cambiamento climatico – replica Marco Delpino, presidente dell’associazione Amici del Parco di Portofino – se si considera la sola platea di attivisti iscritti alle principali associazioni in Liguria (Legambiente, Italia Nostra, Cai, Fai, Greenpeace, Wwf), si parla di circa 25 mila persone. Un numero superiore, per dire, ai cacciatori liguri, che dal censimento del Viminale di fine 2019 risultavano poco più di 16 mila”. Ma per quale motivo la Regione Liguria si oppone alla creazione di un Parco nazionale, cioè a un potenziale volano di crescita, indotto, filiere e fondi, oltre che strumento per la difesa del territorio e dell’ecosistema?

La vicenda era finita davanti al Tar alcuni mesi fa, dopo che alcune associazioni avevano accusato di ostruzionismo la Regione. Dal 2019, infatti, giaceva inerte il provvedimento dell’ex ministro Sergio Costa, che aveva stanziato un milione per la fondazione del nuovo parco nazionale (fino ad allora di competenza regionale). Problema: i confini riconosciuti fino ad allora, un ettaro, ne avrebbero fatto una mini-riserva. Nel frattempo, il ministero aveva chiesto alla Regione Liguria la delimitazione dei confini. In tre anni, però, la risposta non è mai arrivata. E gli ambientalisti, rappresentati dall’avvocato Daniele Granara, hanno vinto il ricorso amministrativo: i giudici hanno dato un mese di tempo al dicastero (diventato della Transizione ecologica) per attuare la norma. La commissione dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) era arrivata a ipotizzare un’estensione delle aree protette fino a 15 ettari. Il ministro Roberto Cingolani si è fermato a 5 ettari, ma comunque 5 volte la grandezza precedente. Ed è a questo punto che è scattata la protesta di 10 degli 11 Comuni coinvolti (quelli guidati dal centrodestra), una rivolta capeggiata da Toti e dagli amministratori a lui più vicini, tra cui Roberto Donadoni e Matteo Viacava, sindaci di Santa Margherita e Portofino. Due Comuni contrari, sebbene per motivi diversi: il Parco potrebbe avere ripercussioni sulla fiorente attività edilizia di Santa Margherita, mentre Portofino è già compreso nell’area protetta. Per il resto (l’unico a favore sembra Camogli, guidata dal centrosinistra), le preoccupazioni ruotano sempre intorno a due temi: i vincoli alle nuove costruzioni e alla caccia. A inizio agosto Cingolani ha incontrato Toti e la delegazione “NoParco” e ha assicurato che niente sarà fatto contro il territorio. Intanto il progetto va avanti. “Non nasceranno parchi imposti per via giudiziaria – ha detto Toti, senza spiegare come intende cavarsela con il Tar – e non ci saranno regole oppressive per il territorio. Il Parco nazionale è un obiettivo di tutti, ma si farà solo se verrà condiviso. Sarà una sfida da vincere insieme, bypassando gli estremismi ambientali e le lobby in pareo infastidite da tutto ciò che è crescita, lavoro e benessere”. Insomma, il cemento è sexy, i parchi naturali roba da snob.

Cemento nell’area protetta. Indagati 2 sindaci “totiani”

All’origine di tutto c’è una colata di cemento, spuntata nel bel mezzo di un parco protetto. La giustificazione ufficiale era la più italiana delle emergenze: una spaventosa mareggiata che nell’autunno del 2018 aveva flagellato la Liguria, tagliando in due la strada che conduce all’esclusivo borgo di Portofino. Il nuovo collegamento, così si diceva, sarebbe servito al passaggio dei soccorritori. Peccato che quel percorso, conosciuto come “sentiero delle Gave”, anche con sopra del bitume, restava talmente stretto che al massimo avrebbe potuto consentire l’attraversamento a un quad. Inservibile, dunque, per Vigili del fuoco, Protezione civile e 118. Al contrario, molto remunerativo per il proprietario di un costoso terreno all’interno del parco, finalmente raggiunto da una strada: da queste parti, fra una villa a cui si arriva solo a piedi e una con accesso carrabile, ballano alcuni milioni di euro di differenza.

Non si è mai saputo chi fosse l’“utilizzatore finale” di quei lavori, né del resto il beneficiario si è mai dichiarato. Di certo c’è solo che, formalmente, il costo dell’asfaltatura e dei ponteggi illegali se lo è sobbarcato una società di costruzioni, mossa apparentemente da una vena filantropica. Due rappresentanti della ditta sono indagati per violazioni ambientali e all’azienda è toccato pure farsi carico dei costi dello smantellamento del manufatto. Ma la Procura di Genova, tre anni dopo i fatti, ha iscritto sul registro degli indagati anche gli amministratori locali, sotto indagine per aver permesso quello scempio: il sindaco di Santa Margherita Paolo Donadoni e quello di Portofino Matteo Viacava. Il primo diede il via libera da ex presidente del Parco regionale di Portofino. Il secondo autorizzò lavori che, pur compresi nell’area protetta, non riguardavano nemmeno il suo Comune, ma quello di Santa Margherita. Insomma, un pasticcio costato ai due un invito a comparire, notificato nelle scorse settimane. I politici sono stati sentiti dal pool reati contro la P.a., coordinato dal procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati. L’ipotesi è di abuso d’ufficio. Un’accusa respinta al mittente dai diretti interessati.

Su quella vicenda, tuttavia, rimangono ancora oggi molti punti oscuri. Su quella parte del promontorio di Portofino – borgo rifugio per molti multimilionari, vip e magnati di ogni provenienza – esiste un divieto di edificazione totale. E, notano le associazioni ambientaliste che hanno presentato la prima denuncia, un cantiere del genere non si improvvisa (almeno non senza un progetto): in mezzo al bosco sono comparsi dal nulla palificazioni, tubi innocenti, materiali edili, in una zona di difficile accessibilità. “Hanno tagliato alberi alti dieci metri, segato rocce, spianato scalinate”, racconta Ermete Bogetti, presidente della sezione genovese di Italia Nostra ed ex procuratore della Corte dei Conti ligure. Forse la frenesia dell’emergenza, e i tentativi di trovare una viabilità alternativa hanno indotto a commettere degli errori. Sta di fatto che i cantieri per una settimana sono andati avanti a spron battuto, realizzando un chilometro della strada. E si sono fermati quando poi il Comune non l’ha più ritenuta necessaria. Difficile dire oggi se a questo esito ha contribuito la denuncia presentata nel frattempo ai carabinieri forestali.

I due amministratori respingono ogni accusa. E, qualche settimana fa, si sono presentati dai magistrati per dare la loro versione dei fatti. “Non abbiamo commessi atti illegali, l’obiettivo era quello di risollevare la zona da un disastro in atto – hanno riferito agli inquirenti – In ogni caso è stato chiesto e ottenuto il ripristino del sentiero e lo smantellamento dei lavori fatti”. Donadoni, 46 anni, nasce politicamente nel 2014 come amministratore civico che sosteneva Raffaella Paita (ex Pd oggi Italia Viva), allora candidata dal centrosinistra alla Regione Liguria. Le elezioni furono vinte da Giovanni Toti, di cui Donadoni, dopo una rapida conversione, è oggi considerato un fedelissimo. Una stima ricambiata con un robusto sostegno di tutto lo stato maggiore di Cambiamo alla rielezione di Donadoni nel 2019. Viacava, 48 anni, è anch’egli saldamente ancorato al cerchio magico degli amministratori del centrodestra totiano, sebbene più in quota Forza Italia. Del resto Portofino è terra d’adozione di Silvio Berlusconi e certi amori non finiscono.

Donadoni e Viacava hanno una visione politica comune, oltre che un feeling politico che li ha portati alla guida di una pattuglia di Comuni, tutti di centrodestra, che si oppone all’allargamento delle aree protette, preludio della trasformazione del comprensorio di Portofino in Parco nazionale. Le ragioni non sono del tutto chiare. Chi sostiene il Parco ricorda che sul territorio pioveranno milioni di euro: basti pensare che il bilancio del Parco Nazionale delle Cinque Terre (oltre tre ettari) viaggia sui 25 milioni di euro l’anno, quello regionale di Portofino (fino a oggi un ettaro) oltrepassa di poco il milione. Chi si oppone dice di temere il congelamento di turismo e sviluppo. Di certo non si potrà più costruire, né cacciare. Due bacini di voti molto cari al centrodestra e alla Lega.

Breve guida a Dazn: di chi è, che vuol fare, quanto perde

Le partite della Serie A, il bene più prezioso che ci sia per l’italiano, per i prossimi tre anni sono nelle mani di un ex oligarca russo, che ha costruito la sua fortuna partendo dalle macerie dell’Urss e cavalcando le onde del capitalismo occidentale, e ora si è messo in testa di costruire la Netflix dello sport, progetto che in Italia, per volontà del grande alleato Tim, significa catapultare dall’oggi al domani un Paese con un digital divide imbarazzante nel futuro dello streaming. Per gli avidi patron della Serie A, che di fronte al malloppo non ci hanno pensato troppo a consegnargli le chiavi del campionato, stiamo in una botte di ferro. Per i tifosi riottosi al cambiamento, per cui si stava sempre meglio quando si stava peggio (il monopolio di Sky e le urla di Caressa sono ricordati praticamente come l’età dell’oro), siamo rovinati.

L’era di Dazn, cioè del pallone in streaming, è cominciata come tutti si aspettavano: disagi, proteste, addirittura interrogazioni parlamentari. Sembra di essere tornati al 2018, con l’aggravante di tre anni di inutili prove generali, all’esordio balbettante nel campionato italiano di Dazn, entità astratta che ancora non è entrata nel cuore degli italiani. Lev Blavatnik è convinto che ci riuscirà presto, e non per caso è diventato uno degli uomini più ricchi del pianeta.

Dazn è una sua creatura, la sua scommessa: 64 anni, originario di Odessa, patrimonio personale di 32 miliardi di dollari, è il prototipo del magnate russo che ha studiato in America (master alla Columbia e ad Harvard) e poi è diventato miliardario nel passato torbido della disgregazione dell’Urss, in particolare nella “guerra dell’alluminio” da cui sono emersi alcuni uomini dalla ricchezza sconfinata (non tutti vivi attualmente). Solo che, a differenza dei compagni, lui ha tagliato i cordoni con la madrepatria. Il suo core business è stato a lungo nel settore chimico e petrolchimico, poi nell’entertainment (con Warner Music), ma il futuro sono i diritti tv dello sport. Cioè Dazn.

In principio era una costola di Perform, azienda specializzata nella raccolta di dati per le scommesse sportive. Poi è arrivato Blavatnik e ha deciso di buttarsi sulla trasmissione di eventi. Lanciata per la prima volta come servizio streaming nell’agosto 2016 in Germania, sbarcata nel 2018 in Usa e Italia, Dazn vive una crescita vorticosa. Negli ultimi anni è aumentato tutto: Paesi raggiunti (oltre 200), diritti acquisiti, abbonati, ricavi, soprattutto costi però, tanto da non far quadrare mai i conti. Nel 2019 nonostante 8 milioni di abbonati globali, il gruppo ha perso circa 1,4 miliardi di dollari. È frequente per startup che cercano di imporsi in un nuovo mercato, ma viene da chiedersi come possa permettersi di pagare il corrispettivo del suo intero fatturato (oltre 800 milioni) per la Serie A.

La risposta riporta all’inizio della storia: la ricchezza di Blavatnik e la linea di credito miliardaria che la sua holding Access Industries garantisce a Dazn. Di fronte agli investimenti non ancora ripagati (oltre 4 miliardi per il lancio), Dazn poteva sbaraccare o rilanciare: ha scelto la seconda, in grande stile, per provare a imporsi sul mercato, grazie proprio alla Serie A, e magari in futuro quotarsi in Borsa. Il resto l’ha fatto una congiuntura tanto favorevole quanto decisiva: l’entrata a gamba tesa di Tim, che ha deciso di puntare sul pallone per convertire il Paese alla fibra e al contempo stroncare un potenziale rivale come Sky (che aveva iniziato pericolosamente a buttarsi sulla telefonia).

L’alleanza con Tim (che contribuisce con 340 milioni l’anno per l’esclusiva dei match Dazn) è la vera chiave di lettura di quanto sta accadendo in Italia, delle partite in streaming a ogni costo, prima ancora che il Paese fosse pronto. Dazn in Germania ha appena firmato un accordo con Comcast per avere due canali su Sky, come avveniva fino all’anno scorso in Italia e magari sarebbe potuto avvenire ancora, se di mezzo non ci fosse Tim, per cui l’affare sta proprio nel portare sulla fibra (possibilmente, la sua) il maggior numero di utenti. Non a caso l’ad Gubitosi ha escluso categoricamente ogni relazione con Sky: l’obiettivo potrà essere raggiunto solo se il tifoso non avrà alternative.

La “Netflix dello sport” con l’originale ha poco a che spartire: offrono entrambe servizi in streaming, ma il vero punto forte di Netflix è l’on demand che lo sport, evento live se ce n’è uno, non potrà mai offrire. E infatti questa è la grande difficoltà per cui Dazn non ha ancora sfondato, oltre ai costi altissimi dei diritti. Prendiamo Dazn Italia, per esempio, la divisione affidata alla manager Veronica Diquattro: secondo quanto rivelato da MF, attualmente sarebbe sotto il milione di abbonati, meno dell’anno scorso quando ormai i big match superavano stabilmente i due milioni di spettatori (anche se i numeri erano drogati dall’accordo con Sky che regalava il pacchetto ai suoi clienti). A queste cifre, l’investimento non si ripagherebbe mai. Ma Blavatnik ha tempo e soldi sufficienti per vincere anche questa sfida: ai tifosi italiani non resta che sperare che ci riesca.