La rivista Cell: “Improbabile il virus sia nato in laboratorio”

Naturale o frutto di un incidente in laboratorio, il dibattito sull’origine della pandemia sembra essere ancora aperto. Ora un nuovo studio aggiunge un tassello, propendendo per l’ipotesi di una trasmissione animale-uomo. Si tratta di una revisione critica in corso di pubblicazione definitiva sulla rivista Cell, a cura di 21 esperti, di università americane, atenei australiani ed europei e anche di una realtà internazionale con sede in Cina, l’Università Xìan Jiaotong-Liverpool. Nella revisione, si evidenzia come le mappe che individuano le posizioni geografiche della prima ondata di casi Covid-19 nel dicembre 2019, mostrino che inizialmente sono emersi vicino al sito del mercato ittico di Huanan a Wuhan, così come ad altri mercati di commercio di animali vivi. Nelle settimane successive, si sono irradiati verso l’esterno. Così anche i decessi in eccesso a gennaio 2020.

Vi è invece scarsa evidenza di prove a supporto di un incidente in laboratorio, mentre sono 5 altri coronavirus di cui è noto, oltre a SARS del 2003 e SARS-CoV-2, il salto di specie uomo-animale negli ultimi 20 anni. Nessuno dei primissimi casi documentati o decessi si trovava vicino all’Istituto di virologia di Wuhan o è stato segnalato come correlato al personale.

L’esame della sequenza del virus, inoltre, non ha rivelato altri potenziali segni di manipolazione deliberata: “Non possiamo escludere la possibilità di un incidente di laboratorio. Ma è altamente improbabile – conclude Stephen Goldstein, virologo dell’Università dello Utah – non ci sono prove in questo momento”. Anche virologi e infettivologi italiani in audizione alla Camera a giugno, hanno spiegato che non è possibile escludere “al 100%” che la diffusione del virus possa essere originata da un incidente di laboratorio.

L’odissea di chi si ammala tra prima e seconda dose

Se vivi in Piemonte e ti sei ammalato di Covid tra la prima e la seconda dose del vaccino, rischi di rimanere fregato. Almeno questo è ciò che è capitato a C. M., docente universitario torinese, che ha ricevuto la prima dose di AstraZeneca lo scorso 11 marzo e poco dopo è risultato positivo al Covid. A giugno, all’appuntamento per la seconda dose, si è visto rifiutare la somministrazione dall’hub vaccinale di Torino Lingotto. Motivo, la nota ministeriale n. 477 del 3 marzo 2021 che prevede che chiunque abbia avuto un tampone positivo prima di vaccinarsi, debba attendere tre mesi e tre tamponi negativi prima di effettuare un’unica dose, in seguito alla quale ottiene un pass della durata di sei mesi. E qui nasce l’inghippo: come si fa a ottenere un green pass quando si contrae il Covid dopo aver effettuato la prima dose? Con la seconda dose di vaccino.

I responsabili presenti nell’hub decidono di attenersi alla nota, nonostante non regoli questo specifico caso e liquidano il signor C. M. con un certificato vaccinale che attesta il “ciclo completo”, come se avesse ricevuto la sua unica dose dopo la guarigione. Peccato che il “pass da guarigione” in questione, tenga conto dell’unica dose effettuata da C. M. a marzo scorso e scada quindi proprio a settembre, pochi giorni prima del suo rientro al lavoro: “A settembre ho esami in presenza e l’unico modo che ho per rimettere piede in Università è quello di ottenere il green pass da vaccino, oppure di tamponarmi a mie spese ogni 48 ore”. Alle numerose richieste di C. M. di ottenere un pass valido con una seconda dose (quindi della durata di 9 mesi), l’Asl piemontese risponde picche: “Non somministrano il secondo vaccino a coloro i quali abbiano contratto il Covid, indipendentemente da quando è stato diagnosticato”, aggiunge C. M.. Una decisione presa in base a una non meglio specificata “raccomandazione dell’Aifa” ricevuta via mail. “Eppure ci sono casi identici al mio in altre regioni. Una mia collega con lo stesso problema ha ricevuto la seconda dose dalla Regione Toscana” – ci spiega C. M..

Con l’estate agli sgoccioli e il rientro a lavoro sempre più vicino, il professore si appella ancora una volta al personale dell’Asl e si reca in un altro hub vaccinale torinese, dove viene nuovamente respinto con un laconico “Al momento è così. Speriamo che a settembre il ministero prenda provvedimenti”.

Ma C. M. non molla e tra una insistenza e l’altra, scopre di essere stato in passato indicato come paziente diabetico – e quindi a rischio polmonite, in caso di infezione. In ragione di ciò, i medici accettano finalmente di somministrargli la seconda dose. Ma per una storia che si conclude – grazie a un “cavillo”– con un lieto fine, ce ne sono molto probabilmente altre vissute da persone senza la stessa “fortuna” (o senza santi in paradiso). Un’impasse, quella piemontese, simile a quella di centinaia di persone finite per i motivi più svariati in un buco normativo da cui nessuno (per ora) sembra volerle tirare fuori.

Sulla scuola volano ancora gli stracci: protocollo a rischio

Conto alla rovescia, meno sei giorni all’avvio delle attività a scuola e manca ancora l’accordo tra i sindacati e il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi sul green pass. Neanche su una moratoria temporanea per la sua adozione. Il ministro che finora tutto sommato era riuscito ad andare d’accordo con i rappresentanti dei lavoratori della scuola, anche assecondandone le richieste sui precari, ieri ha in parte raccolto il vantaggio accumulato in questi mesi, in parte assaggiato un ultimo sprazzo di ribellione. L’incontro con i sindacati serviva a discutere del protocollo per il rientro in sicurezza: le sigle avevano dato l’ok a una intesa che sembrava prevedere tamponi gratuiti per tutto il personale, poi, una nota di Bianchi aveva specificato che sarebbero stati riservati solo ai fragili. Da quel momento, levate di scudi, minacce, proteste per un accordo modificato in modo unilaterale. Ieri, si sperava in una apertura da parte di Bianchi ma nulla: non ci si sposta da quanto deciso. Al massimo si cercherà di rendere meno complesso possibile l’iter del controllo dei green pass.

La Flc Cgil ci ha messo poco ad ammorbidirsi, dichiarando che però terrà d’occhio fino in fondo l’applicazione del protocollo. La Uil Scuola, invece, ha deciso di tenere duro almeno per altre 24 ore: oggi si riunirà il Consiglio nazionale dei segretari regionali e si deciderà se ritirare o meno la firma dal protocollo. “È in corso una battaglia ideologica contro i no-vax – ci spiega Pino Turi, segretario della Uil Scuola – ma noi riteniamo che siano pochi coloro che non vogliono vaccinarsi. È sbagliato avere paura? Essere titubanti? Perché bisogna essere puniti con la sospensione dello stipendio e dal lavoro?”. La proposta sul tavolo di Turi era di concedere almeno ancora 45 giorni, durante i quali assicurare tamponi gratuiti. “Magari i meno propensi sarebbero stati rinfrancati dai colleghi già vaccinati. Invece c’è stata una chiusura totale”. Altri nodi riguarderebbero i supplenti eventualmente non ancora vaccinati che dovrebbero in fretta e furia ricorrere al tampone. “La sicurezza sul luogo di lavoro, visto che è di questo che parlano, non può essere a carico dei lavoratori e lo stipendio non può essere utilizzato come un ricatto se lo Stato non provvede”.

La pressione politica sul ministro Bianchi è forte e, in aiuto, è arrivato il sottosegretario alla Salute Andrea Costa che a Sky Tg24 ha spiegato come secondo i dati inviati dalle Regioni nell’ultima settimana i vaccinati nella scuola sarebbero aumentati. Il Tar del Lazio, poi, con un decreto monocratico ha respinto la richiesta di sospensione cautelare urgente (insieme a una preliminare ipotesi di “palese inammissibilità” del ricorso) del decreto legge che obbliga il personale scolastico ad avere la certificazione verde proprio perché è una norma primaria e non un atto amministrativo.

Intanto, ieri, l’ex ministra Lucia Azzolina ha rilevato altri due punti critici. “La norma sul green pass – ha scritto su HuffPost – contiene alcune incomprensibili ingenuità. ITS (istituti tecnici superiori) e IEFP (Istruzione e Formazione Professionale) sono esclusi dall’applicazione del certificato verde. Inoltre si applica solo al personale scolastico, ma a scuola operano anche altri soggetti che non sono dipendenti del Mi: operatori delle mense, assistenti all’autonomia e alla comunicazione e di supporto ad alunni con disabilità”. Gli errori potranno essere corretti in Parlamento solo a settembre inoltrato. Troppo tardi.

Il green pass varrà 12 mesi, ma la protezione s’abbassa

I dati di Israele, dove l’operazione “terza dose” è già iniziata, non sembrano particolarmente confortanti sulla durata della protezione indotta dai vaccini anti-Covid: l’immunità dalla malattia grave o dal ricovero resta sopra l’80%, tra il 20 giugno e il 17 luglio, anche per chi si è vaccinato (con Pfizer) lo scorso gennaio; ma lo scudo contro la malattia appena sintomatica e la semplice infezione scende rispettivamente dal 79 e dal 75% dei vaccinati di aprile (tre mesi prima) al 16% di chi ha ricevuto la seconda iniezione a gennaio, cioè all’inizio della campagna vaccinale. Lo dicono anche i numeri della Gran Bretagna, l’altro Paese che è partito prima nelle immunizzazioni. E lo confermano, in Italia, i contagi tra gli operatori sanitari, primi a vaccinarsi: ieri la Fnopi, la federazione degli Ordini degli infermieri, ha reso noto che le infezioni tra chi lavora nella sanità sono passate da 265 a 1.835 al mese tra luglio e agosto, con un aumento del 600%. Prima dei vaccini se ne contavano fino a 16-19 mila al mese.

Ma per quanto i dati dicano che la protezione cala, il governo ha deciso di prolungare la durata del green pass da cui dipendono buona parte delle nostre libertà e il diritto al lavoro di una quota crescente della popolazione: dagli attuali nove mesi si passerà a dodici per i vaccinati e forse anche per i guariti, al momento “liberi” solo per sei mesi; resterebbe invece di 48 ore per chi ha solo il tampone negativo.

Questa almeno è l’intenzione di Palazzo Chigi, condivisa dal ministro della Salute Roberto Speranza. Venerdì ne discute il Comitato tecnico scientifico e ci si attende un via libera. “D’altra parte – riassume una fonte autorevole del ministero della Salute – i nove mesi iniziali cominciano a scadere: o li prolunghiamo, o facciamo subito la terza dose oppure abbandoniamo il green pass”. Secondo diversi specialisti, come Fabrizio Pregliasco e Massimo Clementi, servono sia il primo sia il secondo provvedimento. È invece scettico Andrea Crisanti, professore di Microbiologia a Padova: “Sono tutte decisioni di carattere creativo che non hanno nulla di scientifico, purtroppo. I dati di Israele non sono rassicuranti, la protezione vaccinale dura otto mesi se va bene; dura di più quella dell’infezione”. Secondo Crisanti “c’è qualcosa che non capiamo, vediamo ventenni con anticorpi consistenti, vaccinati da un mese, che si infettano con la febbre alta. Può dipendere dalle varianti”. Gli scienziati, come sappiamo, non hanno ancora trovato un accordo sui test sierologici che misurano gli anticorpi, a volte alti anche in chi si infetta. La terza dose per ora sarà prevista solo per le persone ultrafragili con gravi deficit immunitario come trapiantati e malati oncologicici, ma poi si vedrà.

Il generale Francesco Paolo Figliuolo assicura l’80% di immunizzati per la fine di settembre. Vedremo. Ma intanto sale la pressione per introdurre l’obbligo vaccinale, almeno sotto forma di estensione delle attività subordinate al green pass. Ieri il Tar del Lazio ha negato la sospensiva sulle scuole. Il tema divide la maggioranza e ieri il Comitato nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita di Palazzo Chigi ha diffuso, di sua iniziativa, uno stringato parere a favore dell’obbligo per chi svolge “funzioni pubbliche e comunque attività lavorative che pongano il cittadino a stretto e continuo contatto con altri soggetti”. Il Comitato di Bioetica, pure insediato a Palazzo Chigi, è più cauto. “Ma loro – spiega il professor Andrea Lenzi, presidente del Comitato per la Biosicurezza – valutano anche sul piano filosofico e morale dell’opportunità, noi invece soltanto su base scientifica. E riteniamo poco logico favorire il contagio. È una iniziativa politica? In un certo senso tutto è politica”. Deciderà la politica vera.

L’equivoco del decreto anti-delocalizzazioni: è già un brodino

Il dibattito attorno al futuro decreto anti-delocalizzazioni, se mai vedrà la luce, ha assunto ormai toni surreali. Prima, sabato, Carlo Bonomi si dà fuoco davanti ai ciellini parlando di provvedimento “punitivo” e attaccando “il ministro Orlando e la viceministra Todde” che “pensano di colpire le imprese sull’onda dell’emotività di due o tre casi” (si riferisce a cose tipo i messaggi WhatsApp con cui la Gkn di Firenze ha annunciato a 422 operai che se ne andava a produrre altrove). Nei giorni successivi l’Italia ha poi appreso dai giornali (Il Foglio, La Stampa, Il Giornale, etc) – che, si presume, lo abbiano a loro volta appreso dall’interessato o da chi per esso – che il ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti è scontento anche lui di quel decreto, tanto da averlo bloccato. Ieri la viceministra Todde – Sviluppo anche lei, grillina – ha a sua volta spiegato che non c’è nulla di cui preoccuparsi: quella sua e di Orlando “è solo una bozza da sottoporre alle parti sociali”.

È curioso però che la bozza sia già un brodino senza alcun intento “punitivo” e lo sia già da venerdì almeno, cioè da prima che parlasse Bonomi: è solo un percorso obbligato per le multinazionali che vogliono portare la produzione all’estero in cui si allungano un po’ i tempi e si evitano annunci di chiusura all’improvviso; non c’è più la multa del 2% del fatturato, né la black list che avrebbe precluso alle imprese interessate l’uso di soldi pubblici a qualunque titolo per tre anni. L’unica “punizione” resta l’esclusione dai contributi pubblici per chi non rispetta il percorso di cui sopra. Forse a Bonomi non va bene nemmeno questo, ma quello che più sorprende è il buon Giorgetti: oggi è contrario, contrarissimo, ma nel 2018 (nell’attuale legislatura) aveva sottoscritto un disegno di legge della Lega proprio contro le delocalizzazioni. E che prevedeva? Che le imprese che, avendo avuto finanziamenti pubblici, avessero deciso di spostarsi all’estero (anche dentro l’Ue) sarebbero decadute dai benefici e avrebbero avuto l’obbligo di restituire i contributi ricevuti, anche se avessero mascherato la delocalizzazione con la cessione di ramo d’azienda o appalti a terzi. Ma cosa sarà successo in questi tre anni per far cambiare idea a Giorgetti?

La riforma utile al Rdc: più fondi e meno paletti

Nel giorno in cui Matteo Salvini lancia l’ennesimo attacco al Reddito di cittadinanza, con promessa di severa revisione, l’Inps fa sapere che sta continuando a crescere il numero di persone aiutate dalla misura anti-povertà: a luglio ne ha raggiunte oltre tre milioni e 71 mila, con un importo medio di 548 euro a famiglia. Molto vicino al record di settembre 2020, quando furono abbondantemente superati i 3,1 milioni di individui coinvolti. A questi numeri vanno aggiunti per ora quelli del “Reddito di emergenza”, nato per far fronte alle nuove povertà nate con la pandemia: nel 2021 ha raggiunto 573 mila nuclei che hanno ottenuto 543 euro al mese in media (le famiglie residenti al Sud sono 299 mila; 156 mila quelle del Nord e 117 mila quelle del Centro).

Tornando al Reddito di cittadinanza, anche l’ultima rilevazione, diffusa ieri, mostra uno dei difetti conosciuti della misura e probabilmente il più bizzarro se si tiene conto che fu varato dal governo M5S e Lega: persiste lo squilibrio di un sussidio che va per buona parte al Sud (più di due milioni i percettori) e lascia scoperta buona parte dei poveri del Nord, dove i beneficiari si fermano a 595 mila. Andando ancor più nello specifico, il dato che viene ormai ciclicamente agitato è quello che mostra come la provincia di Napoli, con 182 mila famiglie sostenute, superi da sola la somma di Lombardia (108 mila) e Veneto (67 mila). Cifre che, nelle polemiche da social, portano alla consueta conclusione semplificata: in Campania c’è più lavoro irregolare e quindi si può incassare anche il Reddito di cittadinanza mascherando i propri reali guadagni (sempre ieri lo stesso Salvini sosteneva che il Rdc “crea lavoro nero e disoccupazione”).

In realtà, se qualcuno oggi si stupisce di queste statistiche, deve essere stato parecchio distratto quando – già nella primavera del 2019 – un esito di questo tipo veniva preannunciato nelle varie audizioni tenute prima dell’approvazione definitiva. La norma, infatti, prevede tra i requisiti una soglia di reddito standard (6 mila euro all’anno per i single) che non varia a seconda del territorio. Naturalmente, il costo della vita in un paesino di provincia del Sud – anche tenendo conto dei prezzi degli affitti – non è lo stesso di una città del Nord. Nelle Regioni settentrionali, tra l’altro, il reddito medio dei nuclei è molto più alto di quello registrato in quelle meridionali. Quindi molti cittadini di Lombardia o Veneto, pur essendo comunque in difficoltà, non rientrano nei paletti messi all’accesso del sostegno pubblico, paletti messi soprattutto per volontà della Lega (e, da fuori di quella maggioranza, del Pd). Questa è la vera ragione della disparità geografica, non la presunta “cultura del sussidio” che caratterizzerebbe il Sud a scapito del “Nord produttivo”. Come che sia, è un problema da affrontare, a maggior ragione dopo l’ultimo report dell’Istat: la povertà assoluta è aumentata soprattutto al Nord, passando dal 5,8% del 2019 al 7,6% del 2020.

Stesso discorso si può fare per le famiglie numerose, le più esposte al disagio economico: uno dei difetti più evidenti dell’attuale Rdc è che le penalizza. Mentre l’importo medio per i single è di 447 euro, per i nuclei con quattro componenti è di 702 euro: una cifra con cui è difficile condurre una vita dignitosa specialmente al Nord (e comunque certamente non capace in nessuna parte d’Italia di spingere nessuno a stare sul divano invece di lavorare).

I dati, insomma, continuano a dirci che quel sussidio è una misura fondamentale, ma ancora incapace di intercettare a pieno la platea di poveri presenti in Italia, in particolare quelli del Nord e le famiglie numerose, una platea che la crisi dovuta al Covid ha portato a 5,6 milioni di persone nel 2020, in aumento di un milione rispetto al 2019 (anno in cui proprio il Rdc aveva permesso una riduzione).

Due grosse pecche che dovrebbero comportare certo una modifica del Reddito di cittadinanza, ma nel senso di un suo potenziamento, con relativo aumento dei fondi: un’operazione politicamente impossibile in un governo in cui è presente un partito che vuole abolirlo e la Lega di Matteo Salvini che gongola perché “è ormai nata una maggioranza per rivedere il Reddito di cittadinanza”.

Migliaia di lavoratori senza Cassa da mesi

Non bastava il pasticcio della quarantena obbligatoria pagata dal dipendente che entra in contatto con una persona positiva al coronavirus. Ora si scopre che c’è (ancora) un buco di mesi di cassa integrazione Covid – quella gratuita per le aziende – che coinvolge fino a 600 mila persone alle quali non è arrivato l’assegno che aspettano, in molti casi, da aprile. Come in passato, e specialmente da quando siamo in pandemia, gran parte della colpa è dei processi amministrativi che assomigliano a un kamasutra burocratico.

Stavolta il ritardo non riguarda più la consegna del modello con cui si chiede l’autorizzazione delle ore da pagare, ma il meccanismo autorizzativo della spesa che, per legge, richiede che ogni singolo mese si ricominci da zero nel conteggio dei fondi, anche se i soldi non mancano. Una cornice normativa iper burocratica che porta a rallentare la macchina e ad aumentare i tempi di erogazione della Cassa integrazione.

L’inghippo coinvolge l’Inps e il ministero dell’Economia, in particolare la Ragioneria generale dello Stato. L’Istituto guidato da Pasquale Tridico, come ha rivelato ItaliaOggi, avrebbe congelato le autorizzazioni per le richieste presentate per utilizzare la Cig ordinaria e in deroga con la causale Covid-19 perché la Ragioneria dello Stato non ha sbloccato i fondi. Non per un problema di finanziamento, ma per limiti contabili e anche un po’ perché si è tornati a una sorta di business as usual, compreso l’occhiuto controllo sulle spese e sul deficit. Semplificando, la Ragioneria paga le ore di cassa integrazione autorizzate non in un’unica tranche ma in maniera dilazionata. Un ritardo che, secondo ItaliaOggi, in un articolo non smentito ufficialmente, affligge una platea che potrebbe riempire 10 stadi e che, tuttavia, rientra in un quadro amministrativo “normale” (anche se, nella situazione data, di normale c’è ben poco, specie per chi non lavora e aspetta il suo assegno).

Tutto passa per il “tiraggio”, ovvero l’effettivo utilizzo, della Cassa integrazione. A inizio mese il datore di lavoro prenota le ore di Cig, ma solo a fine mese saprà il numero reale, che solitamente è inferiore. Dati che finiscono in un modello autorizzativo che arriva all’Inps. L’istituto fa le dovute verifiche e autorizza le ore. A questo punto è trascorso già un mese e mezzo. Poi la palla passa alla Ragioneria che, ogni singolo mese, è tenuta ad azzerare tutti i calcoli e ricominciare dall’inizio facendo dilatare ulteriormente i tempi di erogazione.

L’Inps spiega che già in passato ci sono stati momenti di stop and go dei finanziamenti per le autorizzazioni Cig e che poi una soluzione si è sempre trovata. Che le imprese si siano viste congelare l’autorizzazione all’utilizzo degli ammortizzatori sociali Covid-19 per via del superamento del plafond a disposizione, oltre il 120% delle risorse stanziate, è infatti già accaduto a marzo e giugno, quando sono state autorizzate rispettivamente 641 e 527 milioni di euro contro una media del 2021 inferiore a 200 milioni di ore.

Il Mef ha garantito che non c’è nessun pagamento arretrato, ma i fondi potrebbero comunque essere stati sbloccati negli scorsi giorni creando questa bolla dei pagamenti in cui sono finiti 600 mila lavoratori che ormai sono abituati alle lunghe attese prima di ricevere la Cassa.

La Cig resta un meccanismo farraginoso che già negli scorsi mesi ha portato il Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inps a richiedere una norma che renda più fluido l’uso delle risorse e anche a sottolineare che il decreto approvato il 30 giugno “ha sostanzialmente obbligato l’Istituto a caricarsi i costi di alcune prestazioni Covid, in particolare la Cassa integrazione: su 4 miliardi della fiscalità generale, circa 2,5 saranno a carico dell’Inps”.

Il problema, spiegano fonti governative, è noto anche a Palazzo Chigi e non è affatto escluso che si proceda a fare una norma che consenta a Inps o Mef (ognuno dei due enti rivendica questo potere) di usare i residui con maggiore facilità. Intanto i lavoratori aspettano.

Da Farina a Gerli, i migliori inciampano sulle nomine

Se si dimetterà o se sarà obbligato a farlo, una cosa è chiara: il sottosegretario della Lega Claudio Durigon dal 4 agosto, quando ha proposto di reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini invece che a Falcone e Borsellino, ha messo in grosso imbarazzo il presidente del Consiglio Mario Draghi. Che da venti giorni non dice una parola sul caso. Ma Durigon è solo l’ultimo di una lunga serie di esponenti nominati dall’esecutivo che nei primi sei mesi hanno messo in difficoltà Draghi e i suoi uomini di fiducia a Palazzo Chigi: le nomine fino a oggi sono state il vero tallone d’Achille del governo. Il primo fu Alberto Gerli nominato a metà marzo nel nuovo Cts. Gerli, ingegnere gestionale, però era soprattutto noto per aver elaborato un modello matematico di contagi che aveva sbagliato quasi tutte le previsioni. Solo per fare qualche esempio Gerli, dopo la prima zona rossa in Lombardia, aveva spiegato che “il lockdown non serve più a nulla” perché l’ondata sarebbe durata 40 giorni.

A inizio febbraio invece aveva spiegato che entro la fine di quel mese il Veneto sarebbe diventata zona bianca (invece era arancione). Quando è stato nominato nel Cts le sue previsioni sbagliate hanno fatto il giro del web e Gerli il 18 marzo è stato costretto a fare un passo indietro per evitare al Cts e al governo “inutili ostacoli e distrazioni”. Poi il 28 luglio Domani ha rivelato il caso di Simone Tabacci, figlio del sottosegretario a Palazzo Chigi con delega alle politiche spaziali Bruno Tabacci assunto da Leonardo, colosso degli armamenti e leader proprio nel settore aerospaziale. Dopo la notizia era scoppiato il caso politico per l’evidente conflitto d’interessi: Matteo Salvini aveva parlato di mancanza di “buon gusto” e i renziani chiedevano le “dimissioni” di Tabacci.

Per giorni il sottosegretario aveva resistito ma poi il 5 agosto, su pressioni di Draghi, ha deciso di rinunciare alle deleghe allo Spazio mentre ha mantenuto quelle al Cipe. Il giorno prima il Fatto dava notizia della nomina imminente di Ugo De Carolis come nuovo Ad di Anas indicato dall’Ad di Ferrovie Luigi Ferraris e, si dice, dal ministro Enrico Giovannini. Peccato che De Carolis fosse l’ex Ad di Aeroporti di Roma, società controllata dalla Atlantia dei Benetton e uomo vicino a Giovanni Castellucci, l’ex braccio destro della famiglia di Ponzano veneto imputato a Genova per il disastro del Ponte Morandi. Una nomina troppo ingombrante per il governo. E quindi saltata nel giro di un pomeriggio: De Carolis alla fine è stato costretto a rinunciare. L’ultimo caso è quello di Renato Farina, alias agente Betulla, già a libro paga del Sismi di Niccolò Pollari e Pio Pompa (e per questo radiato dall’Ordine dei giornalisti) e in seguito noto per aver patteggiato 6 mesi per favoreggiamento nel caso del sequestro di Abu Omar. Brunetta, come ha rivelato il Fatto, aveva deciso di assumerlo come suo consulente giuridico al ministero della P.A. Dopo due giorni però Farina ha deciso di dimettersi. Chissà se la stessa sorte toccherà a Durigon.

Cielle benedice la pax draghiana (ma tifa destra)

“Compagno Rosato!”. Matteo Salvini si ferma a metà di un corridoio della Fiera di Rimini per un saluto più che affettuoso al collega renziano. Pacche e risate. Lo zelante servizio d’ordine – la mini testuggine di volontari ciellini in maglietta celeste intorno al leghista – si apre per un attimo e permette ai due politici di farsi la foto insieme. Il meeting di Comunione e Liberazione vorrebbe affermarsi in via definitiva come la festa della concordia politica. Abbattuti gli steccati ideologici, sdoganato a sinistra, caduta pure la fatwa grillina: al palcoscenico di Rimini ormai si concedono tutti, ben oltre il perimetro cattolico e conservatore. Figuriamoci poi nell’estate della pax draghiana.

Così a mezzogiorno una folla di avventori armati di green pass, dopo aver realizzato moderati assembramenti negli ampi spazi della fiera, sotto le pubblicità di Intesa Sanpaolo e svariati altri giganti del capitalismo italiano, si schiaccia verso l’ingresso dell’auditorium. Dentro c’è quasi l’intero arco parlamentare. Da destra a sinistra: Giorgia Meloni (in collegamento video), Matteo Salvini, Antonio Tajani, Maurizio Lupi, Ettore Rosato, Enrico Letta, Giuseppe Conte. Tutti sullo stesso palco.

L’entusiasmo degli organizzatori è palpabile. “Un incontro eccezionale, non ricordo di aver visto niente del genere”, esordisce Michele Brambilla, direttore del Resto del Carlino e conduttore dell’evento. “Una svolta importante per la politica italiana”, dichiara enfatico Giorgio Vittadini, fondatore della Compagnia delle Opere e storico leader ciellino: “Si riafferma il metodo del dialogo e del confronto, invece dei soliti talk dove si strilla e basta. Così si rilancia il ruolo dei partiti”.

Tutto splendido, volemose bene, un ecumenismo dilagante: il manifesto storico della kermesse riminese. D’altra parte, se si esclude Meloni, gli altri fanno parte della stessa maggioranza: governano tutti assieme. Persino l’argomento è generico e soporifero quanto basta per scoraggiare polemiche e antagonismi: “Il ruolo dei partiti nella democrazia oggi”. Come ci si può dividere su un tema così? E invece quando entrano i protagonisti, il primo fatto evidente è che la platea è molto meno eterogenea di come la si vorrebbe rappresentare: è spassionatamente di destra. In fondo è lo stesso pubblico che sabato si spellava le mani per il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, mentre bombardava i sindacati e il ministro del Lavoro del Pd Andrea Orlando.

Anche stavolta l’applausometro non mente: modesto per Conte (che peraltro arriva tardi per colpa del traffico romagnolo), un po’ più caldo per Letta, Rosato e Tajani, generoso con Lupi (siamo a casa sua), entusiasta per Salvini, ma l’ovazione più forte è nettamente quella tributata a Meloni.

Gli applausi scroscianti per la leader di FdI si ripetono ogni volta che prende la parola e persino quando conferma, tra grandi giri di parole, di essere contraria al green pass. Alla faccia della moderazione ciellina e del draghismo imperante. Anche per Salvini solo carezze: apprezzato quando attacca Conte sul famigerato bisogno di dialogare con i talebani; di nuovo apprezzato quando ridicolizza i Cinque Stelle (che hanno mandato in Parlamento “gente estratta a sorte”); ancora più apprezzato nelle numerose tirate contro il reddito di cittadinanza (“Mi pare che su questo palco abbiamo trovato una maggioranza parlamentare per abolirlo”, qui il pubblico di Rimini va proprio in sollucchero).

E gli altri? Letta dà uno dei pochi veri titoli politici dell’incontro – dice che il Pd si impegnerà a lavorare per far restare Draghi a Palazzo Chigi “almeno fino al 2023” – ma quando lo fa non se lo fila praticamente nessuno. Conte è spaesato, un alieno. Nel finto unanimismo ciellino è l’unico a cui spetta un’accoglienza glaciale. Sul reddito di cittadinanza è talmente accerchiato che il moderatore, pietoso, gli offre un’inconsueta replica alla fine del giro di interventi. Ma quando l’ex premier insiste sul fatto che vada difeso e migliorato, la platea risponde con un borbottio. Una sciura si alza in piedi livida e grida verso il palco: “Va solo abolito!”. Alla fine del dibattito resta in sospeso la solita domanda: ma i leader progressisti, o supposti tali, perché ci tengono tanto a piacere a questo mondo qui?

Salvini s’arrende, Durigon no. Braccio di ferro tra capo e ras

Dopo venti giorni di silenzi e difese d’ufficio, Matteo Salvini si arrende. Dal meeting di Comunione e Liberazione in corso a Rimini, il leader della Lega apre per la prima volta alle dimissioni del suo sottosegretario all’Economia Claudio Durigon. Un passo indietro che potrebbe arrivare anche in tempi brevi: secondo una fonte autorevole della Lega, Durigon potrebbe fare un passo indietro già entro questa settimana. Eppure il sottosegretario resiste: “Non mi dimetto” ha detto a chi gli ha parlato nella giornata di ieri. Anche nella Lega, dunque, ci sono tensioni sul caso scoppiato il 4 agosto scorso quando il sottosegretario al Tesoro ha proposto di reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini (fratello del duce) invece che a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino provocando la reazione indignata delle associazioni antimafia e antifasciste e di Pd e M5S che a settembre, quando riaprirà il Parlamento, presenteranno una mozione di sfiducia. “Ho la massima fiducia e stima di Claudio ma valuteremo cosa è meglio fare per lui, per la Lega e per il governo” ha detto Salvini a margine del dibattito a cui hanno partecipato tutti i leader di partito. Una prima crepa dopo giorni in cui Salvini aveva derubricato la questione a polemica “strumentale” sperando che tutto si sgonfiasse nel giro di pochi giorni, una volta passato Ferragosto. E invece non è stato così.

Salvini ieri ha definito Durigon come il “papà di Quota 100” e spiegato che con lui sta parlando “di pensioni e del saldo e stralcio delle cartelle esattoriali” ma poi ha fatto capire che nei prossimi giorni i due prenderanno una decisione per togliere il governo Draghi dall’imbarazzo: “Noi siamo qui per risolvere i problemi e non crearli, per spegnere le polemiche e non per alimentarle”. Poi al Fatto conferma: “Non possiamo passare l’autunno a parlare di fascismo e comunismo: troveremo una soluzione io e lui”. Una dichiarazione che arriva il giorno dopo il faccia a faccia a Palazzo Chigi tra Salvini e il premier Mario Draghi (e tra quest’ultimo e Giorgetti) che fino ad oggi non ha detto nulla sul caso. Secondo fonti vicine a entrambi, nel colloquio di lunedì i due non hanno parlato di Durigon ma la giravolta di Salvini è quantomeno sospetta. E soprattutto, è l’interpretazione dei suoi fedelissimi, apre alle dimissioni del sottosegretario al Tesoro già entro questa settimana. Nei prossimi giorni i due si vedranno e decideranno il da farsi. Salvini sembra pronto a scaricarlo ma dovra vincere le resistenze del suo fedelissimo. Negli ultimi giorni la pressione politica sul sottosegretario leghista ha messo in imbarazzo il governo e l’obiettivo del leader della Lega è quello di non creare problemi a Draghi quando si aprirà l’autunno caldo delle riforme – fisco, pensioni e concorrenza – e alla vigilia dell’elezione del presidente della Repubblica. Una mozione di sfiducia metterebbe in grosso imbarazzo il governo e provocherebbe una spaccatura profonda tra centrosinistra e centrodestra. E così Salvini vuole togliere le castagne dal fuoco a Draghi prima del voto. L’ipotesi più probabile è che Durigon si dimetta e accetti un posto più pesante nella Lega, oltre alla promessa della candidatura a presidente della Regione Lazio nel 2023.

Il passo indietro di Salvini è stato provocato anche dalla pressione che Pd e M5S hanno messo su Durigon con la minaccia della mozione di sfiducia. Da Rimini il segretario dem Enrico Letta ieri ha confermato che il leghista “si deve dimettere” perché “l’apologia di fascismo è incompatibile con Costituzione e governo”, mentre il leader del M5S Giuseppe Conte ha concordato raccontando che nel 2019, da premier, chiaml Salvini per “revocare le deleghe” al leghista Armando Siri (indagato per corruzione): “Sono fiducioso che Draghi risolverà il caso” ha concluso Conte. Se arriveranno le dimissioni di Durigon, però, non sarà gratis. E Salvini lo ha fatto capire alzando i toni contro il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese su cui pende una mozione di sfiducia di FdI. “Serve un cambio, deve iniziare a fare il ministro” ha detto Salvini.