Tutti a casa

L’abilità tutta italiota di trasformare anche la peggior tragedia in farsa è nota. Ma su Kabul si esagera. Per giorni i mejo strateghi del bigoncio si lambiccavano in avvincenti spiegazioni dell’ignominiosa ritirata americana, roba che Caporetto al confronto fu un capolavoro di compostezza. Per alcuni era tutta colpa di Di Maio: se non andava in spiaggia poteva tagliare la strada ai talebani. Per altri era il titolo del Fatto “I talebani fanno i democristiani” che rafforzava i mullah e fiaccava la resistenza dei nostri (come se fare, cioè fingersi, equivalesse a essere). Merlo su Rep ci dava degli “italiban” e spiegava che “i talebani mettono bombe e tagliano gole nelle città dell’Occidente” (chi di voi non ne ha mai incontrato uno sotto casa con cinturone esplosivo e coltello da picnic?). Poi Conte diceva un’ovvietà: “serrata trattativa coi talebani” coinvolgendo Cina e Russia.

Apriti cielo! È “l’avvocato dei tagliagole” (Sallusti, Libero), subisce “il fascino del kalashnikov” (Messina, Rep), “Il dna del M5S è la fascinazione per regimi e autocrazie: Iran, Venezuela, Russia, Cina” (Cappellini, Rep),“Conte ha una grave lacuna: gli Esteri” (Sorgi, Stampa), “I talebani ringraziano Cina e 5Stelle” (Minzolingua, Giornale). In sottofondo, gli alti lai dei Nando Mericoni twittaroli, da Johnny Riotta a Polito el Drito ai poveri Iacoboni e Lavia, ormai tutt’uno con l’orchestrina renziana. Poi purtroppo il mondo intero si fa grillino e diventa una gigantesca Volturara Appula. Borrell (Ue): “La Ue deve dialogare coi talebani”. Grandi (Unhcr): “I talebani mostrano pragmatismo, bisogna trattare”. La Merkel, Johnson, Prodi, il G7: “Trattare coi talebani”. Angela chiede financo aiuto a Putin e Draghi, oltreché Russia e Cina, vuol coinvolgere pure il Pakistan (che ospitava Bin Laden): gli italoyankee in gramaglie. Ieri, il giorno più nero. Lucio Caracciolo, firma di punta di Stampubblica, si dà alla clandestinità sul Riformista per dire che “è ovvio, bisogna trattare coi talebani”, “sono cambiati”, ma non sono mai andati “a fare attentati in giro per il mondo: si son sempre e solo occupati dell’Afghanistan” (un modo elegante per dare del somaro al Merlo). Ieri, i due colpi di grazia: Biden agli ordini dei talebani (“Ok, ok, ce ne andiamo il 31”) e la serrata trattativa fra il mullah Baradar e il capo della Cia Burns, altro noto burattino di Conte. Colpiti e affondati, gli amerikani a Roma si chiudono in un luttuoso silenzio: solo marce militari. Se fossero spiritosi, chiamerebbero qualcuno dal bar, come Sordi in Tutti a casa: “Signor colonnello, accade una cosa incredibile! I tedeschi si sono alleati con gli americani! Ah no? È tutto finito?! Ma non potreste avvertire i tedeschi? Ci stanno continuando a sparare!”.

“Falling”, il talento di Viggo con la macchina da presa

“È meglio discutere dei problemi, confrontarsi piuttosto che ignorarli: è meglio per le famiglie e per la società intera. La difficoltà di comunicazione genera conflitti e polarizzazione, odio e intolleranza: è una sorta di pandemia pure questa. Bisogna imparare ad ascoltare le persone, specialmente quelle con cui non si è d’accordo”. Talento attoriale poliedrico e generoso, già Aragorn nel Signore degli Anelli, in carnet, tra gli altri, La promessa dell’assassino, Captain Fantastic e Green Book, Viggo Mortensen passa dietro la macchina da presa con Falling – Storia di un padre, dal 26 agosto nelle nostre sale con Bim. Scritto, diretto e interpretato dal sessantaduenne newyorchese, inquadra il padre padrone Willis (Lance Henriksen, potente) allorché deve lasciare l’avita fattoria per trasferirsi dal figlio John (Mortensen) che vive in California con il compagno Eric (Terry Chen) e la figlia Monica (Gabby Velis). Il sessista, prevaricatore e rancoroso Willis e il mite, illuminato e aperto John non potrebbero essere più diversi, sicché l’incontro è da subito scontro: “Se Willis incarna una mascolinità tossica? Ci sono tanti modi di essere uomo quanti sono gli uomini, non si possono classificare gli esseri umani, c’è troppa generalizzazione in giro. È meglio avere domande che risposte”. Tra padre e figlio le parole tagliano come rasoi, l’intolleranza tracima, la discriminazione punge, ma il passato non è più una terra straniera, e il presente rischiara una (residua) possibilità, tanto per i personaggi che per gli spettatori: “Credo che in Falling le domande superino le risposte. Odio i film che ti dicono cosa pensare e cosa provare. Una volta Agnès Varda mi ha detto: ‘Non voler mostrare nulla al pubblico, crea solo il desiderio di vedere cose e provare emozioni’”. Formato famiglia, carburante biografico, Falling fa tesoro dell’esperienza cinematografica di Mortensen, dei grandi registi – da Cronenberg a Jackson – con cui ha lavorato, ma affonda nell’intimità: “Ho cominciato a scrivere questa storia per cercare di non dimenticare. Le immagini di mia madre, frammenti di conversazione, ho scritto in un quaderno di appunti tutto quello che non volevo perdere”. La memoria è centrale: “Cerchiamo di controllare il passato per sentirci a nostro agio, giacché il presente ci confonde e il futuro ci è sconosciuto, ma confondiamo reminiscenze con fatti: i ricordi sono più una collezione di sentimenti”.

Tyson e il sesso da ko. Quando Douglas sfatò il mito

Fu per la sottovalutazione. Per quella e per il troppo sesso. 11 febbraio 1990, Tokyo Dome. Incontro per il titolo dei pesi massimi. Da una parte Mike Tyson, dall’altra James “Buster” Douglas. Non doveva esserci storia. La vittoria di Douglas era data 42 a 1. James era lì in mancanza di meglio. L’incontro doveva fungere come sorta di allenamento per Tyson, prima di affrontare lo sfidante “vero”: Evander Holyfield.

Buster era al settimo posto nella classifica della rivista The Ring riservata ai pesi massimi. Buon talento, ma incompleto. Cominciava gli incontri bene, ma dopo 7/8 round scendeva puntualmente di livello. Contro Tyson, quel Tyson, pareva null’altro che carne da macello. Don King, l’uomo che aveva distrutto l’ultimo Muhammad Ali e creato “King Kong” Mike, lo aveva scelto soprattutto per quello: l’agnello sacrificale da mostrare a Tokyo tra un assegno e l’altro.

Buster stava passando un periodo personale d’inferno. 23 giorni prima della sfida, aveva perso mamma Lula Pearl. Si stava separando dalla moglie, malata gravemente ai reni, e il giorno prima della presumibile mattanza con Tyson si era beccato pure l’influenza. Un disastro.

Dall’altra parte, uno dei pugili più forti di tutti i tempi all’apice della carriera. Il campione imbattuto dei pesi massimi Wbc, Wba e Ibf. Mike aveva sei anni meno di Buster e veniva da 37 vittorie di fila. Più che sconfiggerli, lui gli avversari li macellava. Pochi mesi prima aveva tritato in 83 secondi Carl Williams. Il destino di ogni suo sfidante. Trevor Berbick, Michael Spinks, Frank Bruno, Larry Holmes. A quest’ultimo Tyson aveva riservato un trattamento speciale, per punirlo di come secondo lui avesse infierito nel 1980 contro un Muhammad Ali già malato.

Tyson era già chiacchierato per la sua condotta di vita privata, ma sul ring incarnava la violenza indomabile pura. C’era qualcosa di spaventosamente sovrannaturale in lui. Eppure Buster quella sera cominciò particolarmente bene. Prese a insistere col jab e fece sanguinare l’occhio sinistro di Tyson, che appariva rallentato e poco reattivo. Tyson prese poi quota, ma a fatica. Negli ultimi secondi dell’ottavo round, durante il quale aveva peraltro sofferto come mai prima, Mike indovinò l’uppercut giusto e mandò Buster al tappeto. Sembrava finita. Invece Douglas si alzò al “9”: Don King e i tifosi di Tyson dissero – e dicono ancora – che l’arbitro Octavio Meyran contò troppo lentamente e che in realtà quel “9” era un “13”. Dunque aveva vinto Tyson. Ma Tyson non aveva vinto per niente e si andò avanti. Nella nona ripresa Iron Mike cercò di chiudere la pratica, sperando che Buster fosse ancora intontito. Macché. Douglas cominciò a macinare colpi e Tyson nel nono round fu letteralmente salvato dal gong. Nella ripresa successiva accadde il prodigio: Buster travolse Tyson con un terrificante montante alla testa. I quattro colpi successivi consegnarono Tyson al tappeto: per la prima volta. Fu una scena semplicemente eretica. Tyson crollò e si mise carponi sulle ginocchia, raccogliendo da terra il paradenti saltato via. Poi si rialzò con fatica, aggrappandosi alle corde del ring. Il mondo stava osservando l’inaudito. L’arbitro contò “10”. Buster era campione del mondo. Era e resta una delle sorprese più grandi nella storia dello sport.

Molti anni dopo, ripensando a quella sconfitta che coincise con l’inizio del suo lento declino, Mike disse: “Non volevo combattere. Tutto ciò che mi interessava era fare festa e fare sesso. Neanche ci pensavo a Buster. Lo consideravo poco più di un allenamento. In quei giorni ho fatto sesso con molte cameriere e ho ritrovato una giovane donna giapponese con cui ero già stato. Il mio allenamento è stato questo: fare sesso mentre mia moglie andava a fare la spesa. È così che mi sono allenato. Il giorno prima del combattimento ero a letto con due cameriere contemporaneamente”. Una chiave di lettura che Douglas ha sempre confutato risolutamente: “Che stronzate! Se Mike non fosse stato in forma non sarebbe stato capace di schivare tutti quei colpi. La verità è che non ha mai accettato quella sconfitta, piangeva e si lamentava come un bimbo nella culla”.

Secondo Buster, la vittoria dipese dalla madre: “Lei volò via in quelle settimane e io mi stavo separando. Mamma era malata, ma fu la mia forza. Lei era davvero convinta che avrei battuto Mike. Mi ha sempre insegnato a credere in me stesso”. Dopo quella vittoria, Douglas difese il titolo dei pesi massimi otto mesi dopo contro Holyfield. Si presentò sovrappeso e perse in tre round. Si ritirò, rischiò di morire per un coma diabetico, tornò a fine Novanta per combattere senza gloria con pugili di seconda fila. Non senza arguzia, si è guardato bene dal concedere la rivincita a Tyson. Ah: una volta lo misero sulla copertina di Sports Illustrated. Titolo: “Rocky lives!”. Un bel titolo: James “Buster” Douglas, che adesso ha 61 anni e l’aria di chi la vita non se l’è mai goduta troppo, quel giorno a Tokyo andò ben oltre i sogni migliori di Rocky Balboa.

 

Sostiene il maestro Dickens. “Devoto alle mie opere”

I testi che seguono usciranno giovedì per minimum fax. Discorso del 1° febbraio 1842 Charles Dickens

Non è facile per un uomo parlare dei suoi libri. M’azzardo a dire che pochi s’interessano ai miei quanto me, e se vige il principio generale che l’amore d’un amante è cieco, e l’amore d’una madre è cieco, credo si possa dire che l’affetto d’un autore per le creature della sua immaginazione sia un perfetto esempio di fedeltà e devozione, e che sia l’amore più cieco di tutti. (…) Ho sempre nutrito, e sempre nutrirò, un desiderio sincero e autentico di contribuire (…) ad arricchire il mondo di sana contentezza e divertimento. Ho sempre provato, e sempre proverò, un incontrollabile disgusto verso quella cieca filosofia che venera l’oscurità e rifugge dalla luce. Credo che la Virtù si palesi tanto nei cenci e nei rattoppi, quanto negli abiti più eleganti e sgargianti. Credo che essa, come qualsiasi altra meravigliosa creazione della natura, pervada il petto del poveraccio che spezza la sua misera pagnottella. Credo che se ne vada in giro tanto a piedi scalzi quanto a cavallo, che la si trovi più spesso nei vicoletti e nelle stradine piuttosto che nelle corti o nei palazzi, e che sia giusto, ed entusiasmante scovarla e inseguirla. Credo che tendere la mano verso chi è reietto, da lungo dimenticato e troppo spesso maltrattato, e dire al più orgoglioso e insensibile – “Queste creature serbano le tue stesse qualità e capacità di far del bene, sono plasmate dallo stesso stampo e fatte della stessa pasta; e sebbene dieci volte più in basso di te, solo per il merito d’aver tenuto fede alla loro natura a dispetto delle sofferenze e degli svantaggi della loro condizione, sono dieci volte migliori di te”, beh, credo che fare qualche cosa di simile voglia dire perseguire una vocazione nobile. Signori, il vostro plauso accorato mi conferma che siete del mio stesso avviso. Che un tale sentimento viva nel Vecchio Mondo quanto nel Nuovo, nessuno può saperlo meglio di me – che ho trovato altrettanto entusiasmo nella mia terra. Esprimendolo qui stasera, siamo a ripercorrere i passi dei grandi spiriti guida che ci hanno preceduto molto tempo addietro, e ce lo confermano i maestri della nostra letteratura, da Shakespeare in giù.

A John Forster, 7 ottobre 1849

Rendo un’enorme ingiustizia alle mie idee sconclusionate (…) anticipandoti già qualche dettaglio sul Periodico: ho in mente un settimanale, che si venda a un pence e mezzo o due pence, con contenuti in parte originali e in parte rivisitati, come pure, se possibile, qualche bella poesia… Per quel che concerne i contenuti rivisitati, ho diverse cose in mente. La prima, che vi sia sempre un tema specifico. Per esempio, una storia di Pirati; sui quali esiste un’enormità di materiale straordinario, avvincente e praticamente sconosciuto. Una storia di Cavalieri erranti, e la vecchia leggenda del Sacro Graal. Una storia di Selvaggi, a mostrare le peculiarità che accomunano tutti i selvaggi e quelle che di colpo trasformano in selvaggi anche gli uomini civilizzati, se posti di fronte a certe difficoltà. Una storia di personaggi straordinari della storia, buoni e cattivi; così da affiancare il lettore nell’osservazione imparziale dell’umanità, e aiutarlo a comprendere quanto di vero si celi in molti personaggi di fantasia. Tutte queste cose, e cinquanta altre a cui ho già pensato, andrebbero a formare delle raccolte, attraverso cui comunicare l’intento generale del giornale, e che attirerebbero tanta attenzione quanto i pezzi originali. La parte originale consisterebbe in saggi, recensioni, lettere, critica teatrale, ecc. ecc., che sappiano intrattenere, ma che pure rappresentino, in modo audace e sfrontato, l’essenza della gente e del tempo che narrano… Per dare coerenza al tutto, e per introdurre un personaggio in cui qualsiasi autore possa calarsi agilmente, mi piace supporre che vi sia una certa Ombra, capace d’avventurarsi in ogni luogo, alla luce del giorno, della luna, delle stelle, del focolare, della candela, così da infilarsi in ogni casa, in ogni anfratto, conoscere ogni cosa e vagare ovunque e senza la minima difficoltà. Potrebbe andare a Teatro, a Palazzo, alla Camera dei Comuni, nelle Prigioni, nei Sindacati, nelle Chiese, in Treno, per Mare, in Inghilterra e all’estero: una specie di creatura intangibile, semi-onnisciente e onnipresente. Non credo che L’Ombra funzionerebbe come titolo, ma voglio qualche cosa che le somigli, e faccia capire che si tratta di un’Ombra gioiosa, utile e sempre benvenuta. Voglio aprire il primo numero con un resoconto dell’Ombra, che presenti se stessa e la sua famiglia. Voglio che tutte le lettere siano indirizzate a lei. Voglio che sia lei ad annunciare di volta in volta che tratterà questo o quell’altro argomento, che s’adopererà a smascherare questo e quell’altro imbroglio. (…) Voglio che aleggi insospettata su Londra. (…) Voglio esprimere sia nel titolo sia nell’idea stessa che questa Creatura è al fianco e al seguito di chiunque. (…) M’interrompo, come un serbatoio stracolmo d’idee improvvisamente sgonfiato. Non ho fiatato con nessun altro.

Come (non) ti faccio la scuola: vien meglio spartirsi il bottino

“Oste, com’è il vino?”. Come un cliente in trattoria il ministero dell’Istruzione ha proposto una sorta di selezione intuitiva, il tipico fai da te, per far accedere i piccoli Comuni del Mezzogiorno a un fondo speciale di 40 milioni di euro per la costruzione delle scuole cosiddette innovative. Doveva essere una gara delle virtù nascoste nell’Italia interna, una scommessa sulla passione, la dedizione, la voglia di realizzare nei luoghi più remoti dell’Italia scuole straordinarie, non solo iper moderne e tecnologicamente avanzate ma capaci di produrre una resistenza civile all’abbandono dei borghi, il cuore dell’Italia nascosta. Si sta trasformando nella solita distribuzione a pioggia, con la prova che da difficile si è fatta facile, anzi facilissima. Vince, o meglio rischia di vincere, giacché la procedura non è stata ancora conclusa, il Comune che ha già progetti cantierabili nel cassetto. E così il peggio diviene il meglio o il vecchio si fa nuovo e l’ordinario si converte in straordinario. Un tratto di penna gentile e troppi i maghi Zurlì all’opera. Perde, o rischia di perdere, chi ha faticato a produrre un’idea, chi ci ha creduto davvero.

L’avviso, per come è stato stilato, sembra purtroppo una spinta alla fraudolenza. Il ministero tributa premi per realizzare scuole innovative ma non chiede, nella selezione generale, di visionarne i progetti. Crede sulla parola. Dopo si vedrà. Il punteggio più alto lo concede infatti a chi si trova con un progetto esecutivo in mano, magari rispolverato, un po’ taroccato. E così oste com’è il vino? Tutti i partecipanti hanno infatti dichiarato di avere pronti progetti innovativi. Innovativi in che senso? Innovativi come? Vattelapesca.

Ho avuto la ventura di seguire e sostenere passo dopo passo la realizzazione di una scuola innovativa nel comune di Palomonte, dove sono nato, ai piedi della catena montuosa degli Alburni che separa la Campania dalla Lucania. Il progetto dell’amministrazione, far divenire il luogo del sapere come perno sociale della comunità, realizzare una scuola che non chiudesse mai, aperta al mattino agli studenti e al pomeriggio ai cittadini, offrendo al paese luoghi dentro la scuola come il cinema, il mercato, la palestra, rispondeva esattamente al quesito della legge. E così con colleghi e amici, tra cui Pietrangelo Buttafuoco e Ficarra e Picone, ci siamo impegnati perché questa idea vedesse la luce. “Bellissima idea”, ci dice il ministro del Sud Peppe Provenzano che raggiunge Palomonte e osserva la squadra al lavoro. Progettisti giovani, tutti meridionali, e lo Iuav, l’istituto universitario di architettura di Venezia, come consulente scientifico, impegno che il rettore Alberto Ferlenga assume con generosità e a titolo gratuito. Con una piccola onlus sosteniamo le indispensabili spese dello studio di fattibilità, il Comune, come tutti i comuni del Sud, ha infatti le casse vuote, e si arriva al ministero. I dirigenti del Miur accolgono con un grande sorriso il progetto: bellissimo anche per loro, da finanziare sicuramente. Ma come? Illustriamo a mezzo Parlamento questa anomala scuola-comunità, che effettivamente riscuote successo. Da Forza Italia a Leu, passando per i Cinquestelle e il Pd, tutti si danno da fare. Nella legge di bilancio del dicembre scorso spuntano 40 milioni di euro per trovare un modo di finanziare questi e altri progetti realmente innovativi nelle aree interne e depresse del Mezzogiorno.

Si arriva all’avviso pubblico dello scorso 28 giugno e qui la sorpresa: l’innovazione, da elemento trainante, da condizione assoluta e insuperabile, diviene un dettaglio, anzi una frattaglia. Conta di più avere un progetto cantierabile, e quello di Palomonte, che l’amministrazione ha definito nei dettagli, non è ancora esecutivo, perde punti benché sia stato promosso dalla commissione di tecnici che, per conto del Miur, studiano modelli di “scuole da abitare”. Vince quindi non la qualità ma lo stato di avanzamento della progettazione. Chiunque si trovi in mano uno già cantierabile lo presenta. Un po’ di fotovoltaico sul tetto e, oplà!, l’innovazione è servita.

“Così si rischia di perpetuare divari territoriali e ingiustizie sociali. Dietro il progetto di Palomonte c’era l’idea che il comune più lontano potesse ambire ad avere la scuola migliore”, dice Provenzano, oggi vicesegretario del Pd. E Lucia Azzolina, l’ex ministro della Scuola: “Progetti come quelli di Palomonte sono strumenti potentissimi contro la dispersione scolastica e rappresentano modelli virtuosi d’esempio e ispirazione per altri territori. Hanno un valore doppio”. La forzista Stefania Prestigiacomo, autrice dell’emendamento con cui si finanziavano modelli di questo tipo, è stupita: “Voglio augurarmi che il ministro Bianchi blocchi i tentativi di dare spazio a contributi a pioggia. Intendevamo assicurare la dote solo a progetti realmente innovativi che sapessero trasformare i luoghi del sapere in centrali aperte alla vita delle comunità”. Stefano Fassina, relatore della legge di bilancio, discretamente incacchiato: “Ci aspettavamo un avviso pubblico che articolasse la definizione di scuole innovative. Così si rischia di bruciare il piccolo budget che deve servire per realizzare esperienze scolastiche straordinarie in una miriade di piccoli progetti ordinari”.

Così sembra o, forse, così è se vi pare.

La sanità malata anche post-covid

Ormai si può direcon certezza. Ciò che ha trasformato l’evento epocale della pandemia in tragedia nazionale è stata l’impreparazione, la cui causa viene attribuita in gran parte (fino a prova contraria e secondo quanto espresso da diversi rappresentanti governativi e vissuto in prima persona da noi medici), alla mancanza di un piano pandemico. Abbiamo assistito a impreparazione professionale in termini di emergenza sanitaria, a mancanza di scorte di ogni presidio medico-sanitario e a ben altro, più volte riportato. Non va però sottovalutato che ciò che ha determinato la vera catastrofe sia stato lo stato strutturale sanitario, caratterizzato da carenza di posti letto, sia in terapia sub-intensiva che in terapia intensiva e dalla mancanza di un adeguato numero di personale. Tra il 2009 e il 2018 l’occupazione nella sanità pubblica s’è ridotta di 44 mila unità (-6,4%). Al 31 dicembre 2018, risultavano occupati circa 692 mila dipendenti, di cui 650 mila a tempo indeterminato, ossia circa un quinto del personale stabilmente assunto nella pubblica amministrazione. Conseguenza dei piani di rientro della spesa delle Regioni che ha indicato quali obbiettivi “strategici” dei direttori generali dei vari presidi ospedalieri proprio la riduzione di posti letto e personale. Ricordiamo ciò che accadeva durante l’epidemia di influenza stagionale? Venivano riportate su tutti i media immagini di barelle messe in fila nei corridoi dei Pronto Soccorso. Poi è arrivato lo tsunami Covid che ha subito reso evidente una situazione insostenibile. Il 10 marzo 2020 viene pubblicato un decreto ministeriale che autorizza l’assunzione di personale sanitario. Così, in poche settimane sono stati assunti, spesso a tempo determinato o con contratti libero-professionali, migliaia di unità. Miracolo organizzativo? Forse, ma lontano dal ripristinare una situazione di adeguata assistenza e soprattutto precario perché, come da decreto ministeriale, legato allo “stato di emergenza”. Ciò vuol dire che, ancora una volta, la storia non ci ha insegnato nulla. Passata la pandemia, correremo il pericolo di ritornare alla condizione che ci ha fatto precipitare nel baratro.

*Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

La sardina Santori: predestinato da Pd (senza ammetterlo)

Ah, Mattia Santori. A ripensare adesso ai fiumi di melassa con cui fu benedetto il suo avvento, neanche fosse arrivato Gramsci, vien da ridere. Eppure, sul finire del 2019, guai a chi – pur riconoscendo i molti aspetti positivi delle Sardine – non poteva non scrivere quanto la retorica posticcia di Santori incarnasse il vuoto della politica. Un vuoto innocuo e non nefasto, per carità, ma se la gara deve essere quella di fare meglio di Salvini o Meloni allora son bravi (quasi) tutti. Santori, soprattutto agli esordi, era il classico renziano arrembante, pieno di frasi fatte e ignudo di competenze reali, che dopo la sbornia per gli anni d’oro della Diversamente Lince di Rignano aveva (vagamente) preso atto della cantonata presa. A questa (vaga) consapevolezza non aveva però fatto seguito un approccio iconoclasta, ma una comunicazione da rappresentante liceale che occupa l’Istituto per giocare all’impegnato e far colpo sulla compagna di scuola. Un film arcinoto. Eppure, per mesi, Santori era il nuovo Messia. Proprio come Renzi, e prim’ancora Serracchiani eccetera. Per ulteriori informazioni, compulsate l’archivio degli innamoramenti tonti di Espresso e Repubblica. Dopo la vittoria di Bonaccini alle Regionali, figlia anche dell’apporto delle Sardine che avevano il loro epicentro a Bologna, Santori si è rivelato quello che è: un bravo ragazzo, onesto e in buona fede, trovatosi però in un meccanismo troppo più grande di lui. Per mesi le ha sbagliate tutte, dalla visita ai Benetton a certe uscite mediatiche raggelanti, uscendo poi di scena con la pandemia: c’erano decisamente cose più importanti di cui parlare. Era naturale che Santori si sarebbe candidato con il Pd. Bastava poco per arrivarci. Eppure lui negava risolutamente e i suoi fan ti insultavano pure se osavi affermarlo: ovviamente è accaduto. Non c’è nulla di più prevedibile, e di più noioso, della politica italiana. Santori si candiderà come “indipendente” per un ruolo in consiglio comunale a Bologna in appoggio a Lepore. Con il Pd, naturalmente. Non sarà l’unica sardina a candidarsi: lo faranno più o meno tutte. Alcune nel Pd, altre con la sinistra radicale e qualcuna perfino con Conte. Il “perfino” non è uno sfottò a Conte, ma un ricordo di come Santori sia sempre stato durissimo con i 5 Stelle. E non altrettanto duro con Calenda o col suo passato filo-renziano, felicissimo – per dirne una – di votare “sì” il 4 dicembre 2016. Al netto però di una persistente tendenza alla banalità e alla retorica post-universitaria “de sinistra”, la candidatura di Santori non è una brutta notizia. O meglio: non lo sarà se, come pare, Santori si batterà per edificare quel campo progressista che dovrebbe vedere coinvolti Pd, M5S, Bersani, Fratoianni, Sardine e società civile. Santori non ha un seguito oceanico, ma non è neanche un Lucky Nobili o uno Scalfar8 qualsiasi. Finora, delle sardine note, è stato (a differenza di Jasmine Cristallo) uno dei più freddi in merito a un’alleanza Pd-M5S. Ora Santori pare avere mutato atteggiamento. Al Corriere della Sera ha affermato: “Il Pd ha diverse facce, quello che vogliamo sostenere è quel progetto che si chiamava Piazza Grande (la mozione dell’ex segretario Nicola Zingaretti, ndr) e che ora è diventato le Agorà. Il Pd si sta aprendo all’esterno sta alle forze esterne decidere da che parte tirarlo, di certo non da quella dei cavalli di troia di Renzi che hanno ampiamente inquinato gran parte del partito”. Parole condivisibili, che il “vecchio” Santori non avrebbe mai pronunciato. Il suo operato andrà valutato serenamente e senza pregiudizi: buon lavoro.

 

Lottiamo per Peltier e Assange, vittime come Sacco e Vanzetti

Anche quest’anno il 23 agosto a Torremaggiore si è celebrato il “Sacco e Vanzetti Memorial day”. Sacco e Vanzetti, due anarchici emigrati negli Usa resi immortali da Joan Baez in Here’s to you, Nicola and Bart. Si erano distinti nelle lotte in difesa dei diritti dei lavoratori e degli immigrati italiani, perciò fatti oggetto di dure repressioni poliziesche. Il 5 maggio 1920 vennero arrestati perché nei loro cappotti nascondevano volantini anarchici e alcune armi.
 Tre giorni dopo vennero accusati anche di una rapina avvenuta a South Baintree (Boston), in cui erano stati uccisi a colpi di pistola due uomini. Seguì un processo sommario col solo obiettivo di trovare e punire dei colpevoli. Malgrado la mobilitazione internazionale, il 23 agosto 1927 Sacco e Vanzetti finirono sulla sedia elettrica. E da allora sono il simbolo della lotta contro le discriminazioni etniche e politiche e la giustizia sommaria.

Il modo migliore per onorare la loro memoria è legarla alle ingiustizie dell’oggi. Fra i tanti casi di persecuzione giudiziaria, ne segnalo due. Leonard Peltier, un nativo americano chippewa, in carcere dal 1976 per l’omicidio di due agenti dell’Fbi in seguito a una sparatoria nella riserva indiana di Pine Ridge. La vicenda è figlia di quel clima di intolleranza e razzismo scatenata contro la etnia Lakota per cacciarla dal suo territorio e impossessarsi dei suoi giacimenti e per speculazioni immobiliari e affaristiche. Peltier, con altri volontari dell’American Indian Movement, aveva risposto all’appello della comunità di Oglala Lakota per resistere alla repressione del governo Usa con più di 60 morti. La giustizia si è scatenata solo sulla morte dei due agenti Fbi che in abiti civili erano entrati con fare provocatorio nella Riserva. Si cercava a tutti i costi un colpevole che fu individuato in Peltier, riparato in Canada da dove, attraverso una frettolosa estradizione, fu assicurato alle autorità federali. Il processo ricorda quello a Sacco e Vanzetti: la giuria che lo condannò a due ergastoli era formata da soli bianchi in una città, Fargo, storicamente anti-indiana; il processo fu presieduto da un giudice noto per il suo razzismo; e non c’era alcuna prova certa di colpevolezza.

Peltier è da 45 anni innocente in carcere, ha 77 anni, soffre di gravi problemi di salute. Molti negli anni hanno chiesto la revisione del processo e la sua liberazione.

L’altro caso che suscita indignazione nella comunità internazionale è quello di Julien Assange, detenuto nel carcere inglese di massima sicurezza di Belmarsh, colpito da ben 18 capi di imputazione per aver violato l’“Espionage Act” rischiando fino a 175 anni di carcere se estradato negli Usa e riconosciuto colpevole. Per la sentenza di primo grado, almeno per ora, non sarà estradato. Una notizia che ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai militanti dell’associazione Don’t Extradite Assange e a tutti i democratici del mondo. Ma la giudice Vanessa Baraitser riconosce il fondamento delle accuse e nega l’estradizione solo per motivi legati alle condizioni psicofisiche del detenuto. E un altro rischio nella sua odissea è connesso al processo di appello.

Ce n’è a sufficienza per tener alta la mobilitazione democratica. Sono in gioco la libertà d’informazione e il diritto alla conoscenza. Assange non è né un hacker né una spia. È un giornalista. Grazie alle sue rivelazioni, riprese da tante testate giornalistiche, conosciamo “verità nascoste” sulle guerre in Afghanistan, in Iraq e sugli orrori di Guantanamo. È evidente l’accanimento politico-persecutorio nei confronti di un giornalista reo di aver fatto bene il suo mestiere. La battaglia per la sua liberazione, come richiesta anche dal Consiglio d’Europa, deve impegnare tutti i democratici. Ci sono voluti 71 anni perché Sacco e Vanzetti fossero riabilitati e Bill Clinton riconoscesse che si trattò di un processo politico. È lecito chiedere al presidente Biden: quanto tempo dovrà ancora passare per un atto di giustizia nei confronti di Peltier e Assange?

 

Consiglio beni culturali: ecco Perché mi dimetto

Mi sono dimesso dal Consiglio superiore dei Beni Culturali per protestare contro l’arroganza del ministro della Cultura Dario Franceschini e denunciare l’umiliazione di quello che dovrebbe essere il massimo organo tecnico-scientifico del patrimonio.

Sabato il Consiglio superiore aveva inviato al ministro una nota in cui lo invitava a “tenere in adeguata considerazione” le forti obiezioni espresse dalle associazioni dei familiari delle vittime delle stragi di Bologna, Brescia, Milano sulla nomina di Andrea De Pasquale, “anche alla luce dell’importante ruolo di garanzia attribuito dalla normativa vigente all’Archivio medesimo per la conoscenza della memoria storica dell’Italia contemporanea”.

Franceschini non ha risposto, ma domenica ha annunciato che la nomina ormai era fatta. Le associazioni hanno risposto che la decisione “sbatte la porta in faccia alle associazioni e alle tante donne e uomini di cultura che si sono associati alle nostre preoccupazioni”, e che “la nomina di De Pasquale è un vulnus intollerabile, una operazione che sembra serva a tranquillizzare quegli apparati che ancora oggi hanno paura della verità”.

La nomina del responsabile dell’Archivio centrale della Repubblica spetta al presidente del Consiglio dei ministri, che se ne è lavato le mani: così il ministro della Cultura si è trovato a godere di una insana autarchia. Nel modo in cui l’ha usata si intrecciano tutti i fili della involuzione del governo del patrimonio culturale.

La rosa dei candidati era straordinariamente esigua: perché da anni i ranghi degli archivisti di Stato vengono massacrati dal letale definanziamento. Il progressivo svuotarsi della tutela consente l’espandersi dell’arbitrio del livello politico. E una parte dei funzionari rinuncia volentieri alla propria autonomia, genuflettendosi alla politica e ottenendo così una rapida carriera da yes-men.

Questa fatale deriva è esattamente ciò di cui si dovrebbe occupare il Consiglio superiore. Perché affidare l’Archivio centrale a un non archivista che si è prestato a una aggressiva campagna neofascista, significa privare quel cruciale istituto di ogni autorevolezza scientifica, e dunque renderlo un docile strumento della politica. Mentre l’unica garanzia che la verità storica non venga occultata o manipolata, sarebbe un soprintendente tecnicamente indiscutibile, culturalmente autorevole e indipendente dalla politica.

Ho inutilmente chiesto che il Consiglio condividesse la reazione delle associazioni alla nomina, stigmatizzando il mancato ascolto da parte del ministro. La risposta del presidente, il professor Marco D’Alberti (da qualche mese divenuto consigliere giuridico del presidente del Consiglio Draghi) è stata che “qualunque ulteriore presa di posizione del collegio sarebbe inopportuna e istituzionalmente impropria”. Così il Consiglio continuerà a fare nomine in organi purtroppo inutili (consigli scientifici e Cda dei musei autonomi soggetti all’arbitrio dei super direttori), ad approvare finanziatissimi progetti speciali dei quali non riceve adeguata documentazione, e a tenersi accuratamente lontano dai problemi veri. Clamoroso il caso del Pnrr e della conseguente istituzione di una Soprintendenza speciale: ci è stato consentito di parlarne solo dopo che il Consiglio dei ministri aveva preso la decisione. E allora qual è il ruolo del Consiglio nel governo del patrimonio?

Dimettendosene, il 28 maggio 1960, Ranuccio Bianchi Bandinelli scriveva che “il Consiglio Superiore non è tenuto quale organo attraverso il quale alcuni competenti specialisti sono chiamati ad affiancare e orientare le direttive ministeriali, ma piuttosto come strumento per avallare e coprire decisioni già prese, spesso provocate da pressioni che possono dirsi politiche solo nel senso deteriore del termine, cioè del tutto particolaristico e clientelistico”. È ancora così: e se quelle decisioni rappresentano un’apertura al revisionismo fascista, è il momento di dare l’allarme. Non lascio il posto di combattimento: lascio un Consiglio superiore reso inutile, ma resto nel Comitato tecnico scientifico delle Belle Arti, presidio di tutela dell’interesse generale.

In Assemblea Costituente, Concetto Marchesi spiegò quale fosse la colpa degli intellettuali fattisi zona grigia intorno all’avanzata del fascismo: “Perché è avvenuto tutto questo? Per mancanza di capacità e di cultura? No: per mancanza di coscienza civile. È avvenuto … perché si trattava di una scienza, di una cultura, di un’arte interessata, e quindi destinata a volgersi verso tutti gli approdi sotto la spinta di ogni vento”. Per la piccola parte che dipende da me, la storia non deve ripetersi.

 

“Scippi” nel Cda Calvosa e Pavone: noi del Fatto non piazziamo nessuno

Caro direttore, ho letto su vari siti di giornali, di destra e non, che la candidatura della vostra consigliera di amministrazione Layla Pavone a sindaco di Milano per il MoVimento 5 Stelle è il suo secondo “blitz”, dopo il passaggio di Lucia Calvosa (altra ex del vostro Cda) alla presidenza dell’Eni, per aumentare l’influenza de “il Fatto quotidiano” nella politica e nelle istituzioni, d’intesa con Giuseppe Conte. Ho cercato sul “Fatto” una sua replica a queste accuse, ma non l’ho trovata. Perché?

Gianna Manzoni

 

Cara Gianna, a parte il rischio – segnalato da Arthur Bloch – che corre chi si mette a discutere con gli idioti, e cioè quello che poi la gente non noti la differenza, non ho finora risposto a quelle baggianate per due motivi: perché mi veniva da ridere e perché mi pareva che nel mondo accadessero cose un tantino più importanti di questa. Ma, siccome oltre a lei alcuni altri lettori mi hanno chiesto lumi, rispondo volentieri a voi. Layla Pavone è entrata nella famiglia del “Fatto” grazie a Peter Gomez che, in quanto direttore del nostro sito, apprezzava le sue doti di manager nel mondo del web e delle start-up. Io l’ho conosciuta poco (tre o quattro incontri di sfuggita), ma chi ci ha lavorato me ne ha sempre detto un gran bene. Per questo è entrata a far parte del Cda di Seif come consigliere indipendente (non era fra i nostri azionisti e non ne rappresentava nessuno). Esattamente come Lucia Calvosa, altra fuoriclasse del diritto societario. Due donne competenti e oneste che i 5Stelle ci hanno “rubato”, Lucia per la presidenza Eni, Layla per le Comunali a Milano. In entrambi i casi tutti hanno scritto che le avrei “piazzate” io per non si sa bene quali motivi. È vero esattamente l’opposto: ho sperato che entrambe rifiutassero. Invece hanno accettato, le abbiamo perse (le loro dimissioni erano doverose) e siamo stati costretti a sostituirle in fretta e furia. Compito non facile, essendo arduo trovare consigliere indipendenti degli standard etici e professionali richiesti dalla nostra azienda. E per fortuna le abbiamo trovate. Che il M5S cerchi gente competente e onesta va a suo onore. Ma mi auguro che in futuro la trovi fuori dal Fatto, perché noi da questi “scippi” abbiamo tutto da perdere. Che io e/o il Fatto ci guadagniamo qualcosa dalla nomina della Calvosa all’Eni o dall’ingresso della Pavone in politica, può pensarlo solo un branco di squilibrati. Infatti è quello che hanno scritto o lasciato intendere tutti i media che se ne sono occupati.

Marco Travaglio