Green pass e mense, il governo se la cava ancora con le “Faq”

Due panini, prosciutto a scelta, carne in scatola e fruttino. Questo è il pasto freddo che ieri, nel giorno della ripartenza del lavoro in molte aziende italiane, è stato fornito ai lavoratori di Leonardo che non hanno il green pass. Scelta considerata dalla Fiom-Cgil “inaccettabile, oltre che indicatore di un pressapochismo imbarazzante”. Poi ci sono le foto che ritraggono una manciata di poliziotti all’esterno di un edificio mentre consumano un pasto con i vassoi appoggiati su un muretto o sulle gambe. Ma c’è anche lo scatto che ha immortalato una decina di addetti dell’Ikea di Piacenza che hanno pranzato a terra fuori dal magazzino. “Molti di loro – spiega il segretario Fit-Cisl di Piacenza Salvatore Buono – sono stranieri e magari poco informati dell’obbligo del green pass per accedere alle mense aziendali. Abbiamo chiesto un incontro con l’azienda che ci è stato negato”. Ikea ha chiaramente spiegato che non c’è nulla su cui trattare: hanno solo recepito le norme imposte dal governo con una Faq pubblicata lo scorso 14 agosto. Il chiarimento è arrivato dopo oltre una settimana dall’entrata in vigore dalle nuove regole sul green pass del 6 agosto. Ma da allora si continua a discutere sul considerare le mense aziendali al pari o meno dei ristoranti per i quali è stato, invece, espressamente previsto l’obbligo della certificazione verde al chiuso. Soprattutto perché l’obbligo è sostenuto da una Faq e non da una norma.

Insomma, una misura molto controversa che continua a essere osteggiata dai sindacati che la considerano “punitiva”. Esattamente lo stesso aggettivo utilizzato dal presidente di Confindustria, Carlo Bonomi per etichettare invece il decreto sulle delocalizzazioni che stanno preparando il ministro del Lavoro e la viceministra dello Sviluppo Alessandra Todde. Ma, mentre il numero 1 degli industriali critica mezzo governo per la nuova legge sulla responsabilità delle aziende che delocalizzano, dall’altra parte bacchetta i sindacati, che, a suo dire, “hanno fatto un grande errore” sulle misure di sicurezza per la ripartenza delle imprese. La questione del green pass è stata affrontata con toni molto duri dal segretario della Cgil, Maurizio Landini, che si è detto “non contrario a un obbligo generale della certificazione per tutti i lavoratori”, ma di non condividere l’idea di introdurlo per le mense che sono un luogo di lavoro, dove l’obbligo non è stato ancora imposto. La linea dei sindacati è univoca: vorrebbero che il governo introducesse per legge l’obbligo del pass in mensa e che non fosse stabilito da una Faq.

Un problema che ha dato vita a un evidente paradosso: si può dividere la scrivania o una parte della catena di montaggio per 8 ore con un collega, ma non ci si può mangiare insieme. “C’è il rischio di tensioni inutili, che vogliono evitare sia i lavoratori sia le aziende”, ha spiegato la Fim-Cisl che è stata tra le prime sigle a battagliare contro l’esclusione dalla mensa dei lavoratori senza green pass.

Così, se in diverse grandi aziende hanno già cominciato ad attrezzarsi per l’allestimento di aree dedicate alla distribuzione dei pasti caldi per chi è ancora sprovvisto della certificazioni, le banche stanno iniziando a stabilire singolarmente norme per l’accesso dei propri dipendenti in mensa, anche se la maggior parte lavora in filiale o è ancora in smart working. Una scappatoia non da poco per evitare le rivolte dei sindacati. Intanto la politica tace. Solo Matteo Salvini, sulla linea dei sindacati, si è detto contrario alla certificazione verde per mangiare nella mensa aziendale. Punti di incontro strani quelli che crea il green pass.

Tamponi a scuola, sindacati alla guerra: “Gratuiti per tutti”

Non solo i docenti: la grossa incognita della ripartenza a scuola è anche il personale amministrativo: alle 9.30 di oggi si saprà se il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi avrà trovato una quadra con i sindacati. Ieri, il segretario nazionale della Uil scuola ha rivolto al ministro un ultimatum: “Se domani rileveremo che mancano le condizioni per aprire le scuole in sicurezza e presenza, ci riserviamo di ritirare la firma dal Protocollo” ha detto riferendosi ovviamente all’intesa per l’avvio dell’anno scolastico raggiunta prima di Ferragosto. Secondo il sindacalista, il ministro Bianchi “attaccato dai sì vax” avrebbe “unilateralmente” inserito “una procedura che non esiste”, di fatto riservando il tampone gratuito “che era previsto per tutti” al solo personale fragile, e quindi esentato regolarmente dal vaccino per questioni di salute.

Le sigle lamentano anche la mancanza di dati precisi sul numero dei vaccinati tra il personale scolastico. Era, dice Turi, una condizione preliminare per l’accordo, visto che sono considerati “indispensabili in un protocollo serio”. Qui subentra un problema più complesso. I dati certi, ovvero quelli che abbracciano l’intera platea dei docenti e del personale Ata, devono arrivare dalle Regioni alla struttura commissariale del generale Figliuolo, visto che devono conteggiare anche il personale che si è vaccinato attendendo il proprio turno anagrafico e quindi non attraverso il canale preferenziale riservato ai docenti. Il termine per l’invio era fissato il 20 agosto. L’ultimo dato disponibile è il report del commissario che parla di circa 186 mila senza neanche una dose.

Una delle richieste dei rappresentanti dei lavoratori è che sia assicurata la gratuità del tampone per tutti, tanto più in assenza di una legge che renda la vaccinazione obbligatoria e che sarebbe vista come una mancata assunzione di responsabilità da parte del Governo. “Invece assistiamo alla punizione di un gruppo e non altri attraverso le minacce di non pagamento dello stipendio e misure surrettizie. Lo Stato – conclude Turi – sta scaricando le proprie responsabilità sui lavoratori. Non è ammissibile”. Sul punto, però, il ministro non pare essere disposto a cedere.

Domenica, al meeting di Comunione e Liberazione, aveva ribadito che ci sarebbe stata una sospensione per i docenti e i dipendenti privi di green pass e ieri alla stessa platea il ministro della Salute Roberto Speranza ha risposto alle osservazioni delle sigle dicendo che una norma esiste già, “una legge vigente che va fatta rispettare”, ha detto riferendosi al decreto legge che impone il certificato a tutto il personale scolastico.

Intanto i due ministeri hanno avviato una serie di incontri per capire come organizzare la gestione pratica del green pass e anche per chiedere al Garante della privacy se sia possibile redigere e comunicare alle scuole degli elenchi che contengano almeno i nominativi di chi ha un green pass di lunga durata, quindi quello vaccinale che dura 9 mesi.

Come una slavina pronta ad abbattersi sull’avvio dell’anno scolastico, infatti, Bianchi dovrà presto affrontare anche il nervosismo dei presidi che ritengono manchi una direttiva adeguata per le scuole. Diversi i punti di critica: il primo riguarda proprio la difficoltà del dover controllare la validità del certificato per ogni docente. Una delle idee a cui si lavora al ministero prevede anche la realizzazione di una piattaforma che possa permettere di evitare le app di verifica del green pass, quelle che creerebbero i colli di bottiglia in entrata e un ulteriore aggravio di lavoro per il personale. Resta il problema dei docenti che saranno nominati a ridosso dell’anno scolastico e quello dei 5 giorni di assenza oltre i quali scatta la sospensione per docenti e personale Ata privi di green pass: le supplenze fino al rientro del titolare (per le quali sono stati stanziati 358 milioni di euro) si portano dietro alcune incognite, tra cui la difficoltà a farle accettare. Su questo, però, potrebbero essere d’aiuto le folte graduatorie provinciali.

Terza dose ai più fragili, in arrivo la circolare Pfizer, ok definitivo in Usa

Al ministero della Salute si prepara la circolare che prevede la terza dose di vaccino anti-Covid 19 per alcune categorie di persone particolarmente fragili dal punto di vista immunitario. Dovrebbe trattarsi di trapiantati, dializzati e pazienti oncologici sottoposti a chemioterapia, circa 6/700 mila persone secondo le stime che si fanno al ministero. Ma non è affatto detto che la terza dose tocchi solo a loro, dovrà occuparsene anche il Comitato tecnico scientifico. E intanto è in dirittura d’arrivo il provvedimento che prevede la vaccinazione monodose Johnson & Johnson per migranti stagionali e popolazioni “non stanziali”, già approvata dal Cts ma da giugno in attesa dell’ok dei comitati etici.

Alla Salute sono molto colpiti dai dati di uno studio non ancora pubblicato sulle vaccinazioni in Israele, dove hanno iniziato a inoculare le terze dosi agli over 50. “I vaccinati di aprile risultano notevolmente più protetti di quelli di gennaio”, spiega il sottosegretario Pierpaolo Sileri. E anche in Italia, dove il green pass per i vaccinati dura nove mesi, le prime iniezioni risalgono a fine dicembre/inizio gennaio per il personale sanitario, a febbraio per le fasce d’età più alte. Insomma, ci siamo quasi. Il tema dev’essere affrontato, tanto più che negli Stati Uniti la Food and drug administration ha dato ieri l’autorizzazione definitiva a Pfizer (fin qui, come sappiamo, era solo provvisoria).

Proprio ieri si è avuta notizia della morte di un infermiere di 63 anni, che era appena andato in pensione da un’azienda sanitaria di Napoli e ha preso il Covid in Sardegna nonostante le due dosi di vaccino, ricevute all’inizio della campagna. L’ultimo report dell’Istituto superiore di sanità dice che in 30 giorni ci sono stati 6 decessi di persone vaccinate tra i 60 e i 69 anni. Ma Antonio De Palma, segretario del sindacato degli infermieri Nursing Up, dice che “questa statistica non basta, di fronte alle varianti e ai casi di reinfezione e infezione di vaccinati è necessario uno screening costante del personale sanitario esposto al contagio, le risposte immunitarie sono soggettive e le aziende ne devono tenere conto nell’organizzazione del lavoro”. Cioè esporre meno chi ha una risposta anticorpale relativamente bassa. Ma il ministero non si fida dei test sierologici. E del resto a Padova si è registrato un caso di media gravità in una lavoratrice della sanità che aveva un titolo anticorpale relativamente alto, sopra le 1.600 unità. Lì, probabilmente, la terza dose non sarebbe servita.

Dice il professor Andrea Crisanti, che a Padova dirige il laboratorio di Microbiologia: “Non si sa bene se la vaccinazione sta perdendo effetto perché magari il livello di anticorpi diminuisce oppure perché le nuove varianti, di fatto, sono parzialmente resistenti al vaccino. Questo è un aspetto che dovrà essere prima o poi chiarito, e penso che l’esperienza di Israele ce lo dirà, perché se in Israele, nonostante la terza dose, le persone fragili e anziane continuano ad ammalarsi, è chiaro che questo vaccino non è in grado proteggerle bene, e allora non le proteggerà neanche la quarta e quinta dose: diventa più urgente probabilmente aggiornare i vaccini, piuttosto che fare terze, quarte e quinte dosi”. E naturalmente Crisanti insiste su sorveglianza e tamponi, uno dei punti deboli del nostro Paese come vedremo nelle prossime settimane con i contagi legati alla riapertura delle scuole e di altre attività: “I vaccini da soli non bastano”, ripete il professore dell’università di Padova. Ma intanto, da Israele, il ministero della Sanità ha già anticipato ieri che la terza dose ha migliorato “in maniera significativa” la protezione dall’infezione da Covid e dalla malattia grave tra gli over 60. Secondo le statistiche dell’Istituto Gertner e del Ki, tra le persone che hanno più di 60 anni, la protezione contro l’infezione a 10 giorni dalla terza dose è stata di 4 volte più alta rispetto alle due dosi e garantirebbe una protezione 10 volte maggiore contro la malattia grave e ospedalizzazione.

Altri problemi li pone il professor Massimo Galli dell’ospedale Sacco di Milano. Riguardano le vaccinazioni delle persone guarite dal Covid: “Docente con probabile Covid in ottobre, contatto positivo in famiglia e con sintomi, marcata reazione avversa vaccinale due mesi fa e risposta anticorpale documentata. Non gli viene riconosciuta immunità se non fa la seconda dose, che ritengo inutile e non priva di rischi”. Purtroppo non è l’unica contraddizione delle regole su vaccini e green pass.

Altro giro, altra corsa al Colle. Ma uscirà ancora cardinale

Montecitorio, interno giorno, una scena fantastica del Divo di Sorrentino. Parla “lo squalo” Vittorio Sbardella, piegato verso l’orecchio di un collega democristiano: “Guarda Andreotti adesso, ma guardalo bene”. I loro occhi, come la telecamera, sono fissi su Andreotti/Servillo: immobile, impassibile, una statua di sale tra i banchi del governo. “È il momento che aspetta da tutta la vita”, sussurra Sbardella.

Si risolve con una sconfitta umiliante: Oscar Luigi Scalfaro viene proclamato presidente della Repubblica. Andreotti assiste al proprio fallimento senza tradire un’emozione, si alza in piedi e applaude composto il nuovo capo dello Stato. Sbardella, col suo ghigno cattivo, sentenzia: “Guardalo e impara come si sta al mondo”.

Nel film l’identità del parlamentare Dc che raccoglie la lezione di vita dello squalo non è chiara. Sappiamo però che nel 1992, al momento dell’elezione di Scalfaro, Pier Ferdinando Casini aveva appena iniziato la sua terza di molte legislature. Poteva essere proprio lui il novizio democristiano che imparava la politica dall’esempio dei maestri. Perché non c’è dubbio: Casini al mondo ci sa stare.

Proprio come l’Andreotti del Divo, anche lui sembra ciclicamente destinato al Quirinale. Ci spera e ci lavora da tempo. Già cinque anni fa era tra i cardinali più accreditati all’inizio del conclave. Gianfranco Rotondi – un’enciclopedia vivente di storia politica italiana – racconta questa telefonata di Berlusconi: “Silvio mi disse che aveva dato l’ok a Renzi per andare su Casini. Gli dissi che l’avrei votato con entusiasmo”. Poi l’asse s’incrinò, Renzi giocò la partita Quirinale per conto suo e alla fine dal conclave uscì papa Sergio Mattarella.

Ora che inizia un altro giro, Casini è di nuovo in corsa. Andrebbe seguito pure lui con una telecamera dedicata, mentre si muove felpato nelle stanze parlamentari. Con gli stessi occhi con cui Sbardella osserva Andreotti: guardalo Casini, guarda come sorride a tutti, guarda che signore elegante, un pavone brizzolato nell’emiciclo; ascolta l’equilibrio delle sue parole, la retorica parlamentare che scorre come un fiume secolare: guarda quanto mestiere.

Lui della politica ha conosciuto tutto tranne il potere vero. Mai ministro, mai sottosegretario. Una circostanza che ha spiegato così, in una bella intervista a Concetto Vecchio su Repubblica (16 ottobre 2019): “Non ho fatto il ministro perché mi sento uomo delle istituzioni”. E ancora: “Il potere è il telefono che squilla. Ma è anche un’illusione ottica. Tutto finisce in cenere”.

Mai al governo dunque, ma una lunga, lunghissima, eterna carriera parlamentare, con l’orpello della presidenza della Camera tra il 2001 e il 2006. Quella iniziata tre anni fa è la sua decima legislatura consecutiva: viene eletto ininterrottamente dal 1983. All’epoca aveva 27 anni, a 24 aveva esordito da consigliere comunale nella sua Bologna.

Sempre in mezzo, sempre al centro, sempre con almeno un paio di forni in cui far lievitare il pane: ha frequentato per lo più quello del centrodestra, negli anni ruggenti del berlusconismo, ma col Cavaliere il rapporto ha vissuto di alti e bassi. Ha sempre mantenuto buoni rapporti con tutti. E alla fine – capolavoro di perversione – è riuscito a farsi eleggere nel collegio rosso di Bologna come candidato uninominale del Pd. L’ultima beffa di Renzi all’odiata Ditta: ha portato Casini a mangiare lo gnocco fritto alla Casa del Popolo; un democristiano a profanare un territorio sacro.

Dunque l’obliquo Pier Ferdy crede di nuovo nel Colle, “il momento che aspetta da tutta la vita”. Anche stavolta è Renzi il cavallo su cui ha messo la sella: “Nella corsa al Quirinale gli ex presidenti di Camera o Senato sono tutti candidati naturali. Anche Casini, certo, ha le caratteristiche che lo rendono adatto al ruolo”, ha detto il leader di Italia Viva. Con un’aggiunta maliziosa: “Ma non è l’unico, anzi”. Per Casini a ben vedere è un doppio problema. Primo: l’endorsement di Renzi non è che sia proprio il più luminoso dei fregi; non si può dire che attiri le simpatie trasversali di cui bisogna godere per vincere la maratona del Quirinale. Secondo: il suo nome è uscito troppo presto, e quando un nome esce troppo presto di solito è per farlo bruciare. Ci affidiamo ancora alla saggezza di Rotondi. “Ci sono due strade per arrivare alla presidenza della Repubblica: il metodo Cossiga e il metodo Leone. Nel primo caso ci si mette d’accordo tutti insieme su un uomo al di sopra delle parti e lo si fa passare alla prima chiama” (quando servono i due terzi dei voti). Nel secondo caso si fa un presidente ‘di parte’. Lo sceglie la maggioranza assoluta dal quarto scrutinio in poi”. E nella fattispecie? “Col metodo Cossiga si elegge Mario Draghi, a meno che non resti a Palazzo Chigi. Col metodo Leone decide il centrodestra, e noi vogliamo Berlusconi”. Al Cavaliere, ammesso che Salvini e Meloni puntino su di lui, mancherebbero 55 voti. “Li trova senza nemmeno dover alzare il telefono”, garantisce Rotondi. E Casini? “Può essere un’alternativa a Draghi, ma Renzi l’ha messo in mezzo troppo presto. Se entra papa, esce cardinale”. Sarebbe la seconda volta, che beffa per un democristiano.

Draghi convoca Salvini, però non gli dice nulla su Durigon

Hanno parlato di tutto ma non del caso che da settimane imbarazza il governo. Afghanistan, riforma della giustizia, il taglio delle tasse, gli sbarchi. Perfino degli incendi. Ma non del caso Durigon. Anzi, assicura Matteo Salvini: “Non ho mai parlato di Durigon con Mario Draghi, non credo che tra le sue priorità ci siano i parchi di Latina”. Insomma, non solo il leader della Lega e il premier non ne hanno parlato nel vertice di ieri mattina a Palazzo Chigi, ma il tema non è mai stato affrontato da quando, era il 4 agosto, è scoppiato lo scandalo del sottosegretario leghista all’Economia che ha proposto di reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini (fratello del duce) invece che a Falcone e Borsellino. L’ennesima conferma del fatto che, al momento, il premier Draghi non ha alcuna intenzione di scaricare Durigon e che aspetterà la mozione di sfiducia di Pd, M5S e LeU per muoversi. Una volta calendarizzata, Draghi e il ministro dell’Economia Daniele Franco potrebbero mettere in atto una moral suasion per convincere Durigon a lasciare. Ma prima di allora, non succederà niente.

Eppurel’imprevisto faccia a faccia di ieri mattina all’ora di pranzo aveva destato qualche sospetto. Salvini si era presentato alle 11.30 a Casale Caletto, periferia est di Roma, per una visita elettorale nel quartiere con il candidato sindaco del centrodestra Enrico Michetti e i maggiorenti della Lega della Capitale tra cui Barbara Saltamartini, Roberto Santoro, Maurizio Politi e Fabrizio Santori. Unico assente proprio Durigon, coordinatore regionale del Lazio, e vero deus ex machina delle candidature leghiste alle Comunali di Roma: fino a inizio agosto aveva presenziato a tutti i comizi e agli eventi elettorali più importanti di Michetti ma, dopo la polemica sul parco di Latina, Durigon ha deciso di non farsi più vedere per non esporsi alle domande dei giornalisti. “Durigon? Con lui stiamo lavorando alla nuova riforma delle pensioni. Fortunatamente fascismo e comunismo sono stati sconfitti dalla storia e nessuno ne ha nostalgia” ha commentato Salvini. Durante l’evento, da Palazzo Chigi è arrivata la richiesta di un faccia a faccia con Salvini. Poco più di venti minuti in tutto con il leader del Carroccio che, in maniera piuttosto inusuale, ha deciso di non rilasciare dichiarazioni alla stampa. Ma durante il vertice non si è parlato né del caso Durigon, né di Luciana Lamorgese, il ministro dell’Interno messo nel mirino dalla Lega per la gestione degli sbarchi e per il rave di Viterbo sgomberato dalle forze dell’ordine solo dopo una settimana. Ma, fanno sapere dalla Lega, Salvini ha espresso comunque “grande preoccupazione” per gli sbarchi e per il potenziale rischio terrorismo come effetto della crisi afghana. Da Palazzo Chigi la nota post-vertice invece è stringata: “Nel corso del colloquio s ono stati affrontati i temi legati alla ripresa dell’attività di governo”. Su Durigon nemmeno una parola. Ieri pomeriggio poi Draghi ha visto anche il vice di Salvini, Giancarlo Giorgetti.

Il silenzio di Draghi provoca la pronta reazione di Pd e M5S che rimettono sul tavolo la minaccia della mozione di “censura” nei confronti di Durigon. “La stiamo preparando e la presenteremo a inizio settembre – dice al Fatto il dem Enrico Borghi – sull’antifascismo e l’antimafia non ci possono essere dubbi e le parole di Durigon sono incompatibili con la sua posizione da sottosegretario. Il caso Durigon rischia di danneggiare la credibilità del governo Draghi e quindi ci stiamo muovendo per evitare che questo accada”. Poi la frecciata a Salvini: “Se pensa di sfruttare la diversa agenda spostando l’attenzione sull’Afghanistan, si sbaglia. Noi andremo fino in fondo”. Salvini risponde: “Non sono preoccupato, votino pure la mozione. Pd e M5S creano solo problemi al governo”. Ma poi attacca Lamorgese: “Non sta svolgendo il suo ruolo e a dirlo sono i numeri. Venga in Parlamento”. Giorgia Meloni gli dà manforte annunciando una mozione di sfiducia e nella Lega non si esclude di poterla votare. Solo una minaccia che serve anche a mettere sulle spine Draghi e i giallorosa. Come dire: guai a chi tocca Durigon.

L’Italia promuova la fine del business dell’oppio

Caro presidente Draghi, caro ministro Di Maio, mi auguro che l’incerta qualità dell’informazione italiana sull’Afghanistan non limiti il vostro spazio d’azione nel necessario negoziato con il nuovo governo di Kabul. Va misurata la credibilità delle posizioni di apertura verso la comunità internazionale assunte dai Talebani. I test sono noti: amnistia, non violenza, diritti delle donne, elezioni, governo inclusivo, droga.

A questo proposito, penso di possedere le credenziali per potervi suggerire una concreta linea di azione sulla minaccia più grave che proviene dall’Afghanistan. Che non è il terrorismo, ma l’eroina che deriva al 90% dal papavero da oppio coltivato in quel Paese, e che distrugge salute e diritti di 200 mila italiani e di un milione e mezzo di europei.

Mi sono occupato dell’Afghanistan in più occasioni lungo gli ultimi ventiquattro anni, e sono autore della strategia dell’Unione europea per l’Afghanistan approvata dal Parlamento europeo nel 2010, centrata su una soluzione non militare della crisi, e ignorata purtroppo dal resto delle istituzioni comunitarie negli anni posteriori.

Ma ancora prima, durante il mio mandato di direttore esecutivo del Programma antidroga dell’Onu, avevo ottenuto in Afghanistan un risultato non marginale, costringendo i Talebani a proibire la coltivazione del papavero da oppio in un primo tempo, e ad azzerarla quasi del tutto nella primavera-estate del 2001. Sono stato aiutato in ciò da alcune Risoluzioni del Consiglio di sicurezza adottate su nostro impulso, e da un serrato contatto dei miei funzionari sul campo con la leadership talebana dell’epoca.

L’invasione dell’ottobre 2001 e il successivo, nefasto accordo tra la maggiore potenza occupante e i signori della guerra nemici dei Talebani, impedirono di consolidare il risultato di pochi mesi prima, e le coltivazioni illecite sono riprese in grande stile fino a oggi. Il mio suggerimento è il seguente. L’Italia potrebbe diventare capofila di una proposta al nuovo esecutivo afghano di ripetere l’eliminazione della produzione di oppio conseguita nel 2001. L’iniziativa italiana potrebbe articolarsi intorno a tre snodi: la predisposizione di un piano di azzeramento della coltivazione del papavero da elaborare nei prossimi mesi, quelli della semina della pianta, in modo da ridurre al minimo la quantità di estirpazione richiesta al momento del raccolto illecito, nella primavera-estate dell’anno prossimo; il piano deve basarsi sullo sviluppo di produzioni alternative all’oppio, escludendo l’uso di mezzi aerei di defoliazione e forme di coercizione fisica dei coltivatori.

La preparazione e l’attuazione del progetto sull’oppio non devono essere diluite entro politiche più generali di sviluppo agricolo del Paese, e devono avvenire sotto la supervisione di una apposita agenzia nazionale, dotata di fondi sia propri che provenienti da Paesi donatori.

Caro presidente e caro ministro, credo che le chances di successo di questa proposta siano considerevoli. Non date ascolto ai deliri mediatici sul tema. L’eroina è un grande business per i trafficanti – in ordine decrescente di fatturato – europei, turchi, iraniani e afghani. Il suo fatturato in Europa è di dieci miliardi di euro.

Non lo è affatto per i coltivatori della materia prima. E neppure per i Talebani, che tassano la produzione di oppio al 10%. L’intero valore farmgate della produzione di oppio in Afghanistan è accuratamente determinato ogni anno da un apposito survey Onu finanziato anche dall’Italia. Nel 2020 è stato di soli 350 milioni di dollari.

I proventi affluiti ai Talebani, perciò, sono sempre stati di modesta entità, e nel 2020 si sono aggirati intorno ai 35-40 milioni di dollari. Pari a circa l’8% del totale delle loro entrate, che provengono in massima parte, quindi, da altre fonti. L’oppio non rappresenta perciò una fonte essenziale per la sopravvivenza né dei Talebani come movimento, né per quella di un governo il cui budget minimo è stimato consistere in 8-9 miliardi di dollari.

Se i Talebani al governo potevano permettersi di eliminare l’oppio nel 2001, quando esso valeva il 3,7% del Pil afghano, è tanto più agevole ripetere l’operazione oggi, con l’oppio all’1,75%.

 

I “talebani” amici nostri dal golfo al Maghreb

Nel 1981, presso la sede del- l’Unesco, a Parigi, venne redatta la Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo. Con questa Carta si intendeva controbilanciare, se non sconfessare, la Dichiarazione Universale dei Diritti del- l’Uomo perché non prendeva in considerazione i dettami del Corano sull’argomento. In tutti i paesi del Golfo, che ora esamineremo, l’omosessualità è vietata e punita con il carcere o con la pena di morte.

Arabia Saudita È il regno della famiglia Saud a esercitare le peggiori violazioni dei diritti umani tra cui il divieto di convertirsi a un’altra religione. L’apostasia viene punita con la pena capitale così come la blasfemia. Anche l’adulterio può finire con l’esecuzione delle donne che lo hanno commesso. Il taglio della testa con la spada è previsto anche per i trafficanti di droga e per chi viene accusato di “stregoneria”. Il taglio delle mani è ancora praticato per i ladri. Sono le donne, in generale, però a venire private della maggior parte dei diritti come lavorare, guidare, uscire da sole.

Essere visitate da un medico è un problema e richiede procedure che mantengano il corpo della donna il più coperto possibile. Per chi protesta è prevista la carcerazione. Dietro le sbarre si pratica la tortura come testimoniato da alcune donne finite in cella per aver osato guidare. Il cadavere di chi è stato decapitato per eversione o terrorismo spesso viene crocifisso ed esposto come monito. Il giovane reggente Mohamed bin Salman è stato il mandante del raccapricciante omicidio del giornalista dissidente Khashoggi. Ma i suoi rapporti con l’Occidente non sono mutati.

Bahrain La classifica dello scorso anno di Reporters Sans Frontières ha assegnato allo sceicco di questo regno satellite dell’Arabia Saudita lo scettro di “predatore della libertà di stampa”. La pubblicazione di al-Wasat, l’unico quotidiano non legato al regime, è stata sospesa nel 2017. Il giornale si trovava nel mirino del regime già dal 2011, anno in cui l’intelligence aveva torturato a morte il co-fondatore Karim Fakhrawi. A oggi, le carceri bahreinite ospitano almeno undici giornalisti, accusati principalmente di diffusione di notizie false. Il 2017 ha anche segnato il ritorno dell’applicazione della condanna a morte. Da anni inoltre è in atto una vera e propria persecuzione con esecuzioni sommarie dei cittadini musulmani di confessione sciita.

Kuwait Le donne immigrate per lavorare come collaboratrici domestiche vengono sottoposte ad abusi di ogni sorta che non vengono puniti.

Oman È il paese meno vincolante sotto il profilo religioso ma anche qui non vi è libertà di stampa.

Qatar Si basa su una forza lavoro composta al 95% da stranieri il cui trattamento disumano è emerso in seguito all’assegnazione dei Mondiali di calcio del 2022

Emirati Arabi Uniti Un rapporto di due anni fa delle Nazioni Unite ha denunciato costanti violazioni dei diritti umani come la tortura dei carcerati, sparizioni forzate, sfruttamento dei lavoratori stranieri, soppressione della libertà di espressione e l’ingerenza delle autorità e dei servizi di sicurezza sul sistema giudiziario. L’Onu ha esortato più volte gli Emirati Arabi Uniti ad abrogare il sistema della Kafala che obbliga i lavoratori stranieri a ottenere il consenso del datore di lavoro per viaggiare all’estero o cambiare lavoro. È comune anche la confisca dei passaporti, l’imprigionamento e la negazione dei salari.

Nord Africa Il blocco dei paesi nordafricani comprende il Marocco, la Tunisia, la Libia e l’Egitto. Anche in questi paesi il comune denominatore è il divieto e la punizione dell’omosessualità. Persino nei paesi che hanno costumi più simili a quelle dei paesi occidentali, sono punite severamente con il carcere la blasfemia e l’apostasia. Anche la libertà di stampa è di fatto inesistente. Il regime egiziano guidato dal presidente al-Sisi è il più spietato come purtroppo è stato dimostrato dall’uso della tortura fino alla morte come nel caso di Giulio Regeni.

Pakistan La crescente politicizzazione delle leggi sulla blasfemia e sull’apostasia sta rendendo questo grande paese asiatico un inferno per le minoranze religiose e persino per i bambini. Recentemente un bambino di 8 anni di famiglia induista è stato arrestato per avere urinato senza intenzione sul tappeto di una moschea.

Turchia Durante questi ultimi vent’anni l’oasi laica creata da Mustafa Kemal Ataturk cento anni fa si è trasformata di fatto in una autocrazia che reprime brutalmente anche con l’ergastolo i giornalisti.

Iran La potenza regionale sciita guidata dagli ayatollah continua a discriminare le donne e punisce con la pena di morte per impiccagione coloro che reagiscono per autodifesa ai propri aguzzini e stupratori. Le donne tuttavia possono guidare, studiare e frequentare luoghi pubblici purché non si mischino con gli uomini. Anche qui la libertà di stampa è una chimera. L’Occidente, Italia compresa, con questi paesi non ha mai interrotto i rapporti commerciali. Roma continua ad avere scambi proficui anche con il Cairo nonostante l’omicidio Regeni e la carcerazione di Zaki.

Biden si gioca il mandato e già crolla nei sondaggi

Assediato dalle critiche, attaccato dai repubblicani e messo sotto torchio dai democratici, Joe Biden cerca di riscattarsi dal torpore con cui ha reagito alla presa di potere drammatica dei talebani, dopo il precipitoso ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan. A dargli una mano, c’è la relazione, che resta privilegiata, accada quel che accada, tra Stati Uniti e Gran Bretagna: il premier britannico Boris Johnson, oggi, da presidente di turno del vertice straordinario del G7, gli chiederà di fare slittare il ritiro delle truppe che restano a Kabul oltre il 31 agosto, perché l’evacuazione possa essere completata. È quel che Biden vuole, anche se i talebani mettono paletti. Anche se il ponte aereo ha già portato fuori dall’Afghanistan oltre 30 mila persone, restano da evacuare decine di migliaia di americani – “un numero fluido”: nessuno lo sa con precisione – e le eventuali estensioni della deadline e del perimetro di sicurezza dell’aeroporto vanno negoziate.

In funzione della trattativa, Biden riesuma l’arma delle sanzioni: è pronto usarle, se i talebani non rispettano i diritti, specie delle donne, e ne parlerà al G7. E Jake Sullivan, il consigliere per la Sicurezza nazionale, indica l’intenzione di illustrare ai talebani quali saranno “i costi o gli incentivi” dei loro comportamenti e quali sono “le aspettative” degli Usa. Per Biden è più dura cavarsela sul fronte interno: l’opinione pubblica Usa era ed è favorevole al ritiro delle truppe dall’Afghanistan, ma non pensava che il ritiro divenisse una Beresina e che vent’anni di guerra svanissero in una ventina di giorni. E la popolarità del presidente scende per la prima volta sotto il 50%, al 46%, dal 61% di aprile. Lui stesso è parso sorpreso dalla piega degli eventi: è tornato a essere lo ‘Sleepy Joe’ dileggiato in campagna elettorale da Trump. Ora, nota la Cnn, sta cercando di offrire “un’immagine più reattiva”: parla tutti i giorni, con discorsi alla Nazione, interviste, conferenze stampa; e accelera l’esodo mobilitando le compagnie aeree civili.

Per i media Usa, è l’ora degli esami di coscienza: sul Washington Post, Ishaan Tharoor osserva che la crisi afghana “mette in rilievo il mutare del ruolo – e pure del peso, ndr – degli Usa nel Mondo”; sul New York Times, Frank Bruni denuncia la “perdurante arroganza” della politica internazionale degli Stati Uniti. La stampa liberal è dura con Biden: non si contesta la decisione di ritirarsi dall’Afghanistan, ma come essa è stata realizzata. Barack Obama, un corresponsabile, resta in silenzio. La stampa di destra non infierisce: Biden ha sbagliato, ma Trump fece l’accordo con i talebani senza rete di sicurezza. Il magnate ex presidente, ovviamente, non se ne fa carico: “Quello che sta accadendo a Kabul – dice – è una vergogna, una macchia enorme”. Biden, che ha vissuto una settimana “straziante”, assicura che la “difficile e dolorosa evacuazione” si sta accelerando, ma ignora quanto tempo ci voglia per completarla. L’operazione è rischiosa: l’Isis – dice l’intelligence – costituisce “una seria minaccia” per la gente assiepata all’aeroporto.

In missione in Asia, la vice di Biden Kamala Harris cerca di rassicurare gli alleati sull’affidabilità degli Usa, che restano – dice – “un leader globale”. Le tensioni rischiano di compromettere la realizzazione delle priorità interne di Biden, che aveva ottenuto l’avallo bipartisan al piano di rilancio dell’economia con investimenti in infrastrutture e che voleva fare passare altri due grossi pacchetti di misure economiche e finanziarie. Ma la politica s’interroga se sia il momento di fare concessioni al presidente.

Draghi delude i fanatici dell’atlantismo: dialogo con Cina, Russia e India

A furia di dire che con i talebani non si tratta, gli Stati Uniti hanno dovuto iniziare proprio ieri la prima trattativa. Dopo l’ultimatum afghano sul rispetto della deadline del 31 agosto per portare le truppe Usa fuori dal paese, a Washington hanno dovuto iniziare a prendere tempo, dare rassicurazioni e ribadire che i primi a essere interessati al rispetto dei tempi sono proprio gli Stati Uniti. Effetto di un ritiro fatto in modo confuso e raffazzonato e, soprattutto, a dispetto di una struttura, l’apparato militar-industriale americano, che di ritiro non voleva proprio sentir parlare.

Ad annunciare che con i talebani si sta discutendo per uno slittamento della data di uscita dal paese è il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, affermando che tra Germania, Stati Uniti, Turchia e talebani sono state avviate discussioni allo scopo di “facilitare un’operazione civile all’aeroporto di Kabul per consentire l’evacuazione delle persone oltre la scadenza del 31 agosto”.

Le trattative, dunque, costituiscono l’unica chance, controversa e contraddittoria, per uscire dalla morsa di questi giorni. I talebani lo sanno e tengono gli occidentali sul filo di lana. A partire dalle partenze da Kabul. I diplomatici competenti del dossier ammettono senza problemi che per lasciare la capitale afghana occorre il placet dei talebani che, in fondo, stanno già dando prova di collaborare. Se Biden può vantare di aver già fatto rientrare circa 12 mila persone e l’Italia 1800 – in proporzione la cifra più alta – è sicuramente perché i dirigenti talebani stanno rispettando i patti previsti dagli accordi di Doha.

Di tutto questo, e forse di più, si discuterà al vertice G7 previsto per oggi convocato da Boris Johnson, presidente di turno. Presumibilmente si discuterà del rientro dei collaboratori, del controllo del terrorismo, del rispetto dei diritti umani, ma soprattutto del modo con cui fare pressione sui talebani. Cioè trattare.

Per prepararsi ieri Draghi ha incontrato a Palazzo Chigi i ministri degli Esteri e della Difesa, Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini, il sottosegretario con delega alla Sicurezza della Repubblica, Franco Gabrielli, e il direttore generale del Dis, Elisabetta Belloni. Ma l’attenzione maggiore il presidente del Consiglio la sta mettendo sulla costruzione dell’agenda per il G20 straordinario da convocare prossimamente. Una priorità che segnala come anche il nostro paese sia ormai sintonizzato su una strategia di diplomazia a tutto campo e di inclusione.

Dare centralità al G20, come ha fortemente sottolineato l’altro ieri Luigi Di Maio intervenendo al Meeting di Rimini, significa dare spazio a Russia, Cina e India, cioè i paesi confinanti, più interessati alle conseguenze e più utili a fare pressioni su Kabul. Ieri, incontrando Draghi, anche Matteo Salvini si è occupato di Afghanistan avanzando la proposta di invitare anche il Pakistan alla riunione dei Venti più grandi e offrendosi, udite udite, di fare da mediatore. Al di là delle boutade l’idea in sé non è sbagliata, nel G20 ci sono anche Arabia saudita e Turchia, paesi utili allo scopo di trovare soluzioni che garantiscano innanzitutto il rispetto dei diritti umani. Ma al di là degli auspici, il punto è che puntando sul G20 l’Italia si mette sulla linea più aperturista. La stessa proposta da Romano Prodi domenica nel suo editoriale sul Messaggero in cui afferma che “il dialogo con i Talebani è un passo obbligato” ed è perciò “positivo lo sforzo che sta facendo Draghi per metterlo nell’agenda di una riunione straordinaria dei G20, dove Cina e Russia siedono insieme agli Stati Uniti, ai Paesi europei, all’India, alla Turchia e all’Arabia Saudita”. “Solo una forte pressione internazionale, fondata su un comune interesse per una stabilizzazione dell’Afghanistan, può in qualche modo evitarne le più drammatiche conseguenze”. Qualcosa del genere aveva detto Giuseppe Conte, ma è stato lapidato. Ora anche Draghi va su questa linea.

I Talebani fan fretta all’Occidente: “Fuori entro il 31”. Usa sull’attenti

Se le truppe americane non diranno addio a Kabul entro il 31 agosto “ci saranno conseguenze”, ha reso noto Suhail Shaheen, portavoce dei talebani. La retorica della linea rossa che si intima di non superare è arrivata fino a laggiù, in Afghanistan: per gli islamici ritardare la data della dipartita per completare le evacuazioni vorrebbe dire “estendere l’occupazione, allora finirà la fiducia e ci sarà una reazione”. Anche Berlino e Parigi chiedono più tempo per le evacuazioni e avviano colloqui. Due minacce ora pendono su Usa e Alleati: la prima è il tempo. Per la mancata proroga talib, rimane cerchiata di rosso la data del 31 agosto per lasciare completamente un Paese dove hanno combattuto per 20 anni. Il secondo rischio per gli statunitensi è quello “reale, acuto, persistente”, – come lo ha definito Jake Sullivan, consigliere sicurezza Usa –, dello Stato islamico, (nemico dei talebani che considera troppo moderati), che starebbe pianificando attacchi sfruttando il caos nella zona dell’aeroporto. Nel mirino truppe straniere e civili afghani. Sarebbe una tragedia a stelle e strisce, ma la prima sconfitta dei talib, che si sono presentati come i nuovi signori dell’ordine, unici a poter restituire una pace duratura a un Paese in guerra.

Mentre bussano di casa in casa per ritirare le armi, i nuovi padroni di Kabul promettono un “ambiente sicuro” per ambasciate e ong. Solo 15 pazienti nelle sale operatorie di Emergency, che ha ricevuto assicurazione di poter continuare a operare. Frustate per i jeans: ad alcuni cittadini pene corporali sono state inflitte perché indossavano abiti “offensivi” per l’Islam. Contro le critiche i talebani rispondono sui social, con post utili per la propaganda come pallottole: è stata promessa la creazione di un comitato per proteggere i media dopo l’attacco ai danni di alcuni reporter. Che non si debbano più temere gli uomini in tunica e kalashnikov lo ha detto il fratello dell’ex presidente Ashraf Ghani, che ha decantato in tv le lodi dei nemici dell’ex capo di Stato fuggito.

Mentre rimangono 20 mila persone in attesa di lasciare Kabul, cambiano i requisiti per lasciare il Paese: voleranno via cittadini Usa, di Stati Nato, titolari di carta verde e “gruppi vulnerabili”.

Deceduto un militare afghano. Che siano gli americani a incrementare il disordine in città, intorno alle piste d’atterraggio e a far aumentare il numero di morti che superano i 20, lo hanno dichiarato “gli studenti di religione”, pronti a riprendere il controllo dell’aeroporto intitolato a Hamid Karzai, l’ex presdente che continua a rimanere seduto con loro al tavolo dei negoziati insieme ad Abdullah Abdullah, del Consiglio di riconciliazione nazionale.

L’ultimatum talebano non è arrivato solo a Washington, ma anche alla sacca di resistenti del Panshir, una questione che “l’Emirato islamico sta cercando di risolvere in modo pacifico”. Lo ha reso noto il portavoce mentre però centinaia di miliziani si dirigevano, per pianificare un’offensiva, verso il nido dei ribelli dell’Alleanza del Nord, nell’area tagika abitata da circa 200 mila persone. Il poco più che trentenne Ahmad Massoud, figlio del “leone del Panshir” di cui porta il nome, ha detto di essere pronto al dialogo, ma non alla resa. Amrullah Saleh, ex presidente del Paese, dichiaratosi presidente ad interim dalla fuga di Ghani, ha invece riferito che i talebani “sono intrappolati nella valle Andarab” ed è “chiusa la strada Salang dalle forze di resistenza”. In migliaia sarebbero pronti a combattere: riconquistati, dice la resistenza, tre distretti a Baghlan.

Shah Mahmood Qureshi, ministro degli Esteri pakistano, già atteso per una visita ufficiale, ha discusso al telefono ieri con l’omologo russo Serghey Lavrov della necessità del governo inclusivo promesso dai talebani. Non è stato concesso, lamentano però i leader provinciali. “È un gioco di individui” ha detto il politico Sayed Eshaq Gailani. Atta Mohammad Noor, governatore di Balkh, rifiuterà un governo senza partecipazione. Gli uomini che starebbero tornando a imbracciare fucili, per le poche concessioni fatte dalle nuove autorità di Kabul, sono quelli delle zone del Takhar, Baghlan, Daikundi e Baghlan.