Pupetto Montmartre

Abbiamo sempre avuto un debole per Bernard-Henri Lévy, il gagà più engagé degli intellò, il filosofo di cui sfuggono le idee, il firmaiolo di appelli un tanto al chilo (scambiò persino un volgare assassino come Cesare Battisti per un perseguitato politico). Di lui, più che il pensiero sottovuoto spinto ben mascherato dall’aria pensosa, ci hanno sempre affascinato la chioma sale e pepe da galleria del vento, i colletti modello Air France della camicia bianca spalancata sul petto villoso e l’acronimo con cui si fa chiamare: BHL che, più che alla filosofia, rimanda ai corrieri espresso pronta consegna. Fosse nato qualche annetto prima, avremmo giurato che avesse ispirato Totò per Pupetto Montmartre di Champs Elisées, “camminata internazionale, stanchezza congenita e al posto della erre la evve”, che si alliscia il ciuffo sbarazzino tra gli esistenzialisti Poldo, Poppy, Fuffy, Lallo&C. nella villa a Capri di Giulia Sofia (Franca Valeri). Da giorni, dopo la fuga ingloriosa degli amati yankee da Kabul, cercava al telefono Ahmad Massud, figlio del “leone del Panshir”, il signore della guerra afghano ucciso dai talebani nel 2001, per incitarlo alla pugna. Cioè alla guerra civile, che dopo 42 anni di orrori è proprio quel che ci vuole. Ma trovava staccato: da quelle parti non c’è campo. Poi, “la sera del 21 agosto”, il miracolo: “la linea è sicura, ma traballante. La voce mi giunge nitida, ma frammentata”, narra il filosofo telefonista su Repubblica.

Ogni tanto cade la linea. Ma lui, furbo, che fa? “Richiamo e mi faccio ripetere le parole”. Una non vuole proprio sentirla: “resa”. Il leoncino del Panshir lo accontenta: “Sono più determinato che mai”, “la resistenza è appena iniziata”, “‘resa’ non esiste nel mio vocabolario”. Ma a BHL non basta: vuole sentirsi dire che coi talebani non si parla. E qui Massud jr. lo delude: “Parlare si può. In ogni guerra si parla. Mio padre ha sempre parlato coi nemici. Pensi se i talebani si mettessero a rispettare i diritti delle donne, delle minoranze. Perché rinunciare a dire loro che tali principi avrebbero effetti positivi su tutti gli afghani, talebani compresi?”. Ahiahiahi, le cose si mettono male. BHL potrebbe decollare da Parigi sulle ali della camicia e lanciarsi sul Panshir. Ma un compromesso in extremis scongiura il peggio. BHL: “Posso dire al mio Paese e agli Stati Uniti che lei continua a nutrire speranza?”. Massud: “Sì, restiamo saldi nella tempesta e il vento finirà per soffiare a nostro favore”. Resta un piccolo problema: “A Kabul ho chiesto armi e me le hanno negate, quelle americane son finite nelle mani dei talebani”. I quali, incredibilmente, non gliele danno. Ma ora con Macron e Biden ci parla lui, Pupetto Montmartre di Champs Elysées, e risolve. Pronta consegna.

“La vecchiaia non è un peccato: lo è vedere il mondo ridotto così”

“Nel 2001 cosa ci siamo andati a fare? Ad addestrare militari che adesso davanti ai talebani sono fuggiti? È un inferno e noi ne siamo i responsabili: dovremmo essere terrorizzati da ciò che sta accadendo. Penso alle ragazzine che hanno studiato e che pagheranno per questo, a coloro che saranno costrette a indossare quell’orripilante velo. Io me la metterei in casa, una di quelle ragazze. L’Occidente non può stare con le mani in mano e invece vedo politici che da decenni non sono all’altezza del loro ruolo. Quelli che ci comandano sono ridicoli”. Letizia Battaglia, di professione e di missione fotografa, non è una donna dalle mezze misure, non conosce diplomazia; ha visto e documentato la paura, il dolore, la disperazione. Ma oggi, davanti alle immagini afgane, si lascia andare anche alla tenerezza: “A 86 anni non avrei mai voluto rivedere scene simili, avevo sperato, nel mio piccolo, che il mondo si aggiustasse”. Il 3 settembre sarà ospite del Festival della Mente di Sarzana: ancora oggi, nonostante qualche acciacco, non rinuncia agli incontri e ai workshop: “Così riverso la mia esperienza nei giovani”.

Letizia Battaglia, perché dispera tanto nella politica?

Perché non fa il suo dovere e sarebbe ora che il popolo lo capisse. Pensi alla Terra, ai mari, ai fiumi, al cibo che mangiamo: dovrebbero essere i primi pensieri di un politico. E invece vincono sempre gli interessi economici.

Eppure lei ha fatto esperienza diretta con la politica.

Ero assessora con il sindaco Leoluca Orlando, nella mia Palermo, ed è stato un periodo straordinario. Andavo in giro dalla mattina alla sera in cerca di soluzioni per quel mondo che è Palermo. Poi nel ’91 sono diventata deputata regionale e prendevo un sacco di soldi per non fare nulla.

E perché?

Gli uomini al governo mi avevano messo all’angolo.

È sempre colpa dei maschi?

Gli uomini danneggiano il modo di vivere in pace delle donne, ma io sono arrabbiata pure con le donne, vorrei che fossero fisicamente più attive. Dobbiamo essere più forti, più severe, più esigenti. Dobbiamo proteggere le altre dal comportamento di certi uomini.

Non le bastano i nuovi movimenti femministi?

Non li vedo proprio. Vedo solo parole, quelle che escono dai comunicati stampa delle associazioni. Neanche nei tempi in cui ci fu una presa di coscienza riuscimmo a ottenere un cambiamento. Abbiamo esasperato il maschio occidentale e quello orientale. Ma non mi rassegno, ed è l’unica arma che ho.

Sa di venir definita una “icona della fotografia”?

Mi stupisce il riconoscimento degli ultimi anni. Un tempo, nessuno apprezzava le mie foto. Oggi non mi interessa, ma mi piace che il mio lavoro serva ai ragazzi.

Comunista, antirazzista, antifascista e antimafia: queste parole, invece, le sente sue?

Mi sento comunista, senza fare riferimento a niente se non a un senso di giustizia sociale. Antimafia oggi… Ma com’è possibile che, dopo 120 anni, una setta pericolosa non sia ancora stata sconfitta? E questo nonostante il lavoro di meravigliosi magistrati.

Più volte è andata via da Palermo, sempre vi è tornata.

Potrei vivere dove voglio, ma Palermo è il sangue della mia vita. E sento che ha bisogno di me: può sembrare ridicolo, lo so, ma attraverso il Centro Internazionale di Fotografia posso dare qualcosa.

Ha immortalato mafiosi e omicidi: ha mai avuto paura?

La paura è un lusso che non ci si può permettere in una città così.

Però prova ancora gioia.

Amo la vita, sono affettuosa, allegra. Alla mia età non penso a quello che sarà, ma a quello che è e che mi piace. Non ho perduto il sogno di quella bambina che fotografavo con tanto amore. Sono io quella bambina, pur con tutte le esperienze della mia età. Vedo le mie coetanee che hanno perso interesse, le hanno fatte sentire vecchie. Ma la vecchiaia non è un peccato. Non permetto a nessuno di considerarmi menomata dagli anni.

Ormai basta un telefonino e tutti si sentono fotografi.

C’è molta ignoranza. Da quando l’era digitale ha reso la fotografia più facile, tutti si sentono autorizzati a scattare. Ma si fotografa quello che si vede, non quello che si interpreta. Ed è un errore che fanno addirittura i giornali.

Che ormai è raro abbiano dei fotografi.

Quelli che ci sono, vengono pagati 10/15 euro a scatto. Hanno bisogno di un secondo lavoro. Poi però sui giornali si vedono solo immagini di politici. Vogliono spegnare la fotografia come cultura, ma non ci riusciranno: la passione dei ragazzi è il nostro futuro.

Il destino dei profughi di guerra. Capire l’orrore, salvarsi l’anima

“Ecosì, in tutti questi anni, avrei aiutato senza saperlo il mio mancato sicario?”, si chiede l’istriano Antonio Fabris, detto Tonci, quando scopre che il suo destino ha subìto, per puro caso, una deviazione, quello scartamento essenziale e per lui sconosciuto, che gli consente di essere ancora vivo. Tonci è nato in una città che in italiano chiamiamo Fasana, in veneziano Faxana e in croato Fažana. E a pensarci, già questa girandola, intorno a una sola consonante, contiene tutto il senso di una storia fatta di persone che si muovono in bilico tra molti confini che da tempo, al ritmo delle guerre, si accavallano tra loro. Tonci vive in Italia da tempo, è un esule della seconda guerra mondiale, ma nei primi anni Novanta, a ridosso del conflitto che s’appresta a dissolvere la Jugoslavia di Tito, tornando a Fasana, scopre che qualcuno avrebbe potuto ammazzarlo quand’era ancora un ragazzo. E così si mette alla ricerca di quell’uomo, del partigiano comunista che nel 1943 aveva deciso di ucciderlo e, soprattutto, vuol capire il perché della sua condanna a morte.

“Le fiamme dei Balcani”, Oltre edizioni, di Valerio Di Donato (giornalista esperto di politica estera al Giornale di Brescia) è un romanzo in cui le vite dei protagonisti si intrecciano, all’interno del giallo di cui Tonci è protagonista, con la fine della Seconda guerra mondiale, l’avvento della Jugoslavia di Tito e il massacro iniziato trent’anni fa, nell’estate del 1991, quando la miccia della dissoluzione jugoslava s’accese sotto lo sguardo distratto dell’Europa. Le fiamme dei Balcani non sono però soltanto quelle che strepitano dalle canne dei kalashnikov. Sono anche quelle che accendono la storia d’amore che porterà alla soluzione del giallo che vede Tonci protagonista. Una storia d’amore che, per l’autore, è lo stratagemma narrativo che porta il lettore tra Croazia, Serbia, Bosnia e Kosovo. E tra la Seconda guerra mondiale e la fine degli anni Novanta, con l’ultimo conflitto serbo in Kosovo.

Un amore che nasce tra i massacri e le propagande e, per resistere, proprio dai massacri e dalla propaganda deve riuscire a fuggire. La coppia di amanti e le loro famiglie ci portano nei luoghi e nei momenti più drammatici della guerra che si concluse, nel 1995, con gli accordi di Dayton, quando il presidente serbo Slobodan Milosevic strinse la mano al collega croato Franjo Tuđman, al presidente della Bosnia Erzegovina Alija Izetbegović e al ministro degli esteri bosniaco Muhamed “Mo” Sacirbey. Essendo un giallo, non vi riveleremo il finale, anche perché, in realtà, i misteri sono due.

Sullo sfondo di questo racconto c’è un ragazzo che, a ridosso degli esami di maturità, cerca l’autore di un manoscritto che gli è capitato per caso tra le mani. E l’intreccio, fino all’ultima riga, di pagina in pagina, si fa sempre più fitto. Quel che appare sempre più chiaro, sin dall’inizio del racconto, leggendo Le fiamme dei balcani, è l’intento dell’autore di mostrare come le scelte politiche, a maggior ragione nei momenti storici più drammatici, quelli in cui il conflitto si tramuta in guerra, si riverberino nella vita quotidiana e nelle più elementari scelte di vita di ciascuno. Il futuro del ragazzo sarà influenzato da quel manoscritto trovato per caso, soprattutto quando scoprirà chi ne è l’autore.

L’incontro tra Mirna e Ivan è dovuto alla guerra, così come la loro storia d’amore e le loro decisioni che sfoceranno poi nella soluzione del mistero che ossessiona Tonci da decenni. E persino l’uomo che avrebbe dovuto ucciderlo, il partigiano comunista, da sempre fedele ai propri ideali, dovrà aprire il libro mastro e mettersi di fronte alla partita doppia della sua storia personale e della storia del suo Paese. Con un esito che il lettore scoprirà nelle ultime pagine. Ma tutto questo porta con sé un dato costante che appartiene all’Istria, ai Balcani, a un periodo storico che va dagli anni Quaranta ai Novanta e che non è detto sia stato seppellito per sempre.

E se le fiamme dei Balcani, 30 anni dopo l’inizio del conflitto che seppellì la federazione jugoslava, sono o quanto meno appaiono sopite, al centro del romanzo c’è un movimento costante: è il movimento degli uomini e delle donne che da profughi perdono il rapporto con le loro radici. E non smettono mai di tentare un recupero, un ritorno, una riappacificazione con il proprio destino, oltre che con il proprio passato. Un sentimento che non appartiene soltanto ai protagonisti di questo romanzo ma a qualsiasi profugo di guerra.

La nomina di Franceschini aiuta il revisionismo di Stato

Ieri il ministro Franceschini si è assunto la responsabilità della nomina di Andrea De Pasquale alla guida dell’Archivio Centrale dello Stato. Lo ha fatto minimizzando indecentemente l’episodio della santificazione di Pino Rauti, di cui De Pasquale fu responsabile. La reazione delle associazioni delle vittime delle stragi fasciste è stata ferma: “La nomina di De Pasquale è un vulnus intollerabile, una operazione che sembra serva a tranquillizzare quegli apparati che ancora oggi hanno paura della verità. Noi non solo vigileremo ma non ci fermeremo qui”. Se, come spero, impugneranno la nomina, avranno ottimi argomenti per vincere.

Sarebbe importante, perché ormai da anni è in corso un’agguerrita campagna culturale da parte di una destra più o meno apertamente fascista: una battaglia il cui obiettivo è niente meno che un revisionismo di Stato. E cioè la cancellazione della storia che racconta cosa fu davvero il fascismo, e cosa è stato il neofascismo criminale della seconda metà del Novecento. Non si può nascondere che alcune battaglie revisioniste siano state vinte, grazie alla debolezza politica e culturale dei vertici della Repubblica. La legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo (delle Foibe) a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo di questa falsificazione storica.

In una coraggiosa lettera aperta, lo storico Angelo D’Orsi ha accusato il presidente Mattarella di aver fatto “un grave torto alla conoscenza storica” con il “discorso del 10 febbraio (2020, nda) in cui non si è limitato a rendere onore a quelli che, nella narrazione corrente, ormai sono i ‘martiri delle foibe’, ma ha usato ancora un’espressione storicamente errata, politicamente pericolosa, moralmente inaccettabile: ‘pulizia etnica’. Ella, signor Presidente, è caduto nella trappola della equiparazione del grande, spaventoso crimine, il genocidio della Shoah, con gli avvenimenti al Confine Orientale, tra Italia e Jugoslavia, fra il 1941 e il 1948, grosso modo”. Le cose, ha invano spiegato D’Orsi al Capo dello Stato, andarono diversamente: “La storiografia ci dice tutt’altro (…): le vittime accertate, ad oggi, furono poco più di 800 (compresi i militari), parecchie delle quali giustiziate essendosi macchiate di crimini, autentici quanto taciuti, verso le popolazioni locali: nessun generale italiano accusato di crimini di guerra è mai stato punito”.

La falsificazione agisce a tutti i livelli. Così Matteo Salvini prova a rovesciare la storia, sostenendo che il sottosegretario leghista Durigon, invocando il ritorno dell’intitolazione del Parco di Latina a Arnaldo Mussolini, non farebbe altro che difendere una storia ininterrotta fino al provvedimento di “un sindaco di sinistra” che nel 2017 lo dedicò a Falcone e Borsellino.

È falso: quel parco cambiò nome (come la stessa città, che si chiamava Littoria…) dopo la Liberazione, e solo nel 1996 un sindaco dichiaratamente fascista recuperò la dedica al fratello del Duce (peraltro senza atti formali, ma solo facendo realizzare alcuni cartelli stradali). Quel sindaco, Ajmone Finestra, non era un “innocuo” nostalgico: per i suoi crimini a Salò il pubblico ministero (che era Oscar Luigi Scalfaro…) chiese la pena di morte. È questa la storia che Durigon difende, e questo l’osceno grumo di neofascismo che Salvini accoglie, e su cui Mario Draghi vergognosamente tace.

Ed è questo il quadro culturale in cui si colloca un De Pasquale che, da direttore della Biblioteca nazionale di Roma, accoglie la donazione del Fondo Rauti con un comunicato che definiva il fascista Pino Rauti “statista”, e “organizzatore, pensatore, studioso, giornalista, deputato dal 1972 al 1992. Tanto attivo e creativo, quanto riflessivo e critico”. Pura propaganda di parte: che negava la ragione stessa per cui quel fondo andava accuratamente studiato, e quindi eventualmente accettato dopo averne messo in chiaro la natura – giacché era evidentemente stato creato con finalità apologetiche che avrebbero dovuto essere sottoposte a serrata critica, e non amplificate sui media.

Quel che la Destra vuole ottenere è nientemeno che la negazione radicale del presupposto della nostra Costituzione, la quale è anche “un comando sui vinti”, cioè sui fascisti: dal 1948 in poi, in Italia il fascismo non è in alcun modo equiparabile all’antifascismo, né è un’opzione praticabile per il futuro. È un tabu assoluto: e tale deve rimanere, se vogliamo che la democrazia sopravviva.

Un leghista bolognese ha difeso la nomina di De Pasquale auspicando che faccia emergere dai fondi dell’Archivio centrale dello Stato “qualcosa occultato per anni”. Dalla riabilitazione dei “ragazzi di Salò” perpetrata da Luciano Violante alla legge sulle Foibe, dal parco di Latina al sostegno leghista a De Pasquale l’obiettivo è sempre lo stesso: riscrivere la storia dalla parte del fascismo. Sapendo benissimo che l’unico modo per farlo, è falsificarla.

Sagre d’estate. La grande e ruspante bellezza di Sant’Eustachio (tra preti, balli e bestemmie)

D’estate mi piace da pazzi andare per sagre, alla ricerca di sapori e tradizioni ruspanti. La festa di Sant’Eustachio organizzata da Don Pancrazio è un appuntamento che non mi perdo mai. Un bagno di folla segue il pesantissimo baldacchino che si innalza per un chilometro e attraversa con un serpentone di candele accese tutto il paese, catalizza l’attenzione di tutti, e distrugge i poveri “portatori” stremati, qualcuno litiga pure, e magari bestemmia, con espressioni creative con cui spesso nei paesi ci si esprime, arrivando sfiniti e barcollanti a destinazione dopo la lunga attraversata. Fa uno strano effetto, ma è tutto perfettamente in linea con la festa, e il confine tra sacro e profano si mescola e si confonde benissimo.

Poco più sotto la festa in piazza, organizzata da Don Pancrazio, è piena di giostre, il tirassegno, la banda che suona tutta la notte, c’è chi canta, chi balla, per lo più nonni, quanta eleganza in quei femori traballanti! Sono loro che insegnano ai giovani come ci si diverte. Il palco è circondato da sedie di plastica, sono sedute soprattutto vecchie donne che guardano e commentano.

Il cugino di don Gennaro è un cantante, Mino Reitano, quello che sta sempre in televisione – “Avevo un cuore che ti amavaaa tanto…” –, devo chiedergli assolutamente l’autografo. Lo intravedo dietro il palco che si sta scofanando degli gnocchi al castrato stupendi, forse un po’ pesanti e mi viene da temere per i suoi acuti, speriamo bene. Intanto il prete fa la questua tra la gente con due chierichette di centodue anni l’una: stanno organizzando una sfilata di vestiti da sposa. “In manganza di sponzor che dovemo fa? D’altronte, è troppo imbortande… c’è crisi dei matrimogni religiosi. La gende se sposa tutta dar sindaco e se condinua cosi… sanda madonna…”.

Ho deciso, se dovessi sposarmi, questo sarà il mio prete. “Viva viva sant’Eustachio…”.

 

Il Regime soft Calamandrei e i tre partigiani “neri” (o quasi): quando l’Italia colta abbracciò Mussolini

Simon Levis Sullam è forse l’autore che, più di ogni altro, ha visto dentro il fascismo al modo in cui uno scienziato identifica cellule e ricercatori creano vaccini. Il metodo di Levis Sullam è quello di seguire all’indietro le orme di grandi antifascisti e di dirci di loro ciò che non sappiamo; di accettare tratti e momenti della loro vita che sono restati sconnessi o separati nelle varie ricostruzioni storiche e biografiche, sia d’autore che di esperto. Levis Sullam non è lo scopritore che mette in chiaro ciò che era rimasto oscuro, o rivela il segreto fino a quel momento ben custodito. Il modo di lavorare di questo autore (il cui prodotto è allo stesso tempo normalizzazione e rivelazione) è di raccogliere i pezzi là dove sono stati lasciati da persone che, allo stesso tempo, non hanno mai ceduto (o così si credeva) e non sono mai stati veramente fuori dal fascismo. Levis Sullam ha identificato quattro personaggi che l’Italia ha conosciuto come grandi figure dell’antifascismo. In questo libro sono Federico Chabod, Piero Calamandrei, Luigi Russo, Alberto Moravia. Il fatto che Levis Sullam ci dica che i grandi quattro sono stati anche fascisti o hanno sfiorato da vicino il fascismo, non è il valore o la novità. Piuttosto questo autore, sensibilissimo alle corde e alle intonazioni della storia, ci dimostra (alla maniera di un grande spettacolo) come il fascismo fascistizza, prima di convertire; arruola prima del giuramento; assume prima di avere offerto; usa le nuove forze prima di averle arruolate. E così, leggendo testi, brani e prese di posizione vi accorgete di 2 possibili percorsi interessanti.

Antifascisti (o non fascisti) come Calamandrei e Moravia (li cito perché più di tutti sono stati il simbolo assoluto dell’antifascismo subito dopo la fine del Regime) diventano fascisti quasi (si potrebbe paradossalmente dire) a loro insaputa, per una specie di osmosi di cui il fascismo è capace proprio per la sua morbidezza borghese di accogliere – prima della richiesta – e di ricompensare prima dell’adesione. Era un atteggiamento che moltiplicava subito il risultato, trasformando in fede vaghe simpatie e rendendo solido un accostamento anche vago. Dunque il libro non è dedicato al diventar fascisti per convenienza e per vantaggio di personaggi di valore a cui piace svincolarsi dalla gradinata della carriera. La storia è quella di un regime che pratica la persecuzione e l’oppressione. Ma all’occorrenza sa sospendere la procedura in cambio di un compenso che appare subito gentile e utile. Simon Levis Sullam ci svela un doppio regime che ha fruttato molto al potere fascista, fino a quando si è autodistrutto, perché ha avuto a disposizione gran parte dell’intelligenza italiana. Per la rima volta un testo ricco di documenti e di prove (non di accuse, non è il senso del libro, ma di spiegazioni) ci consente di dire: l’Italia colta e borghese per alcuni momenti è stata tutta fascista.

 

I fantasmi del fascismo – Simon Levis Sullam, Pagine: 240, Prezzo: 19, Editore: Feltrinelli

Israele. Hamas e la cioccolata “esplosiva” da confiscare

Israele confisca le barrette di cioccolato palestinesi, sostenendo che avrebbero finanziato Hamas, una decisione che per molti sfiora il ridicolo ma rivela l’assurdità del blocco israeliano su alcune merci dirette a Gaza.

Eppure accade. La scorsa settimana i doganieri israeliani hanno confiscato 23 tonnellate di barrette di cioccolato dirette a Gaza perché – secondo le autorità israeliane – utilizzate per finanziare operazioni militari di Hamas. La spedizione è stata intercettata mentre passava dall’Egitto verso la Striscia al valico di frontiera di Nitzana. Un’indagine congiunta dell’intelligence militare israeliana, dell’Ufficio nazionale per il finanziamento del terrorismo e del Centro nazionale per l’ispezione dei carichi dell’autorità fiscale ha concluso che i prodotti erano diretti a Gaza e presumibilmente sarebbero stati venduti da Hamas per generare reddito. L’indagine ha collegato le barrette di cioccolato a due società di Gaza, la Al-Mutahidun Currency Exchange e la Arab al-Sin, che Israele ha designato come organizzazioni terroristiche sulla base del presunto finanziamento di Hamas. I due milioni di palestinesi che vivono a Gaza affrontano negli ultimi mesi un inasprimento delle restrizioni israeliane all’ingresso di merci nell’enclave assediata, causando una grave recessione economica. L’Onu stima che circa 1.500 strutture economiche siano state distrutte o danneggiate durante l’ultima guerra quest’anno, con danni per 479 milioni di dollari.

Funzionari israeliani – interpellati dai giornalisti – hanno detto che le barrette di cioccolato sono state bloccate con un ordine di confisca firmato dal ministro della Difesa Benny Gantz. “Israele continuerà ad agire per impedire l’emancipazione di Hamas, che sta costruendo una forza militare invece di prendersi cura della gente della Striscia di Gaza”, ha dichiarato Gantz sulla vicenda, “continueremo a dare la caccia alle reti che finanziano il terrorismo, indipendentemente dal metodo che scelgono”. Certo, ai cioccolatini nessuno finora ci aveva pensato.

Fabio Scuto

Rieccoli Sui giornali c’è il ristoratore disperato: col reddito di cittadinanza non trova schiavi…

L’estate sta finendo ma le storie di imprenditori disperati per la mancanza di manodopera in alberghi e ristoranti no, non conoscono tregua anche in questi ultimi scampoli di stagione. Così, continuano a fioccare pure i classici progetti di riforma del Reddito di cittadinanza, accusato di essere il colpevole di questa carenza perché – dicono – spingerebbe i giovani a preferire i sussidi al lavoro.

Si tratta di un luogo comune smentito da qualsiasi dato economico che abbiamo analizzato, ma ormai incrostato in una parte dell’opinione pubblica. Tanto che la scorsa settimana è tornata a parlarne la sottosegretaria leghista al Lavoro Tiziana Nisini, promettendo che il sostegno “andrà ripensato totalmente” e ha ripreso vita la proposta spot che, a quanto pare, è al vaglio del ministero: una norma che obblighi i beneficiari ad accettare anche un contratto di soli due mesi. Oggi, infatti, la legge punisce solo chi rifiuta offerte di almeno tre mesi, che prevedano la “faraonica” retribuzione minima di 858 euro al mese. In pratica, già attualmente ristoratori e albergatori avrebbero vita facile: basterebbe loro prospettare un’assunzione da giugno a settembre a meno di 900 euro per imporre ai percettori del Reddito di cittadinanza di dire sì. Dovrebbero però farlo tramite i centri per l’impiego, quindi attraverso una procedura trasparente e regolare. Ecco uno dei motivi per cui non lo fanno e con ogni probabilità continuerebbero a non farlo anche se la soglia venisse abbassata a due mesi. Quindi, nonostante chi lancia questa idea lo fa per accreditarsi di fronte al mondo delle imprese, la modifica non genererebbe alcun cambiamento nella pratica. La crociata di tutta la pattuglia confindustriale, con politici allegati, tende all’abolizione del Reddito di cittadinanza, visto come uno strumento che eleva – sebbene di poco – le rivendicazioni salariali dei lavoratori.

Ancora venerdì, Il Sole 24 Ore ha parlato di 100 mila addetti mancanti dando voce al direttore generale di Federalberghi, che si è lamentato del presunto “effetto Reddito di cittadinanza che insieme ad altre indennità molto spesso allontana il personale stagionale”. Poco più sotto, il giornale della Confindustria ha scritto che “ad alcuni datori di lavoro non è restato che pagare di più il personale”.

La difficoltà di reperire addetti del turismo viene segnalata da diversi anni, anche prima che arrivasse il Reddito, ma probabilmente la memoria è corta. Consultando i lavoratori, viene fuori che se di fuga si può parlare, è dovuta soprattutto alle scarse condizioni dell’offerta dell’impiego, non ai sussidi.

Intanto, alcuni dati meritano di essere citati. L’indice dei posti vacanti nelle imprese, considerando il settore dei servizi, nel secondo trimestre 2021 è rimasto stabile rispetto al pre-Covid o al massimo è aumentato di poco per i “servizi non di mercato”, dei quali non fa parte il turismo. Ma soprattutto, a smentire definitivamente il cosiddetto “effetto divano” del Reddito di cittadinanza è uno studio condotto in Toscana dall’Irpet, l’ente regionale per la programmazione economica, che ha notato come la quota delle giornate lavorate dei beneficiari non è diminuita con l’ammissione al sussidio statale, ma leggermente aumentata.

Roberto Rotunno

Usa, la festa dei buoni: aumentano i contagi, ma Obama non c’entra

Obama incoronato. E alla fine dopo polemiche e smentite, il 4 agosto si è svolta nell’isola di Martha’s Vineyard (Stato del Massachusetts) la festa per i sessant’anni dell’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Un mega party con 3-400 invitati senza mascherina: centinaia di politici, attori e celebrità arrivati in aereo e in barca da tutto il Paese. Tutto bene? Insomma. Secondo il sito del DailyMail era da aprile che a Martha’s Vineyard non si contavano così tanti nuovi casi di Coronavirus in una sola settimana (74, poi saliti a oltre 80). “Al momento non siamo a conoscenza di casi collegati al party di Obama”, ha detto al DailyMail.com la portavoce delle autorità sanitarie Maura Valley. “L’unico modo per saperlo è con il tracciamento completo dei contatti”, che è ancora in corso. Gli invitati hanno però mangiato e bevuto durante i festeggiamenti durati giorni nella località di Edgartown e nelle zone circostanti. Ora, i giornali americani che abbiamo letto si affannano a smentire che ci siano collegamenti. Non è per essere maliziosi, ma se fosse stato il compleanno di Trump?

Salmodiando. Venerdì 13 agosto Salmo (è un cantante) ha tenuto un concerto gratuito improvvisato al Molo Brin di Olbia, sotto la ruota panoramica, per sostenere gli agricoltori della sua Sardegna devastata dagli incendi che negli scorsi giorni hanno mandato in fumo ettari di vegetazione. Il pubblico, quasi tutti erano senza mascherina, non ha osservato alcun distanziamento. Va detto (ma non l’abbiamo letto quasi da nessuna parte) che Salmo ha letto un messaggio in favore dei lavoratori dello spettacolo e ha pure invitato i presenti a vaccinarsi. Fedez gli ha fatto una social-ramanzina, lui gli ha risposto per le rime, e alla fine chi ha pagato? Il gestore della ruota panoramica (mille euro di multa).

 

Non classificati

Il lungo addio. Paola Ferrari – da circa un mese – sta dando l’addio alla Rai. La separazione, per chi si fosse perso la fondamentale notizia, avverrà dopo i Mondiali del Qatar (cioè tra più di un anno). In questo addio a rate ha denunciato il mondo del calcio, ancora troppo maschilista (ma va?). “Le cose sono cambiate, ancora oggi però tanti uomini pensano che la donna debba parlare dopo. Poi siamo sempre giudicate: hai le luci sparate, non hai le luci. Io sono felice di come sono, ma viene tutto sottolineato. Quando ho fatto la battuta sulla vecchiaia, ho pensato a tante giornaliste bravissime: Bianca Berlinguer, Lilli Gruber, Milena Gabanelli, Federica Sciarelli. Siamo più o meno coetanee, tutte in pista. Nello sport c’è uno strascico di maschilismo, l’età è vista in modo critico”. Le parole sono pietre, le pietre di paragone impietose (e pure un po’ ridicole).

Abat-jour, mon amour. Diletta Leotta ha festeggiato il suo trentesimo compleanno con una super festa a Catania (auguri). Tra le “coreografie” c’erano ragazze immagine che indossavano un lampadario sulla testa. La cosa ha suscitato molte polemiche (è estate, stagione delle idiozie). Alba Parietti ha scritto sulla Stampa che la Leotta “è una bravissima professionista” (oddio, davvero?) e “anche lei deve avere il diritto di presentarsi come vuole, nuda o in guêpière: deve essere libera di non mettere un vestito alla sua serietà, ma deve essere lei a metterci la faccia, a prendersi la responsabilità della sua scelta. Si vesta lei da candelabro, si presenti lei in quella dimensione. Non credo che a nessuna donna possa piacere o sembrare dignitoso – anche se pagata – partecipare a una festa vestita da soprammobile. A meno che sia una rappresentazione artistica. E questa non lo era. Era solo cattivo gusto”. Ma chiedere a Diletta Leotta di diventare una testimonial delle battaglie femministe (o di altre battaglie) o di avere buongusto è come chiedere a Renzi di diventare di sinistra. Un grosso equivoco.

 

Era Serie A quando regnavamo in Europa. Il calcio italiano dall’età dell’oro al Paleolitico

Èun po’ come per le ere della Preistoria: il Paleolitico, il Mesolitico, il Neolitico. Però le ere, nel mondo del pallone, si completano molto più in fretta e si misurano sull’arco non di milioni, ma di decine di anni. Diciamo venti. E allora, visto che con la Serie A italiana tutti i campionati sono partiti, la domanda è: in quale era siamo oggi? E per capire meglio chi siamo e dove stiamo andando, quali sono le ultime ere che abbiamo attraversato?

Era italiana. Tanto tempo fa, nell’ultimo ventennio del secolo scorso, dal 1980 al 2000, il pianeta pallone visse l’epoca della dominazione italiana. Pochi lo ricordano, ma in quell’indimenticabile ventennio l’Italia dominò la scena europea dall’alto di una superiorità schiacciante che la portò a conquistare 13 trofei Uefa (5 Coppe Campioni/Champions + 8 Coppe Uefa), più del doppio di Inghilterra (6: 4+2), Spagna (5: 3+2) e Germania (5: 2+3). L’Olanda (3: 2+1) era ancora, ai tempi, la quinta potenza europea, la Francia (1 Coppa Campioni vinta col Marsiglia) una presenza del tutto casuale. In quel ventennio la Serie A era una cosa seria: ben 8 club arrivarono a vincere lo scudetto (7 volte la Juventus, 6 il Milan, 2 il Napoli, una Verona, Sampdoria, Inter, Roma e Lazio) e il Milan, con tre Coppe dei Campioni conquistate con Sacchi (2) e Capello (1), fu il club più titolato del ventennio davanti persino ai dominatori storici del Real Madrid (2 successi). Il trionfo ai mondiali spagnoli dell’82 aveva fatto da detonatore: non c’era gara, i migliori eravamo noi.

Era spagnola. Ma mai cullarsi sugli allori. Col nuovo secolo, e col nuovo millennio, il mondo del calcio piomba in una nuova era senza il tempo di accorgersene: e l’Italia, abituata a vestire i panni del gigante, si ritrova di colpo a vestire quelli del lillipuziano al cospetto del nuovo Gulliver, la Spagna. Che nel primo ventennio del Duemila stravolge completamente i valori facendo incetta di ben 19 trofei tra Champions (9) ed Europa League (ex Coppa Uefa: 10). La sola nazione in grado di contrastarla, anche se a distanza, è l’Inghilterra (8 trofei: 4+4), mentre l’Italia precipita dai 13 trofei vinti nel ventennio precedente ai miseri 3, sia pure tutti di Champions, targati Milano (2 Milan, 1 Inter): tre come Germania (3+0) e Portogallo (1+2), che ringrazia il Porto per l’ottimo piazzamento. Non pervenuta, a dispetto della crescita di un club miliardario come il Psg, la Francia, addirittura al palo a quota zero.

Era inglese? Domanda: e adesso in che era ci troviamo? E cosa cosa dobbiamo aspettarci dal ventennio che si è appena aperto con i trionfi, la stagione scorsa, degli inglesi del Chelsea in Champions e degli spagnoli del Villareal in Europa League? Se è vero che i soldi fanno spesso pendere l’ago della bilancia verso chi li possiede, e se è vero che la Premier League, gestita a regola d’arte, è ormai da anni il Torneo del Bengodi, la risposta sembra obbligata: è iniziata l’era inglese, e per informazioni rivolgersi al Manchester United, che ha appena speso 85 milioni per Sancho del Dortmund, al Chelsea (115 milioni per Lukaku dell’Inter) e al Manchester City (117 milioni per Grealish dell’Aston Villa). E noi? Sfogliamo l’album dei ricordi, a leccarci le ferite e a celebrare Locatelli che passa dal Sassuolo alla Juventus in prestito gratuito per due anni, pagabile dal terzo in comode rate di cinque anni. Poltrone & Sofà: artigiani dell’antichità.