Inversioni su Strada. Chi applaudì la guerra oggi la ripudia (ma nessuno chiede il conto)

Piccole riflessioni su storie italiane lontane e vicine. Ovvero dopo Gino Strada. La morte di Gino è infatti coincisa con l’abbandono dell’Afghanistan da parte delle forze occidentali un dì chiamate “l’alleanza dei volonterosi”. Ricordate? Si erano installate in quell’area mediorientale per combattere il terrorismo e un regime accusato di favorirlo o fomentarlo. Anzi, per realizzare una missione ancora più nobile: portare la democrazia là dove i diritti erano annullati, da quelli delle donne a quelli religiosi o di libertà della cultura. Strada, cercando di muoversi in autonomia da ogni schema politico, ebbe sempre su quell’intervento posizioni fortemente critiche e minoritarie. E ora ecco che prodigiosamente, nei giorni della precipitosa partenza degli Stati Uniti dalla regione afghana, il suo punto di vista è diventato d’incanto quello americano e, in Italia, quello dei maggiori quotidiani e partiti nazionali. Ci si è tutti interrogati: già, in effetti, perché siamo andati in Afghanistan? Per sradicare i traffici criminali? Per togliere benzina al radicalismo islamico? Per dare democrazia a un paese che ne era drammaticamente privo? Per schiacciare il verbo talebano?

Vent’anni, si è detto, senza ottenere praticamente nessuno di questi obiettivi. Io li ricordo i vent’anni fa. Ero membro del Senato della Repubblica. E non facevo parte dello schieramento di governo. Ricordo che anche la stragrande maggioranza dell’opposizione diede, spesso – come nel mio caso – per “disciplina di partito”, il suo sì alla spedizione degli uomini di buona volontà. E che la politica italiana, così radicalmente divisa dal sostegno o dall’opposizione al governo Berlusconi, trovò un suo punto di incontro proprio su quella decisione. Ricordo come gli interrogativi di Gino Strada fossero liquidati alla stregua di ubbie utopistiche quando non come figlie di un’ideologia comunista. Tutto sarebbe stato facile, benché “inevitabilmente” fondato sull’uso delle armi. Una lettura “realistica” dei fatti internazionali e del quadro afghano garantiva d’altronde per uno svolgimento vittorioso di quell’avventura.

“Non sarà un nuovo Vietnam?” chiedevano i più scettici. Impossibile. Come non vedere le differenze? Non era l’America a volere imporre un suo ordine al mondo, fuori dai suoi confini. Ma era l’America a essere stata colpita a freddo – e in modo terribile – in casa propria. Non era un Paese a volere imporre i propri interessi strategici. Ma un’intera civiltà, quella occidentale e democratica, a volere difendere i suoi valori universali a vantaggio degli oppressi. È finita come in Vietnam. Anzi peggio, raccontano le cronache che ci hanno descritto un ritiro somigliante ad una grande fuga.

E come andò solo un anno e mezzo dopo in Iraq? Ricordate di nuovo le ragioni della democrazia che si facevano imperiosamente largo in un globo diventato, dopo la caduta del Muro, inesplorabile e incomprensibile? Come non stare con la democrazia contro una dittatura? La nuova America chiamò ancora a raccolta gli antichi alleati. Vennero perfino costruite le “prove” delle trame terroristiche di Saddam Hussein, il tiranno mediorientale. Decidemmo così di andare anche in Iraq per sgominare un terrorismo che sarebbe invece uscito rafforzato (l’Isis…) da quella lunga avventura. Ricordo nitidamente più di mezzo Senato in piedi che si spella le mani per gli applausi a favore del nuovo intervento armato. Col petto in fuori, tanto a rischiare la vita sarebbero stati altri. Ricordo tutti orgogliosamente sicuri, tanto nessuno avrebbe chiesto conto di quel voto se non molti anni dopo e con il rispetto che si deve alla storia.

Tutto ciò ho ripensato dopo la morte di Gino Strada. Poiché esattamente la sua contrarietà a queste guerre impedì che egli fosse annoverato tra gli italiani che davano lustro al Paese. Oggi abbiamo una ragione in più per riconoscerglielo.

 

Degrado in Sicilia. Mala politica, furbetti e risorse al Nord: i residenti chiedono aiuto

“Caro sindaco di Noto, i rifiuti in città offendono gli italiani”

Cara Selvaggia, ho letto sul Fatto delle tue vacanze problematiche a Noto, tra slalom dei rifiuti e proprietari di casa che non consento ai turisti la raccolta differenziata. E ho letto anche la risposta piccata del sindaco di Noto Bonfanti a cui mi preme dire alcune cose: caro primo cittadino mi ha sorpreso (ma non più di tanto) la surreale teoria secondo cui “è la città ad essere offesa”; l’offesa infatti è un atto mirato verso una persona fisica mentre è proprio lei ad offendere, con il solito linguaggio becero della politica, chi come me ha a cuore le sorti della città in cui vive. Città rappresentate (si badi bene) da sindaci come lei, veri responsabili dell’amministrazione cittadina. Quindi, invece di accusare chi ha mostrato con verità le numerose pecche organizzative della località di Noto, si vergogni e si metta a lavorare di buona lena per cercare di risolvere i problemi, se davvero ha a cuore le sorti della sua città. Tertium non datur.

Con sofferta cordialità.

Francesco Rosso, Emilia Romagna

 

“Non è solo colpa dell’evasione:
i soldi vanno sempre verso il Po”

Cara Selvaggia, conosco bene il territorio di Noto e lo amo tanto da aver costruito, con estrema fatica, una casa di fronte alla riserva di Vendicari (purtroppo già nel mirino di criminali “piromani”). Sento l’urgenza di sottolineare come le carenze da te riscontrate dipendano solo in parte dall’incuria e dall’evasione delle tasse. E neppure esclusivamente dalla scarsa organizzazione, non essendo prevista ad esempio la raccolta differenziata per il turista “mordi e fuggi”. Serve un’analisi politica ampia: perché salta sempre la luce? Perché si fa ricorso alle trivelle (con regolare autorizzazione e conseguente indennizzo)? Perché la rete elettrica è obsoleta e fatiscente? Perché la rete idrica copre solo in parte il territorio? Vorrei ricordare la scarsità di investimenti e la forte sperequazione di risorse tra Sud e Nord del Paese. Disuguaglianza accentuata dal Pnrr del governo Draghi (Il Fatto ha affrontato in modo puntuale l’argomento).

Le denunciate disfunzioni disturbano il turista, ma avviliscono e lasciano indietro un territorio prezioso, per storia e bellezza.

L.

 

Viaggiare in Trinacria e scoprire che sembra La casa delle libertà

Gentile Dott.ssa Lucarelli, condivido appieno le sue riflessioni sul degrado di Noto, ma più in generale della Sicilia. Sono reduce da un viaggio di due settimane dapprima nell’agrigentino, poi nell’area Iblea di Ragusa con base proprio a Noto. Sono sconcertato (e sì che vengo dall’area romana) dall’incuria estrema (ancor più evidente nell’agrigentino) in cui versa la Trinacria. Uso questo termine per evocare una storia le cui testimonianze rendono (o renderebbero) quest’isola uno dei luoghi più belli del Mediterraneo. Ma che dire dei rifiuti che ingombrano qualsiasi ciglio stradale, fin quasi a circondare la Valle dei Templi e a punteggiare (senza soluzione di continuità) tutto il litorale tra Sciacca e Porto Palo. Per non parlare degli incendi, talvolta dovuti a metodi arcaici (come il cosiddetto abbruciamento delle stoppie) laddove non siano attentati al patrimonio naturale.

O ancora annunci surreali affissi all’ingresso di aree archeologiche, come il caso delle splendide fortificazioni greche di Gela, che inspiegabilmente chiuse al pubblico annunciano con un foglio A4: “Per visitare l’area inviare una mail con congruo anticipo”! Al telefono arrivano farneticanti rivendicazioni sindacali: “Siamo pochi”. Eppure l’ingresso di ogni area archeologica o naturalistica (vedi Vendicari) è presidiato da nugoli di dipendenti regionali. O ancora il paradosso dell’ingresso alla Riserva naturale di Cava Grande di Cassibile: interdetto per pericolo di frane, è accessibile scavalcando un cancello appositamente chiuso dai dipendenti pubblici lì presenti, saltando su cassette della frutta appositamente poste a mo’ di scala dagli stessi lavoratori che dicono: “È vietato ma potete scavalcare”. Ovvero: basta che la responsabilità non sia del comune, se qualcosa va storto per il visitatore. Un viaggio che ricorda la “Casa delle Libertà”. A Noto, con un altro automobilista, ho spento un principio di incendio tra i rifiuti sul ciglio della strada, dove un idiota aveva lanciato un mozzicone con 43 gradi. Un viaggio chiuso con un diverbio sulla nave di ritorno, dove autisti di tir giravano strafottenti senza mascherina, e il personale di bordo muto, intimorito da minacce neanche tanto velate.

Auspico che l’Unesco rivaluti i meriti attribuiti alla Sicilia. Non si può impoverire così un territorio naturale e culturale fondamentale.

Cordiali saluti

Diego Mantero

 

Sono stata letteralmente sommersa da lettere di siciliani che chiedono di essere aiutati e ascoltati, per nulla offesi dalle mie foto dell’immondizia scattate a Noto e dal successivo articolo sul Fatto. Sono offesi, invece, dal silenzio delle istituzioni che segue le loro proteste da anni, nonché da quest’ultimo tentativo di delegittimare la mia denuncia parlando di “offesa”, facendo leva sull’orgoglio dei siciliani, orgoglio che non è cecità o difesa becera dell’indifendibile. Spero, davvero, che ora qualcosa si muova. Nel frattempo io proseguo le mie “vacanze” in Sicilia, terrorizzando ormai sindaci e amministrazioni ovunque vada. A breve, temo mi ritireranno anche il Green pass.

Selvaggia Lucarelli

Il sindaco della lega dà una mano agli afghani e Biden se ne lava le mani

Primi cittadini inter pares. Esistono momenti buoni per i distinguo e momenti in cui la coscienza chiede solo di tendere la mano verso chi rischia di non farcela. Così, ad una manciata di ore dall’insediamento del nuovo governo talebano e dalle immagini dei profughi disperati all’aeroporto di Kabul, mentre alcuni esponenti di centrodestra in Italia e in molti altri Paesi europei hanno già cominciato a mettere le mani avanti, intonando all’unisono il celebre “non possiamo accoglierli tutti”, qualcun altro si rimbocca le maniche e si prepara a fare il possibile per dare un aiuto concreto. Alan Fabbri, sindaco leghista di Ferrara, sorvolando i moniti del suo segretario, secondo il quale l’Italia in tutti questi anni avrebbe già fatto abbastanza, si è subito messo a disposizione: “Siamo pronti a fare la nostra parte. Di fronte alla catastrofe umanitaria in Afghanistan daremo, come ente locale, la massima disponibilità per salvare vite, a partire da donne e minori. Come sindaco, come cittadino, sono pronto a dare un contributo e a mettere in campo la massima collaborazione, nel limite delle possibilità che possiamo offrire, per sottrarre i civili esposti alla barbara azione degli estremisti islamici”. Sarà che nel corso di questa pandemia i sindaci sono stati un avamposto fondamentale per la gestione delle difficoltà e per la rassicurazione dei cittadini, ma non stupisce trovare ancora una volta, in un primo cittadino, quel pragmatismo generoso che riconcilia con la politica.

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Cercasi terroristi. La questione afghana è talmente complessa che le considerazioni a riguardo possono essere profondamente differenti tra loro, a volte perfino contrastanti, senza che necessariamente un punto di vista sia giusto e l’altro sbagliato. Esistono però alcuni punti fermi che l’evidenza, forte di vent’anni di osservazione diretta, rende incontestabili. Uno di questi punti l’ha messo in luce Filippo Grandi, Alto Commissario dell’Onu per i rifugiati, commentando il contraddittorio discorso di Joe Biden: “Sono stato parte di questo progetto, sono stato a Kabul come responsabile dell’Unhcr dal 2001 al 2005. Leggo molti commenti, secondo cui tutto quello che è stato fatto sia da buttar via. Non è così. Ci sono stati progressi importanti, ma anche errori. Quello che mi ha addolorato del discorso del presidente Biden, è stato di dire in sostanza che noi siamo andati a Kabul per combattere il terrorismo e non per costruire una nazione. Ma come si può combattere il terrorismo se non si costruisce una nazione?”. Nella pletora di contraddizioni che ha sempre accompagnato le “guerre giuste” o esportazione della democrazia che dir si voglia, l’idea che si possa occupare un territorio con la sola idea di sconfiggere il terrorismo, come se si trattasse di una molecola da isolare in provetta, senza intervenire (o interferire) nel sistema politico e nella configurazione dello Stato che verrà a crearsi, è senz’altro tra le più altisonanti. E un uomo che ha speso gli ultimi vent’anni della sua vita in uno di questi luoghi, non può lasciarla passare inosservata.

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Lapidazioni. Due sassi e due misure: Renzi e Iv contro i talebani, ma tacciono sui compari sauditi

Lapidazione, decapitazione oppure crocifissione se viene commesso uno di questi reati: “blasfemia, apostasia, corruzione, stregoneria, rapina, distribuzione e/o consumo di alcol, furto, pratiche sessuali come adulterio, sodomia e omosessualità e reati legati alla droga”.

Il nuovo Afghanistan sanguinario e oscurantista dei Talebani? No, l’Arabia Saudita rinascimentale che può contare vari amici come Matteo Renzi e Italia Viva, fedeli sudditi del principe assassino Mohammed bin Salman. Tra i Paesi che recepiscono la fatidica Shari’a nel loro diritto o nello loro consuetudini tribali c’è infatti anche il regno che paga il capo di Iv. Ma dell’Arabia Saudita non c’è traccia nelle intervistone che ieri Renzi e pure Maria Elena Boschi hanno rilasciato rispettivamente ad Avvenire e Il Giornale. Due sassi e due misure, per rimanere in tema di lapidazione. Ora l’emergenza sono i Talebani e così sembra che solo nel povero Afghanistan sia in atto una crudele repressione contro le donne.

In realtà le punizioni corporali per adultere e omosessuali sono diffuse anche in Iran, Iraq, Nigeria, Qatar (dove si terranno i Mondiali di calcio del 2022), Somalia, Sudan, Yemen, Brunei, Mauritania, Pakistan. E qui si torna alla Shari’a. Esattamente che cos’è? Per evitare di fare confusione, come capita spesso di leggere o ascoltare in questi giorni, va innanzitutto detto che non si tratta di un testo codificato, né di un corpus che raccoglie leggi religiose. Piuttosto è la somma dei princìpi e dei valori dell’Islam che provengono dal Corano e dalla Sunna, che mette insieme atti e detti (hadith) di Maometto secondo la tradizione. Nella Shari’a quindi rientrano non solo le punizioni corporali e il burqa ma anche la preghiera, il digiuno, il pellegrinaggio alla Mecca, l’elemosina, il divieto di bere alcolici e mangiare carne di maiale, cioè i pilastri fondamentali di ogni credente musulmano.

Piuttosto pene ancestrali come quella della lapidazione vengono elaborate dai giuristi islamici esperti di fiqh, cioè la “comprensione profonda” della Shari’a, che a sua volta vuol dire “strada battuta verso l’acqua”. Anche gli ebrei lapidavano le adultere, ma poi la pratica venne “abolita” da Gesù in un famoso episodio riportato dal Vangelo: “Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra”. A dire il vero neanche il Corano fa menzione della lapidazione, che invece si desume da un hadith della Sunna. Tutto origina dal presunto tradimento di Aisha, la moglie prediletta del Profeta, accusata di aver trascorso una notte con “un uomo più bello e giovane” di Maometto. Non solo, dopo che il Profeta elaborò le regole coraniche sull’adulterio, prevedendo la fustigazione per i colpevoli, sarebbe stata la stessa Aisha a rivelare che erano “scomparsi” i versetti con la prescrizione della lapidazione, mangiati da un’inconsapevole pecora.

In ogni caso, non c’è tuttora uniformità sulle “ingiunzioni legali” rivelate nel Corano. Chi dice che riguardano solo 80 versetti su 6.236 totali, chi invece 190, 500 o 600. La percentuale va dal 3 al 10 per cento dei versetti coranici e comunque sempre filtrata dall’elaborazione “umana”.

Fabrizio D’Esposito

Minzolini non ha perso il vizio: insulti a Lerner perché è ebreo

In difficoltà a pubblicare notizie, Augusto Minzolini, direttore del Giornale, commissiona pseudo-ritratti con cliché che pensavamo sepolti. Se l’avversario si chiama Gad Lerner, ed è anche ebreo, che non te lo togli lo sfizio? Luigi Mascheroni, autore del pezzo, se lo toglie.

Già sul nome è un profluvio di eleganza: “Gast Leicester, Gas Lester, Gar Lerder. Beppe Grillo lo chiama Gad Vermer, o Gad Merder, pessima battuta dalla quale ci dissociamo”. Però la scrive.

Di Gad si stila la lista dei soliti insulti, buoni per darsi di gomito nelle cantine dei giornalisti un tanto al chilo: “Pietista più che buonista (e forse è peggio), elitario ma non elitista, più che moralista matrimonialista (due mogli, cinque figli), aziendalista più che operaista (nel senso che si trova meglio coi padroni che con quei pezzenti di salariati che gli rinfacciano persino un orologino da 15-18mila euro)”. Fino a quando la penna sfugge di mano e l’atavico tic si prende la scena con quella “fulgida, lucrosa e sefardita carriera di un incrollabile intellettuale, apolide e poliedrico, prestato al giornalismo («Non si presta nulla, semmai si vende» è un antico insegnamento ebraico)”. Poi il proverbio yiddish: ‘Sulla porta del successo troverai due scritte: ENTRATA e USCITA’. C’è chi s’imbatte solo nella prima. Gad, in ebraico, significa “buona sorte”. Poi il giudizio che ne diede Veltroni: “Che sia cattivo non credo sia una novità, credo sia la sua prevalente natura”. Infine “Lerner ricorda un po’ – al netto degli «occhi affossati e infocati» e il «sogghigno di compiacenza diabolica» – il Vecchio malvissuto di manzoniana memoria”.

La settimana scorsa Le Monde ha ricordato il centenario dell’articolo con cui il Times svelava “la fake” dei Protocolli dei Savi di Sion, il documento costruito ad arte per diffondere il mito del complottismo ebraico e sdoganare l’antisemitismo. Allora si usavano termini come “nemico interno”, “dediti al culto dell’oro”, “agenti segreti” intenti a costruire “un governo supremo” per controllare il mondo, quelli del “naso adunco” e “assassini di Cristo”. Quel documento era falso, il complotto non esisteva, i pre-giudizi sono rimasti a lungo. Li potete trovare ancora oggi in edicola.

Non lasci la palla ai partiti: lo stato deve intervenire

Mi sono sbagliato. Mi ero detto che non serviva scrivere qualcosa sul caso del sottosegretario Durigon. Pretendendo che fosse cancellata l’intitolazione di un parco pubblico a Falcone e Borsellino, due campioni dell’antimafia celebrati in tutto il mondo come eroi, l’ aveva fatta troppo grossa. Per di più chiedendo che ai loro nomi fosse sostituito quello del fratello del Duce, fascistissimo anche lui e “specializzato” in tangenti. Ero infatti sicuro che alle sacrosante proteste di associazioni e cittadini preoccupati della credibilità dello Stato per cui Falcone e Borsellino hanno sacrificato la vita (mentre la dittatura fascista lo aveva portato alla rovina) sarebbe inevitabilmente seguita qualche iniziativa di una qualunque Autorità istituzionale – fra quelle dotate dei poteri occorrenti – che, semplicemente per coerenza verso la Costituzione, rimettesse a posto le cose invitando l’incauto sottosegretario a farsi da parte. Invece i giorni passano e tutto continua a tacere.

So bene che a settembre potrebbe essere presentata , in uno dei rami del Parlamento, una mozione di sfiducia contro il sottosegretario. Ma proprio qui sta il punto: non può e non deve essere una decisione di parte lasciata alle polemiche fra i partiti: perché su tutto ci si può dividere, ma non su questioni che sono essenziali per la qualità e l’esistenza stessa della nostra democrazia. Ora, la mafia e la dittatura fascista sono ambedue la negazione assoluta e al tempo stesso un nemico esiziale dei principi di libertà e uguaglianza posti dall’articolo 3 a fondamento della Costituzione. Ontologicamente, quindi, non sono – ripeto – questioni che si possano lasciare alle polemiche partitiche, cioè di parte. Farsene carico spetta, prima che a chiunque altro, a coloro che sono istituzionalmente “super partes”, a coloro che rappresentano gli interessi di tutti e l’unità dello Stato.

La linea l’ha data il Capo dello Stato il 23 maggio scorso nell’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo, proprio rievocando Falcone e coloro che furono falciati con lui dall’attentatuni di Capaci, con parole chiare e univoche: “la mafia esiste tutt’ora …o si sta contro la mafia o si è complici dei mafiosi”. Un pensiero che corrisponde all’insegnamento che Borsellino ha consegnato ai giovani quasi come un testamento spirituale, dicendo che “ la lotta alla mafia non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolga tutti, che tutti aiuti a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. E di certo non occorre sottolineare le parole “tutti” e “complicità” per cogliere la straordinaria sintonia di Borsellino con il Capo dello Stato.

Lo scrittore Andrea Camilleri ha paragonato l’uccisione di due pilastri dell’antimafia come Falcone e Borsellino all’abbattimento delle Torri Gemelle. Cosa accadrebbe se un Durigon americano (componente dello staff presidenziale) proponesse di cambiare l’intestazione di un monumento alle vittime dell’11 settembre che so, col fratello di Pinochet? Di sicuro non si aspetterebbe un’iniziativa di parte (democratica o repubblicana) al Congresso, ma si interverrebbe subito ai massimi livelli istituzionali.

Lo storico Salvatore Lupo, partendo dalla constatazione che il martirio di molte delle vittime di mafia testimonia che ci sono state persone disposte a morire per il loro dovere e per lo Stato, ancorché spesso malamente rappresentato, sostiene che in questo modo le vittime di mafia hanno restituito allo Stato credibilità; e con il loro sacrificio hanno dato un senso alla frase “lo Stato siamo noi”. Per favore, chi può e deve faccia in modo che non resti senza risposta il fatto che un sottosegretario di questo nostro Stato cancelli – insieme ai nomi di Falcone e Borsellino – una credibilità così tragicamente ritrovata.

La sai l’ultima?

Udine Un ragazzo si perde nei boschi friulani,
i genitori vanno a cercarlo e si perdono pure loro

Il patrimonio genetico è una cosa seria, come dimostra la storia di questa famiglia romana in vacanza in Friuli. Il figlio diciottenne si incammina da solo per una passeggiata nei boschi e si perde. Quindi chiama i genitori. Accorre il padre, che riesce a raggiungerlo e a tranquillizzarlo. Ma a quel punto va in ansia la madre, che non li vede tornare, e si incammina a sua volta alla ricerca degli uomini di casa. Ovviamente non li trova: si perde anche lei. Nonostante tutto c’è il lieto fine, come racconta Il Gazzettino: il ragazzo e il papà vengono ritrovati insieme grazie a un’operazione coordinata del Soccorso alpino assieme alla Guardia di Finanza e ai Vigili del fuoco. Dopo di che la spedizione si mette alla ricerca della madre cinquantenne, “che era qualche decina di metri di dislivello più in alto degli altri due, senza saperlo”. La famiglia “è stata ricongiunta e ricondotta illesa a valle”. Dovessimo scommettere, il prossimo anno torneranno alla solita vacanza al mare.

 

Diletta Leotta Quattro “donne lampadario” alla sua festa
dei 30 anni. L’organizzatore spiega: “Sono dee della luce”

Notizie che gettano una luce abbagliante sul dibattito culturale nazionale: Diletta Leotta, l’avvenente e gommosissima anchorwoman del calcio italiano, ha compiuto 30 anni e ha voluto festeggiarli con una festicciola sobria. A rubare l’occhio, al di là del succinto abito della festeggiata, sono state le “ragazze lampadario”. Ovvero quattro simpatiche signore con un abat jour in testa che se ne stavano lì immobili a fare – appunto – i lampadari: monumento plastico, è il caso di dirlo, a secoli di lotte per l’emancipazione femminile. Qualcuno ha storto il naso, ma per fortuna l’organizzatore Luca Melilli (“conosciuto in tutto il mondo e caro all’ex presidente Donald Trump”) ha voluto spiegare a Fanpage la sua visione estetica: “Volevamo catapultare gli ospiti in una dimensione vagamente onirica e con effetti decisamente sparkling”. Le signore con la lampada in testa sono “eleganti donne abat jour, dee della luce, eteree come sculture viventi”. Come si dice a Roma: mecojoni.

 

Che cuore! Su un volo Ryanair compra un biglietto
da 2 euro per la lotteria di beneficenza e ne vince 100mila

C’è quel momento terribile dei voli Ryanair – non ce ne vogliano – nel quale dopo averti impedito di dormire con le informazioni di sicurezza, continuano a tenerti sveglio provando a venderti qualsiasi genere di prodotto. Nel ricco catalogo, l’espediente forse più disperato far strisciare le carte di credito in alta quota sono i biglietti della pregiatissima lotteria (la quale, va detto, ha un nobile fine benefico). Ryanair è piuttosto insistente quando ti chiede se vuoi aggiungere un bagaglio, un’assicurazione, un auto a noleggio: viene naturale pensare che sia impossibile ottenere del denaro da questi implacabili esattori (non ce ne vogliano, di nuovo). E invece ad agosto la signora Lorena, passeggera del bordo del volo Orio al Serio-Siviglia, ha comprato un biglietto da 2 euro e ne ha vinti 100 mila. “Sono felicissima e ancora un po’ sotto shock – ha detto a Milano Today –. Non vedo l’ora di organizzare una festa per amici e famiglia e di fare molti viaggi in futuro con la mia vincita”.

 

Calcio Borja Valero non rinnova il contratto con la Fiorentina
e va a giocare per i dilettanti del Centro Storico Lebowski

Voi fatevi pure la Superlega, le squadre zeppe di multimilionari che piangono a comando, i mondiali in Qatar edificati sul sangue di chi lavora. Il calcio è un’altra cosa. Il calcio è Borja Valero, 36 anni e una carriera luminosa a insegnare l’arte del palleggio sui campi di mezza Europa, che non ottiene il rinnovo del contratto con la Fiorentina e invece di ritirarsi o di andare a prendere soldi facili in qualche ricco campionato minore, resta a Firenze e va a giocare in una cooperativa di dilettanti. Borja Valero ha firmato per il Centro Storico Lebowski. Dalla Serie A alla Promozione in un’estate. Ma che meraviglia tutto quello che c’è intorno: calcio popolare, solidarietà, reti sociali, orgoglio di quartiere. “Ho scelto il Lebowski – ha detto al Corriere della Sera – perché credo di poter aiutare la squadra ad avere un po’ di visibilità. Quando ho accettato ho pensato a quando da ragazzino giocavo in un campetto polveroso, alimentando i miei sogni. Io mi rivedo in loro”. Viva Borja, forza Lebowski.

 

Utah Un’addestratrice di coccodrilli viene aggredita
da un rettile di 2 metri durante uno spettacolo per bambini

Mestiere ingrato, quello di addestratore di coccodrilli. Negli Stati Uniti una domatrice di questi rettili francamente orribili è stata aggredita da una delle sue creature. Chi l’avrebbe mai detto? Lo si legge in un comunicato stampa dello “Sportello dei diritti”: “Mentre dava da mangiare a un alligatore di 2 metri, usato per uno spettacolo di intrattenimento, di fronte a bambini che festeggiavano un compleanno, un’addestratrice di uno zoo negli Stati Uniti, improvvisamente è stata attaccata dal rettile che è scattato come un fulmine, mentre poco prima galleggiava in acqua placido. In un attimo si è ribellato alla sua addestratrice è uscito fuori dall’acqua e si avventato sulla donna, sotto gli occhi attoniti dei bambini. A quel punto, un visitatore, senza pensarci due volte, si è gettato in acqua e, stretto l’alligatore tra le braccia, ha cercato di aprire quelle fauci taglienti per liberare la mano della donna”. Un salvataggio miracoloso: l’addestratrice se l’è cavata con un intervento chirurgico alla mano. Non era meglio, che so, allevare bestiame?

 

Nevada Un turista californiano fa causa al suo condominio
dopo aver trovato un orso nascosto nel cassonetto dei rifiuti

In America non ci sono solo i coccodrilli che vengon fuori dalla doccia, come canta Samuele Bersani, ma ci sono pure gli orsi che vengon fuori dai cassonetti dell’immondizia. Un turista californiano – scrive la Bbc – ha denunciato il condominio del Nevada presso il quale soggiornava, sostenendo di essersi ferito per colpa di un orso che si rotolava dentro il bidone dei rifiuti. Il suo avvocato sostiene che l’orso fosse entrato nel cassonetto a causa della chiusura difettosa. Quando il californiano ha aperto lo sportello, il bestione si è scagliato contro di lui e nella colluttazione (o nel tentativo scomposto di fuga) il californiano ha riportato qualche ferita superficiale. Di sicuro ha rischiato l’infarto. “Gli avvocati del signor John Donaldson – spiega la Bbc – dicono che è stato spaventato dal plantigrado, che gli ha causato una distorsione della caviglia nella caduta a terra. In seguito ha avuto bisogno di un intervento chirurgico al tendine d’Achille e alla spina dorsale”. Addirittura. Tutta colpa, secondo il querelante, della mancata manutenzione al cassonetto.

 

Calabria Un 40enne ruba una borsetta da una macchina
ma durante la fuga perde il cellulare e si fa arrestare

Metti la cera, togli la cera. Ruba la borsetta, perdi il cellulare. Un 40enne pregiudicato di Castrovillari (Cosenza) ha sgraffignato una borsa lasciata incustodita dentro un auto. Il genio, notato dai passanti mentre spaccava il finestrino della vettura, è quindi scappato nelle vie del centro di Praia a Mare (Cs), correndo a gambe levate con la refurtiva, ma durante la fuga si è fatto cadere il telefono dalle tasche. Grazie al cellulare i carabinieri lo hanno rintracciato nel giro di una manciata di minuti. “Informata la Procura della Repubblica di Paola – come si legge nel bollettino della questura calabrese, riversato nell’articolo sul sito de Il Lametino – l’uomo è stato dichiarato in arresto, convalidato nel corso dell’udienza, svoltasi al Tribunale di Paola, in cui è stata disposta la misura cautelare dell’obbligo di presentazione presso i Carabinieri di Castrovillari”. La borsetta è stata restituita alla legittima proprietaria

“Ma è anche il conformismo a rovinare la ricerca”

Emiliano Brancaccio, professore all’Università del Sannio, è un osservatore attento delle dinamiche del potere accademico. Ha scritto con Giacomo Bracci Il discorso del potere sulla politica del Nobel per l’economia.

Il potere editoriale delle maggiori riviste economiche è fortemente concentrato negli Usa. Quali sono i rischi?

Le riviste americane detengono un potere accademico enorme, che determina le gerarchie della ricerca economica mondiale. Basti guardare i Nobel per l’economia, quasi sempre provenienti da università americane. Tuttavia, se anche riuscissimo a creare un sistema più equilibrato, magari attribuendo maggior valore alle riviste non americane, resterebbe in piedi il problema principale: è la tendenza dilagante al conformismo, che porta le principali riviste a non pubblicare le ricerche degli economisti più eretici e innovativi. I giovani studiosi lo sanno bene. Pubblicare sulle grandi riviste può agevolare molto la loro carriera accademica, per questo orientano le ricerche su temi e metodi che le redazioni di quelle riviste reputano accettabili.

Quali sono le implicazioni di questo conformismo?

Il conformismo difende i modi abituali di fare ricerca, anche quando questi entrano in palese contraddizione con la realtà. È un meccanismo oscurantista che impedisce la sperimentazione di nuovi metodi di ricerca e blocca il progresso scientifico. L’implicazione principale è un completo distacco dai fatti. Lo ammettono persino i banchieri centrali come Trichet all’indomani della grande recessione mondiale: la ricerca economica oggi dominante non aiuta a fronteggiare le crisi economiche.

In che modo si può contrastare questa tendenza?

Per cominciare, bisognerebbe cancellare le regole più oscurantiste. In Italia, per esempio, c’è l’Anvur, l’agenzia di valutazione del ministero, che discrimina le riviste di orientamento critico, che pubblicano ricerche che aggiornano il metodo di Marx e degli altri grandi eretici del pensiero economico. Solo una decina di queste riviste viene classificata di “serie A” su un totale di circa 1.500 riviste in quella categoria. È uno sbilanciamento scandaloso che contribuisce a consolidare il dominio accademico delle vecchie dottrine, nonostante i loro conclamati fallimenti.

Contro Giovannini: promesse “berlusconiane” sulle ferrovie

La strategia che il ministro dei trasporti Enrico Giovannini sostiene in ogni sede per giustificare i 25 miliardi di euro allocati dal Pnrr per nuove linee ferroviarie è in realtà vecchissima, non ha funzionato in passato e non ci sono ragioni tecniche perché funzioni in futuro, se non marginalmente. È il cambio modale, cioè il radicale spostamento di traffico merci e passeggeri dalla strada alla ferrovia. Ma si può affermare senza ragionevoli dubbi che ha fallito in passato guardando il fortissimo impegno fiscale erogato dallo Stato negli ultimi 30 anni per conseguirlo. I risultati sono praticamente nulli: abbiamo le maggiori tasse sul modo stradale d’Europa. Lo Stato ricava circa 40 miliardi netti annui (che in 30 anni ammontano a 1.200 miliardi). Per le ferrovie la spesa netta, a vario titolo, è di circa 12 miliardi all’anno (per un totale di 470 miliardi nello stesso periodo, come ho riportato ne L’ultimo treno, Paperfirst, 2021). I traffici in questo trentennio sono cresciuti molto, ma le quote percentuali sono mutate in modo marginale.

Capiamo le ragioni di questa rigidità al cambio modale. Il motivo dominante è tecnico e si chiama “rottura di carico”. Le strade vanno ovunque, le linee ferroviarie no. Quindi qualsiasi viaggio in ferrovia, per merci e passeggeri, richiede con poche eccezioni di cambiar modo di trasporto due volte. Questo aumenta sensibilmente i tempi e i costi non monetari del sistema ferroviario. Alle merci si aggiunge l’evoluzione del sistema produttivo da merci povere e pesanti (adatte al treno) a merci ad alto valore aggiunto, per le quali un servizio di trasporto diretto è essenziale (difficile far viaggiare abiti di Armani o pc in treno). Per i passeggeri, l’aumentato reddito consente modelli di vita e di consumo complessi, che richiedono spostamenti flessibili, molto al di là dei meri spostamenti casa-lavoro. Anche a questo fine il trasporto stradale individuale è vincente sulla rigidità del treno.

I numeri che porta il ministro Giovannini a supporto del suo mega-piano di cambio modale sono così suddivisi: 14 miliardi al Sud, 4 al Centro, 9,5 al Nord, e 1,5 per “diagonali”. Ma questa è solo la parte finanziata dal Pnrr, moltissimi altri saranno necessari per completare le opere. E questi dovranno essere reperiti sul mercato dei capitali, a tassi di interessi non noti. È un piano due volte rischioso: o opere non finite, quindi di ridotta utilità specialmente in caso di ferrovie, o costi “a finire” molto elevati. Ma che importa? Il 2026 è “politicamente” lontano. Inoltre, viene fornito solo un dato medio nazionale di base. Si afferma che i tempi di viaggio in ferrovia diminuiranno del 17%. Questo risultato comporterebbe l’aumento dei passeggeri (66%), delle merci (54%) e la riduzione delle emissioni di CO2 di 3 milioni di tonnellate. Poiché il risparmio di tempo di viaggio è la variabile dominante per la scelta modale dei passeggeri (il successo dell’aereo e dell’Alta Velocità lo dimostrano) questo risultato sembra smentire tutta la letteratura sull’argomento. L’elasticità al tempo (cioè il rapporto tra la sua diminuzione e l’aumento del traffico) è al massimo dell’ordine di 2 e qui siamo vicini al doppio.

Per le merci la velocità è molto meno rilevante che per i passeggeri. Quindi o quel dato è ancora meno difendibile o ci sono altri miracolosi interventi non descritti, perché il trasporto ferroviario merci è quasi stabile da decenni. Ovviamente i benefici ambientali ci saranno solo in funzione degli aumenti di traffico previsti. Ma anche se quel numero fosse verosimile, e non lo è, equivarrebbe al 3% delle emissioni del settore dei trasporti e all’insignificante 0,75% delle emissioni nazionali. E non sappiamo se sono state calcolate le elevate emissioni “di cantiere” e il rapido calo previsto di quelle dei mezzi stradali, oggetto di una parte rilevante dello stesso Pnrr. Quanto costerebbe abbattere le emissioni in altri settori? Ci sono forti indizi che costerebbe molto meno: alcuni settori molto inquinanti sono addirittura sussidiati, come l’agricoltura. Ben altro manca nei documenti presentati dal ministero: non c’è traccia di analisi finanziarie e distributive (quali categorie di reddito avranno i maggiori benefici). Si indica la percentuale o di territorio o di popolazione servita da infrastrutture ferroviarie, ma non ha senso ignorare le altre infrastrutture, né i costi dei collegamenti ferroviari rispetto alle alternative.

Tutto sembra molto vecchio: promesse “berlusconiane” di molto cemento e di grandi opere con risultati mirabolanti come modello di crescita per il futuro. Il resto del mondo punta su nuove tecnologie sulle quali, sommando soldi pubblici e privati, gli investimenti sono assolutamente dominanti.

Geopolitica degli studi economici: dagli Usa tre pubblicazioni su 4

In questi anni il mito della competenza neutrale e benevola ha fatto dimenticare a molti una questione essenziale: quella del potere. È un aspetto trascurato in parecchie discipline, in modo particolare in economia. Finché si resta nell’aneddotica o nella critica teorica è difficile cogliere la reale dimensione del problema. Sono preziosi a tal riguardo alcuni recenti studi quantitativi sulla diffusione geografica del potere accademico.

Dati alla mano, la situazione è impressionante. Secondo un articolo di Fontana, Montobbio e Racca (rilanciato di recente dal celebre economista Dani Rodrik su Project Syndicate), nelle otto maggiori riviste economiche scrivono quasi soltanto autori che vivono nei Paesi occidentali. Nelle pubblicazioni dominano gli Stati Uniti (73%), seguiti dall’Europa (16%). Al resto del mondo – che vale quasi il 70% del Pil globale – resta un magro 11%.

Ora proviamo a entrare nei comitati editoriali delle riviste, un nucleo di potere centrale nella ragnatela della vita accademica. Per uno studioso, le pubblicazioni sono benzina nel motore della sua carriera. Gli editor delle riviste, accettando o rifiutando i suoi articoli, ne decidono di fatto le sorti. Un recente studio di Angus, Atalay, Newton e Ubilava pubblicato su VoxEu analizza i 49 journal economici più importanti. La dimensione del dominio a stelle e strisce è sbalorditiva. Il 63% del potere editoriale risiede negli Stati Uniti: sei responsabili su dieci delle riviste più importanti lavorano negli Usa.

Le università del solo Massachusetts hanno più potere di quattro continenti messi insieme (Asia, Sud America, Africa e Oceania). A conti fatti, all’Europa rimane il 27% del potere editoriale, mentre il resto del mondo ne ha solo il 7%.

Per alcuni questo sistema riflette semplicemente la superiorità dell’accademia statunitense e occidentale in generale. Secondo altri, invece, questa concentrazione di potere è soprattutto la conseguenza di reti di conoscenze e frequentazioni. Secondo Dani Rodrik, “se una ricerca viene presa sul serio dipende criticamente dal fatto che gli autori siano andati nelle scuole giuste, conoscano le persone giuste e viaggino nel giusto circuito di conferenze”. E dove si trovano le “reti giuste”? In Nord America e, in misura minore, in Europa occidentale.

A questo punto, però, ci si potrebbe chiedere perché è così importante dove vivono e lavorano gli economisti. Del resto, si potrebbe pensare che, alla lunga, l’onestà e la competenza dei singoli prevalgano sull’effetto delle reti in cui sono inseriti. Ma, come scriveva il poeta John Donne, “nessun uomo è un’isola”. Ogni studioso è inserito in un fitto network di relazioni sociali e lavorative che influenzano il suo lavoro. A maggior ragione questo vale per gli economisti, che spesso ricoprono ruoli di consulenza per società private, amministrazioni pubbliche e governi.

L’insufficiente diversità geografica nelle discipline economiche riduce le possibilità di confronto fra prospettive diverse e rischia di bloccare la libera competizione delle idee. Non solo: è possibile che gli economisti, anche involontariamente, esprimano favoritismi per chi lavora nel loro stesso ambiente.

Studiare economia dello sviluppo da un comodo ufficio a Harvard o in un’università africana non è la stessa cosa. L’esperienza sul campo è insostituibile. Non basta che nelle prestigiose facoltà occidentali entrino sempre più studiosi nati all’estero. “Gli economisti nati all’estero che vivono in Occidente sono tipicamente assorbiti da un ambiente intellettuale dominato da questioni e preoccupazioni dei Paesi ricchi”, sottolinea ancora Rodrik (che sa di quel che parla, essendo nato in Turchia e lavorando negli States).

Che l’economia diventi una disciplina davvero globale e pluralista non è una faccenda per specialisti, ma riguarda tutti: le ricette economiche che i governi applicano, infatti, non sono solo l’esito di crudi rapporti di forza fra classi sociali e potenze nazionali, ma si sviluppano anche nei dipartimenti di economia, soprattutto in quelli più potenti e ricchi.

Sugli squilibri attuali influisce sicuramente anche la proiezione globale degli Stati Uniti. L’ascesa della Cina potrebbe far scricchiolare il dominio Usa. Inoltre, le nuove tecnologie favoriscono la collaborazione fra studiosi molto lontani geograficamente. In ogni caso, però, il peso della storia e dei gatekeeper del mondo accademico non può essere sottovalutato.

Se è vero che la scienza progredisce un funerale alla volta, alcune strutture di potere sono dure a morire. Senza una maggiore consapevolezza del problema nell’opinione pubblica e nelle facoltà universitarie è difficile che cambino davvero le carte in tavola.