“Caso Lazio: cos’è successo e gli errori della Regione”

“Durante la mia esperienza all’Agenzia per l’Italia Digitale ho scritto le misure minime per la sicurezza informatica della Pa. Sono obbligatorie, ma purtroppo prive di controlli e sanzioni”. Corrado Giustozzi è uno dei maggiori esperti di cybersicurezza in Italia. È stato consulente Agid per lo sviluppo del Cert della Pubblica amministrazione e membro per dieci anni dell’Advisory Group dell’Agenzia Ue per la cybersecurity (Enisa). Ci rivolgiamo a lui per fare il punto sull’attacco delle scorse settimane al Centro elaborazione dati della Regione Lazio: un ransomware (un software malevolo che blocca i sistemi informatici cifrandoli e chiedendo un riscatto in bitcoin, 5 milioni in questo caso, per liberarli) ha bloccato il portale Salute Lazio e i sistemi della rete vaccinale. La politica ha parlato di un “attacco potentissimo”, finanche di “terrorismo”…

Giustozzi, invece cos’è stato?

Ciò che accade da anni in tutto il mondo. Un attacco di matrice criminale, come le estorsioni e le richieste di pizzo. Sui dati c’è ormai una economia di scala spaventosa. Li sequestrano come prima si faceva coi bambini. Dietro c’è la stessa filiera del crimine: altro che hacktivisti e ragazzini in felpa, i milioni dei riscatti vanno riciclati…

Che cosa è successo?

C’è stata una intrusione diretta nella rete, utilizzando le credenziali carpite a un dipendente, non si sa come. Una volta dentro, hanno provato a cancellare le copie di backup dei dati e cifrato tutto. A quel punto è stato chiesto il riscatto, ma non è stato pagato.

Non ce n’è stato bisogno?

No, perché le copie di backup non sono state completamente cancellate. Semplificando, possiamo dire che erano su un dispositivo molto valido, da centinaia di migliaia di euro, che emula i vecchi backup a nastro. Quindi le operazioni di cancellazione non sono state fatte a livello fisico ma solo logico. Lavorando sulla struttura, è stato possibile ricostruire i dati.

La Regione ha fatto errori?

Ha tenuto i backup online. Le misure minime per la Pa prevedono che ce ne siano off-line proprio per minimizzare i rischi di intrusione e facilitare il recupero. E ancora: il poter amministrare i sistemi da remoto (da internet, ndr), l’assenza di autenticazione a doppio fattore e la facilità di passaggio da una rete interna all’altra.

Incuria?

Quando ti muovi nel pubblico fare bene le cose è complicato. Qualche tempo fa al Cert-Pa avevamo avvertito di una campagna di malware che sfruttava vulnerabilità di alcuni prodotti Microsoft. Chiedevamo di aggiornare i sistemi con le patch disponibili. La risposta spesso era: non possiamo perché il contratto col fornitore prevede l’aggiornamento ogni sei mesi e quindi dobbiamo aspettarne altri 4. Spesso poi un sindaco preferisce spendere 100mila euro per cambiare tutti gli estintori scaduti o rifare le aiuole, ma non per un sistema di sicurezza di cui magari non capisce l’importanza.

Come arriva un gruppo criminale attivo anche in Sudamerica alla Regione Lazio?

Di solito è una catena. Attaccano una vittima perché la conoscono o per altri motivi. Da lì, prendono informazioni che possono servire anche per nuovi attacchi. È come se un ladro entrasse a casa del mio commercialista. Comunque l’inchiesta è ancora in corso.

E i sistemi violati?

Non tutti i servizi sono sullo stesso sistema, quindi alcuni database non sono stati toccati. Le macchine però sono state compromesse ed è buona norma non fidarsi più perché magari la minaccia è latente altrove. Bisognerebbe buttare tutto e ricominciare.

I dati sono stati copiati? Si parla di vendita sul dark web

Pare poco probabile. Centinaia di terabyte possono richiedere mesi e – ma ci dovrà essere conferma delle indagini – sembra che l’attacco sia stato molto più breve. Quelli sul dark web sono vecchissimi.

Gli attacchi aumentano?

Crescono in quantità e in qualità. Non più le mail col finto conto in banca, ma attacchi mirati: studiano l’obiettivo, costruiscono malware ad hoc che sfuggono agli antivirus (si comprano anche facilmente sul mercato nero), cercano le vulnerabilità ed entrano da lì.

Perché la sanità è nel mirino?

Il sistema sanitario è la vittima perfetta perché gestisce la vita delle persone e spesso è più vulnerabile. Un ospedale, anche filosoficamente, non si aspetta di essere attaccato ed è più propenso a pagare perché è responsabile della vita delle persone. Legge della natura: il predatore attacca gli esemplari più deboli.

Il Covid spinge la sanità digitale. Il business vale 70mld all’anno

Se i dati sono per l’economia i nuovi idrocarburi, i database rappresentano i campi petroliferi del futuro. A differenza del passato, però, le risorse digitali non solo sono inesauribili ma crescono a tassi sempre più rapidi. Tra le aree maggiormente pregiate per “l’industria estrattiva” svetta quella della salute: nei Paesi occidentali, Italia in testa, la società è in rapido invecchiamento, gli investimenti e gli intrecci tra la finanza, le assicurazioni, la farmaceutica e la sanità sono fortissimi. Ma dietro questo El Dorado si celano anche dei rischi: su quello di costruire un panopticon orwelliano che consenta di frugare nelle vite di miliardi di persone vigilano le norme della privacy, ma sul fronte degli hacker e furti digitali c’è ancora un gran lavoro da fare, come dimostrano le recenti vicende del Lazio e della Toscana.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, la salute digitale (eHealth) è la chiave per la trasformazione della salute pubblica, come indicato dal 13° Programma generale dell’Oms 2019-23. Al tema è dedicato anche un recente rapporto del think tank del Parlamento europeo, perché l’eHealth è da anni una priorità sanitaria della Ue e ora, con la pandemia, è divenuto strategico. Mentre l’eHealth pubblica è collegata ai programmi nazionali e regionali, il suo business privato è però più ampio e non conosce confini poiché funziona indipendentemente dall’infrastruttura locale. Ciò facilita le soluzioni, ma complica anche i problemi, in particolare le garanzie sui diritti personali.

Le previsioni sul mercato globale dell’eHealth indicano che quest’anno il giro d’affari toccherà i 69,3 miliardi per raggiungere i 187,9 nel 2025. Oggi in Europa sono attive 626 aziende sanitarie digitali: il 63% di esse è stato fondato negli ultimi cinque anni. I maggiori investimenti sono diretti alle tecnologie digitali per i servizi sanitari, incluso il software. Tuttavia, con la pandemia, sono cresciuti gli investimenti nei servizi sanitari online, come i consulti a distanza: nella Ue il 55% delle persone tra 16 e 74 anni ha cercato informazioni relative alla salute su Internet nel primo trimestre del 2020, anche se con ampie differenze tra Paesi. Ma volano anche la gestione online di ricette e cure domiciliari e i servizi elettronici come il green pass e i fascicoli sanitari digitali.

La nuova frontiera però sta nei big data e nell’intelligenza artificiale (Ai), specialmente in campi come la radiologia e lo screening del cancro. Il mercato dell’Ai nell’assistenza sanitaria raggiungerà i 5,6 miliardi entro quest’anno e i 6,9 l’anno prossimo. Ad esempio, la società Kheiron Medical utilizza l’Ai per valutare mammografie e screening per il cancro in un modo più economico, nella maggior parte dei casi eliminando la necessità di un secondo medico per rivedere le radiografie, mentre la società Methinks riduce i tempi di valutazione dei pazienti con ictus l’intelligenza artificiale per analizzare le scansioni preliminari. Un’altra start-up sanitaria, Healthily, usa l’intelligenza artificiale per aiutare gli utenti a controllare i loro sintomi prima di decidere se consultare un medico.

La prossima grande fonte di dati sanitari personali è la mobile Health (mHealth), cioé la gamma di dispositivi connessi abilitati dall’Internet delle cose (IoT) che continua a crescere rapidamente. Si prevede che il numero di questi dispositivi passerà da 8,74 miliardi nel 2020 a oltre 25,4 nel 2030, generando ancora più big data per analisi e applicazioni intelligenti. Nel 2020 il segmento consumer rappresentava circa il 60% di tutti i dispositivi mHealth e il Paese con la diffusione più ampia era la Cina, con 3,17 miliardi di dispositivi. Tra gli strumenti mHealth più popolari ci sono le app, come quelle per l’invecchiamento attivo, e i device indossabili che misurano in tempo reale frequenza cardiaca, livello di glucosio e pressione sanguigna e scambiano informazioni tra siti, medici e pazienti. Oltre all’IoT, stanno crescendo rapidamente app, sensori e i moduli di raccolta dati mobili gestiti da smartphone. Questo mercato dovrebbe crescere fino a 53 miliardi entro il 2025 ed è dominato dagli smartwatch. Il mercato nazionale più ampio per le app m-Health è quello statunitense che dovrebbe crescere i 43 miliardi di ricavi entro il 2025. Secondo la Commissione Ue, sul mercato europeo sono presenti più di 3mila app per la salute, raddoppiate rispetto al 2015, a fronte di oltre 100mila disponibili a livello globale, la maggior parte delle quali però prive di un modello di business sostenibile.

A livello politico, da molti anni la Ue sostiene strategie e piani d’azione sulla sanità elettronica, il più recente dei quali ha coperto il periodo 2012-20. Sulla base dell’attuale direttiva sull’assistenza sanitaria transfrontaliera, gli Stati membri collaborano attraverso una rete volontaria che collega le autorità nazionali responsabili dell’eHealth. Tra le sei priorità della Commissione Ue per il periodo 2019-24 c’è la trasformazione digitale della sanità e dell’assistenza, per mettere in comune i dati sanitari in tutta Europa. Più di recente la Ue ha presentato il piano Eu4Health 2021-27, investendo 5,1 miliardi in risposta alla pandemia. Tra gli ambiti d’intervento del piano c’è anche la trasformazione digitale dei sistemi sanitari. Gli obiettivi decennali di Bruxelles includono la digitalizzazione dei servizi pubblici entro il 2030, per dare accesso online ai loro fascicoli sanitari digitali a tutti i cittadini. A questo scopo, la Commissione sta lavorando per migliorare l’interoperabilità transfrontaliera dei fascicoli sanitari digitali. Su questo fronte, oltre ai fondi strutturali gli strumenti di finanziamento dedicati alla salute digitale comprendono il piano europeo Horizon 2020, il Programma per l’Europa digitale, Eu4Health e i finanziamenti allo Strumento di ripresa e resilienza (Recovery and Resilience Facility) che è il cuore del programma NextGeneration Eu per il rilancio postpandemico.

Ma il trasferimento dei dati sanitari personali sta alimentando il dibattito su chi li possiede e controlla: il paziente, l’operatore sanitario, lo Stato o le aziende che li raccolgono? La condivisione di dati sensibili solleva forti interrogativi sul diritto alla privacy. Preoccupazioni condivise dai parlamentari di Strasburgo: nella sua risoluzione del 18 dicembre 2019 sulla trasformazione digitale della sanità e dell’assistenza nel mercato unico digitale, il Parlamento europeo ha sottolineato la necessità di tenere pienamente conto della riservatezza, della sicurezza e dell’accuratezza dei dati sanitari e di integrare le esigenze dei pazienti nell’attuazione delle componenti sanitarie digitali.

Il Parlamento europeo ha inoltre sottolineato l’importanza del rispetto della legislazione dell’Unione Europea sulla protezione dei dati come prerequisito per la trasformazione digitale della sanità. Gli interessi in agguato infatti sono fortissimi, come anche gli attacchi sempre più frequenti da parte degli hacker.

Green new deal: America e Cina si contendono l’energia pulita

Tensioni crescenti tra Cina e Stati Uniti, ripresa della corsa agli armamenti, ritorno delle rivalità imperialiste: queste realtà geostrategiche sono difficilmente compatibili con degli obiettivi ecologici ambiziosi. Eppure raramente sono presenti nei discorsi di chi promuove il Green New Deal. Ovviamente una forma di logica esiste, nella misura in cui diversi decenni di negoziati internazionali hanno messo in evidenza l’assenza di un’istanza globale in grado di imporre azioni vincolanti in termini di riduzione dell’impronta ecologica. Nel loro libro “Gouverner le climat?” (SciencesPo, 2015), i ricercatori Stefan Aykut e Amy Dahan hanno potuto constatare “l’impotenza flagrante della governance climatica ad agire sul reale”. Di fronte a istituzioni globali deboli, prive di legittimità e leadership, Ann Pettifor, una delle più convinte sostenitrici del Green New Deal, invita quindi a privilegiare la via della “cooperazione internazionale fondata sull’autorità degli Stati-nazione”.

Il problema è che questa cooperazione tra unità-Stati è raramente pensata come tale. Molto spesso, anche nelle versioni più radicali, la dimensione globale è affrontata principalmente in termini di responsabilità differenziate tra Nord e Sud, come in una proiezione, su scala sovranazionale, delle disuguaglianze che fratturano la società di fronte al cambiamento climatico. La scena internazionale non è vista attraverso la sua specificità, di essere cioè strutturata secondo una gerarchia di potenze. “La sinistra è a disagio con questo principio – spiega Philip Golub, professore all’Università americana di Parigi -. L’internazionale resta immerso in una sorta di stato di natura, senza reali strumenti per subordinare le potenze a una volontà comune. L’ideale, ancora lontano, sarebbe di costituzionalizzare il mondo, come è stato fatto a livello domestico”. Discorsi e iniziative politiche recenti, negli Stati Uniti come in Cina, mostrano una volontà di emulazione reciproca al fine di diventare leader nella transizione ecologica. “Nell’estate 2020, il programma ufficiale del partito Democratico affermava che la minaccia esistenziale era rappresentata dal clima – osserva Maya Kandel, ricercatrice associata all’Università Paris-3 -. Non è un caso se John Kerry, noto per il suo impegno su questo genere di sfide, sia stato nominato al Consiglio di sicurezza nazionale”. Da allora, il presidente Biden è impegnato a cercare finanziamenti per far evolvere il mix energetico degli Stati Uniti. Da parte sua, in Cina, Xi Jinping ha ribadito che il suo paese sarebbe stato in prima linea nello sforzo globale per la “civiltà ecologica” e ha più volte martellato sull’impegno del paese a raggiungere il suo picco di emissioni nel 2030 (il che presuppone anche una possibile crescita fino a quella data) e la neutralità carbonica nel 2060, “un test – ha detto – per valutare la capacità del nostro partito a governare il Paese”. “Ma la fase dei grandi appelli morali è finita – commenta il filosofo Pierre Charbonnier -. Ormai siamo ad un punto di intersezione tra politiche climatiche, di sovranità, di occupazione e industriali. È una buona notizia, perché il dibattito pubblico si concentri sui problemi centrali e non marginali”. Per riflettere sulla funzione che un Green New Deal potrebbe svolgere in questo contesto, è utile osservare come si è articolato il New Deal degli Stati Uniti degli anni 30, che lo ha ispirato. In un primo tempo, la politica di Roosevelt era orientata a finalità esclusivamente interne, al fine di (ri)creare sicurezza economica e sociale. Nel corso degli anni 30, la ripresa interna resa possibile dal New Deal è stata accompagnata da un’ascesa delle minacce esterne, spinte dalla volontà di espansionismo del fascismo in Europa.

Le sfide legate alla sicurezza aveva assunto un nuovo significato geostrategico, dopo essere state ridefinite dal punto di vista dell’inclusione socioeconomica. Da allora, l’“eccezione statunitense”, come idea di una “missione civilizzatrice” della Repubblica nordamericana, sono state interpretate alla luce di una risposta interventista alla crisi, che aveva potuto preservare i pilastri della democrazia. Il New Deal rooseveltiano poteva infatti vantarsi non solo di aver salvato il capitalismo da se stesso, ma anche il regime liberal-rappresentativo che questo modo di produzione può tollerare, fintanto che gli interessi fondamentali dei detentori dei capitali non vengono minacciati. Poiché la guerra era stata combattuta in nome di questa democrazia, essa poteva venire esportata al di là delle frontiere, dal momento che le circostanze lo richiedevano. Per gran parte dei Democratici centristi, tra cui Joe Biden, il Green New Deal si fonda chiaramente su queste basi storiche, attraverso la difesa della democrazia in termini di valori e la rivalità con la Cina sul piano geostrategico. Dalla presidenza Trump, molti democratici hanno imparato che il rispetto prolungato dell’ordine neoliberale può sfociare in mandati che minano lo Stato di diritto e la possibilità stessa dell’alternanza pacifica. Invece l’idea della competizione tecnologica e ideologica con la Cina continua a essere presa sul serio, pur essendo strumentalizzata. Maya Kandel racconta come alcuni responsabili politici pro-clima ripetano più volte nei loro testi la parola “Cina” per recuperare voti repubblicani al Congresso: “È successo di recente, per esempio, per un emendamento relativo a un’imposta alle frontiere da imporre a paesi non abbastanza impegnati sul clima. In generale, citare la Cina ha una valenza tattica per Biden. Ma ritengo anche che il presidente sia sinceramente preoccupato per il Paese, la cui immagine ha sofferto sulla scena internazionale e per il rischio di leadership cinese in materia tecnologica”. La centralità della Cina nel pensiero strategico statunitense non è retaggio trumpiano, ma risale almeno ad Obama. “La Cina è percepita come una potenza emersa, una sfida seria paragonabile all’Unione Sovietica, per il fatto stesso che fa parte del sistema capitalista mondiale – osserva Philip Golub -. La Cina inoltre ha portato a termine con successo la sua transizione capitalista autoritaria e dimostra la sua volontà di investire in modo massiccio nella ricerca.

Per tutta risposta, l’amministrazione Biden ha avviato una serie di iniziative, tra cui la creazione di nuove agenzie di Stato per favore l’innovazione nel campo della difesa, della salute, dell’energia e dell’ambiente. Siamo in una logica rooseveltiana: si tende a risolvere problemi domestici, proteggendo al contempo il progresso tecnologico del paese nella competizione con la Cina”. L’uso dell’espressione “sicurezza nazionale” nella risoluzione di Green New Deal proposta da Alexandria Ocasio-Cortez e Ed Markey non era dunque neutra, benché l’argomento fosse il cambiamento climatico. Allo stesso tempo, diverse organizzazioni e think tanks, tra cui il giovane Quincy Institute, difendono una de-escalation con la Cina che passerebbe per la demilitarizzazione e la cooperazione in materia di clima. Ma non c’è forse il rischio in questo modo anche di collaborare con un potere che perseguita le sue minoranze, al punto che lo stesso Biden ha parlato di “genocidio” rispetto alla repressione degli uiguri? “Si possono immaginare configurazioni ibride, cooperando solo in certi settori e mantenendo le rivalità in altri – spiega Golub -. Ma è evidente che la sola dimensione climatica non permetterà di risolvere gli altri problemi esistenti tra Cina e Stati Uniti”. “Non c’è soluzione alla crisi climatica senza un gigantesco e costoso impegno da parte di Pechino, che detiene letteralmente nelle sue mani il futuro dell’umanità”, secondo lo storico Adam Tooze. Rispetto all’Europa, l’economia della Cina è lungi dall’essere “verde”: “Il carbone costituisce ancora il 60% del mix energetico del paese e si continuano a costruire centrali – avverte Jean-Paul Maréchal, docente di economia all’Università di Parigi-Sud -. Come possiamo solo immaginare che raggiungerà la neutralità carbonica nel 2060?”.

(Traduzione di Luana De Micco)

“Le vie degli affari sono infinite: la guerra è la strada sbagliata”

Esportare la democrazia conviene? “Immagino si riferisca al fatturato della guerra”.

Immagina bene professor Fitoussi.

La guerra alimenta una domanda aggiuntiva ma ci sono modi assai migliori di alimentare il fatturato. Non c’è poi una guerra che sia finita bene e non c’è luogo in cui la democrazia sia stata esportata con le armi. Siamo dovuti partire da ogni Paese occupato con i blindati e il costo politico della fuga risulta enormemente maggiore di quello messo in preventivo. Iraq, Siria, Libia ancora sono bracieri ardenti e nulla ci hanno purtroppo insegnato. L’Afghanistan è l’ultima tappa di questa indisturbata e suicida crociera militare che finisce in un bagno di sangue e in una catastrofe geopolitica.

Si dice che l’Afghanistan sia la nuova Arabia del litio. Con immensi giacimenti inesplorati mentre la Cina sarebbe già intenta a valorizzare le riserve di rame e l’India quelle di ferro.

Intanto ci siamo consegnati ai talebani armi e bagagli. La lezione di questa disfatta ci dice che se c’è da alimentare un’industria nazionale beh, scegliere di scatenare una guerra è di sicuro il modo peggiore. Gli Usa, ora protagonisti di questa fuga caotica e piuttosto disonorevole, con la pandemia hanno invece dato una lezione all’Europa su come contrastare la recessione e abbattere la disoccupazione.

Non hanno risparmiato dollari.

Cinquemila miliardi è la dote messa a disposizione. Quantità imparagonabile di fronte ai 750 miliardi di euro (di cui 360 miliardi di prestiti) che l’Europa ha propagandato come il grandioso piano di ripresa. Grandioso? C’è qualcosa che non capisco.

L’Europa è una, nessuna e centomila.

Gli Usa non tollerano una disoccupazione alta, noi invece sì. E infatti gli Usa hanno un’economia già ritornata ai livelli pre Covid, da noi si stima che solo alla fine del prossimo anno potremo dire lo stesso. E molte delle spese, ritornando al tema dell’Afghanistan e dell’economia prodotta da una guerra, saranno invece destinate a riqualificare le infrastrutture civili, a irrobustire il sistema sanitario. Come vediamo, il fatturato dell’industria è lievitato enormemente a conferma che la guerra, oltre a ogni valutazione di ordine etico, resta la strada meno conveniente per alimentare i bilanci.

Perché l’Europa arranca?

Perché è un insieme di Paesi federati senza una vera federazione. I governi nazionali messi sotto tutela dalla burocrazia di Bruxelles che deve valutare la qualità dei soldi spesi da ciascuno di essi, accettano supinamente questo tutoraggio. Una tutela che alimenta altra burocrazia e finisce per ostruire il cammino invece di renderlo più veloce e segna, tra le altre tante distinzioni, la differenza con la speditezza dell’economia americana.

Dopo Merkel chi guiderà le danze a Bruxelles?

Due persone possono assumere la leadership europea: Draghi e Macron. In questa fase c’è però bisogno di una politica schiettamente di sinistra e Draghi, che pure ha un curriculum superiore al francese, da questo punto di vista non compie scelte identificabili. Perciò per Macron (che ha altissime probabilità di essere rieletto) la strada è in discesa.

Oppio, 9 miliardi per fermarlo Ma i campi si sono estesi di più

Assicurano che l’Afghanistan non si trasformerà in un narco-Stato. “Non produrremo alcun tipo di droga – ha detto martedì scorso il portavoce Zabihullah Mujahid -. Nessuno nel Paese sarà coinvolto nel traffico di stupefacenti”. Ma al di là delle dichiarazione necessarie ad accreditarsi come interlocutori della comunità internazionale, difficilmente i Talebani potranno mantenere le promesse.

Per consolidare il potere conquistato dopo il frettoloso ritiro degli Stati Uniti, i nuovi signori di Kabul dovranno trovare il modo di dare ossigeno a un’economia asfissiata da decenni di guerra, mantenere in piedi le strutture di potere che hanno creato e tenere in funzione l’apparato statale. Secondo David Mansfield, analista consulente dell’Overseas Development Institute, think tank che ha sede nel Regno Unito, “la fonte primaria” delle loro finanze “è la tassazione dei beni legali”. Ovvero i dazi che impongono sul passaggio delle merci come carburanti e sigarette attraverso i valichi di frontiera e nei territori sotto il loro controllo. Una risorsa che diventa ancora più importante dopo che Washington ha impedito loro l’accesso alle riserve della Banca centrale e il Fondo Monetario internazionale ha tagliato i fondi a Kabul.

Anche la produzione di oppiacei, tra cui eroina e morfina, rimarrà quindi un pilastro della loro economia. Nel suo ultimo rapporto il Sigar (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction), l’ispettorato generale sulla ricostruzione del Paese, ha certificato che dal 2002 gli Usa hanno speso quasi 9 miliardi di dollari (8,62) per contrastare l’estensione delle coltivazioni di papavero, ma queste ultime hanno continuato ad aumentare e l’Afghanistam rimane il principale produttore mondiale di oppio. A parte il crollo registrato tra il 2000 e il 2001, quando gli ettari destinati al papavero erano passati da 82mila a 6mila – si legge nell’Afghanistan Opium Survey 2020 stilato dall’Unodc, l’Ufficio Onu per il controllo della droga e la prevenzione del crimine – le coltivazioni si sono costantemente estese fino al picco dei 329mila ettari del 2017. Nei due anni successivi si è scesi, ma nel 2020 la curva è tornata a puntare in alto: i fiori rossi coprivano 224mila ettari – un aumento del 37% rispetto ai 163mila ettari del 2019 – tra le 4 più alte estensioni mai misurate.

In quell’anno tutte le regioni tranne quella orientale hanno visto un aumento della coltivazione del papavero. La regione sud-occidentale è rimasta la principale produttrice con il 71% del totale e anche l’area di Herat, dov’erano di stanza gli italiani, ha visto aumentare le coltivazioni dai 368 ettari del 2019 ai 455 del 2020. Le province interessate sono passate da 21 a 22 su un totale di 34: quella di Kapisa ha perso il suo status di area opium free, mentre l’Helmand è rimasta quella con il più alto tasso di produzione con un aumento del 27%, seguita da Badghis (+194%), Kandahar (+47%), Uruzgan (+16%), Faryab (+98%), Farah (+47%), Badakhshan (+36%), Balkh (in controtendenza con un -16%) e Nimroz (+46%). L’agenzia Onu ha stimato che nel 2020, la produzione potenziale di oppio ha toccato le 6.300 tonnellate, con una resa media di 28 kg per ettaro e un valore della produzione all’origine tra i 300 e i 400 milioni di dollari, il più basso dal 2009.

Kabul, 20 morti nella folla “Paese verso la catastrofe”

Quindicimila tra uomini, donne e bambini assiepati all’esterno dell’aeroporto di Kabul per cercare salvezza all’estero. Almeno 20, ha fatto sapere la Nato, quelle che tra le mura dello scalo hanno trovato la morte negli ultimi 7 giorni, uccise nelle calca creata per salire sugli aerei in partenza. La situazione della capitale afghana, caduta nelle mani dei talebani il 15 agosto dopo il frettoloso ritiro degli Stati Uniti, si fa di ora in ora più disperata. Per dare una boccata di ossigeno per l’aviazione militare impegnata da giorni in uno sforzo immane, Joe Biden ha dato ordine al Pentagono di mobilitare l’aviazione civile in quella che ha definito “la più grande operazione di evacuazione della storia”: 6 compagnie aeree – tra cui American Airlines, Delta e United – metteranno a disposizione 18 aerei di linea per aiutare a trasportare in Europa e Stati Uniti le persone evacuate da Kabul sui cargo militari e ammassate ora nelle basi in Qatar, Bahrein ed Emirati.

Anche l’Italia porta avanti l’operazione “Aquila omnia”: ieri 367 persone sono state evacuate da Kabul a bordo dei C130J dell’Aeronautica, per un totale di 2.497 afghani portati fuori dal Paese. A Fiumicino sono atterrati finora 1.701 civili in fuga (tra cui 454 donne e 546 bambini), altre 800 circa sono già pronte per essere imbarcati sui prossimi voli. Roma “continua a lavorare per portare in salvo i collaboratori e gli attivisti che vogliono lasciare il Paese”, ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio al Meeting di Cl. “Il piano è di trasferirne in Italia circa 2.500”, ha aggiunto il capo della Farnesina.

Nel resto dell’Afghanistan i talebani avanzano. “Centinaia di mujaheddin dell’Emirato islamico si stanno dirigendo verso il Panjshir per assumerne il controllo, dopo che i funzionari locali si sono rifiutati di consegnarlo”, ha annunciato il movimento su Twitter. L’obiettivo: spazzare via le milizie di Ahmed Massoud, figlio del “Leone del Panshir” che guidò la resistenza contro i sovietici e gli stessi talebani, prima di essere ucciso da Al Qaeda.

La situazione umanitaria del Paese, intanto, precipita: per le Nazioni Unite sono oltre 500mila gli sfollati, 250mila solo da maggio. Mary-Ellen McGroarty, direttrice nazionale per l’Afghanistan del Programma alimentare dell’Onu, ha detto in un’intervista al britannico Observer che i leader mondiali devono concordare un urgente sforzo umanitario “altrimenti, una situazione già orrenda diventerà una catastrofe assoluta”. “Dobbiamo portare rifornimenti nel Paese, non solo in termini di cibo, ma anche di forniture mediche, di rifugi. Abbiamo bisogno di soldi e ne abbiamo bisogno ora”, ha aggiunto McGroarty.

Anche sul piano politico, i talebani continuano a inanellare vittorie. Ieri Hashmat Ghani, fratello del deposto presidente Ashraf , fuggito la scorsa settimana dalla capitale, ha dichiarato ad Al Jazeera di avere accettato la loro conquista del Paese, spiegando che riconoscere il nuovo ordine a Kabul è una necessità “per il popolo”. In Occidente, intanto, si moltiplicano gli appelli al dialogo. “Un passo obbligato”, lo definisce l’ex premier Romano Prodi sul Messaggero. Mentre il presidente del Parlamento Ue, David Sassoli, auspica che “un dialogo con le nuove autorità di Kabul possa portare all’apertura di corridoi umanitari”.

Il decreto è già “soft”, Bonomi vuole togliere pure l’ultima sanzione

L’attacco sferrato sabato da Carlo Bonomi dal meeting di Rimini di Comunione e Liberazione a governo e sindacati racconta qualcosa di più delle solite alzate di voce del presidente di Confindustria: non si arrenderà fino a quando non prevarrà la sua logica, il far west. Dove licenziare in un’ora via Whatsapp “sarà pure brutto” (sic), ma va fatto perché poi non è mica vero che in Italia c’è stata una “valanga di licenziamenti”. Insomma, licenziare si può, costi quel che costi, tanto a pagare saranno sempre i lavoratori. Nella sua sfuriata Bonomi se l’è presa con il ministro Pd del Lavoro, Andrea Orlando e con la vice ministra M5S dello Sviluppo economico Alessandra Todde, colpevoli di aver annunciato misure anti-delocalizzazioni dopo i casi di licenziamenti collettivi da parte di alcune multinazionali. Anche se “l’industria manifatturiera – ha tuonato Bonomi – ha tenuto il Paese insieme, altrove tutti avrebbero avuto un occhio di riguardo”. E invece per Bonomi “Orlando e Todde pensano di colpire con un decreto le imprese sull’onda dell’emotività di due o tre casi che hanno ben altre origini”.

Eppure, quando il presidente di Confindustria ne ha parlato sul palco, era già consapevole che dalla bozza del provvedimento anti-delocalizzazioni erano state depennate le due misure più stringenti per le imprese: la multa del 2% del fatturato dell’ultimo esercizio e la creazione di una black list dove iscrivere le aziende che hanno delocalizzato in modo da bloccare per tre anni finanziamenti, incentivo pubblici e cassa integrazione. Misura che per la crisi Covid nell’ultimo anno e mezzo è stata pagato dallo Stato. La norma sulla black list è stata congelata perché per la sua attuazione sarebbe servito un passaggio al ministero della Giustizia, competente in materia, che avrebbe allungato i tempi di approvazione del decreto. Così come una linea più morbida del testo finale non dovrebbe incontrare né le ostilità di Lega e Forza Italia né violare le norme comunitarie sui licenziamenti. Un attacco così forte da parte di Confindustria, sono arrivati ad ammettere ieri Pd e M5s, non se lo aspettavano neanche loro. I due partiti continuano a professare di lavorare in accordo cercando una sintesi veloce per riuscire a portare il prima possibile il decreto legge nel primo consiglio dei ministri che potrebbe essere convocato per fine agosto. “Il focus è sulla responsabilità sociale d’impresa”, fanno notare fonti governative che seguono il dossier.

Insomma, se “non c’è nessuna logica punitiva”, cosa teme Bonomi? Per il presidente di Confindustria, che ha rinfacciato al governo i 58 miliardi di debiti che la Pa ha nei confronti dei fornitori, il provvedimento è troppo “punitivo” per un altro aspetto ancora presente nella bozza: la preclusione ai finanziamenti pubblici alle aziende che non seguono le “procedure per mitigare l’impatto delle delocalizzazioni”. In pratica, per avviare una procedura di licenziamento le aziende sopra i 250 addetti sono tenute a seguire un percorso obbligato: comunicare la decisione ai ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico, alla Regione dove si trova il sito produttivo e ai sindacati. Da quel momento la società ha tre mesi di tempo per mettere sul tavolo un piano di salvaguardia dei posti di lavoro, come la ricollocazione, i servizi di orientamento o riqualificazione. Ma non solo Bonomi non ne vuol sapere. Questa procedura ha pure un paletto: se non si rispetta il nuovo iter, viene precluso l’accesso a contributi, finanziamenti o sovvenzioni pubbliche per 5 anni. Così chi ha ribattezzato l’Italia “Sussidistan”, prendendosela con i governi che danno solo soldi a pioggia per sostenere i lavoratori, è ora lo stesso che teme che le imprese possano perdere improvvisamente denaro pubblico. Basta ricordare che la Gkn, che a giugno ha cacciato 442 lavoratori via e-mail, ha ricevuto 3 milioni di finanziamenti pubblici. Poi, preso il malloppo, ha deciso di delocalizzare.

“Draghi cacci Durigon: tenerlo lì è uno schiaffo alle vittime di mafia”

Nel mezzo della conversazione don Luigi Ciotti si interrompe. Fa una pausa, poi scandisce per tre volte le stesse parole: “Deve andarsene, deve andarsene, deve andarsene: possibile che nessuno abbia ancora preso una decisione?”. Il fondatore di Libera e del Gruppo Abele sta parlando di Claudio Durigon, sottosegretario leghista all’Economia che ha proposto di intitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini (fratello del duce) invece che a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lui, che da prete di strada combatte ogni giorno contro la droga e le mafie (è sotto scorta da 32 anni), quella frase non può proprio accettarla: “Durigon deve dimettersi perché, come ci insegnava Falcone, le istituzioni sono sacre e qui è in gioco la credibilità della nostra democrazia”.

Don Luigi Ciotti, cosa ha provato quando ha ascoltato le parole di Durigon?

Credo che sia una proposta inaccettabile per chi crede nella Costituzione e nella democrazia. Ma soprattutto è uno schiaffo ai familiari di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e anche dei ragazzi delle scorte che sono morti con loro. Il mio pensiero va a tutti i familiari delle vittime innocenti di mafia che ancora oggi vivono il dolore, la sofferenza e portano addosso le ferite di quella violenza criminale. Quello di Durigon è un insulto a tutti loro.

Il sottosegretario della Lega ha detto che bisogna recuperare le “radici” della città di Latina.

La sua proposta è doppiamente grave perché da un lato si vorrebbe riportare a galla la memoria del fratello del fondatore di una dittatura che ha portato all’Italia morti, guerre e tragedie; dall’altro si vorrebbe accantonare la memoria di due martiri della libertà repubblicana e democratica, morti per combattere il potere mafioso e quei poteri oscuri che ancora oggi lo sostengono. È inaccettabile.

Perché lo ha detto, secondo lei?

Queste provocazioni servono a recuperare un po’ di visibilità. Oggi si usa dire: “Bene o male non importa, l’importante è che se ne parli”. Ma questo è un modo volgare, preoccupante e degradante di rappresentare le istituzioni. Per questo è bene che Durigon se ne vada…

Ovvero?

Se ne deve andare perché le istituzioni, ce lo ricordava proprio Falcone, sono sacre e per questo chi le rappresenta deve dimostrarsi eticamente all’altezza del ruolo. Non bisogna mai confondere le istituzioni con le persone: la sacralità delle istituzioni, infatti, sta nel fatto che chi le rappresenta deve essere garante e promotore di bene comune. E Durigon ha fatto esattamente il contrario: ha tradito la Costituzione antifascista su cui ha giurato e anche il patto di fiducia che con i cittadini. Deve andarsene.

Dovrebbe dimettersi spontaneamente?

Se avesse un po’ di dignità dovrebbe fare un passo indietro. Mi auguro la sua coscienza lo porti alle dimissioni.

E se non lo farà?

Chi governa, quindi il Presidente del Consiglio Mario Draghi, lo dovrebbe cacciare. Non c’è altra parola: cacciare.

Però il premier non ha ancora detto una parola sul caso e non sembra voler intervenire.

Ma com’è possibile che una persona del genere stia ancora al suo posto e che, dopo così tanti giorni, non sia ancora stata presa una decisione? Draghi deve allontanare Durigon anche per tutelare il suo governo da persone del genere. Mi rivolgo a lui: non bastano le riforme, è la politica che deve riformare se stessa facendo anche un po’ di pulizia al suo interno. Qui è in gioco la credibilità delle istituzioni e della politica stessa.

Si spieghi.

La dimensione etica della politica è stata barbaramente calpestata: la proposta di Durigon è una cattiva testimonianza nei confronti dei cittadini, soprattutto giovani, che ancora credono nella politica. Tutti devono far sentire la propria voce: ci sono pericolosi rigurgiti neofascisti che stanno riprendendo sempre più piede, dobbiamo scuotere le coscienze.

Se Durigon rimarrà al suo posto come se niente fosse cosa farete?

Non è possibile, mi auguro e sono convinto con tutto il mio cuore che non andrà a finire così e che chi ha la responsabilità di governo sappia cogliere il grido di migliaia di persone oneste che ogni giorno lottano per liberare il Paese da mafie e corruzione che soffocano la libertà e la dignità della gente. Il nostro Paese deve essere ancora liberato da questi fenomeni. Il messaggio di Durigon è devastante e per questo non può rimanere al suo posto.

 

Ma mi faccia il piacere

Telefono Azzurro. “Lasciateci adottare una bimba afghana” (Vittorio Feltri, Libero, 22.8). Ma prima almeno chiediamo alla sventurata se è d’accordo.

Valori bollati. “L’individuo è un’entità sacra. Così si crea il benessere. I valori in cui credo” (Silvio Berlusconi, Giornale, 22.8). Uahahahahah.

Il piacere dell’onestà. “Nessun male a definirsi antifascista, però io non distinguo le persone tra fascisti e antifascisti. Le persone non le distinguo se non per uomo, donna e persone perbene” (Luca Bernardo, Ansa, 13.8). Non per nulla è il candidato a sindaco di Milano per Berlusconi e Salvini.

La prova regina. “Macché fascista: Bernardo aveva i nonni partigiani” (Libero, 15.8). Fortuna per lui che non lo conoscevano.

Lo smemorato di Cologno. “Berlusconi scuote la Ue. Gli altri pensano ai voti” (Giornale, 19.8). “Berlusconi striglia la Ue: ‘Deve governare la crisi con l’Onu e la Nato’” (Giornale, 20.8). Mica come quel pirla che vent’anni fa trascinò l’Italia in guerra.

L’arma segreta. “La ministra Bonetti prepara il vertice sui diritti delle donne il 26 agosto” (Repubblica, 19.8). Panico fra i talebani.

Lezioni di guerra. “Afghanistan, ne valeva la pena. I veterano della missione italiana: ‘I nostri insegnamenti sono stati efficaci’” (Giornale, 18.8). Gli abbiamo insegnato a scappare.

L’estremo oltraggio. “Poteva mancare Gino Strada al coretto degli amici dei clandestini? Baci anche a lui” (Matteo Savini, segretario Lega, 22.12.2018). “Gino Strada mi definisce oggi ‘DISUMANO, gretto, IGNORANTE, fascistello, CRIMINALE’. Solo??? Evidentemente la fine della mangiatoia dell’immigrazione clandestina li sta facendo impazzire” (Salvini, 21.1.2019). “Il compagno Gino Strada mi vuole sotto processo? Uuuhhh, che paura. Bacioni” (Salvini, 26.1.2019). “Con la morte di Gino Strada, l’Italia perde un uomo di valore. La diversità delle idee politiche lascia spazio al cordoglio e alla preghiera. #ginostrada” (Salvini, beccato da @nonleggerlo, 13.8.2021). Se ne deduce che l’unico Gino Strada buono è quello morto.

Agenzia Sticazzi. “Finché ci sono ghiaccioli c’è speranza (meglio se al limone, per me)” (Giuseppe Sala, sindaco di Milano, Instagram, 15.8). Mo’ me lo segno.

Che cos’è il genio? “C’è una sola cosa sulla quale non si possono avere dubbi: ed è che se si fa una guerra del genere allora bisogna assolutamente vincerla, costi quel che costi” (Ernesto Galli della Loggia, Corriere della sera, 20.8). Ecco perché gli americani e i loro alleati han perso la guerra in Afghanistan: non avevano consultato Galli della Loggia, quindi non avevano capito che dovevano vincerla.

La pasionaria. “Le compagne parlino delle ragazze di Kabul” (Maria Elena Boschi, capogruppo Iv alla Camera, Giornale, 22.8). Invece per le ragazze di Riyad c’è tempo. E comunque ci pensa bin Salman.

Narcos senza droga. “Eroina, miliardi e geopolitica. I talebani sono i nuovi narcos” (Roberto Saviano, Corriere della sera, 18.8). Infatti nel 2000-‘01 furono gli unici ad azzerare la coltivazione di oppio. Che poi riprese coi “liberatori”.

Il quasi-vincitore. “Alle suppletive di Roma FI non segue Palamara e lancia il suo candidato. Corre Calzetta, che sfiorò la vittoria nel 2018” (Giornale, 18.8). Cioè perse le elezioni. Mezza sconfitta, mezza Calzetta.

Nella casa della libertà/1. “Via sbarre e manette dalle aule dei processi salvo ordine del giudice. Il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza considera l’imputato ‘uomo libero’” (Repubblica, 11.8). Saranno fornite anche appositi seghetti, lime e lenzuola annodabili.

Nella casa delle libertà/2. “Choc in Francia, assassinato un prete: il killer un anno fa aveva bruciato la cattedrale di Nantes, ma era libero” (Stampa, 10.8). Ora è due volte presunto innocente.

L’affarone. “Olimpiadi, Tokyo chiude con un buco di 20 miliardi” (Fatto quotidiano, 9.8). “Roma non avrà i Giochi per colpa della Raggi” (Libero, 11.8). “Olimpiadi 2024, così Raggi fece per ignavia ‘il gran rifiuto’” (Francesco Merlo, Repubblica, 11.8). Peccato: Roma poteva raddoppiare il suo debito.

Le grandi riforme. “Nella Rai di Fuortes molti tagli, via i partiti e obbligo del ‘lei’” (Repubblica, 9.8). Non era meglio il “voi”?

Il titolo della settimana/1. “Con Alessia posso essere fragile. Ho avuto molti fidanzati discutibili, li ha sempre accolti. La sento tutti i giorni, se ci capita di litigare risolviamo subito. Sogno di invecchiare assieme in Kerala” (Costantino della Gherardesca, titolo su un’intera pagina, Corriere della sera, 17.8). E poi dicono che è morto il giornalismo d’inchiesta.

Il titolo della settimana/2. “Niente libertà, Pittelli deve marcire ai domiciliari” (Tiziana Maiolo, Riformista, 11.8). Poverino, deve avere proprio una casa di merda.

“Extraliscio”: la biografia di un Paese tarantolato

Una nave in arrivo. Non si sa da dove venga e cosa porti. Attracca dove nessuno era atteso. Quando è ferma si vede che è stipata di immagini e personaggi, che si affacciano in un continuo alternarsi, chiamarsi, citarsi, realizzare e abbandonare ruoli semplici e misteriosi. Queste due parole – semplice e misterioso – sono la chiave tra biografia e racconto, forse invenzione del mai accaduto, forse premonizione di plausibili eventi. Extraliscio, la parola, il tema, la situazione, lo strano evento umano intorno a cui Elisabetta Sgarbi ha modellato con mosse nette e precise il suo nuovo film, non è, come sembra al primo sguardo, un nuovo ballo da annunciare o un ricordo gradevole e antico da riportare in vita. Extraliscio, nel racconto di Sgarbi è una storia, narrata come modo di trasmettere una tradizione, di conservare qualcosa che non è il passato, ma una vivace rappresentazione del presente così com’è, senza celebrazione ma con il clima naturale di celebrazione che appartiene a una festa pubblica. Sgarbi è stata attenta a non farsi trovare sola e a non creare malinconia. Voci e passi del tempo e di oggi sono stati raccolti e assemblati come si fa con la natura – immagine – e la composizione di gusti. Qui però non c’è natura morta e non c’è alcun tentativo di cercare approvazione. Extraliscio sfreccia in avanti come un treno che non fa fermate in questa stazione, e compete solo con la pienezza del suo racconto. C’è tutto un Paese nel film improvvisato Extraliscio, dal mormorare del canto popolare al grido quasi urlato di chi domina ancora la scena. Ma l’intuizione che l’autrice non abbandona è l’idea di un Paese tarantolato dal canto e dal passo, dallo spazio sonoro da tenere libero da ogni ostacolo che ingombri la corsa liscia e continua. Ho detto che due parole sarebbero stata la chiave di questo discorso che non hai voglia di finire. Ho detto che una parola è “semplice” come una canzone o come un ballo popolare: sembrano fatti di nulla, ma sono intatti dopo un secolo. Ho detto che una parola è “misterioso”. Sappiamo tutto di Beethoven, ma chi mette le mani sul ballo popolare facendo venir fuori la corsa implacabile dello extraliscio? In questo rapporto tra biografia e libera evocazione di un passato niente garantisce il vero e il realistico, l’accaduto e il sognato. Forse Extraliscio è un circo in cui debuttano vite che hanno lasciato ricordi. Ricordi che non devono andare perduti.