“Mago Forest che mi sposa. La canna con Paolo Hendel. E la litigata con Teo Teocoli”

Sono i The Voice della televisione italiana, vuoi per longevità (“andiamo avanti da oltre 35 anni, chi l’avrebbe detto”); vuoi per indiscusse capacità (“Molti comici ci dicono grazie? Il grazie è reciproco”); vuoi perché i volti, per anni e anni, sono rimasti celati: di loro, appunto, si sentiva solo la voce come se fossero tre amici al bar seduti davanti alla tv e un accumulo di birre nel corpo (“questo dato ci ha preservato dal montarci la testa o derive simili”).
Giorgio Gherarducci è uno dei tre della Gialappa’s Band (gli altri sono Marco Santin e Carlo Taranto) e dal 1986 ha interagito con la “Nazionale” della risata: da Paola Cortellesi a Maurizio Crozza, da Antonio Albanese a Teo Teocoli, fino a lanciare Aldo, Giovanni e Giacomo (“con un ‘però’: abbiamo sempre e solo coinvolto chi sentivamo affine a noi”).
Dopo sua maestà Pippo Baudo siete i più amati, osannati e ringraziati della tv…
Ci fa piacere: abbiamo lavorato bene e lasciato un buon ricordo; soprattutto abbiamo sempre cercato di tutelare i comici rispetto ai meccanismi della televisione che sono un po’ fagocitanti: per questo a volte siamo passati per stronzi.
Tradotto?
Chi lavorava con noi doveva stare solo con noi, quindi vietavamo impegni paralleli e solo per non sputtanare i personaggi e non stressare certi meccanismi; comunque tra noi c’è stato un mutuo scambio.
Come li sceglievate?
Prendevamo gente che aveva alle spalle una gavetta e li curavamo, seguivamo testi, li affidavamo ad autori di fiducia, mentre altre trasmissioni sceglievano comici che avevano nel curriculum cinque serate, poca esperienza e venti minuti di repertorio; magari diventavano famosi in un attimo: dopo due mesi si compravano una Mercedes e dopo un anno finivano nel dimenticatoio. E con danni psicologici.
Quanto siete stati pressati dagli artisti per entrare nei vostri programmi?
Poco: non eravamo facili da raggiungere, non avevamo neanche un agente; anzi, a volte siamo stati supportati dalla fortuna, specialmente quando se n’è andato Teo (Teocoli). (Sorride) In realtà non se n’è andato: ci ha proprio abbandonato, creando un grosso vuoto in scaletta, circa un quarto d’ora di trasmissione.
Una voragine.
Teo ci lasciò a tre ore dalla messa in onda, con noi senza presentatore: lo sostituimmo con Claudio Lippi che per caso passava dagli studi televisivi e per salutarci: lo avevamo preso in giro in trasmissione e sempre per caso conoscevamo i suoi lavori degli anni precedenti, quando Canale 5 si chiamava Tele Milano.
E lì…
Ci siamo guardati e deciso all’istante: “Fermo!” Così abbiamo organizzato una prova di tre minuti, lui ha risposto da pirla alle nostre provocazioni, noi felici, e dopo mezz’ora era in onda.
Pazzi, consapevoli o solo disperati?
Sicuramente disperati, ma ci siamo affidati al segno del destino.
Con Teocoli che era successo?
Quell’anno si erano aggiunti molti nuovi comici come Francesco Paolantoni e Bebo Storti, e lui ne soffriva: avevano successo tanto quanto lui; (pausa) questa roba gli stava sulle palle e Teo quando è in buona è l’uomo più meraviglioso del mondo, ma quando non è in buona lo prenderesti a testate.
Sembra lo stereotipo dell’artista.
Lo sa anche lui e siamo amici, ma è il suo approccio alla vita: quando è al top va giù, e poi trova il gusto a risalire.
Il casus belli?
Prepariamo uno sketch con tutti i protagonisti del programma e Teo rifiuta di partecipare. Andiamo avanti senza di lui e al momento di guardare il risultato per decidere se andava bene o meno, arriva e sentenzia: “Questo non va in onda”. E io: “Invece sì”.
Ahi.
A quel punto si toglie la giacca da Peo Pericoli (uno dei suoi personaggi) e se ne va dagli studi tutto truccato sul viso e con i ciglioni finti: ancora rido se immagino chi l’ha incontrato per strada.
Ci vuole pazienza…
Metà del lavoro degli autori televisivi è un concentrato di psicanalisi; però quando costruivamo i cast, l’aspetto caratteriale è sempre stato centrale: mai lavorato con chi non avevamo affinità o non ci stava particolarmente simpatico. Ci dovevano convincere pure umanamente.
Umanamente, cosa rifiutate?
Premesso: tutti i comici sono un po’ egocentrici.
Detto questo?
Evitiamo chi parla solo di se stesso; esistono due categorie di professionisti: chi pensa che qualsiasi cosa che dice fa ridere e chi pensa che qualsiasi cosa che dice non fa ridere; (pausa) una volta, grazie a Rolling Stone, ho intervistato Woody Allen e gli ho chiesto in quale delle due categorie si riconosceva.
Risposta?
Ovviamente nella seconda e ha aggiunto: “Chi appartiene alla prima recita pure nella vita”; (pausa) una chiave per capirli è stare con loro quando riguardano il proprio sketch: assumono un’espressione unica.
Qual è?
Un po’ compiaciuti, ma avvolti da un filo di timore.
Il più solido con il quale ha lavorato.
Difficile dirlo; Paola Cortellesi è sempre molto tranquilla; poi Aldo, Giovanni e Giacomo, ma erano aiutati dall’essere in tre; quando si è un gruppo, ed è accaduto anche a noi della Gialappa’s, se uno perde il filo, si monta la testa o altre casualità, gli altri due lo rimettono a posto.
Un comico del gruppo degli insicuri.
Fabio De Luigi era una costante ed eravamo pronti alla sua reazione: alla fine dei suoi sketch derubricava tutto a merda.
Chi altro?
Paolo Hendel: micidiale; (ride) anni fa scopriamo di stare entrambi ad Amsterdam: era lì con la sua futura moglie e io con la mia; ci vediamo un pomeriggio e per cena aveva prenotato in tre ristoranti.
Perché tre?
Appunto, per l’insicurezza; (cambia tono) dopo cena lo porto al Bulldog (celebre coffee shop), ci fumiamo una canna e sua moglie sviene, mentre disperato urla: “Cosa hai fatto!”. Lui si era astenuto.
Chi dei vostri ha dato meno del previsto?
Bebo (Storti) e Francesco (Paolantoni) sono bravissimi ma pigri. Ed è un peccato: avrebbero potuto ottenere molto di più.
Invece voi Gialappa’s rientrate nella categoria dei fuoriclasse…
No, in quella del mistero: siamo solo tre persone con un po’ di senso dell’umorismo, con un bagaglio culturale assolutamente medio, appassionati di calcio, che per una serie di coincidenze e circostanze fortuite, si sono ritrovati ad affrontare un lavoro non previsto; il nostro vero talento è stato quello di riuscire a cavalcare queste botte di culo per 35 anni.
La botta di culo può valere all’inizio…
Con me tutto è nato quando un giorno ho chiamato una trasmissione di Radio Popolare Milano e dopo la telefonata mi hanno invitato in trasmissione; (sorride) passati quattro anni eravamo già candidati al Telegatto.
Da girare la testa.
Non andare in video è stato un grosso aiuto: abbiamo mantenuto una vita normale, senza perdere la testa e, come dicevo prima, in tre ci siamo marcati rispetto alle derive dell’ego.
Voi tre culturalmente di sinistra…
Esatto.
E nella tv di Berlusconi non vi siete mai sentiti…
(Anticipa la fine della domanda) Foglie di fico?
Eh…
Certo, e per anni; (pausa) e che devo di’? La verità è una: abbiamo portato in tv ciò che volevamo, senza censure, a parte due o tre casi piccoli.
Su cosa?
Una volta per Previti: sostenevamo che teneva per le palle Berlusconi e Mediaset ci disse che quella parte non poteva andare in onda. E noi: “Allora chiamiamo i giornali”. “ No, mettiamoci d’accordo”.
Risultato?
Firmammo una carta che dava a noi la responsabilità del servizio; Previti ci intentò una causa per diffamazione e con la richiesta di un miliardo di lire. Abbiamo vinto e ha pagato pure le spese legali.
Una goduria.
Non piccola; in un altro caso il direttore di Rete si appellò alla par condicio per un servizio su Maurizio Gasparri; però sono due casi, in Rai sicuro succede di peggio; (pausa, ride) Berlusconi lo puoi prendere per il culo su qualsiasi aspetto tranne che sull’altezza.
Soffre.
Con Albanese creammo il personaggio di Pier Piero (il giardiniere gay di Arcore): anni dopo andiamo a una festa di Raimondo Vianello e troviamo pure Pier Silvio Berlusconi che ci ferma: “Come sapevate che il nostro giardiniere è gay?”.
Le malelingue sostengono che il giardiniere gay fosse una parodia proprio di Pier Silvio.
Non è vero.
In trasmissione siete celebri per i vostri scherzi.
Ad Alessia Marcuzzi abbiamo lasciato il microfono aperto mentre andava in bagno.
Oggi verrebbe definito “molestia”.
Ma era goliardia! Anni fa, ad altri, lo hanno lasciato aperto per sbaglio e se ne sono sentite delle belle.
Il politically correct ha reso tutto più complicato?
Se anni fa ci fosse stato questo clima, avremmo subito perenni rotture di palle.
Esempio.
Il conte Uguccione che pensava solo alle trombate, oppure Alfio Muschio, il leghista di colore che parlava in bergamasco. Oggi per chi fa satira la situazione non è semplice.
Non troppo.
Attualmente siamo su Twitch (piattaforma streaming) e lì non puoi dire “negro” ma puoi bestemmiare.
Quanto avete contribuito alla fama del Grande Fratello?
Anche qui, solo un mutuo scambio: il GF ci ha allungato la carriera di dieci anni e Mai dire Grande Fratello ha permesso a un certo tipo di pubblico di parlare con cognizione di causa del programma del momento e senza vederlo (la Gialappa’s prendeva in giro i vari partecipanti assegnando loro dei soprannomi che ancora oggi li definiscono).
Alcuni sono celebri grazie a voi.
Nella prima edizione c’era l’Ottusangolo (al secolo Sergio Volpini) che non combinava nulla ma se ne usciva con una serie infinita di stupidaggini, quindi è diventato un nostro eroe: quando è andato in nomination con uno più forte a livello drammaturgico, ha vinto, e il giorno dopo ci hanno chiamato quelli della produzione avvelenati.
Il comico che le suscitava maggiore ilarità.
È dura; (silenzio) non ci riesco.
Il Mago Forest ha parlato di amore per voi.
Alt! Dico lui. Due anni fa mi ha pure sposato: quaranta minuti di cerimonia con gli invitati piegati in due per le risate. Lui è una persona speciale.
Un errore che non rifarebbe.
Forse, ed è una stupidaggine, nei titoli di coda dovevamo mandare le immagini dei comici e associare i nomi reali.
Perché?
Alla fine del programma andavamo al ristorante, magari con Crozza, De Luigi e la Cortellesi; solo che in trasmissione erano sempre truccati e soprattutto non li chiamavamo mai con il loro nome, e fuori dagli studi mi rendevo conto che venivano riconosciuti ma senza sapere chi fossero.
È importante.
In parte, e tutti, dopo un po’ se ne sono andati: con noi gli è mancata una completa riconoscibilità. Però non ci possiamo lamentare della carriera, abbiamo sempre lavorato come se il primo anno fosse anche l’ultimo, e alla fine ne abbiamo inanellati 35.
Se riguarda a lei di 35 anni fa, cosa pensa?
Alla mia faccia da pirla, vestito di merda e con i capelli da nerd.
Voi chi siete?
Tre medioman con un po’ di senso dell’umorismo.

Un bel “trapianto” di Molière e Mozart. E la fatica del bruco

 

 

La comicità è sorpresa, per cui se vuoi far ridere qualcuno, e loro non ridono, è divertente.

(Norm McDonald)

 

LA TRADUZIONE INTERLIN- GUISTICA DELLE GAG

Tattiche traduttive

Allo scopo di ottenere l’equivalenza pragmatica fra testo di partenza (TP) e testo di arrivo (TA), cioè la loro simmetria linguistica, stilistica e culturale, il traduttore professionista usa di solito cinque tattiche traduttive: l’esplicitazione, la condensazione, la riduzione, lo spostamento e la compensazione (Salmon, 2018). L’esplicitazione consiste nell’aggiungere al TA le informazioni, implicite nel TP, senza le quali il lettore d’arrivo faticherebbe a comprendere la narrazione, per esempio quelle su nomi di persona, luoghi, strade e piazze, edifici, oggetti, opere, cibi, marchi, gesti. Si pensi alla varietà di termini relativi ai modi di strizzare gli occhi, volontari e involontari, che caratterizza la letteratura russa, e ne tormenta i traduttori. Le esplicitazioni possono essere generalizzanti (“il vibratore” invece di “the Rabbit”) o particolarizzanti (“caffè Sanka” invece di “decaffeinato”). Le esplicitazioni devono conservare lo stile del testo. La condensazione traduce due o più termini con un termine solo. È utile a evitare ridondanze, a rispettare vincoli metrici e ritmici, a ridurre il numero di parole in un sottotitolo o in un doppiaggio, a riassumere i concetti durante l’interpretazione di una conferenza. Sottotitoli, doppiaggio e interpretariato ricorrono spesso alla riduzione, che utilizza in varia misura l’esplicitazione, la condensazione e l’eliminazione dei termini. Lo spostamento anticipa o posticipa nel TA uno o più elementi del TP. Lo si usa per rispettare vincoli di rima e la simmetria degli stilemi, per motivi prosodici, per eufonia. Con la compensazione, il traduttore cerca di ri-creare l’effetto estetico del TP in una stringa non corrispondente del TA quando non gli riesca di farlo in quella giusta.

Se il traduttore non è un comico professionista, però, gli manca l’esperienza per valutare le gag del TP e per inventare aggiustamenti che ne siano all’altezza, sicché quelle tattiche danno soluzioni spesso maldestre. Per esempio, quando si altera la marcatezza divertente di una gag, ciò che viene perso in quella stringa non è mai “compensabile” in una gag precedente o successiva: ogni alterazione della marcatezza divertente trasforma la gag in una gag diversa. Nella recente edizione italiana dei testi di Fran Lebowitz, il traduttore ha reso “Wolgang’s little symphonies” con “sinfoniucce di Mozart”, aggiungendo alla battuta uno snobismo che il TP non ha: “piccole sinfonie” indica solo un gruppo specifico di sinfonie di Mozart. Soprattutto, strategie e tattiche traduttive, anche se riescono a commutare il TP in un TA fluente, non bastano a ri-creare l’esplosività di una battuta, poiché non è l’idea buffa a far scattare la risata, come credono molti, ma la tecnica del joke, che richiede sorpresa in coda, parole buffe, brevità, ritmo. Se Lebowitz scrive “Pochissimi possiedono vero talento artistico. Perciò è indecoroso e improduttivo peggiorare la situazione facendo uno sforzo”, si rovina la gag parafrasandola così: “Di conseguenza, sforzarsi peggiorando la situazione è tanto disdicevole quanto inutile.” Quella del joke è un’arte che riassume l’esperienza del comico professionista, ovvero la sua abilità procedurale, la sua cultura comica, la sua competenza retorica, e il suo orecchio (metafora che indica la computazione inconsapevole di fattori il cui risultato si manifesta alla coscienza come sensibilità ai dettagli), tanto che una traduzione può anche migliorare il testo di partenza (Megale, 1993).

Quattro tipi di traduzione

Nabokov (1955) distingueva tre tipi di traduzione: parafrastica (una versione libera, con omissioni e aggiunte imputabili alle esigenze formali, alle convenzioni attribuite al lettore, all’ignoranza del traduttore); lessicale (resa del significato elementare delle parole e del loro ordine); letterale (la traduzione meticolosa e brillante che rende il significato del testo e le sue sfumature; se il traduttore non è ancora soddisfatto, può ricorrere a note dettagliate). L’espressione “traduzione letterale”, aggiungeva, è una tautologia perché “qualunque altra cosa non è una traduzione, ma un’imitazione, un adattamento, o una parodia”. Per tradurre i propri testi dal russo all’inglese, e per la traduzione in russo di Alice nel paese delle meraviglie, Nabokov praticò una quarta via: la riattivazione del processo creativo, la riscrittura, cioè una nuova redazione in una realtà linguistica e culturale parallela. Il traduttore/creatore, se ha “lo stesso tipo di talento dell’autore scelto” e “una conoscenza approfondita di tutti i dettagli relativi ai modi e ai metodi dell’autore”, e delle rispettive nazioni e lingue (Nabokov, 1981), può tentare così di ottenere lo scambio di valori segreti creati da certi princìpi di organizzazione stilistica, come il sacrificio del senso in favore del suono, e l’interazione fra certe parole in un ordine specifico. Per esempio, nell’elenco di Swift (“Non mi infastidisce la vista di un avvocato, di un borsaiolo, di un colonnello, di uno sciocco, di un lord, di un baro, di un politico, di un ruffiano”) “alcune parole sono contaminate dalle vicine” (Borges, 1936). La versione ottenuta con la riscrittura è una nuova stesura, un testo complementare, “il lavoro completo essendo la totalità delle due varianti” (Klosty Beaujour, 1995). La riscrittura finisce per essere un’esegesi del testo di partenza: attraverso modifiche, interpolazioni, nuovi riferimenti incrociati, accentua un motivo, svela un’allusione o un significato nascosti, cancella un’associazione ingannevole, approva o disapprova un’interpretazione critica. Per esempio, il Don Carlos di Schiller, che è la riscrittura, 200 anni dopo, dell’Amleto, ci fa capire che il personaggio scespiriano di Orazio contiene un enigma. Poza è un remake di Orazio, l’amico solitario di un principe triste in una tragedia edipica; ma Poza ha un motivo per essere nella storia: è la nuova figura che domina la tragedia moderna, ovvero l’ideologo, il politico. Invece, cosa vuol fare Orazio, in Shakespeare? Perché è lì? Ha una funzione, ma non una motivazione. Con Poza, Schiller trovò una motivazione per la funzione-Orazio (Moretti, 2011). Nell’antichità, e fino al 1800, si considerò la traduzione non in termini di resa letterale, ma di ri-creazione: il traduttore, letta un’opera, doveva svilupparla a modo suo, sfruttando le potenzialità della sua lingua e della sua cultura. Così, per esempio, fa Leopardi con Saffo. Fielding definiva trapianti le proprie riscritture di Molière. “Non è giusto: il bruco fa tutto il lavoro, e la farfalla si prende tutta la gloria” (George Carlin).

(69. Continua)

Addio a Nicoletta Orsomando, storica “signorina buonasera”

Chissà se i talebani, se negli anni Sessanta fossero piombati a viale Mazzini come marziani a Roma, avrebbero lasciato al loro posto Nicoletta Orsomando e le altre annunciatrici dei programmi Rai, note in tutta Italia come “le signorine buonasera”. Noi crediamo di sì, perché la Orsomando – spentasi ieri a Roma all’età di 92 anni – e le sue colleghe riuscirono a imprimersi nell’immaginario collettivo senza la minima imposizione, quasi senza volerlo. Anche tra loro stesse, le signorine buonasera, non c’era troppa competizione, sebbene ognuna avesse la propria personalità. Se la bionda Mariolina Cannuli poteva con la sua voce roca risvegliare nel telespettatore qualche feromone superstite, l’inappuntabile Orsomando si ritagliò il ruolo della presentatrice istituzionale per eccellenza, molto primo canale, icona perfetta del monopolio democristiano.

Bella presenza, certo; ma di un’avvenenza tranquilla, rassicurante, sororale, solo negli anni Ottanta corretta da un certo eccesso di cotonatura. Altri tempi: a diventar famosi in tv bastava dire “Buonasera”, ma a nessuno veniva in mente di diventare influencer, e nemmeno ci si provava. Nicoletta Orsomando, Mariolina Cannuli, Gabriella Farinon, Rosanna Vaudetti e le altre divennero popolari proprio perché, ognuna con il suo stile, sapevano stare al loro posto, e da lì non schiodavano. La carriera della Orsomando si è conclusa nel dicembre 1993, dopo quarant’anni di annunci (è stata forse l’unica italiana che nel numero degli annunci ha battuto Renzi). In pensione ci andò con pochi rimpianti, perché il declino della professione era già evidente nell’affannato affollamento dei palinsesti. Da qualche anno ormai le annunciatrici televisive si sono definitivamente estinte; resta la memoria dei loro modi e della loro dizione impeccabili, come oggi si cercherebbero invano nella falange dei cosiddetti opinionisti, i tanti, troppi, signorini e signorine buonasera di se stessi.

Cile, chiesta l’estradizione per 3 ex militari di Pinochet: condannati in Italia all’ergastolo

A poco più di un mese e mezzo dal passaggio in giudicato di tre ergastoli, il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, ha firmato la richiesta di estradizione per tre ex militari cileni accusati dalla Procura di Roma della morte e della sparizione di cittadini di origini italiane. Il ministro ha dato il via libera anche alla richiesta di arresto provvisorio nei confronti di Rafael Francisco Ahumada Valderrama, Manuel Vasquez Chahuan e Orlando Moreno Basquez, tutti appartenenti all’esercito durante la dittatura guidata da Pinochet. La richiesta è stata inoltrata all’ambasciata italiana a Santiago del Cile. Le condanne erano diventate definitive il primo luglio scorso. I tre hanno, infatti, rinunciato al ricorso in Cassazione. Nei loro confronti i pm di piazzale Clodio contestano il reato di omicidio plurimo. Altre 14 condanne, per altrettanti esponenti delle giunte militari e dei servizi di sicurezza di Paesi sudamericani al potere a cavallo tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli 80, sono diventate definitive l’8 luglio. I giudici della prima sezione penale della Cassazione hanno, infatti, rigettato i ricorsi presentati dai difensori accogliendo la richiesta del procuratore generale Pietro Gaeta. Tra i condannati anche Jorge Nestor Troccoli, l’unico attualmente residente in Italia e arrestato dopo la sentenza, ritenuto membro dell’intelligence uruguayana e legato al regime del suo Paese. Per altri tre imputati, le cui posizioni erano connesse, i giudici hanno disposto lo stralcio in attesa di acquisire il certificato di morte di uno di loro. I tre cileni per i quali è stata chiesta l’estradizione sono accusati in particolare della sparizione di Juan Josè Montiglio e di Omar Venturelli, entrambi di origini italiane. Montiglio è stato un militante del Partito Socialista. Studente universitario di Biologia e capo della “Guardia de Amigos del Presidente” (Gap), la scorta personale di Salvador Allende, venne arrestato l’11 settembre del 1973, giorno del golpe. Due giorni dopo venne fucilato, insieme ad altri collaboratori del presidente Allende. Alcuni resti ossei trovati in quel luogo hanno permesso l’identificazione con il Dna. Venturelli era stato uno dei sacerdoti che aveva guidato i “mapuches” nell’occupazione delle terre regalate ai coloni europei e per questo venne sospeso a divinis dal vescovo Bernardino Pinera. Diventato professore all’Università Cattolica 3 di Temuco, si è consegnato il 25 settembre 1973 presso la caserma Tucapel, dove è stato visto in vita da altri prigionieri fino al 10 ottobre, data in cui si presume sia stato ucciso.

Dazn, esordio da incubo: i primi minuti in “down”

Non inizia bene la stagione per Dazn, che lo scorso marzo si è aggiudicata i diritti tv di tutta la Serie A (sette partite in esclusiva e tre in co-esclusiva con Sky). I primi minuti della prima partita del nuovo campionato Inter-Genoa (poi finita 4 a 0) sono stati da incubo per i tifosi tra interruzioni, mancate connessioni, il segnale che saltava e la schermata di televisioni e pc in perenne caricamento. In brevissimo l’hashtag #dazndown è entrato in trend topic anche perché la maggior parte dei tifosi non è riuscita neanche a guardare il primo gol che il difensore dell’Inter Škriniar ha fatto al sesto minuto. Anche durante il secondo match del campionato, Verona-Sassuolo (terminato 2 a 3), i disservizi non sono mancati, continuando a scatenare la rabbia dei tifosi. Proprio ieri mattina Dazn aveva diffuso un comunicato stampa in cui spiegava che “la piattaforma di streaming è pronta a fornire un servizio di qualità ai clienti, anche grazie ad accordi globali di distribuzione dei contenuti con Tim”. Qualcosa non è andato per il verso giusto.

In 3 mila per dire “grazie” a Gino Strada nel primo giorno della camera ardente

Circa 3mila persone, molte delle quali rimaste in coda sotto il sole fin dalle prime ore del pomeriggio, hanno reso omaggio al fondatore di Emergency Gino Strada, le cui ceneri sono state portate nella camera ardente allestita nella sede milanese dell’associazione umanitaria, in zona Ticinese, che rimarrà aperta anche nelle giornate di domani e lunedì. In fila, insieme ai sostenitori, ai volontari e ai tanti cittadini comuni che hanno voluto portare l’ultimo saluto al medico padre di Emergency, anche numerose personalità del mondo istituzionale (tra i quali il sindaco di Milano Giuseppe Sala e il questore Giuseppe Petronzi), della società civile (come il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini e il fondatore di Libera don Luigi Ciotti), dello sport (l’ex presidente dell’Inter, Massimo Moratti) e dello spettacolo, come il conduttore Rai Flavio Insinna. Sul cancello d’ingresso di Casa Emergency e nel prato antistante la camera ardente, diversi i mazzi di fiori e i messaggi lasciati, tra i quali quello che recita “Ora vai, Gino, continuiamo noi. Ti abbracciamo per sempre” e “Grazie Gino! Quello che lasci resta straordinario come te. Vola alto”. Tra i primi a portare l’ultimo saluto all’amico Gino Strada, il sindaco di Milano Giuseppe Sala, il quale ha commentato: “Di Gino apprezzavo quello che ha fatto, ma secondo me aveva una caratteristica particolare: non parlava mai al passato, non sentiva mai il bisogno di dire ho fatto, ho detto, ma guardava sempre avanti, guardava al futuro e in questo era veramente straordinario e unico”. Nel frattempo è arrivata a 50 mila firme la petizione online per dedicargli piazzale Cadorna a Milano, mentre è partita sui social anche la proposta di intitolargli l’ospedale Maggiore di Crema e a Pesaro il sindaco Matteo Ricci proporrà in giunta di intitolare un edificio socio-sanitario o una via della città al chirurgo fondatore di Emergency. “Sarà importante dedicargli qualcosa che rimanga, un momento di ricordo, anche allegro, vivo, come avrebbe voluto lui, ma ci penseremo a valle di questa giornata”, ha commentato il sindaco di Milano Giuseppe Sala, il quale ha spiegato di aver già parlato dell’argomento anche con i famigliari di Gino Strada e con i dirigenti di Emergency.

Il sindaco straniero e Roma rinacque

A seconda dei criteri adottati, le capitali d’Europa sono 19 o 28 o 50. In ogni caso Roma resta unica tra tutte, per vicende storiche e ricchezza d’arte. “Questa gente lavorava per l’eternità”, esclamò Goethe ammirando i Fori e la tomba di Cecilia Metella.

Consapevole di un simile patrimonio culturale, una sera del 1871, pochi mesi dopo la presa di Porta Pia, Theodor Mommsen, già famoso professore di storia romana all’Università di Berlino e prossimo premio Nobel per la letteratura, chiese al ministro delle Finanze Quintino Sella: “Ma che cosa intendete fare di Roma? Questo ci inquieta tutti. A Roma non si sta senza propositi cosmopoliti”.

Cosa fare di Roma? Già prima di occupare la città papalina la stessa questione – tuttora irrisolta – era posta da Francesco de Sanctis: “A Roma noi andiamo per edificarvi la terza civiltà, per farla una terza volta regina del mondo civile. La capitale del mondo pagano e del mondo cattolico è ben degna di essere la capitale dello spirito moderno. Roma dunque è per noi non il passato, ma l’avvenire”.

Il biellese Quintino Sella, ministro delle Finanze ma laureato in ingegneria idraulica, per sua formazione e propensione avrebbe puntato sull’industrializzazione della capitale ma, facendo propria la prudente politica papalina, ritenne che “una soverchia agglomerazione di operai turberebbe la quiete dei lavori parlamentari”. Perciò rispose a Mommsen: “Sì, un proposito cosmopolita non possiamo non averlo a Roma: quello della scienza”. E poi, in altra sede, precisò di concepire il progresso scientifico come “cozzo delle idee”, cioè come dialettica viva tra le varie discipline, coerente con il genius loci di Roma: “Il cozzo delle idee, bene inteso, se vi ha luogo in cui debba dar buoni risultati, questo deve essere Roma… Qui deve essere un centro scientifico di luce, una università principalissima, informata soprattutto ai principi delle osservazioni sperimentali che sono sempre imparziali e senza idee preconcette”.

Per attuare il suo piano Sella perorò in Parlamento i progetti dei nuovi istituti universitari di Fisica, Fisiologia e Chimica, programmò la creazione del Museo Geologico a S. Susanna, appoggiò la delibera comunale per la costruzione del Palazzo delle Esposizioni, assunse la presidenza dell’Accademia dei Lincei, le destinò come sede il palazzo Corsini alla Lungara e ne rinnovò l’organizzazione aggiungendo alle scienze fisiche, matematiche e naturalistiche, quelle morali, storiche e filologiche. Intanto l’Università romana attrasse da tutta Europa e Italia matematici, chimici e fisiologi. Ma una sessantina d’anni dopo, il sogno di Sella sarà vanificato dalle leggi razziali fasciste per cui molti di questi famosi intellettuali scapperanno dall’Italia.

Nel 1910 il Mussolini socialista, ostile a Roma, la definì “città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e di burocrati… Città-vampiro che succhia il miglior sangue della nazione”. Dodici anni dopo, nel 1922, il Mussolini fascista cambiò idea: “Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento; è il nostro simbolo o, se si vuole, il nostro mito. Noi sogniamo l’Italia romana, cioè saggia e forte, disciplinata e imperiale”. Passano ancora due anni e, nel 1924, il Mussolini duce dichiarò: “I problemi di Roma, la Roma del 20° secolo, mi piace dividerli in due categorie: i problemi della necessità e i problemi della grandezza”. I primi sono quelli perenni dell’edilizia, degli asili, delle scuole, della manutenzione stradale, dei rifiuti, ecc. I problemi della grandezza sono di altra specie: “Roma non può, non deve essere solo una città moderna, nel senso ormai banale della parola, deve essere una città degna della sua gloria e questa gloria deve rinnovare incessantemente per tramandarla, come retaggio dell’età fascista, alle generazioni che verranno”.

Tra l’aprile del 1871, quando Francesco Pallavicini fu nominato primo sindaco della Roma italiana, e la fine del fascismo, quando ebbe inizio l’Italia repubblicana, Roma è stata governata da 50 tra sindaci, assessori e commissari prefettizi. Praticamente, tutti questi “primi cittadini” si sono occupati dei “problemi della necessità” mentre i governi centrali hanno provveduto ai “problemi della grandezza”. Ciò forse spiega come mai nel centro di Roma siano stati eretti decine di monumenti ad altrettanti personaggi – da Terenzio Mamiani a Spitalieri, da Anita Garibaldi a Ciceruacchio – ma nessuno dedicato a un sindaco della città. Eppure, molti cognomi attestano l’estrazione nobiliare dei primi cittadini: Caetani, Doria Pamphili, Rospignosi Pallavicini, Ruspoli, Torlonia, Colonna, Boncompagni Ludovisi, Borghese.

Un nome, però, evoca origini straniere. Ebreo nato a Londra nel 1846 da madre patriota e amante di Mazzini, Nathan aveva studiato in Inghilterra e si era fatto le ossa a Parigi, Firenze, Lugano e Milano maturando idee propense all’associazionismo, alla cooperazione, al diritto di sciopero e alla proprietà collettiva delle terre. Nel 1888 aveva ottenuto la cittadinanza onoraria di Roma; nel 1907, mettendo insieme un “Blocco del Popolo” laico-progressista, divenne sindaco e lo restò per due mandati, fino al 1913. Gran Maestro della Massoneria, unì le doti dell’intellettuale a quelle dell’organizzatore. Seppe avvalersi di un network interdisciplinare laico-socialista composto da economisti (come Montemartini), poeti (come Cardarelli), artisti (come Balla), pedagogisti (come Maria Montessori).

Combatté con pari impegno la malaria dei contadini nell’Agro e la speculazione edilizia in città. Migliorò i servizi pubblici, creò i mercati rionali coperti, estese l’assistenza sanitaria e farmaceutica, promosse i laboratori femminili, sviluppò l’edilizia popolare, varò un nuovo piano regolatore, risanò il bilancio, riorganizzò la burocrazia e istituì un’imposta fondiaria. Con lui nacque la Galleria d’Arte Moderna in Valle Giulia; Castel Sant’Angelo e le Terme di Diocleziano furono trasformate in musei; un grande auditorium sorse nel mausoleo di Augusto e un grande stadio al Flaminio; il servizio tranviario venne potenziato e, insieme all’energia elettrica, municipalizzato. Furono moltiplicati gli istituti scolastici e il numero degli studenti in città e nell’Agro, dove vennero realizzate case cantoniere e presìdi medici con assistenza gratuita. Il comune estese la refezione scolastica e istituì le vacanze per gli studenti poveri. Furono aperti 150 asili comunali, molti cinema e biblioteche, ambulatori di medicina preventiva, pubbliche guardie ostetriche, presidi per l’assistenza sanitaria e la profilassi delle malattie infettive. Con Nathan sindaco furono avviati i lavori per i mercati generali, l’acquario, il mattatoio e la centrale del latte; furono realizzati il quartiere Trieste e il quartiere Prati; furono limitati gli sventramenti e salvati, oltre ai Parioli, anche Villa Chigi, Villa Savoia, Villa Doria Pamphilj e le ville storiche lungo la Nomentana.

Lo spirito laico, massonico e socialista con cui tutto questo fu realizzato a tempo di record entrò in rotta di collisione con la Chiesa. Il giornale cattolico L’Ancora scrisse: “È il mondo cattolico che deve destituire il sindaco blasfemo e incosciente, e gridare da un punto all’altro dell’universo: rimandatelo al ghetto!”. Nel 1913 il “Patto Gentiloni” tra cattolici e liberali disarcionò Nathan e il suo posto in Campidoglio fu occupato da Prospero Colonna, uno dei massimi rappresentanti della rendita immobiliare romana. Oggi a Nathan resta una minuscola lapide che ne ricorda la dimora in via Torino, ma il suo nome, più che mai popolare, è evocato come quello di sindaco insuperato.

(1. continua)

 

La pioggia sulle cime della Groenlandia non si era mai vista

In Italia –A metà agosto la calura si è attenuata al Sud ed è culminata al Nord, dove talora si è vissuto il Ferragosto più caldo in oltre un secolo, come all’osservatorio geofisico di Modena (temperatura massima 36,7 °C). Notevoli anche i 40,3 °C di Brisighella, sui colli faentini, inoltre l’aeroporto di Firenze per la prima volta almeno dal 1955 ha superato i 40 °C per tre giorni consecutivi, dal 12 al 14, con punta di 40,8 °C (insuperato tuttavia il record giornaliero assoluto di 42,6 °C del luglio 1983). Incendi boschivi presso Pisa (Vicopisano) e La Spezia (Framura), e prosegue la grave siccità tra Romagna e Marche, intorno a Rimini sono piovuti a stento 100 mm d’acqua da inizio anno, meno di un terzo del normale, i fiumi sono asciutti e la vegetazione è in marcato stress idrico. Dopo il caldo, il maltempo invece è tornato a martoriare l’Alto Adige, verso il Brennero: una vittima a Ferragosto sotto una frana a San Martino Sarentino, poi lunedì 16 ulteriori diluvi per un fronte atlantico, in Val di Fleres 87 mm di pioggia in 24 ore, danni agli abitati per straripamenti e colate di fango, anche in Valle Aurina. La linea temporalesca ha investito pure il resto del Nord-Est con grandine e violente raffiche di vento prima di portare una rinfrescata e alcuni rovesci fin sul basso Adriatico. Normale la spruzzata di neve ai 2700 m dello Stelvio, accade ogni anno in tarda estate.

Nel mondo – Non era mai capitato di veder piovere, sulla neve intrisa d’acqua, alla sommità della calotta glaciale della Groenlandia, come accaduto il 14 agosto ai 3216 metri della base scientifica Summit Camp gestita dalla “National Science Foundation” americana. È un ulteriore segnale di un clima artico in profondo e preoccupante cambiamento: lassù, altri eventi di fusione nivale (però senza pioggia) si erano verificati nel 1995, 2012 e 2019 – segnala il National Snow and Ice Data Center – ma stando alle perforazioni glaciali profonde questi risultavano pressoché sconosciuti nei secoli e millenni precedenti. Caldo inedito in Spagna con nuovo record nazionale di 47,3 °C (Montoro, Andalusia) e primati locali a Madrid (42,7 °C) e Granada (46,0 °C), nonché in Marocco, massimo storico nazionale per agosto di 49,3 °C a Taroudant. Una calura anomala insiste anche in Russia, in Canada, e si è sviluppata precocemente sul finire dell’inverno australe pure tra Argentina e Paraguay. Ancora incendi nel Mediterraneo, oltre 8000 ettari bruciati alle spalle di Toulon (Var, Francia) e fumi sospinti dal mistral fino in Corsica. Intorno al Centro-Nord America c’è un insolito affollamento di tempeste e uragani tropicali: “Fred” ha lasciato 35 dispersi nelle alluvioni in North Carolina, “Grace” ha complicato i soccorsi post-terremoto ad Haiti prima di approdare, rinvigorito, in Messico, “Henri” dall’Atlantico si muove verso il New England e “Linda” nel Pacifico sta per sfiorare le Hawaii. Intanto sono salite a 79 le vittime delle alluvioni di dieci giorni fa in Turchia. L’acqua che evapora dalla foresta amazzonica contribuisce – in un circolo virtuoso ma delicato – alla formazione delle piogge che poi sostengono lo stesso ecosistema, e la deforestazione può portare a una riduzione delle precipitazioni più intensa e deleteria di quanto noto finora, secondo lo studio “Effects of land-use change in the Amazon on precipitation” pubblicato dal Cnr-Isac di Torino e dall’Università di Utrecht su Global Change Biology. D’altronde i cambiamenti climatici stanno penalizzando il Sud America in un crescendo di eventi estremi che minacciano ambiente, salute umana e sicurezza alimentare ed energetica, dice il rapporto “State of the Climate in Latin America and the Caribbean 2020” dell’Organizzazione meteorologica mondiale. Ma per Libero sono “tutte fregnacce”.

 

Il verbo La parola di Gesù: una pietra che spacca ciò che abbiamo dentro

I discepoli ascoltano Gesù e presto si rendono conto che la sua parola è dura (Gv 6,60-69). E se lo mormorano tra di loro: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?”. Ascoltano una parola inascoltabile. Non scende giù dalle orecchie. Si ferma prima. C’è una resistenza. La parola di Gesù non è melliflua e fluida, non è suadente e seducente. È una pietra che spacca qualcosa che abbiamo dentro. Se la parola di Dio deve far luce, allora deve crearsi un varco perché la luce entri. E a volte spacca. La parola di Gesù esalta le resistenze, le frizioni. La grazia non è graziosa. I discepoli ne restano spiazzati.

Quando io trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso, scriveva Ungaretti. Forse Gesù avrebbe potuto dire lo stesso, nel senso che la sua parola è scavata dalle profondità dell’abisso di Dio come da una cava. E Dio non ha parola populista e piaciona. La sua parola non ha a che fare con l’esercizio del potere come dominio, ma con quello della liberazione e della salvezza.

Siamo all’epilogo di un dramma, di una frattura, di un abbandono. Gesù non ama le mormorazioni e i pensieri doppi. E in questo caso l’evangelista Giovanni dice che lui, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano, risponde. E risponde con una domanda: “Questo vi scandalizza?”. Lo scandalo, letteralmente, in greco, è una caduta provocata da una pietra. È come se Gesù dicesse: quel che dico vi fa inciampare? La risposta dei suoi non si fa attendere: Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. La conversione è spesso frutto di un inciampo, di una caduta. Ma per molti discepoli l’inciampo – ci dice Giovanni – è l’occasione per lasciare Gesù al suo destino e tornarsene a casa. Si consuma il dramma.

La storia non finisce qui. Secondo atto. Gesù insiste: “Le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita”. Cosa c’è di più opposto alla pietra se non lo spirito, il soffio? Cosa c’è di più lontano dalla rigidezza della pietra rispetto alla vita? Cominciamo a capire che la parola di Gesù è pietra che spacca il mare ghiacciato che è dentro di noi. E ci restituisce la morbidezza della vita, la leggerezza dello spirito. Ogni irrigidimento è alieno dallo spirito evangelico. La parola di Dio non è pietra lanciata in testa, né parte di una zavorra che il credente deve portarsi sulle spalle. Semmai è pietra di sosta lungo il cammino. Resta però pietra di inciampo per chi è sordo, per chi è ghiacciato dentro e tale vuole rimanere. Vediamo i molti che se ne vanno. Letteralmente: indietreggiano.

Gesù adesso, dopo aver detto il senso delle sue parole scandalose e “inascoltabili”, sente la necessità di guardare in faccia i dodici apostoli. La fedeltà, l’intimità si sta spaccando. Dice loro: “Volete andarvene anche voi?”. È chiaro che da questo momento in poi nulla sarà come prima. Serve una decisione. Gesù chiede. Da questo momento si apre il tempo della rivelazione agli apostoli, e – vedremo – il conflitto con la religione ufficiale si farà sempre più duro. Perché gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”.

Per Pietro e i dodici il linguaggio duro e pietroso di Gesù è fatto da “parole di vita”. Gesù “ha” parole, non “dice” parole. Una volta fatta l’esperienza di seguire Gesù, non ci sono alternative di vita che sia degna di essere chiamata tale. Non alternative di idee, progetti, battaglie culturali, ideologie religiose. No: vita. Una volta che hai sperimentata la vita, senza veli e ipocrisie, dove vuoi andare? Dove te ne scappi dalla felicità?

 

Gli Stati uniti di un tempo adesso non esistono più

Non ha più importanza domandarsi perché Joe Biden, che, dopo la vittoria sulla sventura di Trump, era tornato a rappresentare un’America leader del mondo civile, abbia improvvisamente abbandonato. Tutto è avvenuto senza preavviso e senza spiegazioni, probabilmente nel momento più sbagliato. C’era l’impegno anche simbolico di salvare e fare forte il Paese Afghanistan, scelta discutibile ma ormai agganciata da vent’anni al futuro americano e al futuro dell’Occidente, delle sue istituzioni, delle sue alleanze, delle sue attese e speranze.

Non ha più importanza porsi domande, perché il gesto di Biden ha creato una sconnessione irrimediabile nella storia contemporanea. Qualunque cosa se ne pensi, esce di scena l’America che si assume il compito di guidare, all’interno di un campo di amicizie, affinità, condivisioni di valori, che erano forti, motivate da un passato comune, erano storia.

I terribili giorni di Donald Trump hanno avuto la loro triste capacità distruttiva proprio perché in quei giorni si è tentato di ridurre in macerie la storia americana. Gli elettori sono arrivati in tempo e Trump, dopo il tragico e penoso tentativo di rivolta della occupazione del Campidoglio (tuttora non spiegata, se leggete la lettera che Joan Baez mi ha inviato il 2 agosto e che questo giornale ha pubblicato il 19 agosto). Durante quel periodo segreto e misterioso, ci è stato detto, come se fosse una buona cosa e un vanto, che Trump aveva “avviato contatti con i Talebani” per stabilire forme di negoziazione. La notizia contrastava con la grande quantità di morte diventato il marchio di fabbrica di quelle milizie islamiche, fra i soldati americani ed europei, tra i cittadini di molti Paesi occidentali, lavorando a stragi che hanno insanguinato, in periodi diversi e luoghi diversi, il Medio Oriente. Ma Trump “trattava” e gli elettori lo hanno fermato in tempo. L’iniziativa di Biden ha sconvolto il suo Paese ma anche tutta la parte di opinione pubblica del mondo che ha sempre guardato all’America, al presidente degli Stati Uniti eletto per ridare credibilità e dignità al suo Paese e riportarlo alla guida dei tanti governi e parlamenti che, fin a ora, avevano guardato agli Stati Uniti con interesse e fiducia, ha preso una decisione strana e inattesa: finire subito, sul momento, la guerra in Afghanistan, decidendo in modo inspiegabile, che non ci sarebbe stata alcuna rassegna delle conseguenze. Tali conseguenze sono divise in due gruppi di fatti gravi che non consentono ripensamento o ritorno. Il primo sono i fatti. Il secondo le conseguenze morali e psicologiche. Un grande Paese con una vocazione alla guida radicata in tutta la sua storia non può scomparire di colpo dalla testa della fila, sia che tale vocazione sia fonte di critica, sia la fonte del prestigio. L’improvviso abbandono di Biden ha prodotto uno shock persino negli avversari, che si sono, come gli alleati, trovati di colpo di fronte a uno scenario sconosciuto. Occorre ricordare che la decisione non è reversibile. Siamo entrati in un periodo della storia contemporanea in cui gli Usa si sono privati da soli del prestigio, amato o detestato, che era il loro tratto politico ma anche caratteriale e morale. Quasi ogni frase di ogni discorso politico americano, in tutto l’altro secolo e finora, era fondato su questo dovere-mansione-privilegio di prendersi la responsabilità del tempo e del luogo.

Biden ha spento la luce. Per valutare la portata morale e psicologica di ciò che è accaduto, occorre ricordare che l’intera mobilitazione islamica, dalla tragedia delle due torri gemelle alla proclamazione avversaria dello stato islamico (quando la sede era l’Iraq) è avvenuto per l’esistenza e contro l’esistenza degli Usa, come potenza militare ma anche come guida capace di raccogliere quasi istantaneamente un’armata. Biden ha tolto di mezzo l’ostacolo. Le immagini che ci mostrano uomini armati che si muovono come vogliono a Kabul, ci dice quel che è successo. Agli Americani tocca solo il compito di proteggere i fuggitivi, senza alcuna garanzia che ci riusciranno.

Nel pomeriggio del 20 agosto Biden ha tenuto una conferenza stampa di spiegazione e giustificazione che è apparso un raro caso di confusione, contraddizione, affermazione e smentita. Scompare, con questo evento, anche la tradizione americana di chiarezza della comunicazione, specialmente della comunicazione militare. Ecco, siamo arrivati al punto: l’America che conoscevamo non c’è più e il suo presidente – nella sua conferenza stampa di venerdì – sembrava imbarazzato e distaccato dalla sua stranissima decisione. È una decisione che sbalza in basso un Paese che resta una grande potenza, ma non ne ha più il carattere. Forse, per ragioni che al momento non conosciamo, non ne ha più la volontà.