Il vecchio capitano cornuto, il sergente e la vedova rosicona

Dalle storie apocrife di Hendrik Tollens. Un giorno il re di Spagna decise che le guarnigioni dell’Armata delle Fiandre allestissero alloggi per le mogli degli ufficiali spagnoli impegnati nella guerra contro le Province Unite: migliorare l’umore di quelli avrebbe forse migliorato le sorti di questa. Ma la frustrazione dei soldati, che già si lamentavano del salario, fu in tal modo esacerbata dall’improvvisa presenza nelle caserme di gentildonne voluttuose, che con le loro damigelle costituivano una tentazione continua, alla quale non potevano cedere per via del regolamento militare, che nella guarnigione di stanza a Den Bosch era applicato in modo inflessibile dal vecchio capitano, Fernando Alvarez de Toledo. Pertanto i suoi soldati ammiravano, sentendosene come vendicati, il giovane sergente Diego de Quiroga, che avendo trovato nella giovane moglie del capitano la donna dei suoi sogni se n’era innamorato, e lei di lui. Viveva in quegli alloggi anche la vedova di un ufficiale morto nella battaglia di Lekkerbeetje: invaghita di don Diego, si sentì insultata dal fatto che le avesse preferito un’altra, e giurò che gliel’avrebbe fatta pagare. Un pomeriggio seguì i due amanti in un fienile. Fece appena in tempo a vedere il giovane sergente nudo: tradita dall’emozione, mise il piede su un rastrello, la cui asta si rizzò, percuotendola in fronte con tanta forza da tramortirla. I due amanti fuggirono, ma la vedova, ripresi i sensi, si recò dal vecchio capitano a riferire l’accaduto, affinché prendesse provvedimenti. “Il sergente de Quiroga è l’amante di una donna sposata”, denunciò la vedova. “E che importa a me di questo?” rispose don Fernando. La vedova lo incalzò: “La donna sposata è vostra moglie, don Fernando”. “E che importa a voi di questo?” replicò il vecchio capitano, e aggiunse: “Il regolamento militare non ammette la colpevolezza per sentito dire. È impossibile, dunque, sostenere l’accusa di adulterio, poiché si fonda unicamente sulla vostra parola, donna Pilar. Avete visto un uomo nudo: questo non è adulterio”. La vedova se ne andò scornata, ma non si diede per vinta. Si procurò il regolamento militare e cominciò a studiarlo in cerca di un motivo che le desse soddisfazione. L’ex libris all’interno del tomo, una xilografia col motto Ubi iniuria, ibi remedia (dove c’è offesa, c’è rimedio), pareva spronarla all’impresa. Una settimana dopo, la vedova marciò da don Fernando col libro sottobraccio, che aprì alla pagina giusta per accusare il sergente: era colpevole di non essere in uniforme. Il vecchio capitano annuì pensoso, e poiché la vedova stavolta aveva ragione inviò due soldati ad arrestare don Diego. Questi, sentita l’accusa, chiese il regolamento per studiarlo nel carcere, in attesa del processo. La fatica dello studio diede i suoi frutti. Ubi iniuria, ibi remedia. Al cospetto della corte marziale, don Diego aprì il regolamento alla pagina giusta e disse: “Secondo le norme militari, quando un soldato è impegnato in uno sport può scegliere di vestirsi come meglio crede. Il sesso è forse un lavoro, come quello del soldato?”. Il sergente non aveva tutti i torti: fu messo in libertà, e andò subito a festeggiare con la giovane moglie di don Fernando. A questi, però, capitò anche un incidente più felice: uscendo dal tribunale, il cagnolino della vedova gli entrò di tralice fra le gambe, dividendo il tempo gagliardo del capitano nel proprio tempo saltellante e preciso. La vedova, vedendo scivolare uno dentro l’altro questi due ritmi, come due anelli incatenati, che soltanto chi ha il segreto discioglie, scoppiò a ridere, con un’allegria che aveva della primavera. Rise anche il capitano, e quando i loro sguardi si incontrarono parve a entrambi di ringiovanire.

 

Mail box

 

 

Pass, regole e rave nell’Italia dei furbetti

Dopo aver letto le notizie del rave svoltosi nell’alto Lazio, dove più di 10 mila persone si sono radunate per cinque giorni contravvenendo a tutte le norme anti Covid e infrangendo molte leggi del Codice penale, nell’indifferenza delle autorità competenti, mi domando: cosa dovrebbe rispondere un comune cittadino se, seduto all’interno di un locale pubblico, qualcuno gli andasse a chiedere se è munito di regolare Green Pass?

Mauro Chiostri

 

Per Conte e Merkel due pesi, due misure

Giuseppe Conte: “Parlare con i talebani”. Scandaloso. Angela Merkel: “Parlare con i talebani”. Pragmatismo.

Rino Vezio

 

Durigon e De Pasquale: insulto alla Costituzione

Durigon dovrebbe lasciare l’incarico istituzionale. Sarebbe il minimo per uno Stato che ha basato la propria Costituzione su valori antifascisti. Eppure non è ancora successo, questo unicamente per l’opportunismo di Draghi e per l’inconsistenza civica di Salvini (oltre che alle sue altrettanto opportunistiche simpatie fasciste). Nessuno si è accorto che il ministro Franceschini ha nominato in un ruolo importante per la cultura e la storia nazionale, un apologo del fascismo e di Rauti come De Pasquale? È ancora più grave e irrispettoso verso la Costituzione e la Resistenza che l’ha ispirata.

Guido Moressa

 

Libertà delle donne tra Oriente e Occidente

Siamo tutti preoccupati per il destino delle donne afghane che rischiano di perdere libertà fondamentali: non devono essere abbandonate. Adesso abbiamo ulteriore conferma che la democrazia non la si può imporre dall’alto con le guerre. A maggior ragione quando è solo un pretesto che nasconde altri interessi. La situazione mi ha portato a chiedermi se le donne occidentali siano poi così libere. Certo, la nostra condizione non è minimamente paragonabile a quella delle donne che vivono sotto la sharia, ma nelle società occidentali le donne stanno vivendo una diversa forma di “schiavitù” inconsapevole, imposta dal mercato e dalle mode. In società l’unica strada è l’omologazione e se non ti adegui alle altre sei “sbagliata”. Oggi le donne, giovani e adulte, si travestono sempre di più da “oggetto del desiderio”: questo proprio nel periodo del Mee too. Esasperando il concetto: non vorrei che da noi scoprirsi il “culo” fosse diventato una imposizione quanto la loro di coprirsi il viso.

Enza Ferro

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile direttore, in riferimento all’articolo pubblicato dal suo giornale in data 21 agosto, a firma di Giacomo Salvini sulla mia posizione politica, ritengo doverose alcune precisazioni. Il mio impegno e le mie battaglie si svolgono all’interno di Forza Italia, partito che ritengo la mia casa. Non ho avuto alcun contatto con esponenti di Fratelli d’Italia per ipotizzare, e tantomeno trattare, un mio passaggio a un partito che è parte della coalizione di centrodestra. Al contrario, ho incontrato più volte in queste settimane il presidente Berlusconi, l’ultima delle quali in occasione di un invito a colazione a Villa Certosa a inizio agosto. Ma come sempre accaduto nei miei rapporti con lui negli ultimi vent’anni, non ho ritenuto di darne pubblica notizia, per motivi di riservatezza e rispetto nei suoi confronti.

Renato Schifani, senatore FI ex Presidente del Senato

 

Gentile senatore, la ringrazio per la precisazione ma confermo tutto ciò che ho scritto basandomi sulle informazioni – molto dettagliate – di diverse fonti che conoscono bene la vicenda.

Gia. Sal.

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo “Fontana, Pillon &C.: l’orda nera leghista. Camerati per Matteo” del 13 agosto ho erroneamente scritto che al Verona Family Day del 2015 fu intonato un coro inneggiante ad Adolf Hitler. Quel coro in realtà fu cantato da Luca Castellini, presente al Family Day del 2015, due anni dopo, nel 2017, alla festa dell’Hellas Verona. Me ne scuso con gli interessati e con i lettori.

Gia. sal.

Gli oscuri giochi dietro al Quirinale

 

 

“Mi sono sentito a disagio nel toccare con mano le dinamiche della ricerca del consenso, costantemente anteposto alle finalità stesse dell’azione politica, sino all’irresponsabilità”.

Umberto Ambrosoli, intervistato dal “Corriere della Sera”, sabato 21 agosto

 

 

Chi sostiene l’ipotesi di una rielezione, sia pure a tempo, di Sergio Mattarella al Quirinale farebbe bene a riflettere sulla testimonianza di Umberto Ambrosoli sull’altra rielezione, quella di Giorgio Napolitano nell’aprile 2013, a cui egli partecipò come uno dei tre delegati della Lombardia (da candidato alla presidenza per il centrosinistra era stato sconfitto da Roberto Maroni). “Mi colpì quanto fosse enfatizzata deliberatamente una pressione enorme per spingere verso la decisione, in una condizione di irreale emergenza”, racconta il figlio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, assassinato l’11 luglio 1979 da un sicario di Michele Sindona. E aggiunge: “In piazza Montecitorio ci saranno state cinquanta persone, nei telegiornali sembravano migliaia, nessuno si preoccupò di raccontare davvero come stavano le cose, anzi quella tensione veniva gonfiata ad arte”. Otto anni dopo, gli eventi che seguirono quella “condizione di irreale emergenza” possono essere riletti con maggiore cognizione di causa. Con il Pd dilaniato dalle faide interne, la candidatura di Franco Marini sabotata, ma soprattutto quella di Romano Prodi affondata dai 101 (o più) franchi tiratori, tra i quali si sospettò numerosi fossero i sostenitori dell’arrembante Matteo Renzi. Il cui astro, dopo le dimissioni del segretario Pierluigi Bersani, toccò il punto più alto con la conquista del Nazareno e successivamente di Palazzo Chigi dopo la parentesi del governo Letta-Berlusconi: l’ennesimo governo di “larghe intese” per bloccare sul nascere la possibilità di un’alleanza fra i due partiti vincitori delle elezioni ex aequo, Pd e 5Stelle (che l’elezione di Stefano Rodotà al Colle avrebbe agevolato). Se anche un asse preordinato Napolitano-Renzi non è stato dimostrato, si può affermare che, nella sostanza, quell’improvvisa “innovazione” nella prassi costituzionale diede luogo a una serie di strappi successivi indirizzando il Paese verso soluzioni del tutto imprevedibili. “Una situazione assurda”, spiega Ambrosoli, “perché non ci si piega a una piazza che peraltro non esiste, né la si prende come alibi, soprattutto nel caso di elezione del presidente della Repubblica, affidata secondo la Costituzione non certo al voto popolare”. Ora, di un piano a bocce ferme, per trattenere Mattarella sul Colle, e per confermare Mario Draghi premier fino al voto della primavera 2023, si parla da mesi sulla cosiddetta grande stampa. Come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. Infatti non lo è, come non lo fu nel 2013. A maggior ragione se quella stessa emergenza, allora “gonfiata ad arte”, si prestasse tra qualche mese a essere invocata alla luce di una pandemia non ancora sconfitta. Ma anche, per esempio, nell’eventualità di una vaccinazione resa obbligatoria dal governo, ipotesi non più tanto irrealistica a leggere quegli stessi giornali. Oltre che per il cognome che porta, e per la sua riconosciuta autorevolezza e serietà, le parole di Ambrosoli vanno prese molto sul serio, come quelle di un testimone diretto. Occhio dunque, non si gioca con le regole della democrazia.

Addio scalfari, ora rep ama i ciellini

Il cuore del “popolo fedele di Cl” batte su Repubblica. Il Meeting di Comunione e liberazione sembra infatti avere un nuovo riferimento editoriale nel quotidiano che fu del centrosinistra. La kermesse è iniziata due giorni fa con l’intervento di Sergio Mattarella e Rep ne ha dato conto con un certo slancio sentimentale. L’inviata a Rimini Conchita Sannino è anche moderatrice di un dibattito e firma una pagina con due pezzi. Il primo, un resoconto sulle parole del Capo dello Stato: “Mattarella apre il Meeting di Rimini: ‘Vaccinarsi è un dovere di tutti’”. Il secondo, uno struggente racconto degli affezionati della kermesse: “La staffetta genitori-figli nel popolo fedele di Cl: ‘Qui incontriamo il mondo’”. Le testimonianze riscaldano il cuore, ma non quanto l’editoriale di Corrado Augias: “La prevalenza del Noi”. Un’attenzione che si conferma con la copertura video degli incontri, molti dei quali sono trasmessi in diretta sul sito di Repubblica. Eppure tanto trasporto non è certo nel dna del quotidiano. Eugenio Scalfari, per esempio, definiva “i ciellini” come “quella falange integrista e mercatoria che si colloca a destra dell’Azione Cattolica e in concorrenza bottegaia con la prelatura dell’Opus Dei”. E non aveva l’aria di essere un complimento.

Falcone&Borsellino, foto sparita

È stata per annial suo posto, sulla parete color ocra del supermercato, in basso a destra sotto alla scritta “Conad”. La mattina del 17 agosto non c’era più. Ad accorgersene è stato, per caso, un cliente: è uscito dopo aver fatto la spesa, si è voltato e l’occhio gli è caduto sullo spazio vuoto: la foto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino era sparita.

Il periodo è particolare, nell’Agro Pontino. La polemica innescata dal sottosegretario all’Economia Claudio Durigon, che il 4 agosto ha promesso battaglia per togliere il nome dei giardinetti di Latina ai due magistrati antimafia per restituirlo ad Arnaldo Mussolini, ha provocato fibrillazioni nella maggioranza e nelle città di fondazione ha riacceso l’antico dibattito, in realtà mai completamente sopito, sul valore delle origini. È in questo clima che a Sabaudia, una delle città fondate dal Duce nelle terre strappate alla palude, si è verificato il fatto, che in altri tempi non avrebbe destato particolare curiosità. Al posto della gigantografia di Falcone e Borsellino che campeggiava sulla parete esterna del Conad Superstore di via del Parco Nazionale, accanto a quella che ritrae il momento del passaggio della borraccia tra Fausto Coppi e Gino Bartali e a quella di Papa Giovanni Paolo II, non rimane che l’alone che il sole lascia su un muro quando un quadro viene rimosso. Dall’amministrazione del supermarket fanno sapere di non aver tolto la fotografia e di essere stati avvertiti dell’accaduto da alcuni clienti. Uno dei quali ha scritto una mail al Fatto per segnalare l’accaduto. Difficile al momento anche risalire all’identità dell’autore del gesto tramite le telecamere di sorveglianza: i filmati vengono cancellati dal sistema ogni 72 ore.

L’episodio non è isolato. A inizio agosto erano spariti da Corso Emanuele II alcuni pannelli della mostra “Sabaudia 1934-2014 – Come eravamo”, contenenti fotografie che raccontano la storia della cittadina a partire dalla sua nascita. Ancora una volta il tema è la “Storia”, con la esse maiuscola. Il 17 agosto sette pannelli erano stati poi ritrovati dalla polizia locale abbandonati e lievemente danneggiati poco fuori dal centro: “Sono in corso ulteriori verifiche di polizia giudiziaria – ha scritto su Facebook il sindaco Giada Gervasi –, sulle quali vige il massimo riserbo, per rintracciare le altre immagini e fare chiarezza sulla vicenda”.

Ponza, sagre e interviste: Durigon come se niente fosse

Matteo Salvini gli aveva chiesto di “sparire” e Claudio Durigon lo ha fatto a modo suo. Lavorando nell’ombra per il partito ma rendendosi visibilissimo. Non sulla terra ferma, troppo esposta ai flash delle telecamere, ma sull’isola di Ponza dove ormai conosce quasi tutti perché la frequenta da anni. Il gommone affittato per fare il bagno, le spaghettate nei migliori ristoranti dell’isola e anche lo “struscio” nel corso principale di Ponza all’ora dell’aperitivo. Anche quest’anno non si è fatto mancare nulla. Niente “ferie forzate” per redimersi, insomma, dopo la proposta di intitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini invece che a Falcone e Borsellino che ha fatto imbufalire mezzo governo. Nel frattempo Durigon ha continuato a lavorare dietro le quinte per completare le liste delle comunali di Roma, trattare sui presidenti di municipio con gli alleati del centrodestra e organizzare i banchetti per la raccolta firme dei referendum sulla Giustizia. E adesso, conclusi i giorni di ferie, è tornato anche a intervenire pubblicamente: ieri ha rilasciato un’intervista al quotidiano locale Latina Oggi sulle amministrative nella sua città e venerdì prossimo è previsto un suo intervento a Ceglie Messapica (Brindisi) alla festa di Affari Italiani. Non solo: il 3 settembre parteciperà alla fiera del Peperoncino di Rieti, organizzata da Livio Rositani (figlio del post-fascista Guglielmo), per parlare di Recovery Plan. Non proprio una politico che vuole rimanere in disparte.

La suapoltrona da sottosegretario però resta in bilico: se è vero che negli ultimi giorni ha parlato più volte con Matteo Salvini – che infatti lo difende pubblicamente – restano freddi i rapporti tra Durigon e Daniele Franco, ministro dell’Economia che avrebbe il potere di revocargli le deleghe. Al premier Mario Draghi, e al suo fedelissimo Franco, la proposta di intitolare il parco a Mussolini non è certo piaciuta e quindi l’irritazione nei confronti di Durigon continua. Ma questo non significa che i due decidano di rimuoverlo prima della mozione di sfiducia che Pd, M5S e LeU hanno annunciato per settembre, quando riapriranno le Camere: l’intenzione di Palazzo Chigi è quella di aspettare quel momento e poi, nel caso, anticipare la sfiducia individuale convincendo Salvini a far dimettere il proprio sottosegretario.

Durigon, anche per provare a placare le polemiche politiche, ha passato Ferragosto a Ponza dove ha affittato una villetta da amici nella zona nord dell’isola, nella località Le Forna, con la famiglia. Qualche giorno per rilassarsi, senza incontri pubblici o con esponenti politici locali. Ora che è tornato sulla terra ferma, però, non ha alcuna intenzione di assentarsi ancora dalla scena politica. E un primo assaggio lo ha fornito ieri quando ha rilasciato un’intervista a Latina Oggi in sostegno al candidato del centrodestra cittadino, scelto da lui, Vincenzo Zaccheo (“È un valore aggiunto”) e per provare a recuperare la consigliera comunale Giovanna Miele, indicata inizialmente da Durigon come candidata sindaca della Lega ma respinta da Forza Italia e Fratelli d’Italia che chiedevano un civico puro. Così il coordinatore regionale della Lega ha elogiato Miele, vicina alla rottura con il Carroccio: “Il futuro della Lega a Latina non può prescindere anche da lei”. Poi Durigon ha dato la linea a Zaccheo sul programma per vincere contro il sindaco uscente Damiano Coletta. Nessuna domanda invece sulla polemica che lo ha travolto negli ultimi giorni. Per il momento, comunque, Durigon non farà comizi ma, se passerà la tempesta, riprenderà a settembre.

Venerdì intanto è atteso a Ceglie Messapica a “La Piazza”, il festival di Affari Italiani, a cui andranno anche Giuseppe Conte e Matteo Salvini: la sera del 27 Durigon parteciperà a un dibattito alternandosi con l’ex viceministro del Pd, Antonio Misiani. Se nei giorni scorsi dalla Lega facevano sapere che, per evitare di esporlo ai giornalisti, Durigon avrebbe declinato, a ieri la sua presenza restava confermata. Poi il 3 sarà a Rieti per onorare il peperoncino e parlare di Recovery. Ma Durigon non si sta muovendo solo in vista delle comunali. Salvini a inizio estate gli ha affidato lo studio su due proposte economiche da portare al tavolo del governo in autunno: quella sulle pensioni – la Fornero non sarà prorogata – e la modifica del reddito di cittadinanza. Non esattamente il progetto di uno che sta per lasciare la poltrona da sottosegretario al Tesoro. A meno che non sia costretto a farlo prima.

Milano, il Movimento guarda a Sala e candida la manager Layla Pavone

“Il nuovo corso del Movimento 5 Stelle in Lombardia ha il volto di Layla Pavone”. L’enfasi può sembrare esagerata, ma è giustificata da mesi di liti e vertici a vuoto, fino a quello che venerdì notte ha designato Layla Pavone come candidata sindaca del Movimento alle amministrative di Milano del prossimo 3 e 4 ottobre. Appuntamento centrale non tanto per il peso del M5S in città – oggi quantificato intorno al 5 per cento – ma per la possibilità di dialogare poi con Beppe Sala in caso di riconferma del sindaco.

L’investitura dei 5 Stelle, promossa direttamente da Giuseppe Conte e Stefano Buffagni, è dunque ufficiale. Ma resta ancora un’ambiguità, nel giorno in cui tutti gli attivisti lombardi festeggiano la candidatura: la Pavone – che ieri si è dimessa dal cda di Seif, la società che edita il Fatto – non ha ancora formalizzato in prima persona il suo impegno, negando ogni dichiarazione pubblica. Un comportamento che stride con le dichiarazioni di eletti e attivisti, i quali danno la candidatura per cosa fatta e la invocano come via d’uscita da uno stallo durato fin troppo.

Ma tant’è. Chi ha partecipato all’incontro di venerdì riferisce di una Pavone “entusiasta”, che si è presentata per la prima volta ai 5 Stelle milanesi “e ha cercato di empatizzare con loro”, raccontando “la propria storia” e confrontandosi sulla “visione di Milano”. Il nodo da risolvere era quello del rapporto con Elena Sironi, consigliera municipale che gli attivisti locali avevano indicato come la loro candidata sindaca. Motivo per cui Conte ha prima riunito le aspiranti sindache in un pre-vertice – oggi dal M5S rivendicano con orgoglio che in corsa fossero due donne – e poi ha allargato il confronto a tutti i portavoce eletti in città.

Qui l’ex premier ha sottolineato l’importanza di aprire anche “a volti nuovi” la comunità milanese dei 5S, in linea con l’idea di un rilancio dell’attivismo al Nord. Poi ha introdotto la Pavone, che ha parlato delle sue esperienze professionali e ha in qualche modo rassicurato gli scettici, garantendo di voler preservare il buono del lavoro fatto in questi anni dai 5 Stelle.

D’altra parte la base milanese temeva proprio che una candidatura imposta dall’alto potesse smontare la comunità, stretta fino all’ultimo intorno alla Sironi. Ma alla fine è stata la stessa consigliera, a tarda notte, ad annunciare il passo indietro convinta che la candidatura della Pavone potesse portare “un valore aggiunto”. Il via libera della Sironi ha convinto quasi tutti gli attivisti, tanto che a fine riunione l’ok alla Pavone ha sfiorato l’unanimità.

Un buon segnale per Conte, la cui volontà di non forzare la mano con la base spiega la lunga durata delle trattative, motivate con il bisogno – a poche settimane dalla nomina a presidente del M5S – di arrivare a scelte il più possibile condivise con i territori. A Milano poi l’orizzonte è al secondo turno, quando il Movimento conta di portare una buona dote a Beppe Sala nella – eventuale – sfida con Luca Bernardo. Anche in questo senso il profilo della Pavone, manager senza esperienze in politica e dunque che non ha fatto opposizione a Sala negli ultimi cinque anni, garantisce buone premesse per un dialogo col centrosinistra.

“Il Napolitano-bis? Finta emergenza per imporlo”

Sono meno di una ventina di righe, in una intervista al Corriere lunga una pagina intera. Non hanno richiamo nel titolo né nei sommari, se non per quel riferimento alla politica che, a Umberto Ambrosoli, provocava “disagio”. Ma per quali motivi l’avvocato, figlio di Giorgio – ucciso nel ‘79 da un killer assoldato dal banchiere Michele Sindona – ed ex candidato con il Pd alla presidenza della Regione Lombardia, ha deciso di chiudere con la politica? Lo spiega lui stesso, nel dettaglio, citando quei giorni del 2013 in cui – da rappresentante regionale – si trovò in Parlamento per eleggere il presidente della Repubblica dopo la fine del primo mandato di Giorgio Napolitano. Elezione che si concluse con l’inedito bis del capo dello Stato in scadenza. Un “cortocircuito”, lo ricorda Ambrosoli: “Mi colpì quanto fosse enfatizzata deliberatamente una pressione enorme per spingere verso la decisione, in una condizione di irreale emergenza”.

Come i lettori ricorderanno, le elezioni politiche del febbraio 2013 sono state segnate dalla fortissima domanda di cambiamento arrivata dagli elettori, rappresentata dallo sbarco dei 5 Stelle in Parlamento con il 25 per cento dei voti.

Il già complicato dialogo con il Pd di Pier Luigi Bersani segna il suo punto di non ritorno proprio in occasione del voto per il Quirinale. I 5 Stelle – attraverso il voto degli iscritti online – hanno una rosa di dieci nomi, tra i quali prevale l’indicazione di candidare al Colle il giurista Stefano Rodotà. Beppe Grillo si appella a Bersani, la base dem apprezza l’offerta. Ma è un’operazione che non avrà mai l’avallo del Colle, che tifa da settimane per un governo di larghe intese e monita un giorno sì e l’altro pure in favore di un capo dello Stato che non sia “divisivo”, ovvero che vada bene anche a Berlusconi. E che quindi non può essere Rodotà, che farebbe saltare entrambe le condizioni care al presidente uscente.

Inizia la girandola dei nomi e delle votazioni a vuoto: Franco Marini viene bruciato ancor prima del terzo scrutinio, Romano Prodi viene impallinato al quarto, con la celebre defezione dei 101. È a quel punto, tornando ad Ambrosoli, che si scatena la “pressione enorme”.

Napolitano scioglie la riserva per il bis. Grillo, dal Friuli, ancora insiste sul voto a Rodotà e annuncia il suo arrivo a Roma, cosa che poi non avverrà. I suoi sostenitori scandiscono il nome del professore fuori da Montecitorio: “Ci saranno state cinquanta persone – ricorda Ambrosoli – nei tg sembravano migliaia, nessuno si preoccupò di raccontare davvero come stavano le cose, anzi quella tensione veniva gonfiata ad arte. Una situazione assurda – conclude l’avvocato – perché non ci si piega a una piazza che peraltro non esiste, né la si prende come alibi, soprattutto nel caso di elezione del presidente della Repubblica, affidata secondo la Carta non certo al voto popolare”. Napolitano intanto è già stato rieletto, l’alleanza tra Pd e 5S tramontata per l’intera legislatura.

Siena, chi ha perso di più? Dal 2011 sono stati i più ricchi

La crisi del Monte e il rapido arrivo di Unicredit nella sua data room ha avuto, com’è noto, un effetto politico immediato: mettere in difficoltà la candidatura di Enrico Letta alle suppletive per il collegio di Siena alla Camera lasciato libero da Pier Carlo Padoan, il ministro che aveva nazionalizzato Mps e oggi è presidente di Unicredit. Anche al di là dell’imbarazzante comportamento di Padoan, Letta è comunque segretario del partito, il Pd, che ha avuto per decenni larga, anche se non esclusiva, influenza sull’istituto attraverso la presa su Comune e Provincia (e, conseguentemente, sulla Fondazione che controllava il Montepaschi).

È interessante, dunque, capire che tipo di crisi vive la città di Siena dacché – era il 2011 – la più antica banca del mondo comincia a crollare sotto il peso dello scellerato acquisto di Antonveneta e della crisi dell’euro: a pagare, come dimostra un articolo di Jacopo Signorelli su lavoce.info, è stata finora più la borghesia che il proletariato, per così dire, e la cosa non è senza effetti anche elettorali. “I redditi – scrive Signorelli – sono diminuiti in tutte le città della Toscana in seguito alla crisi del 2011, ma a Siena più che negli altri capoluoghi”, come peggiore è stata la dinamica della disoccupazione, ma col paradosso che lì nello stesso periodo sono diminuite le disuguaglianze. Com’è possibile? “Fino al 2011 assistiamo a un aumento generico dei redditi senza effetti significativi sulla disuguaglianza. La fascia di reddito che aumenta in modo più significativo è quella sopra i 120 mila euro (…) Nel 2011 assistiamo a una riduzione delle tre fasce più alte, dai 55 mila euro in su”.

Oltre al personale uscito dal Monte, spesso con redditi più alti della media, c’è anche l’effetto della crisi bancaria sull’economia senese, sentito in particolare dal sistema industriale della zona e da chi viveva (bene) all’ombra della Fondazione. Insomma, i più scontenti a Siena sono i membri di quel ceto medio riflessivo che negli ultimi anni è divenuto quasi l’intero bacino elettorale del Pd: Letta se la rischia assai.

Le voci e le smentite sul capitale di Mps e i negoziati sui soldi

Ealla fine arrivò la Consob. D’altra parte era fatale: venerdì l’autorevole agenzia finanziaria Bloomberg aveva scritto che il ministero dell’Economia sta valutando un aumento di capitale fino a 3 miliardi di euro per Monte dei Paschi per rafforzarne il patrimonio e venderla a UniCredit assecondando una richiesta non trattabile dell’istituto milanese: che l’operazione abbia effetti neutri sul suo capitale. Ieri, però, e solo a seguito della richiesta di chiarimenti dell’Autorità che controlla la Borsa, Mps ha fatto sapere che non è affatto vero: “La banca, su richiesta della Consob, precisa che si tratta di indiscrezioni che non trovano alcun riscontro in iniziative attivate” e “segnala che stanno, invece, proseguendo le attività di due diligence da parte di UniCredit, in coerenza con il comunicato da quest’ultima diffuso in data 29 luglio”.

La cosa, vera o meno che sia, non è senza rilievo perché l’entità della cifra sottolinea uno degli aspetti meno chiari della situazione del Monte: nel piano industriale vigente, approvato dal Tesoro, si prevede un aumento di capitale fino a 2,5 miliardi, definito “coerente” con la situazione della banca dall’ad Guido Bastianini alla presentazione dell’ultima semestrale (peraltro la migliore da anni); il ministro dell’Economia Daniele Franco, però, azionista di maggioranza di Mps, ha sostenuto in Parlamento negli stessi giorni che quella cifra “va riconsiderata” e il fabbisogno di capitale è “ben superiore”. Ora Bloomberg scrive (smentita) che il Tesoro si prepara, nella sostanza, a mettere altri 3 miliardi nella banca per venderla a UniCredit permettendo ad Andrea Orcel e Pier Carlo Padoan (ad e presidente) di non investire un euro dei loro azionisti.

Visto che il ministro Franco ha già detto che alla vendita a UniCredit non c’è alternativa, tutta la trattativa è su quanti soldi pubblici serviranno per far contento l’acquirente: una cifra che, a spanne, potrebbe superare i 10 miliardi tra soldi veri, sgravi fiscali, paracadute per gli esuberi, contenzioso, etc. La prima linea di questo fronte, però, è la reale situazione del Monte e il campo di battaglia la citata due diligence: pare che i tecnici spediti da Orcel a spulciare i crediti dell’istituto senese e il suo personale siano passati dalle 30 unità di fine luglio alle attuali mille e le richieste di chiarimenti da 14 mila a 22 mila solo negli ultimi giorni.

Quanti crediti e con quali garanzie accollarsi e quanti esuberi lasciare per strada sono il centro di questa partita, che secondo il comunicato di luglio avrebbe dovuto concludersi entro il 7 settembre, ma che sarà quasi certamente prorogata (magari a dopo le suppletive di Siena, fissate per inizio ottobre).

Per vendere, comunque, la Commissione europea ha concesso al Tesoro fino a fine anno e Franco ha già chiarito che non intende chiedere proroghe. Non è l’unico paletto che Bruxelles ha messo sulla strada della permanenza in vita della più antica banca del mondo, uno su tutti: come ha rivelato Il Messaggero venerdì, durante una riunione sull’acquisizione di qualche giorno fa, presenti anche i tecnici del Tesoro, è stato riportato che la Dg Competition della Commissione ha già chiarito che il marchio Mps non potrà avere una vita legale autonoma dopo il deal, neanche a tempo come ipotizzato da più di qualcuno all’inizio per diluire nel tempo l’umiliazione per i senesi. Monte dei Paschi come Alitalia non potrà rimanere in vita come banca locale nell’ambito del gruppo UniCredit: probabile che per dirlo ufficialmente si aspettino le elezioni di ottobre.