Perché il Monte dei Paschi può diventare una “banca pubblica”

Il destino di Monte dei Paschi di Siena appare ormai segnato. La quinta banca più grande del Paese per valore degli attivi scomparirà dalla classifica dei principali istituti bancari italiani. L’ipotesi standalone, di sopravvivenza autonoma con controllo pubblico, sarebbe pregiudicata per motivi fattuali e teorici.

Il primo presupponel’insolvibilità strutturale di Mps, di cui lo Stato non dovrebbe farsi carico in eterno. Eppure, durante la presentazione della seconda trimestrale, il management della banca ha delineato uno scenario non così scoraggiante. Dal punto di vista del conto economico, si è registrato un altro utile netto trimestrale positivo, corrispondente a 202 milioni di euro cumulati nel 2021, basato sul risultato operativo netto semestrale migliore degli ultimi 5 anni. Migliora anche il rapporto tra il patrimonio di migliore qualità e le attività ponderate per il rischio (il CET1), cresciuto a 10,6%, dal 9,9% di fine 2020. Ma ancora più interessanti sono le affermazioni del Cfo Giuseppe Sica, il quale ha ricordato come sulla base di un aumento di capitale da 2,5 miliardi, previsto dal piano strategico dello scorso gennaio, lo scenario avverso al 2023 coerente con gli stress test dell’Eba porterebbe il CET1 al 6,6% e non a -0,1%.

Se Montepaschi fosse proiettata verso la sostenibilità finanziaria, verrebbe meno una prima ragione di fondo per la privatizzazione con incorporazione in un altro soggetto. Ma qui interviene un’altra, ben più radicata convinzione: lo Stato non dovrebbe essere proprietario e gestore di attività bancarie commerciali. Un ragionamento che trova però confutazione nella storia dello sviluppo economico del nostro Paese.

“L’Italia è stata definita da uno scrittore di cose economiche come il paese dei salvataggi bancari”, così esordiva Donato Menichella in un rapporto del 1944 predisposto per le autorità Alleate. Il futuro governatore della Banca d’Italia spiegava come il susseguirsi delle crisi bancarie avesse trovato definitiva risoluzione solo con la creazione dell’Iri nel 1933 e con la conseguente legge bancaria (R.D.L. 375/36). Col salvataggio delle tre principali banche del Paese – Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma – l’Iri assunse la proprietà delle imprese da esse controllate e praticò la separazione tra credito commerciale e finanziamento industriale.

In seguito, la riforma bancaria del 1936, scritta da Menichella e dai suoi collaboratori all’Iri, estese all’intero sistema bancario il principio della specializzazione funzionale (commerciale e industriale), temporale (breve periodo e medio-lungo periodo), settoriale e territoriale tra i diversi istituti finanziari. L’articolo 1 della nuova legge bancaria definiva l’esercizio del credito come una funzione “di interesse pubblico”, da orientare allo sviluppo economico del Paese, come la intese la nuova classe dirigente del secondo dopoguerra.

Il sistema bancario che caratterizzò gli anni del miracolo economico rimase prevalentemente pubblico anche dal punto di vista degli assetti proprietari. Ancora nel 1990, quando l’Italia si apprestava a “sorpassare” il Regno Unito in termini di reddito pro capite, il 34,8% del totale dei prestiti era erogato dai cosiddetti istituti di credito speciale (Imi, Crediop, ecc.), enti pubblici che raccoglievano risparmio sotto forma di obbligazioni e finanziavano attività industriali a medio-lungo termine. La parte restante interessava il credito commerciale di breve periodo a famiglie e imprese, diviso a sua volta in: banche di interesse nazionale controllate dall’Iri (13,6%); istituti di diritto pubblico, fra cui Monte dei Paschi di Siena (18,7%); banche popolari, casse rurali, casse di risparmio e banche cooperative (42,2%). Solo il rimanente 25,4% veniva da banche interamente private.

In seguito, in meno di un decennio, il sistema che durava dal 1936 venne interamente stravolto. Si recepì il principio delle direttive comunitarie – fra tutte la 77/780/CEE – sulla natura “di impresa” degli enti creditizi. Con la legge Amato-Carli del 1990 gli istituti di credito di diritto pubblico vennero trasformati in SpA, predisponendone la graduale privatizzazione. Anche l’Iri smobilizzò le sue banche fra il 1989 e il 1994. Infine, con il Testo Unico Bancario del 1993 si sancì la fine della specializzazione bancaria e il ritorno della banca universale. I risultati di questa profonda trasformazione sono stati positivi per i nuovi azionisti privati, ma lo stesso non si può dire per la stabilità del sistema bancario, come si è potuto constatare negli ultimi anni.

Nel resto del mondo le banche commerciali a partecipazione statale esistono tutt’ora e spesso ricoprono un ruolo pubblico fondamentale. Come il sistema delle Landesbanken tedesche che, tramite lo status di tripla A della banca pubblica d’investimento KfW (la quale si finanzia per mezzo di obbligazioni con garanzia dello Stato), ottiene liquidità a basso costo con cui si finanziano le imprese, le quali in questo modo beneficiano di un vantaggio competitivo in termini di accesso al credito.

Una Mps autonoma e con una missione pubblica di politica economica, pur sempre all’interno dei vincoli regolamentari e di mercato, potrebbe impegnarsi a finanziare le imprese che intendono investire in tecnologie e processi a impatto ambientale positivo. Inoltre, una Mps pubblica che guardasse al Mezzogiorno (dove si trovano circa un quarto delle sue filiali) potrebbe controbilanciare il predominio settentrionale del sistema bancario italiano.

Schumpeter definiva il banchiere come l’eforo del capitalismo, per il ruolo “da guardiano” nel finanziamento delle attività produttive. Non a caso gli embrioni di un capitalismo commerciale nacquero in Italia, assieme alle prime forme moderne di banca. Così come nel XV secolo Monte dei Paschi ne fu il precursore, oggi potrebbe diventare il campo di sperimentazione di un nuovo modello di banca pubblica.

 

Arriva l’appello delle parti sociali: “Draghi rifinanzi la quarantena”

Il fondo dell’Inps per coprire i lavoratori del settore privato messi in quarantena fiduciaria, perché entrati in contatto con positivi al coronavirus, vale solo per il 2020. In sostanza, come ha denunciato il Fatto, il fondo non è stato rifinanziato con il risultato che i lavoratori per l’anno in corso rischiano il taglio di stipendio e contributi previdenziali per tutti quei giorni in cui devono rimanere in casa (fino 14 giorni). Una situazione che ora i sindacati “vivono con profonda preoccupazione” spingendoli a chiedere” un’immediata risposta al governo”. In una lettera che Rossana Dettori (Cgil), Angelo Colombini (Cisl) e Ivana Veronese (Uil) hanno inviato ai ministri del Lavoro Andrea Orlando e dell’Economia Daniele Franco spiegano che “la mancata equiparazione dei periodi trascorsi in quarantena o sorveglianza fiduciaria a malattia pone seri interrogativi sia su come potranno essere riconosciuti tali periodi di assenza dal lavoro, sia su come sarà assicurata la copertura retributiva e contributiva”.

L’Inps nel suo messaggio del 6 agosto ha chiaramente spiegato che l’isolamento delle persone costrette a casa dal primo gennaio 2021 non è più equiparato alla malattia ai fini del trattamento economico. In pratica, non viene più corrisposta l’indennità previdenziale e la relativa contribuzione figurativa, perché il legislatore non ha previsto un nuovo stanziamento per prorogare la tutela della quarantena. Quindi, a meno che il governo non corra ai ripari in un prossimo decreto, l’Inps non potrà procedere a riconoscere i contributi. Secondo le nuove regole sulla quarantena imposta a chi è stato a contatto stretto di un caso Covid positivo, i giorni da passare a casa variano da 7 a 14, a seconda se si è completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni e se si ha un test molecolare o antigenico negativo. “Dobbiamo insieme convincere il governo e i partiti della maggioranza a cambiare la posizione, trovando la copertura finanziaria che il ministro delle Economia non vuole dirottare su questa urgente necessità”, ha spiegato Angelo Colombini segretario confederale Cisl, responsabile sicurezza lavoro. “Non abbiamo ancora avuto risposta dal governo. È un tema aperto e un tema importante: va dato un ulteriore finanziamento, non si possono scoprire i lavoratori in questo modo e in questo momento”, ha aggiunto Ivana Veronese, segretaria confederale Uil. È stato il Cura Italia a introdurre nel marzo 2020 l’equiparazione della tutela della malattia a quelle dei periodi di assenza dal lavoro dovuti a quarantena. Per garantirne la continuità sono stati stanziati l’anno scorso 663,1 milioni di euro, ormai esauriti.

Bonomi bombarda sindacati e Orlando: vuole mani libere

Completamente a suo agio davanti al pubblico del meeting di Rimini di Comunione e Liberazione, ieri il presidente della Confindustria Carlo Bonomi ha colto l’occasione per lanciare due (interessati) attacchi frontali: uno ai sindacati, perché non vogliono introdurre il Green pass obbligatorio sui luoghi di lavoro attraverso un accordo tra parti sociali; l’altro a una parte del governo – il ministro del Lavoro Andrea Orlando e la viceministra allo Sviluppo Alessandra Todde – per il prossimo decreto anti-delocalizzazioni. In sostanza, dal salotto di Cl, il leader degli industriali ha srotolato il suo elenco di richieste autunnali: obbligare i lavoratori a vaccinarsi per mantenere il posto e mandare in soffitta la proposta che prevede sanzioni (o almeno il blocco dei soldi pubblici) per le multinazionali che smobilitano e licenziano.

Sui certificati verdi in azienda, la posizione dei sindacati è nota: deve essere il governo a prendersi la responsabilità di imporre le immunizzazioni per legge e, soprattutto, l’accesso ai luoghi di lavoro ai soli vaccinati non può essere la scusa per aggirare i protocolli di sicurezza che devono rimanere. Il dubbio, insomma, è sull’opportunità di arrivarci per via pattizia e non legislativa. Questo a Bonomi non va bene: “Troppo facile rimandare la lattina alla politica; difficilmente nel breve si può arrivare alla legge”, ha detto dichiarandosi pronto sin da subito a un nuovo accordo senza però specificare se questo, a quel punto, debba comportare una revisione degli attuali protocolli su distanziamenti e mascherine. Per spingere sull’obbligo vaccinale dei lavoratori, Bonomi ha pure tirato in mezzo i bambini morti per la polio: “A quei tempi un anno di discussione ci è costato 10 mila bambini, 8 mila morti e 2 mila rimasti infermi”. Decisamente sgradevole. Secondo il presidente di Confindustria, siamo “di fronte alla possibilità di sedersi a un tavolo e dare una via al Paese”, ma finora non è stato fatto: “Abbiamo fallito e mi ci metto anche io, che colpe non ne ho, perché ho sempre detto che a quel tavolo ero disponibile ad andarci”.

Ma ancora più nervoso Bonomi sembra essere per il futuro dl anti-delocalizzazioni. “L’industria manifatturiera ha tenuto il Paese insieme: altrove tutti avrebbero avuto un occhio di riguardo”, invece “Orlando e Todde pensano di colpire con un decreto le imprese sull’onda dell’emotività di due o tre casi che hanno ben altre origini”.

Per il presidente della Confindustria, il provvedimento è troppo “punitivo” e per questo ha rinfacciato al governo i 58 miliardi di debiti che la Pa ha nei confronti dei fornitori (il riferimento esplicito a Todde, peraltro, arriva proprio mentre la vice-ministra dello Sviluppo pare in corsa per diventare vice-presidente M5S). Timori esagerati, comunque, visto che l’ultima bozza ha alleggerito l’aspetto sanzionatorio, limitandosi ad aumentare le tasse sui licenziamenti e a precludere finanziamenti pubblici alle aziende che non seguono le “procedure di allerta” previste per mitigare l’impatto delle delocalizzazioni. L’obiettivo della legge, infatti, più che impedire i trasferimenti all’estero, sembra essere creare un percorso condiviso: bisognerà presentare un piano prima di licenziare e farselo approvare dal Mise. Ma anche così Bonomi non ne vuol sapere e, tenendo fede al suo stile, pure qui ha tirato fuori l’aneddoto: “Dopo quello che hanno combinato Todde e Orlando mi ha chiamato il mio omologo spagnolo: mi ha detto di ringraziare il ministro perché da ora in poi andranno tutti in Spagna a investire”.

Infine, anche i partiti preoccupano Bonomi: i loro “distinguo” e la deprecabile abitudine di tenere elezioni tipo le Amministrative possono “in autunno rallentare l’attenzione del governo sulle riforme”, ma non ha detto quali. Su questo, stranamente, niente aneddoti.

Rave, “potenziare il tracciamento Covid in Toscana”

Le migliaia di giovani che hanno partecipato al maxi rave nel Viterbese per 7 giorni continuano a circolare fra Toscana, Lazio e le altre Regioni. Dopo essere stati dispersi, i partecipanti “reduci” del raduno non sono stati sottoposti a tamponi rapidi né a quelli molecolari per capire se abbiano contratto il Covid. Solo quarantotto ore fa l’assessorato alla Sanità del Lazio ha disposto screening per le popolazioni dei paesi della zona. E solo ieri è arrivato l’ordine dalla Asl Toscana Sud Est (Grosseto, Siena, Arezzo) ai suoi centri “Covid tracing” e a tutti gli ospedali e gli altri presidi sul territorio di intensificate le operazioni di tracciamento. Si tratta di una raccomandazione, viene spiegato dalle fonti sanitarie, per sensibilizzare gli operatori della Asl impegnati sul fronte Covid ad avere una maggiore attenzione e a ricavare le massime informazioni sui contatti avuti da eventuali positivi al rave e nei tragitti dei paesi tra il litorale Grossetano e le aree termali della Maremma (Saturnia, Talamone, Orbetello e Argentario, fiume Fiora, Val d’Orcia).

Contabili di potere: in 2 oltre 50 poltrone

Al Circolo del Golf Villa d’Este, tra i più spettacolari campi d’Italia grazie a una vista panoramica sul Lago di Como, i fratelli Ronzoni erano di casa. D’altra parte i due commercialisti erano molto conosciuti nel mondo imprenditoriale lombardo: negli anni hanno accumulato una serie di cariche societarie importanti, sia nel settore pubblico che in quello privato. Oscar, classe ‘57, è stato nei consigli di amministrazione di oltre 30 aziende, tra cui gruppi della moda importanti come Antichi Pellettieri, Piquadro e Baldinini. Nel cda di Antichi Pellettieri Ronzoni senior è entrato nel 2010, dopo che l’azienda è finita in concordato preventivo, e ci è rimasto per cinque anni, nonostante la Sec lo avesse nel frattempo multato con l’accusa di insider trading (acquisizione dell’americana Drs da parte di Finmeccanica). Il fratello Luca, classe ‘67, ha invece nel suo palmarès qualche carica societaria in meno (17), ma anche qui i nomi di peso non mancano. È stato ad esempio nei cda dell’Autodromo nazionale di Monza, la società dell’Aci che gestisce il circuito più famoso d’Italia; in quello di Db Cargo, filiale italiana delle ferrovie tedesche (Deutsche Bahn); pure vice presidente dell’Aler di Lecco, l’azienda pubblica che gestisce le case popolari nella provincia lombarda. Curricula di tutto rispetto, per quelli che la Procura di Milano considera professionisti del riciclaggio internazionale.

“Fondi neri per 45 milioni” Nella lista anche l’Atalanta

Il file si chiama “conti” e raccoglie una lista di 104 società italiane. Un elenco di imprese sospettate di aver usato per anni un sistema finalizzato a creare montagne di nero all’estero. Quando gli uomini dell’Agenzia delle Entrate hanno trovato la lista, si sono subito resi conto di essere di fronte a una miniera di informazioni. Alcune aziende hanno nomi importanti, e l’email che accompagna l’elenco è piuttosto esplicita: “Ecco il file aggiornato anche con i nuovi clienti BSI”, sigla che sta per Banca Svizzera Italiana. Era il luglio del 2014 e i funzionari dell’Agenzia stavano perquisendo la sede milanese della Luga Audit & Consulting Srl, studio commercialistico intestato a Oscar Ronzoni, professionista di Como con residenza a Lugano. In silenzio, negli anni, il materiale sequestrato è passato al vaglio del nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano, che sotto il coordinamento del pm Paolo Storari è recentemente passato all’azione: Oscar Ronzoni, insieme al fratello Luca, è stato arrestato nel maggio scorso per riciclaggio. Ha scritto il gip, Domenico Santoro, disponendo il carcere preventivo per i due: i fratelli Ronzoni hanno compiuto “operazioni di trasferimento di somme di denaro al fine di non consentire l’identificazione della provenienza attraverso movimentazioni estero su estero…. sino alla retrocessione in Italia, anche in contanti, e all’estero su relazioni bancarie offshore, per un ammontare complessivo di oltre 18 milioni di euro”. La cifra riguarda però solo pochissime delle 104 società riportate nell’elenco sequestrato ai fratelli Ronzoni. Segno che in futuro potrebbero esserci altre sorprese.

Stando alle 215 pagine di ordinanza di custodia cautelare, i due commercialisti comaschi hanno creato una sorta di fabbrica del riciclaggio a cavallo tra l’Italia e la Svizzera. Una versione in scala provinciale dello studio Mossack&Fonseca, quello venuto alla ribalta con i Panama Papers, ma capace di offrire ai propri clienti molti più servizi. Sistemi chiavi in mano. Oltre alla gestione di società offshore, i Ronzoni avrebbero infatti garantito anche l’esportazione di valuta all’estero grazie a otto società-veicolo europee. Otto scatole usate per emettere fatture false. In questo modo le imprese italiane potevano da un lato abbattere gli utili in patria, dall’altro crearsi un tesoretto nero fuori confine. Per il problema principale (come fare poi a usare il nero parcheggiato all’estero) i commercialisti italo-svizzeri, secondo gli inquirenti, avevano trovato la soluzione.

Ai clienti veniva offerta una doppia opzione, sostiene la Procura di Milano. Consegna del denaro in Italia, tramite spalloni, oppure investimento del tesoretto in Perseus, un fondo domiciliato presso la Amber Bank & Trust di Nassau, Bahamas. “Appare innegabile, alla luce delle emergenze indiziarie descritte, che i fratelli Ronzoni da quasi un decennio esercitino, in maniera che non si ha tema di definire professionale, l’attività di riciclaggio. Questa si fonda, per come si è avuto modo di apprezzare, su complicati intrecci e legami tra società risiedenti all’estero, apparentemente legate da rapporti contrattuali, rivelatisi meri schermi formali diretti a consentire vorticosi giri di fatturazioni per operazioni inesistenti e conseguenti restituzioni delle somme ai clienti”, ha scritto il gip Santoro disponendo l’arresto per i due lo scorso maggio.

In carcere i Ronzoni sono finiti per presunte operazioni di riciclaggio organizzate a beneficio di società. Come ad esempio la Italveco Srl, a proposito della quale il gip scrive: “È plausibile ipotizzare che gli importi pagati da Italveco… possano trovare giustificazione in una dazione corruttiva finalizzata ad avvantaggiare Italveco nell’aggiudicazione di un’importante commessa legata alla costruzione di un impianto di bioetanolo in Crescentino (Vercelli)… commissionato dal Gruppo Mossi & Ghisolfi”. Rispetto all’elenco delle aziende trovato nello studio dei due commercialisti comaschi, restano da approfondire 100 nomi. Non è detto che tutte queste società abbiano partecipato al “Sistema Ronzoni”.

Di certo sono tutte imprese italiane, tra cui alcune molto note come Marazzi (ceramiche), Danieli (acciaio), Atalanta (calcio), Valtur (turismo), Sanlorenzo (yachts). Le indagini stanno proseguendo, si legge nell’ordinanza, “soprattutto con riguardo all’individuazione dei numerosi altri clienti” dei fratelli Ronzoni. Le 104 società sono finite sotto il faro della Procura perché hanno ricevuto fatture da otto imprese europee. Proprio quelle otto usate dai Ronzoni per fare uscire i soldi dei clienti dall’Italia. Fatture emesse e pagate nel giro di quattro anni, dal 2012 al 2016, per un totale di 45 milioni di euro. Alle domande del Fatto, Marazzi e Danieli non hanno risposto, mentre Sanlorenzo ha detto di non voler rilasciare commenti. Nicolaus Tour, il gruppo oggi proprietario del marchio Valtur (la società è fallita nel 2018), sottolinea che “i fatti fanno riferimento alle gestioni del marchio precedenti rispetto a quella attuale”. L’Atalanta, club che fa capo all’imprenditore Antonio Percassi, ci ha fatto sapere di non essere a conoscenza di indagini a proprio carico e ha assicurato che, da un primo e rapido controllo amministrativo, non risulta aver mai avuto rapporti commerciali con le otto società usate dai Ronzoni per fare uscire i soldi dei clienti dall’Italia.

“Wembley, 9 mila contagi”: l’Europeo presenta il conto

Erano quasi trentamila ieri a Milano per l’esordio a San Siro dei neo campioni d’Italia dell’Inter contro il Genoa. Di meno, ma comunque migliaia, a Empoli per Empoli-Lazio e a Torino per la sfida tra i granata e l’Atalanta. Dopo 15 mesi (salvo rarissime eccezioni) di stadi quasi completamente deserti, il calcio italiano ha infatti riaperto le porte ai tifosi, il cui ingresso quest’anno sarà consentito al 50% della capienza degli impianti. Si va dai 37.908 del Meazza di Milano ai 4 mila del Picco di La Spezia. Riusciranno i tifosi a rispettare le regole di distanziamento, a occupare (anche in curva) i posti assegnati lasciando un seggiolino tra sé e il dirimpettaio? Vedremo. Intanto le premesse che arrivano dall’Inghilterra non promettono benissimo. Una ricerca dell’agenzia governativa Public Health England ha infatti certificato, numeri alla mano ciò che era noto già da luglio, ossia che gli Europei di calcio in Inghilterra “hanno generato un significativo rischio per la salute pubblica, anche quando la nazionale ha giocato all’estero”. Si parla di Covid allo stadio, ovviamente, ma non solo. Lo studio analizza il tracciamento noto dei contagi trasmessi anche in altri eventi aperti al pubblico, come il torneo di Wimbledon, gli Internazionali di cricket, il Royal Ascot, gli Open di Golf e il festival musicale Download. Ebbene, ciò che emerge è che – a parità di assembramenti – il tifo calcistico, tra cori, birre e abbracci, è particolarmente contagioso.

Complessivamente le autorità britanniche hanno individuato 9.400 casi di Covid dovuti alle partite giocate dalla nazionale inglese a Wembley dal 13 giugno all’11 luglio, periodo in cui il Regno Unito passò da un’incidenza settimanale di 43,5 contagi ogni 100 mila abitanti a 543,3. Si tratta, specifica lo studio del Public Health England, di numeri ampiamente sottostimati, poiché relativi solo al tracciamento dei sintomatici, mentre “una grossa quota di casi, specialmente nei più giovani, sono asintomatici, contando anche che all’11 luglio l’80% della popolazione over 50 era completamente vaccinata contro meno del 30% di quella under 40”.

L’Agenzia governativa non manca poi di rilevare come il caso Wembley sia in contrasto con il torneo di Wimbledon (tennis) e altri eventi simili, come partite di cricket, tornei di golf ed eventi musicali, che “con un numero simile di spettatori e capienza degli impianti” hanno fatto registrare molti meno contagi: 881 a Wimbledon (300 mila spettatori complessivi e impianti pieni al 100%), 376 agli Internazionali di cricket, 164 agli Open di golf, 81 al Download Festival, 50 al Royal Ascot.

Il motivo, come si può facilmente intuire, sta nella differente disciplina del pubblico. A Wimbledon si assiste alla partita seduti, in silenzio, rispettando le regole. A Wembley – e altrove – ci si ritrova al pub prima, ci si ammassa agli ingressi, si canta, si esulta, si grida, ci si abbraccia. Insomma, le condizioni peggiori: “Il rischio di trasmissione del Covid – sentenzia il Public Health England – non è stato contenuto dalle misure di contrasto messe in campo in occasione dell’evento”.

In crescita i casi over 40, diminuiscono tra i giovani

Il contagio rallenta tra gli under 30, “mentre si osserva un aumento dei casi nelle fasce di età più adulte” che ha come conseguenza “un corrispondente ma lento aumento anche del tasso di ospedalizzazione“. L’Istituto superiore di Sanità segnala il trend che emerge dall’analisi dei dati sui casi di Covid nella settimana prima di Ferragosto. Un dato ancora non consolidato, si legge nel documento, ma che registra un “rallentamento della crescita dei casi Covid nella fascia 10-29 anni, mentre continuano a crescere i casi in tutte le fasce sopra i 40 anni. L’incidenza nella fascia 50-59 per la prima volta da inizio maggio è superiore a 50 casi per 100 mila abitanti”. È anche la fascia di età dove ancora più di 2 milioni di persone non hanno ricevuto nemmeno una dose di vaccino. In totale, se si considerano tutti gli over 50, sono addirittura 4 milioni gli italiani che non hanno aderito alla campagna vaccinale.

Il 23% dei casi segnalati nelle ultime due settimane è di sesso maschile e di età compresa tra 10 e 29 anni, la percentuale di femmine nella stessa fascia è pari al 19%. I casi di Covid over 60 anni sono ancora in aumento rispetto alla settimana precedente (13,2% tra il 9 e il 15 agosto, l‘11,2% fra il 26 luglio e l’8 agosto). Da fine giugno si è osservato un aumento dell’incidenza settimanale fra 0 e 40 anni. Nell’ultima settimana, invece, rallenta la crescita nelle fasce 10-19 e 20-29, mentre continuano a crescere i casi in tutte sopra i 40 anni. Infine, si registra per tutte le fasce di età un tasso di ricovero superiore a 10 casi per 100 mila, con una variabilità che va da 12 casi per la fascia 10-19 a 101 per gli ultranovantenni. E potrebbe essere sottostimato a causa dei tempi di notifica.

Analizzando i contagi tra i 40 e i 59 anni negli ultimi 30 giorni, si nota come tre quarti (il 75,3%) siano persone non vaccinate o con una sola dose. I numeri diventano ancora più evidenti guardando ai ricoveri: tra i 40-59enni che hanno completato il ciclo vaccinale, nell’ultimo mese, 121 sono andati in ospedale a causa del Covid, 7 sono finiti in terapia intensiva. Tra chi non è per niente o solo in parte immunizzato, invece, i ricoveri sono stati 1.580 (92,9%) e quelli in terapia intensiva 129 (il 94,9%). Tra i vaccinati con due dosi i decessi sono stati due in 30 giorni, tra gli altri si contano 33 morti.

“I vaccini sono già al plateau, addio all’immunità di gregge”

“L’immunità di gregge non si raggiungerà. Ma non è un fallimento, è una caratteristica intrinseca del virus con cui abbiamo a che fare”. Il virologo Fabrizio Pregliasco, direttore Sanitario dell’Istituto Galeazzi di Milano, sembra allontanare il miraggio di un virus incapace di attecchire perché privo di organismi da attaccare.

Professore, che significa niente immunità di gregge?

Purtroppo i coronavirus, non solo il Covid-19, non determinano immunità per la vita. Ci si può infettare se gli anticorpi prodotti dalla guarigione si esauriscono o quando scade la copertura vaccinale. Non è il morbillo, che se il nonno o la nonna lo hanno avuto da bambini non lo riprenderanno dai nipotini.

Qui rischiamo di dare argomenti ai no vax…

Sciocchezze, è evidente che il vaccino è l’unica via di uscita. Il punto di equilibrio è garantire la possibilità che la maggior parte della popolazione sia immunizzata nell’arco di 9-12 mesi. Per questo – al di là delle giuste critiche dell’Oms che ritiene più urgente vaccinare prima i paesi poveri ancora privi di copertura – ritengo che ci sarà bisogno di una terza dose. Primo perché è una forma di sovranità vaccinale, strategica per la sicurezza, che gli Stati torneranno a esercitare, secondo perché – nell’ottica futura di una pandemia che prima o poi sarà endemica – il vaccino anti Covid potrà essere come quello dell’influenza, ossia solo per i più fragili.

Secondo alcuni, se l’immunità di gregge è impossibile, vaccinare i bambini e i ragazzi in età scolare sarebbe inutile.

Se lasciamo fuori una quota di popolazione l’immunità si allontana ancora di più. Purtroppo la Delta colpisce di più anche i bimbi e la loro patologia, prima spesso banale, diventa meno controllabile e di più ampia diffusione. Poi certo, ci sono stati casi di miocarditi e pericarditi in misura anche superiori alla probabilità delle stesse patologie come conseguenza del Covid, ma credo che presto si arriverà all’autorizzazione per i maggiori di 5 anni. Gli studi in corso mostrano dati sostanzialmente sovrapponibili a quelli degli adulti.

La campagna vaccinale, complice anche l’estate, è in caduta libera. Abbiamo esaurito la platea di vaccinabili?

Una flessione, personalmente, l’ho notata già da luglio durante i miei turni da vaccinatore. Il sistema degli hub è stato una scelta utilissima in termini di efficienza, una catena di montaggio che ha permesso di soddisfare il desiderio di chi voleva vaccinarsi. Ora temo che la curva abbia raggiunto un plateau.

Lei crede che una buona campagna informativa convincerà mai i no vax?

Credo che esista uno zoccolo duro ideologizzato con cui la distanza è incolmabile. Poi ci sono i dubbiosi, alcuni dei quali si sono decisi grazie al green pass. Perché diciamolo, il certificato rompe le scatole, è una forma di incentivo alla vaccinazione, una scelta politica che è una spinta, poiché l’obbligatorietà non è facilmente percorribile.

L’anno scorso la fine dell’estate fu il preludio a una fortissima seconda ondata. Cosa ci dobbiamo aspettare dall’autunno?

Purtroppo con la Delta è necessario pianificare scenari in cui siano possibili colpi di coda. La situazione in questo momento sembra essere arrivata a plateau e nel prossimo futuro assisteremo a una lenta discesa, ma poi la riapertura delle scuole, il ritorno al lavoro e alle attività in generale e l’inverno avranno il loro peso.

Questa estate quali errori si sono ripetuti e si dovevano evitare?

Come facciamo a dirlo? C’è stato sì un abbassamento dell’attenzione, una cosa molto umana. Un po’ come quando si impara a guidare e all’inizio si va molto piano e dopo qualche tempo si sgomma al giallo perché diminuisce la percezione del rischio. Aggiungiamo poi che non esiste un manuale di sanità pubblica che dia criteri precisi. Le vie di trasmissione dell’Hiv, per fare un esempio, le conosciamo bene, quelle del Covid molto meno. Dobbiamo accettare che ogni contatto interumano ha una probabilità potenziale di infezione, che è vicina allo zero tra due persone vaccinate o con mascherine Ffp2 e decisamente più alta se si balla nudi e sudati a un rave, ma comunque esiste. Abbiamo deciso di pagare questo prezzo dopo il “rischio ragionato” delle riaperture. È un prezzo di sanità pubblica che abbiamo deciso di tollerare. Ecco perché è importante vaccinarsi, il prezzo non può salire ancora.

Dobbiamo aspettarci nuove pandemie? In fondo la letteratura scientifica degli ultimi decenni aveva previsto tutto…

Una pandemia c’è già stata nel 2009, quella di H1N1, ma non ha avuto un grosso impatto. Purtroppo le pandemie sono legate spesso anche a un aspetto ecologico. Penso ai fagi, i virus dei batteri che fanno fuori le popolazioni di batteri che “esagerano” per riequilibrare il sistema. Mi sembra un discorso ahimè attuale.

Da gennaio 2020 si sono succeduti due governi. Si sente di dare un voto alla gestione italiana?

Mancando un manuale, mancando criteri oggettivi di azione e senza un vero coordinamento europeo, direi che tra tentativi ed errori non abbiamo fatto male. E vale anche per la mia Lombardia, bistrattata un po’ oltre il dovuto.

“Cina &C. saranno amici e guardiani del Paese”

“Con l’istituzione dell’Emirato afghano – denominazione riportata peraltro negli accordi di Doha con gli Usa –, è stato aperto un vaso di Pandora, pieno di molte sorprese per gli equilibri internazionali”, sostiene il generale Pasquale Preziosa, ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare e attualmente presidente dell’Osservatorio Sicurezza dell’Eurispes.

Ieri terroristi, oggi interlocutori: coi talebani trattano potenze che ambiscono a occupare il vuoto lasciato dagli Usa. Quali?

Tutti quei Paesi che desideravano che Usa e Nato lasciassero il Paese: i cinesi, per esempio, che non erano contenti di avere gli americani ai propri confini e hanno subito nominato un rappresentante speciale della Cina per l’Afghanistan. Come gli Usa, la Cina ha negoziato con loro alla luce del sole ed era in contatto con i talebani sin dal 2015. Sono le convenienze che, in campo diplomatico, creano le convinzioni. I talebani desideravano rilevanza, riconoscimento di livello internazionale e copertura presso l’Onu, la Cina desiderava invece sicurezza delle frontiere e completamento dell’area di collegamento tra l’Iran e il Pakistan. I recenti incontri del ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, col mullah Baradar sono avvenuti prima che il governo di Ashraf Ghani fuggisse in esilio e indicano l’attenzione di Pechino per l’Afghanistan in termini di sicurezza e possibile cooperazione. I russi, invece, si sono rallegrati di non essere stati i soli a lasciare quella terra da sconfitti. Già nel 2017 Putin dichiarò che avrebbe supportato la richiesta degli islamici: le truppe straniere fuori dall’Afghanistan. Mosca ritiene che sia assolutamente giusto avere un dialogo con i talebani che più volte hanno dichiarato di non avere mire sulle Repubbliche dell’Asia centrale. Poi li sosterrà il Pakistan: i talebani pachistani si sono congratulati già il 17 agosto con i talebani afghani per la presa di Kabul. Il nuovo ministro degli Esteri di Teheran, Hossein Amirabdollahian, ha affermato che l’Iran e la Cina possono cooperare con l’Afghanistan a diversi livelli. Ma la cartina di tornasole per testare le vere intenzioni dei talebani in Afghanistan sarà rappresentata dalla misurazione del livello di jihadismo nel mondo. I Paesi occidentali in rientro dall’Afghanistan si regoleranno in base alle proprie esigenze politiche.

Anche l’Unione europea ha detto che con i talebani bisogna “dialogare”, temendo un nuovo esodo migratorio.

L’Ue è stata fondata sulla condivisione di valori da parte di tutte le nazioni, ovvero, libertà, solidarietà e sussidiarietà, ma non ha ancora sviluppato una nuova politica per le migrazioni, divenute fenomeno geopolitico importante che caratterizzerà, nel bene e nel male, il futuro di tutti i paesi europei. I singoli Stati, punti di ingresso nell’Unione, sono sotto forte stress morale, giuridico e finanziario, sia per l’accoglienza, sia per i respingimenti. Manca un quadro politico strategico di matrice europea entro il quale muoversi.

Quali saranno i prossimi passi degli “studenti del Corano”?

Inizialmente l’Emirato islamico dell’Afghanistan avrà necessità di organizzarsi. Le molte etnie che compongono il mondo afghano non sono una garanzia di unità di intenti politici. I “signori della guerra” sono ancora presenti con i loro interessi e i loro traffici. Se non riusciranno a trovare un equilibrio politico all’interno del Paese, rimarrà l’Afghanistan di sempre, con potenze esterne che finanzieranno l’instabilità del territorio. È un Paese che sa di essere potenzialmente ricco di giacimenti minerari, ma non ha la tecnologia necessaria per le estrazioni: il valore di cobalto, rame, oro, ferro, litio si aggira intorno a un trilione di dollari. Il Paese è anche un punto geografico nodale per i passaggi dei gasdotti verso la Cina.

Cosa rimane dopo 20 anni di missione?

L’onore militare e civile di aver compiuto con coraggio il proprio dovere e aver combattuto il terrorismo post 11 settembre. Agli architetti del nuovo ordine mondiale arriva il messaggio che l’esperimento di ingegneria sociale è fallito: si affievoliranno tutte le interminabili operazioni che hanno tenuto banco dal 1999 in poi, evolutesi poi con l’uso dei droni. Quello che stiamo vivendo oggi è l’inceppamento funzionale della macchina messa a punto negli anni passati, che trasformò gli interventi militari e civili da temporanei a permanenti. Il mondo di oggi non è più quello dell’11 settembre.