Il destino di Monte dei Paschi di Siena appare ormai segnato. La quinta banca più grande del Paese per valore degli attivi scomparirà dalla classifica dei principali istituti bancari italiani. L’ipotesi standalone, di sopravvivenza autonoma con controllo pubblico, sarebbe pregiudicata per motivi fattuali e teorici.
Il primo presupponel’insolvibilità strutturale di Mps, di cui lo Stato non dovrebbe farsi carico in eterno. Eppure, durante la presentazione della seconda trimestrale, il management della banca ha delineato uno scenario non così scoraggiante. Dal punto di vista del conto economico, si è registrato un altro utile netto trimestrale positivo, corrispondente a 202 milioni di euro cumulati nel 2021, basato sul risultato operativo netto semestrale migliore degli ultimi 5 anni. Migliora anche il rapporto tra il patrimonio di migliore qualità e le attività ponderate per il rischio (il CET1), cresciuto a 10,6%, dal 9,9% di fine 2020. Ma ancora più interessanti sono le affermazioni del Cfo Giuseppe Sica, il quale ha ricordato come sulla base di un aumento di capitale da 2,5 miliardi, previsto dal piano strategico dello scorso gennaio, lo scenario avverso al 2023 coerente con gli stress test dell’Eba porterebbe il CET1 al 6,6% e non a -0,1%.
Se Montepaschi fosse proiettata verso la sostenibilità finanziaria, verrebbe meno una prima ragione di fondo per la privatizzazione con incorporazione in un altro soggetto. Ma qui interviene un’altra, ben più radicata convinzione: lo Stato non dovrebbe essere proprietario e gestore di attività bancarie commerciali. Un ragionamento che trova però confutazione nella storia dello sviluppo economico del nostro Paese.
“L’Italia è stata definita da uno scrittore di cose economiche come il paese dei salvataggi bancari”, così esordiva Donato Menichella in un rapporto del 1944 predisposto per le autorità Alleate. Il futuro governatore della Banca d’Italia spiegava come il susseguirsi delle crisi bancarie avesse trovato definitiva risoluzione solo con la creazione dell’Iri nel 1933 e con la conseguente legge bancaria (R.D.L. 375/36). Col salvataggio delle tre principali banche del Paese – Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma – l’Iri assunse la proprietà delle imprese da esse controllate e praticò la separazione tra credito commerciale e finanziamento industriale.
In seguito, la riforma bancaria del 1936, scritta da Menichella e dai suoi collaboratori all’Iri, estese all’intero sistema bancario il principio della specializzazione funzionale (commerciale e industriale), temporale (breve periodo e medio-lungo periodo), settoriale e territoriale tra i diversi istituti finanziari. L’articolo 1 della nuova legge bancaria definiva l’esercizio del credito come una funzione “di interesse pubblico”, da orientare allo sviluppo economico del Paese, come la intese la nuova classe dirigente del secondo dopoguerra.
Il sistema bancario che caratterizzò gli anni del miracolo economico rimase prevalentemente pubblico anche dal punto di vista degli assetti proprietari. Ancora nel 1990, quando l’Italia si apprestava a “sorpassare” il Regno Unito in termini di reddito pro capite, il 34,8% del totale dei prestiti era erogato dai cosiddetti istituti di credito speciale (Imi, Crediop, ecc.), enti pubblici che raccoglievano risparmio sotto forma di obbligazioni e finanziavano attività industriali a medio-lungo termine. La parte restante interessava il credito commerciale di breve periodo a famiglie e imprese, diviso a sua volta in: banche di interesse nazionale controllate dall’Iri (13,6%); istituti di diritto pubblico, fra cui Monte dei Paschi di Siena (18,7%); banche popolari, casse rurali, casse di risparmio e banche cooperative (42,2%). Solo il rimanente 25,4% veniva da banche interamente private.
In seguito, in meno di un decennio, il sistema che durava dal 1936 venne interamente stravolto. Si recepì il principio delle direttive comunitarie – fra tutte la 77/780/CEE – sulla natura “di impresa” degli enti creditizi. Con la legge Amato-Carli del 1990 gli istituti di credito di diritto pubblico vennero trasformati in SpA, predisponendone la graduale privatizzazione. Anche l’Iri smobilizzò le sue banche fra il 1989 e il 1994. Infine, con il Testo Unico Bancario del 1993 si sancì la fine della specializzazione bancaria e il ritorno della banca universale. I risultati di questa profonda trasformazione sono stati positivi per i nuovi azionisti privati, ma lo stesso non si può dire per la stabilità del sistema bancario, come si è potuto constatare negli ultimi anni.
Nel resto del mondo le banche commerciali a partecipazione statale esistono tutt’ora e spesso ricoprono un ruolo pubblico fondamentale. Come il sistema delle Landesbanken tedesche che, tramite lo status di tripla A della banca pubblica d’investimento KfW (la quale si finanzia per mezzo di obbligazioni con garanzia dello Stato), ottiene liquidità a basso costo con cui si finanziano le imprese, le quali in questo modo beneficiano di un vantaggio competitivo in termini di accesso al credito.
Una Mps autonoma e con una missione pubblica di politica economica, pur sempre all’interno dei vincoli regolamentari e di mercato, potrebbe impegnarsi a finanziare le imprese che intendono investire in tecnologie e processi a impatto ambientale positivo. Inoltre, una Mps pubblica che guardasse al Mezzogiorno (dove si trovano circa un quarto delle sue filiali) potrebbe controbilanciare il predominio settentrionale del sistema bancario italiano.
Schumpeter definiva il banchiere come l’eforo del capitalismo, per il ruolo “da guardiano” nel finanziamento delle attività produttive. Non a caso gli embrioni di un capitalismo commerciale nacquero in Italia, assieme alle prime forme moderne di banca. Così come nel XV secolo Monte dei Paschi ne fu il precursore, oggi potrebbe diventare il campo di sperimentazione di un nuovo modello di banca pubblica.