A Kabul ciascuno fa iI suoi interessi: e l’Italia?

È tornato il Grande gioco. Dopo la riconquista talebana potenze occidentali e mediorientali studiano come ricollocarsi, tra timori per i flussi migratori e quelli di perdere posizioni acquisite nell’area.

Stati Uniti A parole non rinunciano a dettare condizioni, ponendo paletti al dialogo: la partenza di tutti i cittadini americani e stranieri che vogliano andarsene e degli afghani loro collaboratori; la formazione d’un governo “inclusivo”; la messa al bando dei gruppi terroristici; e il rispetto dei diritti fondamentali, specie delle donne. Intanto, stop a ogni forma di cooperazione e assistenza: una linea condivisa con la Nato ed espressa pure dall’Ue. Dopo, lasciare il gioco a russi e cinesi non è un’opzione. Washington non ha bisogno di aprire canali di dialogo coi talebani, perché già ne dispone: il 9 agosto, Biden spedì a Doha l’inviato speciale Zalmay Khalilzad, che negoziò l’intesa del 2020, per indurre i ribelli a cessare l’avanzata e venire a patti col governo; o, almeno, per ottenere garanzie per le ambasciate e l’evacuazione.

Gran Bretagna È pronta a fare “tutti gli sforzi politici e diplomatici”, anche “lavorare” con i talebani “se necessario”, per trovare una soluzione alla crisi: lo ha detto Boris Johnson al termine dell’ultima riunione, venerdì (la quarta in pochi giorni), del comitato di emergenza Cobra. Prima aveva sottolineato l’importanza di raggiungere una “posizione internazionale comune”: “Nessuno riconosca il governo talebano prematuramente o bilateralmente. Non vogliamo che il Paese diventi di nuovo terreno fertile per il terrorismo”. Londra, che ha già assicurato l’evacuazione di almeno 1.600 persone, ha annunciato un piano di “protezione umanitaria” per accogliere fino a 20 mila rifugiati, 5 mila già quest’anno. “Abbiamo un debito di gratitudine con chi ha lavorato con noi”, ha detto Johnson.

Francia Unità internazionale, lotta al terrorismo e piano europeo anti-immigrazione: queste le priorità di Parigi. Il 16 Macron ha lanciato un appello alla cooperazione tra Europa, Russia e Usa: una “risposta responsabile e unita”. “L’Afghanistan non può tornare a essere il santuario del terrorismo”. Parigi ha promesso protezione ai collaboratori afghani e ha già accolto diverse centinaia di persone, senza precisare un piano di assistenza più ampio. Da luglio sospese le espulsioni dei migranti afghani. Ma ha sollevato l’ira di gauche e Ong proponendo anche un’azione congiunta Ue per “proteggere dai flussi migratori irregolari”.

Germania “Non siamo riusciti a rendere l’Afghanistan un Paese più libero e aperto”: Angela Merkel ammette errori e “mancate previsioni” sul veloce arrivo al potere dei talebani. Ma del futuro nessun accenno. In visita a Mosca ha chiesto a Vladimir Putin, il nemico di cui si fida di più, di mediare con Kabul. Il suo delfino, Armin Laschet, è in caduta libera nei sondaggi a un mese dalle elezioni. La paura dei conservatori della Cdu, e non solo, è che la questione dei profughi in fuga dai talebani porti altri voti all’estrema destra di Afd, come accadde per i siriani nel 2015.

Italia Tra le nazioni che hanno dato di più in termini militari, l’Italia al momento si è concentrata sull’emergenza profughi. L’ambasciatore è rientrato e il console Claudi si sta occupando solo di questo. Luigi Di Maio ha fatto il giro di colloquio di prammatica, ma a ora non ha lanciato iniziative, e il premier si è mosso per gestire il vertice del G20 in chiave di soluzioni possibili per l’Afghanistan. Non si è vista però un’iniziativa autonoma, come se venti anni di presenza in Afghanistan non avessero alla fine lasciato alcun contatto spendibile.

Turchia Erdogan, che sta costruendo un muro con l’Iran per fermare i profughi, vede positivamente i messaggi distensivi dei talebani. Paese musulmano che dispone della seconda forza militare Nato, è pronto a fornire assistenza tecnica e di sicurezza, in cambio dell’assenso dei nuovi padroni alla prosecuzione della gestione dell’aeroporto di Kabul.

Pakistan La maggior parte dei talebani è pashtun, etnia presente anche in Pakistan, che insieme ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi riconobbe il primo emirato talebano del 1996. Il premier Imran Khan ha affermato che “i talebani hanno spezzato le catene della schiavitù”. Il Pakistan è da sempre finanziatore degli “studenti del Corano”. L’India, nemica del Pakistan, è invece vicina all’Alleanza del Nord, resistenza anti-talib nata nel Panshir.

Iran L’obiettivo di Teheran è quello di arginare l’inondazione di profughi e dell’eroina dei campi di papaveri afghani. atteggiamento sempre ambiguo: all’indomani dell’11 settembre, la teocrazia sciita collaborò con gli Usa per cacciare i talebani. Venti anni dopo, gli ayatollah hanno celebrato il ritiro Usa perché preferiscono avere alleato il nuovo regime allo scopo di minare la presenza americana nell’area e scongiurare i tentativi di destabilizzazione statunitensi-israeliani.

Russia L’obiettivo di Mosca è evitare il diffondersi del jihadismo negli Stati confinanti del blocco ex sovietico, dove mantiene basi militari. I talebani sono stati accolti dal ministro degli Esteri russo Serghey Lavrov a maggio e a luglio per presentare i “piani di pace”. Il primo ambasciatore a esser accolto dopo la presa del Paese è stato Dmitry Zhirnov. Putin ha subito affermato che bisogna “discutere” con i talebani e, commentando la guerra Usa, ha ribadito che l’esito disastroso dimostra che l’Ovest non può imporre valori oltreconfine.

Monarchie Golfo Persico Dal 2012 i talebani hanno un ufficio di rappresentanza a Doha, in Qatar, che ha reso noto che “il mondo deve cooperare per il loro impegno al rispetto delle regole internazionali”. Molti paesi non han mai interrotto i legami dal 2001. Il governo di Riad interruppe i contatti quando il gruppo non consegnò il saudita Bin Laden. Oggi dovranno aprire canali di comunicazione. Approccio pragmatico seguirà anche Abu Dhabi.

“Ai Talib non c’era alternativa: adesso i leader sono loro”

Ai talebani “non c’era alternativa”. Sono “leader de facto e nessuno può rifiutarsi di riconoscere la realtà”. Adesso Kabul “è quasi del tutto tranquilla”. Dmitry Zhirnov, ambasciatore russo in Afghanistan, ha riassunto ieri la sua prospettiva all’agenzia Reuters. Nelle sue parole tutta la realpolitik adottata dal Cremlino verso i talebani, ormai riconosciuti da Mosca come referenti unici di un Paese dove l’Unione Sovietica ha combattuto, perdendo un’offensiva dopo l’altra, dal 1979 al 1989. Il primo diplomatico incontrato dai talib dopo la presa della capitale ha riferito che i cittadini afghani adesso nutrono “cauta speranza”: da quando gli studenti di religione hanno preso il controllo, la situazione è migliorata ed “è scomparso il cattivo regime” che c’era prima. Gli islamici devono dimostrarsi migliori dei predecessori: è la loro “nuova sfida da vincere. Dopo aver ripristinato l’ordine, devono cominciare a migliorare la situazione socio-economica”, ha detto il russo.

Ogni forma di resistenza ai talib sarà inutile ed è “condannata al fallimento”. Le parole di Zhirnov si riferiscono all’Alleanza del Nord. I ribelli Amrullah Saleh – il vicepresidente afghano “che ha violato la Costituzione”, secondo il diplomatico, quando si è dichiarato capo di Stato ad interim dopo la fuga di Ashraf Ghani –, e il figlio di Ahmad Shah Massoud, il “leone del Panjshir” che sconfisse e umiliò i sovietici, “non hanno alcuna prospettiva militare: possono contare solo su 7.000 combattenti, registrano problemi con scorte di cibo e benzina, non sono riusciti a far volare un elicottero”. Mentre le capitali europee evacuavano gli addetti dalle loro sedi diplomatiche sin dalle prime ore d’assedio, già il 17 agosto scorso, Zhirnov riferiva ai media, chiuso nella sua sede pattugliata dai talebani, che i miliziani avevano “ripristinato legge e ordine”. Ha detto ancora ieri che chi sta fuggendo in queste ore, lo fa non solo per l’arrivo degli estremisti, ma perché vede la possibilità di avere “un biglietto per una nuova vita all’Ovest”. L’apertura di Mosca verso i talebani non era più segreta da tempo: la delegazione talib è stata accolta dal ministro degli Esteri Serghey Lavrov, prima a maggio, poi a luglio scorso, tra lo stupore dei media della propaganda russa, costretti a ricordare in ogni articolo che gli islamisti rimanevano comunque ufficialmente iscritti nelle liste delle organizzazioni terroristiche. Zamir Kabulov, ex ambasciatore russo in Afghanistan e adesso inviato speciale nel Paese per il Cremlino, aveva specificato già mesi fa, ad alta voce, che era meglio dialogare con i mullah che “con il governo marionetta di Kabul sostenuto dagli Usa”.

Se la Federazione ha iniziato ad avere contatti e negoziati sempre più intensi con i talebani è per un obiettivo specifico: possono divenire i nuovi guardiani della turbolenta galassia islamica che si agita nel cortile di Mosca. Collaborando con loro, le forze di sicurezza slave vogliono controllare e perimetrare il dilagante jihadismo che serpeggia sia nelle Repubbliche dell’ex blocco est (dove la Russia mantiene le sue basi militari, sfera di influenza e alleanze commerciali), sia nella Federazione stessa, dove abitano oltre dieci milioni di musulmani. E poi il cambio di potere a Kabul, per Mosca, non è stata una tragedia afghana, ma innanzitutto una sconfitta americana. Anzi, come ha detto il senatore Aleksey Pushkov, è stata una saggia “vendetta della storia contro modernità e globalismo”.

“Biden non sarà all’altezza” Parola di Osama bin Laden

Il fondatore di Al Qaeda, Osama bin Laden, diffidò i suoi dal mettere in atto un piano per assassinare Joe Biden, allora vice-presidente degli Stati Uniti, perché era sicuro che, se gli fosse mai capitato di divenire presidente, si sarebbe rivelato “non all’altezza” e avrebbe precipitato l’Unione in una crisi, a tutto vantaggio dei suoi nemici. Invece, lo sceicco saudita ispiratore degli attacchi terroristici contro l’America dell’11 Settembre 2001 avallava i progetti per assassinare il presidente Barack Obama e il generale David Petraeus, già comandante delle forze Usa in Iraq e quindi responsabile delle operazioni in Afghanistan (sarebbe poi divenuto direttore della Cia, prima di essere ‘bruciato’ da uno scandalo sessuale). Le direttive di Osama risalgono al 2010 e furono rinvenute fra i documenti recuperati dall’intelligence statunitense nel complesso di Abbottabbad, in Pakistan, dove il capo terrorista fu scovato e ucciso, il 2 maggio 2011, praticamente sotto gli occhi di Obama e di Biden, oltre che dell’allora segretario di Stato Hillary Clinton, che seguirono l’intera operazione dei Navy Seals dalla situation room della Casa Bianca.

L’esistenza del documento non è inedita, perché venne reso pubblico una prima volta nel 2012 dal Washington Post. Ma fonti dell’intelligence l’hanno ora ricordata al Daily Mail, dopo che l’Amministrazione Biden ha contestato ai suoi 007 rapporti non accurati su quanto poteva accadere in Afghanistan dopo il ritiro delle truppe Usa e alleate. Lo scaricabarile fra Casa Bianca e le agenzie di spionaggio Usa è un fattore di critiche e polemiche per la mancata messa in sicurezza dei cittadini stranieri e dei loro collaboratori afghani prima d’abbandonare le posizioni militari. Il Daily Mail integra l’articolo sul documento di Abbottabbad con considerazioni inquietanti sullo stato mentale dell’anziano presidente che avrà presto 79 anni.

I caotici avvenimenti di questi giorni, con i talebani di nuovo padroni dell’Afghanistan, sembrano dare ragione a Osama, anche se lui nel frattempo è stato eliminato e Al Qaeda è stata praticamente sostituita, nella gerarchia del terrorismo integralista, dallo Stato islamico (o da quel che ne resta). Le indicazioni dello ‘sceicco del terrore’ erano contenute in una lettera lunga 48 pagine, indirizzata a ‘Shaykh Mahmud’, alias Atiyah Abd al-Rahman, anch’egli ucciso poco dopo Osama, il 22 agosto 2011, in Pakistan: l’operazione fu della Cia, con un drone. Nella missiva si discute della necessità di concentrare gli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti e di non disperdere energie e risorse con azioni in altri Paesi, specie islamici. A pagina 36, Bin Laden suggerisce di formare due squadre d’assalto – una in Pakistan e l’altra in Afghanistan – col compito di pianificare attacchi contro Obama e contro Petraeus, se mai visitassero uno dei due Paesi. Per gli analisti statunitensi, i piani contro il presidente e il generale non ebbero mai nessuna consistenza.

Osama spiegava: “Obama è il capo degli infedeli e ucciderlo farà assumere a Biden la presidenza… Biden è totalmente impreparato e porterà gli Usa in una crisi…”. Petraeus era invece visto come il generale che poteva fare vincere la guerra agli americani: eliminandolo, si sarebbe modificato il corso del conflitto.

Emergency fa la cronaca, Sartori ricorda i conti sbagliati degli Usa

I quotidiani iniziano a mollare la presa sull’Afghanistan. Ieri Avvenire, Messaggero, Libero e la Verità non hanno aperto sulla situazione a Kabul, ma non sono mancati i titoli-barzelletta come quello de Il Giornale: “I talebani ringraziano Cina e Cinque Stelle”. Come se si potessero ringraziare allo stesso modo il Sole e una lampadina tascabile. Ma da quando lo dirige Augusto Minzolini, il quotidiano milanese predilige il cabaret.

Più interessante il bollettino quotidiano da Emergency pubblicato su La Stampa, dove la descrizione, pure preoccupata, della situazione non avalla cronache convulse: “Le persone sono spaventate per quello che potrebbe succedere”, dice Alberto Zanin, coordinatore dei servizi medici, “ma che per ora non si sta verificando. Non ci sono abusi sulle donne o sui dissidenti, esecuzioni di massa. E diminuiscono gli scontri a fuoco”.

Un po’ dappertutto si trovano le gesta di Mario Draghi che, udite udite, si sente al telefono con Biden – su tutti eccelle Il Foglio – mentre al tema della “Jihad divisa” dedica un approfondimento la Repubblica in cui si ricorda che i miliziani dell’Isis considerano i talebani “agenti degli Usa”. Chicca infine del Corriere della Sera che ripubblica un brano di Giovanni Sartori dal titolo “La democrazia è esportabile (non sempre e dovunque)” che, magistralmente, si conclude così: “A conti fatti, a me pare che gli americani e con loro gli occidentali, abbiano sbagliato i conti”.

Baradar, Karzai e Abdullah: 3 anime per il nuovo governo

Il mullah Abdul Ghani Baradar, cofondatore e negoziatore in capo dei talebani, ha ieri avviato, insieme ad altri membri dell’ufficio politico del movimento, colloqui “con esponenti della Jihad e uomini politici”: obiettivo, la formazione di un nuovo governo “inclusivo”, come riferiscono fonti dei talebani, utilizzando una formula gradita alla diplomazia internazionale. Nella trattativa, sono coinvolti Abdullah Abdullah, eterno rivale del presidente fuggitivo Ashraf Ghani, e Hamid Karzai, il primo presidente dell’Afghanistan dopo l’intervento occidentale. In settimana, Baradar, compagno d’armi della prima ora del mullah Omar, era rientrato dal Qatar in Afghanistan, a Kandahar, roccaforte del movimento.

Leader talebani di diverse aree del Paese sono convenuti nella capitale per discutere la formazione del governo. Abdullah ha pubblicato una foto sui suoi profili social in cui lo si vede mentre saluta l’ex ambasciatore talebano in Arabia Saudita Shahabuddin Delawar, l’ex ministro degli interni talebano Mullah Khairullah Khairkhwa, Abdul Salam Hanafi e altri. Altre immagini mostrano gli stessi esponenti dei talebani che parlano con Hamid Karzai, presidente dell’Afghanistan dal 2001 al 2014 e rimasto a Kabul quando gli “studenti” presero il potere. Il post afferma che durante l’incontro tra i leader citati sono stati discussi “l’attuale situazione nel Paese, la sicurezza delle persone, il processo politico inclusivo, il rispetto dei valori nazionali, inclusa la bandiera”. Tema non casuale perché proprio la sostituzione della bandiera bianca talebana a quella nazionale ha provocato proteste nei giorni scorsi.

La formazione di un governo è molto attesa dalla popolazione e lo si percepisce a Kabul: ieri, primo giorno di una nuova settimana lavorativa, molti funzionari pubblici non sono potuti rientrare in ufficio, perché le porte sono rimaste sprangate e i talebani l’hanno loro impedito. Anche le banche e i bancomat sono rimasti chiusi per il settimo giorno consecutivo, alimentando i timori della popolazione sulla carenza di denaro contante nel nuovo Emirato islamico. Da quando gli “studenti” hanno ripreso il potere, il 15 agosto, solo poche società di telecom private hanno continuato a operare.

Caos e tensione continuano a regnare, invece, all’aeroporto, dove migliaia di persone s’addensano sperando di lasciare il Paese. L’esercito Usa ha utilizzato tre elicotteri per evacuare 169 americani che, per la folla, non riuscivano a raggiungere a piedi lo scalo: i tre mezzi Chinook hanno raggiunto un vicino hotel, il Baron, e li hanno prelevati.

È stata la prima sortita di militari statunitensi dallo scalo. Ve ne saranno altre, perché l’ambasciata ora invita gli americani a non recarsi all’aeroporto per conto loro. I talebani negano responsabilità per quanto accade intorno e all’aeroporto – in settimana, almeno 12 persone vi sono state uccise – e smentiscono il sequestro di stranieri: “Controlliamo i documenti, non ne blocchiamo nessuno”. Almeno 13.000 fra stranieri e afghani che lavorano per ambasciate e organizzazioni internazionali sono stati finora evacuati. Fra chi è giunto in salvo, c’è Clarissa Ward, l’inviata della Cnn in Afghanistan che per giorni, anche dopo l’arrivo dei talebani, ha continuato a coprire gli eventi afghani. Atterrata a Doha, con la sua squadra e quasi 300 evacuati afghani, la giornalista ha postato una foto dell’aereo affollatissimo e il suo grazie alla US Air Force e al Qatar: “Noi siamo quelli fortunati”. Il presidente Usa Joe Biden continua a vivere momenti difficili: s’è di nuovo impegnato a riportare a casa tutti gli americani, ma ammette di non sapere quanti essi siano e avverte che l’operazione “presenta rischi” e che “potrebbero esserci perdite”: 14 Paesi offrono transito agli afghani in fuga. Ma c’è chi leva muri al confine, come la Turchia e la Grecia.

Sòla che Sorgi

Almeno un effetto collaterale positivo la vittoria talebana l’ha avuto: ha resuscitato in Italia la stampa umoristica, con titoli da far invidia al compianto “Cuore”. L’altroieri ha vinto Libero con lo strepitoso “Conte sta con i talebani. L’avvocato dei tagliagole” (come del resto Libero, che il giorno prima titolava “Col ‘diavolo’ bisognerà trattare. Sedersi al tavolo col nemico a volte è necessario”), ex aequo con La Stampa (“La fuga degli sciatori”). Ieri il Giornale ha riagguantato il primato col sontuoso “I talebani ringraziano Cina e Cinque Stelle”. È noto infatti che i Talebani han vinto la guerra dei vent’anni grazie all’appoggio paritario prima di Pechino e poi del M5S (subentrato ai cinesi nella staffetta afghana nel 2009). Repubblica si difende come può, anche perché Sambuca Molinari non riesce ancora a pronunciare la parola “disfatta” e, appena finita una guerra, già ne sogna un’altra, stavolta civile (“Le milizie dei signori della guerra combattono contro i talebani”, evvai!), mentre Nando Mericoni-Merlo, inconsolabile per la mancata esportazione della democrazia/civiltà, continua a rastrellare gli “italebani”, veri artefici del trionfo dei mullah. Noi però siamo preoccupati per Marcello Sorgi, rimasto aggrappato al carrello dell’ultimo cargo decollato da Kabul e dimenticato da tutti lì appeso. Su La Stampa, spiega che Conte vuole dialogare coi talebani coinvolgendo Russia e Cina (“una gaffe”) perché ha una “grave lacuna: gli Esteri”. In effetti, dopo avere sventato due procedure d’infrazione Ue in sei mesi, fatto eleggere coi voti M5S la Von der Leyen e ottenuto il Recovery, il Mullah Giuseppi è deboluccio in materia. E, quel che è peggio, la sua ignoranza è più contagiosa della variante Delta: ora anche Ue, Onu, Nato, Merkel e Johnson vogliono dialogare coi talebani. La Merkel chiede a Putin di mediare con loro. E sulla stessa Stampa, a 18 cm da Sorgi, si legge: “Draghi pensa occorra mettere attorno al tavolo tutta la comunità internazionale, a partire da Cina e Russia”. Ma allora ditelo che glielo fate apposta, a Sorgi: ora, per coerenza, sempre lì appeso al carrello, gli toccherà scrivere che il suo “SuperMario” fa gaffe perché gli Esteri sono la sua grave lacuna. E Nando Merlo dovrà iscrivere pure Draghi al Partito Italebano. Ma si può vivere così?

Ps. Viva costernazione per la fatwa talebana contro le classi miste a scuola, come se negli altri paesi islamici maschietti e femminucce studiassero festosamente nelle stesse aule (per saperne di più, vedi l’Arabia Saudita del Nuovo Rinascimento). Chi scrive ha studiato al liceo Valsalice di Torino, riservato ai maschi, e pensava di avere a che fare coi Salesiani. Invece erano Talebani ben camuffati.

Da Munari alla Morante: il potere del “Volto dei libri”

Si racconta che fu la stessa Elsa Morante a decidere che, nel giugno del ‘74, il suo romanzo La Storia dovesse uscire direttamente in tascabile nella collana “Gli struzzi” di Einaudi, avere in prima di copertina una fotografia della Guerra civile spagnola di Robert Capa giocata sugli strazianti toni del rosso e in basso il sottotitolo “Uno scandalo che dura da diecimila anni”. L’intento estetico, politico e sociale di quell’oggetto libro era eloquente: arrivare a tutti. Ora, senza scomodare il caro McLuhan e il suo The medium is the Message – con l’immagine di una donna che indossa per abito la scritta in verticale “Love” come cover –, giunge una mostra a raccontarci quanto siano importanti e per niente ornamentali o accessorie le copertine: Il volto dei libri. Libri da vedere (a cura di Giuseppe Garrera e Igor Patruno – visitabile fino al 19 settembre al Castello di Santa Severa), che presenta al pubblico copie originali, prime edizioni, ristampe perdute, attraverso le quali documentare la storia del potere e della bellezza grafica dei libri, nell’ambito dell’editoria italiana dal 1950 a oggi, grazie a fascette, sovracoperte, cover e bandelle. Una mostra ricolma di “storie da copertina”. Come quella secondo cui Salinger, schiacciato dalla notorietà, per il suo Holden ne volle una bianca solo con il titolo e il nome puntato; o la rarissima e geniale fascetta del Nuovo Commento del ‘69 di Manganelli (una sorta di antilibro con annotazioni correlate tra di loro, senza il testo centrale) che recita “Il libro è altrove”. Provenienti dal fondo personale del bibliofilo Garrera, si parte proprio dai lavori di Bruno Munari, secondo cui la prima educazione che un libro compie è visiva. La sua celebre collana di saggistica “I Satelliti” per Bompiani – che vanta da Opera aperta di Umberto Eco a Dialettica del concreto di Karel Kosik – è un vero capolavoro di progetto grafico riconoscibile: su sfondo bianco, alcuni satelliti neri fanno da corredo a uno più grande e centrale che ospita di volta in volta titolo e autore. Con Munari nasce il concetto di identità delle collane, come dimostrano le sue intuizioni in Einaudi negli anni 60 e 70: suo il concept della Piccola Biblioteca (sfondo grigio con il quadrato colorato in alto) e soprattutto della Collezione di poesia (con i versi su fondo bianco in copertina), ribattezzata “La bianca”. Anche altri artisti si prestarono all’editoria – Schifano, Boetti, Rotella – ma è lui il padre di tutti gli art directors.

Dino Risi, De Sica e quella marachella con la bella svedese

 

Pubblichiamo un estratto dal libro “Forte respiro rapido” scritto da Marco Risi.

 

La dedizione di papà alla battuta è sempre stata totale. Aveva assoluta precedenza su tutto. Gli piacevano al punto da non calcolarne le conseguenze.

C’è da dire che ne sbagliava poche. Al mio terzo film con Jerry Calà, che andò piuttosto male rispetto ai precedenti, sentenziò: “Levategli l’accento!”. E quella volta che c’incontrammo per caso al cinema Roxy a vedere La passione di Cristo di Mel Gibson, dove il povero Gesù prendeva un sacco di botte dall’inizio alla fine del film, all’uscita, dopo qualche minuto di silenzio, disse: “Sai qual è il problema di questo film? Non ti appassioni al protagonista!”.

Arrivavano come frustate. Te ne accorgevi, o meglio, io me ne accorgevo, dallo sguardo, che aveva un’intensità nuova, viva e affilata.

Di lui potrei anche dire che non era attentissimo alla forma né alle apparenze per tutto quello che lo riguardava; con se stesso, diciamo, era piuttosto tollerante, era attentissimo invece alle sfumature, anche le più insignificanti, degli altri.

Non gli sfuggiva una risata falsa o un gesto o un affanno improvviso e se aveva la luna storta poteva diventare spietato.

Durante le riprese di Profumo di donna passai una settimana con lui a Napoli a fargli da aiuto regista perché mio fratello Claudio, da qualche anno suo aiuto ufficiale, aveva avuto problemi con il servizio militare. Una sera, sulla terrazza dell’amico di Gassman, cieco anche lui, come il protagonista del film, bisognava girare la scena di una festicciola con un paio di ragazze amiche di Agostina Belli, che dovevano correre e ridere allegre e sguaiate giocando a moscacieca. Il vantaggio con Gassman, in questo caso, era che non si doveva bendarlo…

Secondo papà una delle ragazze non era abbastanza allegra e sguaiata e, forse perché qualcosa delle riprese non lo soddisfaceva e aveva bisogno di ritrovare la tensione giusta con il cast e con la troupe, cominciò ad aggredire la poveretta che se ne stava immobile, la testa bassa, umiliata. La insultò pesantemente e a lungo, tanto che a un certo punto mi sentii in dovere di intervenire, rischiandomela grossa perché avrebbe potuto insultare anche me, duramente.

Era quello che mi aspettavo: come mi permettevo io, piccolo stronzo, di intromettermi?

Invece ci fu qualche secondo di silenzio assoluto, il set sembrava sospeso. Gassman, che stava prendendo appunti per il Kean da portare a teatro di lì a poco, alzò un sopracciglio quando sentì la mia voce sovrastare quella del suo amico. Era successo qualcosa alla quale non aveva mai assistito. Il regista, mio padre, non reagì.

La sera dopo andammo a cena da Ciro a Mergellina e incontrammo Vittorio De Sica, elegantissimo, camicia bianca immacolata e completo beige di cotone chiaro. I due, con le loro belle chiome candide, si abbracciarono e parlarono di cinema, dei giovani colleghi che incalzavano, Bertolucci, Bellocchio, Samperi, Faenza. Lo fecero con attenzione e considerazione: erano anni di tensioni politiche, di contestazioni dure, bisognava tenerne conto. Quello era bravo, quell’altro meno, quell’altro sarebbe diventato famoso. Ma la sentenza finale in napoletano di De Sica, lucida, sincera e soprattutto allegra, fu: “Ma diciamoci la verità, Dino: ‘sti giovani ci stann’ scassand’ ‘o cazz’…”. E se la risero beati.

Una ventina di anni prima di questo incontro, erano sul set di Pane, amore e…, il terzo film della serie che era iniziata con la coppia in bianco e nero Lollobrigida-De Sica, diretta da Luigi Comencini, e ora passava a quella De Sica-Loren con il colore del grande Tonino Delli Colli. Le riprese si svolgevano a Sorrento, in un clima disteso e rilassato. A rallegrare ancora di più quell’atmosfera, un giorno arrivò nell’albergo dove alloggiava la troupe un pullman di pattinatrici svedesi.

Che cosa ci facessero delle pattinatrici svedesi a Sorrento nell’estate del 1955 rimane un mistero.

Papà non si lasciò scappare l’occasione. Ebbe un’avventura con una delle svedesine e ci passò la notte. Il mattino dopo si svegliò alle 11, quando la convocazione per le riprese era alle 8. Che fare? Immaginava che fossero tutti lì ad aspettarlo, con il direttore di produzione furibondo. Si vestì in un lampo. Corse come un matto. Arrivò sul set trafelato. E che vide? De Sica che aveva già girato un paio di inquadrature e stava impostando quella successiva come se fosse la cosa più naturale del mondo. Mio padre si fermò ai bordi del set a osservarlo, incantato. Quando De Sica si accorse di lui, gli si avvicinò e, nel passargli le consegne, gli chiese in un sussurro, complice, all’orecchio: “La svedese?”.

Il “Detective col dittongo” a spasso negli Anni 80: Disegni è rock-noir

Estate 2021, estate di vacanze e vaccinazioni. Le prime per molti sono un lusso, le seconde per fortuna no e sono caldamente raccomandate ma, tranquilli!, per i farmaci di cui parliamo non ci sarà nessun Generale Figliuolo a spararvi Pfizer, Moderna o Astrazeneca: il vaccino che consigliamo è inoculato sotto forma di pratiche vignette ad alto contenuto umoristico firmate da uno dei più grandi talenti satirici italiani, Stefano Disegni.

Partiamo con la prima dose, ottima per gli over 35 ma specialmente consigliata per gli under 35: i giovani di oggi cosa ne sanno dei magnifici anni 80? Poco o molto, non importa perché in loro soccorso arriva il siero Disegni: fumettista satirico pluripremiato, autore tv di programmi di successo, Stefano è un artista piantato nella contemporaneità come un palo nel terreno ma stavolta – sarà stata la pandemia, lo stop forzato e il lockdown – ha deciso di volgere lo sguardo al passato recuperando dal suo archivio alcune tavole disegnate nella penultima decade dello scorso millennio. Nasce così il suo ultimo libro Fabrizio Ialongo, il detective col dittongo (Sagoma editrice), in cui il protagonista – uno sconclusionato detective a metà tra Bogart e Colombo – ci porta a spasso tra un Michael Jackson convertito allo Yodel, un Billy Idol inzuppato con l’acqua santa e un Jimi Hendrix che spunta a San Giuseppe Vesuviano. Il viaggio di Disegni (e della sua creatura fumettistica) è uno spassoso mix che l’autore definisce “Rock-Noir”. Una miscela letterario–musicale–fumettistica in cui ogni capitolo si conclude con utili schede che illustrano e spiegano anche a “chi non c’era” (i giovani di oggi, che altrimenti non sanno cosa si perdono) cos’abbia significato quel decennio per la musica, la letteratura e – perché no? – anche l’investigazione. E siccome una sola dose di Disegni non basta, ecco pronta e già in distribuzione la seconda dose: per l’editore La Lepre è in libreria Ricordati che devi ridere, in cui agli scritti di Enrico Caria (che firma su il manifesto “il colonnino infame”) si affiancano le vignette che Disegni ha disegnato e pubblicato esclusivamente per i suoi seguitissimi canali social. Il libro ripercorre mese per mese gli anni dal 2019 al 2021 e le vignette sono un campionario di viziacci politici decisamente non invidiabile. Le vignette sono disegnate e scritte quasi di getto, ma la composizione farmacologica è la ricetta che in tanti anni di carriera ha reso Disegni un talento insuperato. Le dosi di buonumore in forma fumettistica non generano reazioni avverse, se non una forte intolleranza alla retorica e alla superficialità. Restiamo in attesa – tra una risata e l’altra – di una terza dose.

Estate no-balli e dj al palo: “Disco aperte col Green Pass”

Un recente sondaggio inglese ha decretato che oltre l’ottanta per cento dei dj d’oltremanica ha cambiato mestiere o sta pensando di farlo. E in Italia? I club sono ancora ufficialmente chiusi.

Daniele Spadaro, press agent per discoteche e festival ha il polso della situazione: “Si era aperto uno spiraglio quando in giugno il Cts ha dato il via libera con il Green Pass per le discoteche in zona bianca. Ma il governo non si è mai pronunciato decidendo di non decidere. Il mio parere è che il settore interessa meno di zero”. Del resto come sottolinea il dj Dino Lenny, “la discoteca non è mai stato un bene necessario o importante quanto la serie A di calcio. A fine luglio ho suonato a Kiev a un festival con 110.000 persone e l’unico ad avere la mascherina ero io. In alcuni posti si può tutto in altri niente, non c’è uniformità. Ho anche timore a suonare perché non voglio andare incontro a una possibile quarantena. Quindi ben venga il Tomorrowland digitale a Bruxelles con centomila biglietti venduti. Molti colleghi sono depressi: ci sono i Calvin Harris che possono stare fermi anche dieci anni ma tanti altri sono preoccupati per la loro sopravvivenza economica”.

Ralf non ama suonare per aperitivi o per chi cena ai tavoli: “Nella mia serata storica al Lago Trasimeno, Bellalago, ho suonato solo una volta musica da ascoltare. Le persone mi chiedevano “che cazzo di musica è?”. Io ho delle serate e sono tutte in sicurezza, anche quelle che ho fatte quest’estate in spiaggia erano in totale distanziamento. La mia opinione è fare ballare tutti con il Green Pass, basta guardare oltralpe quello che han fatto a Wembley. Vedo tante situazioni di aperitivi o ristoranti con un sacco di gente e le discoteche – che hanno regolare licenza – chiuse, c’è molta ipocrisia… Io credo che l’unica soluzione a questo disastro collettivo sia il vaccino”. Nel frattempo c’è chi come Joe T Vannelli sta vivendo una seconda giovinezza: “Durante il lockdown non riuscivo a stare senza suonare e sono salito sul tetto di casa mia, nei pressi del Duomo a Milano, e ho deciso di fare un dj set in streaming. Mi sono ritrovato con due milioni e mezzo di persone collegate online su Facebook. Da quel momento – anche grazie ai numerosi sponsor interessati – ho deciso di valorizzare i beni storici e il territorio del nostro Paese improvvisando un tour con le dirette online: dalla Cava di Michelangelo a Lampedusa, tra cui sette patrimoni Unesco. In questo modo mi sono messo in evidenza e ho fatto una cosa meravigliosa per me e per i miei fan. Ho fatto vedere al mondo intero le bellezze dell’Italia. Poi io sono un dj e voglio continuare a suonare nei locali: in alcuni territori si muovono in un modo, altri in ordine sparso, magari con un escamotage per fare ristorazione con musica. Cerchiamo di farci notare da un governo che ci ha dimenticato, se non mi fossi reinventato con lo streaming sarei già saltato per aria”.

Alex Neri, oltre a essere dj e componente dei Planet Funk è anche socio del Tenax di Firenze, secondo il dj Pete Tong uno dei 5 club più belli al mondo: “Io sto sopravvivendo, anche se per i dj della mia generazione è un periodo assurdo, ci chiedono di mettere musica mentre le persone stanno sedute, è un po’ un controsenso. Metto molta underground e qualcuno balla al proprio tavolo. È una nuova formula. Io sono anche socio del Tenax, sopravviviamo con affitto calmierato e cassa integrazione: purtroppo in Italia non esiste una associazione come all’estero. Non avendo una lobby, nelle istituzioni non esistiamo se non per qualche momento di visibilità di qualche leader populista che pensa ai voti di chi va a ballare. La nostra categoria è debole: in Olanda, Inghilterra e altri paesi dove sono forti come associati, i governi hanno già fissato per il primo novembre una data per riaprire in sicurezza con il Green Pass. Abbiamo bisogno anche noi di una data certa, faccio un appello al governo italiano: i ristoratori e albergatori in qualche modo hanno lavorato, anche le discoteche devono poter operare in sicurezza. E la conseguenza dei divieti è il rave party di Viterbo con il caos che comporta: i ragazzi non li puoi tenere ed è meglio che stiano nei club in sicurezza e controllati da professionisti di mestiere”.