“È un anno senza veri padroni”

Zibì Boniek, comincia il campionato dei campioni d’Europa. Ci aiuta a presentarlo?

Sarà una grande storia, un grande romanzo. Come nella tradizione, visto il modo in cui lo si vive in Italia. E, finalmente, senza padroni.

Nemmeno l’Inter, che pure ha vinto l’ultimo?

No: nemmeno l’Inter. Confesso: tifavo per lei; tifavo, dopo nove anni, per qualcosa di alternativo alla Juventus. Si è poi scoperto che i cinesi non pagavano gli stipendi. Dovevano far cassa: via Lukaku, via Hakimi, via lo stesso Conte.

E adesso?

Lukaku faceva reparto da solo; Dzeko, viceversa, ha bisogno di un reparto. Stimo Inzaghi, ha la faccia pulita e le idee giuste, ma Conte è Conte: un martello, un emerito “stressatore”, anche per questo più di due o tre stagioni non dura.

La Juventus?

Immagino l’incazzatura per aver toppato lo scudetto. Son sempre pronti, sempre organizzati. E quando il piatto piange, ecco, puntuale, un aumento di capitale. Beati loro.

Cristiano Ronaldo va o resta?

Uhm. Per me va. Se prendi il triplo di stipendio, devi dare il triplo, cosa che non gli riesce più. L’avevano preso per il marketing (ok), la Champions (non proprio), normale che con lui si parta da 1-0, stiamo parlando di uno dei più letali fuoriclasse del terzo millennio. Uno dei miei preferiti, tra parentesi.

Il Milan?

Ha perso Donnarumma, il miglior portiere d’Europa, e Calhanoglu, uno che ti dava il cambio di marcia. È lì.

L’Atalanta?

Standing ovation alla società, al tecnico, alla rosa. È diversa, diverte. Ma per il balzo cruciale, serve un miracolo. Che sarebbe poi il centesimo. Le storie tese fra il Papu e Gasperini? Tutto agli atti. Cose che capitano. Non ci sarei tornato sopra.

Il Napoli del “suo” Zielinski?

La scommessa più scommessa. Spalletti è un fissato, l’organico di prim’ordine e Zielinski, bè, uno che riempie il centrocampo, e negli smarcamenti li batte tutti. Deve lavorare su un paio di difetti: non è un figlio di, dettaglio che in alcuni frangenti non guasterebbe, e a volte mi sembra persin frenato. Uno del suo repertorio.

La Roma?

Mourinho, basta la parola. Se aggiusta la difesa, chissà.

La Lazio?

Sarri, basta la lavagna. Trap era per l’individuo, Maurizio per la scienza. Però la Lazio “arriva”, comunque.

Si butti: chi lo vincerà?

Mah. Penso “loro”. La Juventus di Allegri. Anche senza Cierre.

Sorpreso da Messi?

Sorpreso, se mai, dalla procedura del divorzio. In conferenza, piange. Due giorni dopo, passeggia e festeggia sui Campi Elisi.

Dalla Superlega alla Superpremier al SuperParis: il calcio non doveva essere del popolo?

Il tifoso, ormai, è l’ultima ruota del carro. Soldi, soldi, soldi. Non per un calcio più sostenibile, ma per pagare stipendi sempre più insostenibili. Non ho capito la mossa di Andrea (Agnelli). La Superlega già esiste, è la Champions. Solo che loro (Juventus, Real, Barça) volevano il numero chiuso per moltiplicare i ricavi, solo per questo.

Hanno scritto: oggi gli sceicchi e i russi, ieri gli Agnelli, Berlusconi e i Moratti.

Sì. Ma ai miei tempi si sapeva chi c’era dietro, a quelle famiglie e ai quei quattrini. Oggi, non sempre.

Con la gente che torna negli stadi, tornerà il fattore campo?

No, Il fattore campo non esiste più, sepolto sotto il Var e la tecnologia. L’arbitro non è più succube al Bernabeu, figuriamoci altrove. Prenda le coppe: hanno tolto il valore doppio del gol in trasferta, era l’ora, avanti tutti, avanti tutta.

A chi darebbe il Pallone d’oro?

Come giocatore, a Jorginho. Un gran cervellone. E come allenatore, a Roberto Mancini: ha dato slancio e spirito a una nazionale che pochi di voi ritenevano all’altezza. Sul Pallone d’oro, mi permetta una piccola digressione. In assoluto, e non da polacco a polacco: il dicembre scorso, lo avrebbe strameritato Lewandowski, non ho proprio capito la manfrina dei francesi, al di là della pandemia che ci mise in ginocchio.

Per restare in tema, Mbappé?

Fisico, talento, scatto, gioventù: ma in area deve imparare a essere più freddo.

Enzo D’Orsi ha dedicato un libro alla sua amicizia con Platini, “Michel et Zibì”. Vi sentite spesso?

Certo. È sempre carico, Michel. Vorrebbe ancora fare tanto.

Proposte per un calcio più a misura d’uomo?

Bisogna riportare il tifoso al centro del villaggio. I bilanci bucati e la caccia spasmodica al denaro ci hanno fatto perdere il senso della misura. E anche a livello tecnico e regolamentare, si corre troppo. I cinque cambi, il fallo di mano che un anno è così e l’altro cosà, il fuorigioco televisivo mirato all’alluce, il mercato lungo, mamma mia. Fra Juventus e Roma ho giocato dal 1982 al 1988 e il calcio era sempre uguale. Pensi: lo scudetto poteva vincerlo addirittura il Verona. Sorrida: si era più rivoluzionari quando si era più conservatori.

Il caso del Riformista: vende a pochi intimi e ha perso 1,7 milioni

Il Riformista deve essere molto importante per Alfredo Romeo almeno a giudicare dai soldi che sta spen dendo nella sua avventura editoriale. Il 10 giugno scorso negli uffici di Napoli si è riunita l’assemblea della società Romeo Editore Srl per approvare il bilancio dell’esercizio chiuso il 31 dicembre 2020.

I conti disegnano un caso editoriale davvero interessante. Se la Srl che pubblica Il Riformistapuntasse davvero a fare profitti vendendo un giornale con articoli che interessano i lettori dovremmo concludere che Romeo ha fallito miseramente l’obiettivo. Nel 2020 la società, che ha 11 dipendenti, ha realizzato ricavi da vendite del giornale pari a 152 mila e 339 euro. Solo per avere un termine di paragone Il Fatto Quotidiano nello stesso periodo ha realizzato ricavi da vendite per 21 milioni di euro circa. Praticamente Il Riformista incassa ogni giorno che sta in edicola solo 585 euro dalle vendite del giornale, sommando edicola e abbonamenti. Pochini.

Il direttore Piero Sansonetti ingaggia battaglie gradite al proprietario della società che gli paga lo stipendio ma probabilmente non incontra i gusti del pubblico. Le prime pagine strillate con titoli come “Palamara sfida le toghe: lotterò per il diritto in Parlamento” (7 agosto) o “Storari batte Salvi e manda la magistratura a gambe all’aria”, 5 agosto. O ancora “Lo scandalo Caridi: un senatore innocente calunniato dal Senato”, 3 agosto. O “Prestipino è abusivo, ora si scollerà dalla sedia?” del 31 luglio 2021, possono interessare i pm e gli imputati, i giudici e gli avvocati. I titoli riguardano personaggi ignoti al grande pubblico (quanti sanno chi sono Caridi e Storari?) e non attirano le folle in edicola. La scelta di sparare in una settimana ben due volte in prima pagina la foto di Marco Travaglio stile Wanted a corredo di articoli allarmati di Michele Prospero (“Sinistra sciagurata: eccolo il tuo oracolo!”, 27 luglio) e di Tiziana Maiolo (“Sotto perenne ricatto. Fino al 2023 nelle mani di Travaglio?”, 31 luglio) non sembra la più azzeccata per invertire la tendenza.

Unica nota positiva: la pubblicità. Il Riformista piace decisamente più agli inserzionisti che ai lettori: 414 mila euro di raccolta nel 2020 sono una gran performance rispetto alle vendite.

Nonostante la generosità degli inserzionisti però i ricavi totali si fermano a 581 mila e 794 euro. Per quanto il quotidiano sia ospitato negli uffici romani del gruppo Romeo (che si occupa di immobiliare e facility management) e abbia un organico smilzo, Il Riformista fatica a stare in piedi. I soli costi del personale superano i ricavi e sommano 609 mila euro tra salari, oneri previdenziali e accantonamenti per il tfr. Più pesanti i costi delle consulenze e dei servizi amministrativi (voce nella quale figurano probabilmente le collaborazioni necessarie per riempire le pagine) pari a 953 mila euro. Non bisogna stupirsi allora se il conto economico 2020 si chiude con la perdita di 1 milione e 327 mila euro. L’anno prima non era andato meglio: 396 mila e 419 euro di perdite dalla prima uscita nel settembre 2019. Il totale delle perdite nei due anni, comprese quelle riportate a nuovo del 2019, arriva a 1 milione e 743mila euro.

La società editoriale è controllata dalla Romeo Partecipazioni di Alfredo Romeo. Il socio è stato generoso e ha iniettato finora più di 2 milioni e 100 mila euro di capitali ma la liquidità risente del trend. A inizio anno i depositi bancari erano pari a 981 mila euro e a fine 2020 sono scesi a 357 mila euro. Dal suo ritorno in edicola la direzione è saldamente nelle mani di Piero Sansonetti, ex direttore del Dubbio e di Liberazione, giornali che non sono passati alla storia dell’editoria per le vendite. La linea anti-magistrati e anti-giornalisti (soprattutto quelli che indagano e scrivono su Alfredo Romeo) piace all’editore ma non fa bene ai conti.

Il Riformista è davvero un caso di scuola da studiare nei corsi di editoria. Il tema di studio è questo: un imprenditore indagato e poi processato per corruzione nel caso Consip fonda, in attesa di sentenza, un giornale che attacca i pm (con pezzi come: “Consip, indagini truccate? L’esposto di Romeo contro Ielo valutato da …Ielo”, 27 aprile 2021 di Piero Sansonetti) e i giornalisti con titoli assurdi come “Scandalo Consip-Fatto, Travaglio colpevole di concorso esterno”, 28 febbraio 2020. Il giornale recluta poi le firme più ‘garantiste’ e lancia campagne contro i pm e i giornalisti più ‘manettari’. Accumula pochi lettori e perde più di 1,7 milioni di euro. Dica il candidato, visti questi numeri, quale può essere la ragione più sensata dell’esistenza in vita del giornale a due anni dalla sua prima uscita.

Rave, tensione Viminale: processo ai prefetti. I “reduci” inseguiti, nessuno gli fa il tampone

Resa dei conti al Viminale. La ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, sotto tiro del centrodestra per il rave da oltre 10 mila persone andato in scena nel viterbese, ha convocato urgentemente ieri mattina il prefetto di Viterbo, Giovanni Bruno, e la prefetta di Grosseto, Paola Berardino. La gestione dell’ordine pubblico a cavallo delle due province è finita nell’occhio del ciclone. Gli organizzatori, giovedì 12 agosto, hanno percorso indisturbati l’unico punto di accesso e installato la strumentazione acustica in un’oasi naturalistica di primaria importanza nell’area. Stessa cosa hanno fatto le orde di avventori, senza che se ne potesse bloccare l’accesso, nonostante le tempestive denunce del proprietario di parte dei terreni, l’imprenditore Piero Camilli. Ieri al Viminale circolava la voce di possibili dimissioni da parte di Bruno e Berardino, ma i rumors non hanno fin qui trovato riscontro. Proprio Camilli sta facendo la conta dei danni, in queste ore, e i suoi legali non escludono una richiesta di risarcimento. “Vediamo come andranno avanti le indagini della Procura di Viterbo, di certo qualcuno dovrà pagare almeno per i furti e i danni fatti nell’azienda”, dice l’avvocato Enrico Valentini. Proseguono anche le indagini della Procura di Viterbo per individuare gli organizzatori, con gli inquirenti che scandagliano i social da cui è partito il tam tam per l’evento di Ferragosto. Sotto accusa anche la gestione sanitaria da parte delle autorità, con il “Teknival” divenuto probabile focolaio Covid e i partecipanti dispersisi nelle province circostanti senza essere sottoposti ad alcun tampone o test rapido di sorta. Una particolare gestione dell’emergenza che continua ad apparire impropria. In queste ore, molti camper dei “reduci” del festival di musica techno sono stati avvistati alle terme di Saturnia, a Montalto di Castro, a Orbetello e anche nel sito Unesco di Civita di Bagnoregio. A Manciano (Grosseto) sono state denunciate otto persone “entrate completamente nude” in un supermercato, altre due sono state arrestate per “resistenza a pubblico ufficiale” nel grossetano. Per il resto non si registrano particolari criticità. Solo che queste persone vengono costantemente inseguite dalle forze dell’ordine e cacciate via dai loro “accampamenti”, ma non c’è alcun accordo con le Asl per effettuare screening per capire se abbiano contratto il Covid e, dunque, siano potenziali vettori del virus. L’unica iniziativa fin qui registrata è quella dell’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, che ha disposto screening per le popolazioni dei paesi della zona: una specie di “vax tour” che almeno avrà l’effetto di tranquillizzare le comunità locali e guadagnare qualche vaccinato in più.

Tap, riparte l’indagine sul rischio incidenti. Pm e giudici litigano sulla direttiva Seveso

Riparte l’indagine sulla mancata applicazione della direttiva europea Seveso sugli impianti a rischio di incidente rilevante in merito a Tap, il mega-gasdotto proveniente dall’Azerbaigian costruito, nonostante il dissenso della popolazione, a Melendugno (Lecce). Con un decreto di archiviazione il 25 settembre 2019 il gip del Tribunale di Lecce aveva condiviso le motivazioni della pm Valeria Farina Valaori sull’inapplicabilità della legge ai gasdotti. La motivazione era stata desunta dalla relazione dei periti. Tuttavia, il giudice Annalisa de Benedictis si è espressa il 17 agosto in merito all’opposizione all’archiviazione annullando il suddetto decreto per mancata pronuncia sull’ammissibilità del reclamo e ha disposto “la restituzione degli atti al giudice per le indagini preliminari”. A carico della società, dei dirigenti e dei proprietari di alcune aziende locali (19 imputati in tutto) è in corso un processo per reati di inquinamento ambientale, contaminazione della falda acquifera, espianto degli ulivi fuori dal periodo autorizzato in assenza di autorizzazioni.

Il nuovo Museo dell’arte digitale fa contenta soprattutto Cariplo

Cosa accade quando un nuovo museo basato su proiezioni e produzioni video, ancora ignoto, incontra un albergo diurno ancora pieno di infissi, cartelli e arredi originali, capace di raccontare uno spaccato della vita delle stazioni ferroviarie novecentesche come pochi altri luoghi in Italia? Se lo staranno chiedendo molti milanesi, appassionati di Art Déco o di arte digitale, da quando il 5 agosto Il Corriere della Sera ha rivelato che sarà proprio all’Albergo Diurno Venezia, in piazza Oberdan, tra bagni e studi di barbiere d’epoca, che sorgerà il primo museo statale italiano dedicato interamente alle forme di produzione artistica legate ai mezzi digitali.

Problema: del “Museo dell’Arte Digitale” si sa ancora pochissimo. Creato da Dario Franceschini come istituto dotato di autonomia speciale il 24 giugno 2021, senza che avesse né una sede né collezione, né un progetto architettonico o museologico noto, avrà, come Pompei o gli Uffizi – ma diversamente dalla stragrande maggioranza dei musei statali italiani – un direttore a tempo pieno, scelto per titoli e colloquio con bando internazionale, pagato 83.142,69 euro l’anno lordi, più eventuale premio di risultato, pari a un massimo di 15 mila euro.

Fino al 4 agosto scorso, quando il ministero ha bandito la selezione per il direttore di questo e di tre altri nuovi musei autonomi, di questo progetto si sapeva solo il nome e la città, Milano, e che “sarà dedicato alla produzione e presentazione di contenuti digitali, svolgendo un ruolo strategico nello scenario culturale contemporaneo, sempre più digitalizzato, connesso e globalizzato, in cui la stessa nozione di opera e di pubblico va inevitabilmente evolvendo”.

Difficile davvero immaginare che per un progetto simile il ministero avesse in mente quello che Andrea Carandini – il presidente del Fai, cui era stata affidata la valorizzazione dell’immobile – solo nel 2016 aveva definito “una Pompei del ‘900”. Un ex Albergo Diurno, gioiello dell’Art Deco milanese, inaugurato nel 1926, dove sostavano viaggiatori e giovani in cerca di avventure, per rifarsi il look o una doccia, ancora ricco di arredi originali, bagni e servizi, spogliatoi e studi dei barbieri, oltre agli infissi e ai cartelli e insegne d’epoca. Per questo nuovo museo saranno stanziati, per ora, 6 milioni di euro, che però basteranno solo per restaurare e riqualificare l’Albergo.

Solo pochi mesi fa, nel settembre 2020, il Comune di Milano, proprietario degli immobili, spiegava che “l’intera struttura versa in una gravissima situazione igienico sanitaria, tale da configurare uno scenario emergenziale per la salute dell’uomo (sono presenti all’interno: immondizie varie e materiale diverso estraneo all’edificio) che ha determinato anche un degrado dell’immobile e dei suoi arredi interni”. Sempre dai giornali si apprende che il nuovo museo statale si avvarrà della collaborazione di Meet, un “centro internazionale” di cultura digitale creato dalla fondazione bancaria Cariplo, che ha aperto le sue porte a fine ottobre 2020 nell’ex Cinema Oberdan, negli immediati pressi dell’Albergo Diurno. Centro che, in pochi mesi di attività, diventa quindi interlocutore privilegiato di una nascitura istituzione statale. La direttrice del centro Maria Grazia Mattei spiega sicura che “tutto lo spazio deve essere chiaramente riprogettato in funzione del nuovo museo, che comprenderà in maniera integrata o completamente fusa anche il Meet, progettato fin dagli inizi per essere uno spazio della cultura digitale. Fondendo le due cose verrà fuori una realtà stupenda”.

Una collaborazione profonda e radicata, seppur mai discussa pubblicamente. Che dal dialogo tra l’albergo novecentesco e le impalcature digitali possa nascere uno spazio evocativo di bellezza disarmante non v’è dubbio, ma difficile che questa sia la soluzione migliore per valorizzare un monumento così importante per il Novecento italiano. Ancor più difficile che uno spazio così angusto e vincolato, ricco di storia e di cultura materiale, sia il luogo migliore d’Italia dove sviluppare un’istituzione che si vorrebbe capofila e d’avanguardia nel “presentare e produrre contenuti digitali”.

Ciò che manca è il progetto museografico, e la collezione. Nonostante il ministero abbia comunicato che si tratta del primo museo pubblico al mondo del suo genere, in realtà esempi esistono in tutto il mondo, da Tokyo a Bordeaux, ma spesso collocati in spazi creati ex-novo o vuoti, riempiti con proiezioni e produzioni visive: nulla di paragonabile all’Albergo Diurno scelto in questo caso.

Non è la prima volta che, da quando Dario Franceschini è in carica, si sceglie Milano per la creazione di nuove istituzioni culturali statali di cui non si sapeva nulla fino al giorno dell’annuncio. Prima, nel 2019, il Museo Nazionale della Resistenza, senza collezione né direttore, che sarà collocato nella contestatissima seconda Piramide di Herzog, presso la stazione Garibaldi: costo 14 milioni. Poi la Biblioteca Europea di Informazione e Cultura, pensata da una fondazione che esiste dal 2004, che sarà finanziata con oltre 100 milioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnnr) e sorgerà da zero a Porta Vittoria. Ora questo Museo dell’Arte Digitale: 6 milioni investiti, per ora, ma un posto dirigenziale di altissimo livello garantito.

Con un ministero carente di personale e competenze (siamo ormai, coi pensionamenti, a -9 mila unità) ogni nuovo museo sarà, in automatico, carente di personale e competenze, o vuoto. E sarebbe il caso che il ministro Franceschini spiegasse: perché lì, perché adesso, perché un centro privato sa più di qualsiasi altro cittadino italiano, perché, nel momento in cui i musei esistenti boccheggiano, si continua ad aprirne di nuovi.

La crisi dei chip ferma pure VW. Male le Borse

Ford, Stellantis, Toyota e ora Volkswagen. L’industria dell’automotive è ormai in affanno per la carenza globale dei microchip e le conseguenze arrivano direttamente sulle catene di produzione delle maggiori case automobilistiche che in una settimana hanno perso 100 mila auto. Ieri il colosso tedesco di Wolfsburg ha interrotto la produzione del suo modello più economico della ID.3, una delle scommesse elettriche, a causa di una carenza di semiconduttori. Una crisi che potrebbe costringere Volkswagen a fermare la produzione di più modelli nei prossimi mesi, proprio come ha già annunciato Toyota che ridurrà la sua produzione a partire da settembre del 40% (da 900 mila a 500 mila vetture) prevedendo una sospensione in 14 siti in Giappone. La penuria di microchip e le sue possibili ripercussioni sulla produzione di auto alimenta, intanto, le vendite sul comparto automotive in tutta Europa mettendo sotto pressione le case automobilistiche quotate. Ieri Renault è arrivata a perdere il 2,6% e Volkswagen l’1,6%, mentre la forte richiesta di chip sostiene i produttori di semiconduttori (+0,5%). Intanto Ford, con sede negli Stati Uniti, ha dichiarato che uno dei suoi stabilimenti interromperà l’assemblaggio del suo pick-up F-150 per una settimana a partire da lunedì. General Motors ha aggiunto o esteso i tempi di fermo alle linee di produzione in tutto il Nord America. La mancanza dei componenti elettronici va avanti già da mesi, ma è in queste settimane che si è acutizzata. Una delle più grandi fabbriche di microchip, che si trova in Malesia, è stata costretta a rallentare la produzione a causa di un focolaio di Covid-19 tra i suoi operai. Così come un aumento di casi di coronavirus si è registrato in Thailandia, Vietnam e Filippine, dove ci sono le altre fabbriche di componenti e prodotti di elettronica per il comparto auto.

Mail Box

 

Tutto riaperto tranne gli Enti pubblici

Dal 6 agosto in ristoranti e bar si può sostare con il Pass. Le Anagrafi, l’Agenzia delle Entrate e l’Inps, invece, effettuano ancora servizio su appuntamento. Non è giunta l’ora che riparta anche il servizio pubblico in presenza? Le Poste e altri concessionari privati sono sempre rimasti aperti al pubblico.

Stefano Masino

 

Caso Durigon: il silenzio di Draghi è inaccettabile

Ritengo che il silenzio di Draghi sul caso Durigon, specie dopo la raccolta di oltre 155.000 firme di cittadini che ne chiedono le dimissioni, sia diventato assordante. Le risposte alla questione sono solo due: o Durigon può restare al suo posto, oppure ne chiede le dimissioni. In questa faccenda il silenzio non è d’oro, ma un atteggiamento non degno di una delle più alte cariche istituzionali dello Stato.

Francesco Forino

 

Rave party a Mezzano: impossibile non notarlo

Possiedo una seconda casa vicino al lago di Mezzano, luogo del rave party. Posso testimoniare che la “musica” arrivava da noi giorno e notte e che la mattina del 14/8 ho visto passare camper con targa belga e francese scassati, con “punkabbestia” alla guida. Visto che i camper in totale erano alcune migliaia, sembra impossibile che le autorità non si siano accorte di questo plotone di mezzi che si dirigeva verso il lago. Alla fine del rave moltissimi si sono sparpagliati come turisti nei paesi limitrofi, sostando dappertutto: forse una sfida ai tutori dell’ordine? A prescindere dal Covid, che peraltro esiste di certo, manca la giustizia. Ogni volta che succedono queste cose si scende di un gradino nel rispetto delle istituzioni e degli altri.

Beatrice Giuliani

 

Su Conte e talebani critiche incoerenti

Criticano ferocemente Conte perché dice che con i talebani bisogna trattare. Sono gli stessi che hanno tollerato i politici che inneggiano al Rinascimento di paesi governati da mandanti di omicidi e che trattano le donne come cose. Gli stessi che tollerano fascisti nelle fila dei partiti da loro sostenuti. Gli stessi che hanno minimizzato le performances, politiche e personali, di un individuo che era amico di personaggi come Gheddafi ed Erdogan. Conte è l’unico politico serio, credibile, onesto che abbiamo. Gli altri, più o meno, si fanno gli affari propri e sono solo “chiacchiere e distintivo”.

Paolo Benassi

 

L’errore degli Stati Uniti in Medio Oriente è grave

Biden ha detto: “Volevamo sconfiggere il terrorismo, non costruire una nazione”. È qui il grande errore. Senza una nazione che accomuni nella libertà e consapevolezza dei diritti, nel senso di appartenenza in vista di un obiettivo comune, il terrorismo è sempre in agguato e purtroppo vince.

Enza Scalisi

 

Il premier è davvero un grande banchiere?

Draghi è considerato un grande banchiere. Come si spiega allora il disastro della banca senese, iniziato con l’acquisizione di Antonveneta? Il premier era governatore della Banca d’Italia, ma anche presidente del Financial Stability Board e non poteva non essere a conoscenza del baratro finanziario che si sarebbe creato. La più antica banca del mondo distrutta da manovre spericolate, con perdite che ammontano a più di 23 miliardi di euro. Un qualunque ragioniere di buon senso avrebbe agito con maggiore prudenza! Siamo nella mani di un così grande banchiere.

Antonella Jacoboni

 

Per non dimenticare la strage di Modena

Quando (come parenti dei 6 operai morti il 9 gennaio 1950 nel noto eccidio delle Fonderie Riunite di Modena) chiedemmo una lapide in Piazza Grande, Francesca Maletti, all’epoca presidente del Consiglio comunale, rispose che non si poteva a causa dei vincoli imposti dall’Unesco. Pensai di chiedere allora una pietra d’inciampo a ricordo dei nostri morti. Le pietre d’inciampo sono sampietrini ricoperti di bronzo con incisi nomi e luoghi di morte e si inseriscono perfettamente dal punto di vista estetico, con i ciottoli di Piazza Grande. Adesso Bologna segue la stessa strada per ricordare gli 85 morti della stazione, quindi vorrei rilanciare la proposta e perciò cerco sponsor che contribuiscano alle spese necessarie.

Arturo Ghinelli

 

I no-vax dovrebbero pagarsi da soli le cure

Visto che le terapie intensive negli ospedali si stanno riempiendo principalmente di pazienti non vaccinati, secondo me i no-vax che decidono di non farsi vaccinare dovrebbero essere obbligati per legge, a possedere un’assicurazione per coprire i costi che lo Stato italiano dovrà sostenere per le loro eventuali cure intensive.

Claudio Trevisan

 

Spazzatura a Noto: carenze sistemiche

Conosco bene il territorio di Noto, dove ho comprato casa. Vorrei sottolineare come le carenze da voi riscontrate dipendano solo in parte dall’incuria e dalla propensione a evadere le tasse. È necessaria un’analisi politica più ampia: perché salta sempre la luce? Perché si fa ricorso alle trivelle, per cui si chiede regolare autorizzazione con relativo pagamento? Perché la rete elettrica è obsoleta e la rete idrica copre solo in parte il territorio. Serve denunciare la scarsità di investimenti e la sperequazione di risorse tra sud e nord che si perpetua nel Pnrr appena varato. Le denunciate disfunzioni disturbano il turista, ma avviliscono e lasciano ai margini preziosa storia e bellezza del nostro Paese.

Maria L.

Contagi. Focolaio in un ristorante. Ma il locale non chiude, anzi licenzia

Gentile redazione, mia moglie, di nazionalità cinese, lavorava fino a qualche giorno fa in un ristorante cinese in cui giovedì scorso sono risultati positivi al Covid tre dipendenti, tra cui anche lei. Immediatamente le ho fatto fare il tampone molecolare, che è risultato negativo, e abbiamo chiesto a tutto lo staff del ristorante di fare lo stesso, richiesta rigettata dal titolare del ristorante, che ha continuato a rimanere aperto come se nulla fosse capitato. Mia moglie, che si è rifiutata di tornare al lavoro se non fossero stati fatti i tamponi molecolari, è stata di fatto licenziata; poco male, lavorava a nero per settanta ore settimanali per uno stipendio di 1.000 euro mensili, come molti altri dipendenti del ristorante.

Già questo è un fatto di una gravità inaudita, ma il peggio arriva dopo. Sono andato dai Carabinieri a denunciare l’accaduto, contro il parere di mia moglie che temeva di essere messa al bando da tutta la comunità cinese, convinto che di fronte a un fatto così grave sarei stato ascoltato da qualche responsabile della stazione; ne parlo in caserma e mi viene chiesto se avessi chiamato il 112, alla mia risposta che se avessi già chiamato il 112 non sarei stato lì, mi viene consigliato di tornare al ristorante e di chiamare la pattuglia (erano le 9 del mattino); chiedo se stanno scherzando e mi rifiuto di tornare al ristorante e insisto per fare la denuncia; mi viene detto che non si poteva fare la denuncia ma che in questo caso dovevo fare un esposto, che sarei dovuto tornare a casa, prepararlo e tornare a presentarlo. Non ho risposto così come l’istinto mi suggeriva solo per non incorrere nel reato di vilipendio e sono andato via.

Ora mi domando: Green Pass, mascherine, distanziamento, contagiati, terapie intensive, economia zoppicante, morti, e poi? Ti denuncio un cluster in città e mi fai queste storie? Forse ci meritiamo quello che ci capita.

Andrea Nicolai

La lobby Fiat liquida il glorioso “Espresso” e sega Stampubblica

 

“Alla carta stampata spetta la funzione di recuperare il sentimento del tempo, una memoria del passato che sola permette di dare una visione prospettica del futuro”.

(Eugenio Scalfari alla Facoltà di Scienze umanistiche dell’Università La Sapienza – Roma, 22 aprile 2009)

 

La smobilitazione annunciata da Gedi, il gruppo editoriale che fa capo alla famiglia Agnelli e a cui appartengono i quotidiani la Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX oltre al glorioso settimanale L’Espresso, assomiglia per certi versi a quella ben più precipitosa e drammatica degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Più che un ritiro, anche questa è una fuga. Nel nostro caso, una fuga dalla carta stampata; dalla libertà d’informazione; da quel pluralismo che va sempre più soffocando sotto l’assalto delle lobby padronali: cioè di quegli editori “impuri” che, tranne rare eccezioni, s’impadroniscono dei giornali per fare affari in altri campi e curare i propri interessi economici, finanziari, imprenditoriali. A poco più di un anno dalla sua costituzione, e a cinque dall’infausta maxi-fusione che partorì l’ircocervo di “Stampubblica”, ora Gedi intende ridimensionare drasticamente gli organici redazionali e progetta addirittura di vendere L’Espresso, fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari. Una bandiera per diverse generazioni di lettori progressisti, impegnati sul piano politico, civile e culturale. E, per così dire, anche lo status symbol di un’Italia che voleva crescere e cambiare, per diventare più laica e moderna: insomma, il portavoce di una “struttura d’opinione”, come usava dire Scalfari, che nel turn over generazionale tende oggi a ritrovarsi sulle pagine del Fatto Quotidiano.

Sappiamo bene che, per la concorrenza della televisione prima e di Internet dopo, la carta stampata è in crisi in tutto il mondo. La chiusura di tante edicole nelle nostre città ne è la triste rappresentazione scenografica. Ma il declino dell’Espresso, per chi l’ha diretto dal 1984 al ‘91 passando in mezzo al fuoco incrociato della “guerra di Segrate” fra Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi per il controllo della Mondadori, assume il valore nostalgico di un paradigma: la disfatta del cosiddetto “editore puro”, vale a dire l’editore per mestiere e passione civile. Non a caso la crisi del settimanale di via Po risale agli anni Novanta, con l’avvento di De Benedetti al vertice del gruppo che proprio da quella testata prendeva nome insieme al titolo quotato in Borsa. “Venduti e comprati, restiamo noi stessi”, scrivemmo in copertina per rassicurare i lettori. Ma in quel frangente l’Ingegnere sembrava più preoccupato dalla reazione furibonda di Francesco Cossiga, allora presidente della Repubblica, in seguito alle rivelazioni del giornale sul “caso Gladio”. Acqua passata, si dirà. Sì, ma acqua torbida. Quello fu l’avvio di una mutazione genetica da gruppo editoriale a gruppo di potere, come ho raccontato nel libro La Repubblica tradita (PaperFirst), che si sarebbe conclusa ingloriosamente con la cessione differita alla Fiat della famiglia Agnelli-Elkann. E così l’agonia del settimanale fondato da Scalfari rischia di ripercuotersi anche sull’immagine del quotidiano fondato da Scalfari, un giornale ormai in crisi di ruolo e d’identità.

Oggi il gruppo Gedi abbandona L’Espresso al suo destino, pronto a relegarlo in una bad company per disfarsene più agevolmente, senza aver investito su un cambio di formula, un rilancio o una rifondazione, magari in versione online multimediale. Una testata che ha avuto una parte rilevante nella storia nazionale, già ridotta a supplemento domenicale di Repubblica, viene messa in liquidazione quasi fosse un’auto da rottamare. Magari con gli incentivi pubblici o con il prestito garantito dallo Stato.

 

Classici del comico: l’accordo di Doha

In tempi difficilivale tutto. Se poi i tempi sono difficili in posti lontanissimi, tipo Jalalabad, in Italia vale tutto il doppio: difensori dei diritti delle donne manu militari a Paesi alterni; riformati alla leva in elmetto; gente che non riesce a zittire i giovani ubriachi sotto casa, ma vuole esportare la democrazia coi bombardieri; pacifisti pro-Marines e altre bestie mitologiche. Per impedire sprechi di stupore, reazione rara quanto preziosa negli adulti, sarà il caso di ricordare cosa c’è scritto nell’Accordo per portare la pace in Afghanistan firmato a Doha il 29 febbraio 2020 da Mike Pompeo per conto di Trump e dal mullah Abdul Ghani Baradar, appositamente liberato dalle prigioni pakistane, per i Talebani. Avvertenza: leggendolo, bisogna resistere alla tentazione di pensare che si tratti di un testo satirico. Basti dire, a questo proposito, che l’espressione “L’Emirato islamico dell’Afghanistan che non è rinosciuto come Stato dagli Stati Uniti d’America ed è conosciuto come i Talebani” vi ricorre la bellezza di 18 volte in 4 pagine. In sostanza, gli Usa promettono di ritirarsi completamente di lì a 14 mesi (ce ne hanno messi 16), di liberare 5mila talebani (fatto, li potete vedere alla Cnn), di appoggiare il dialogo intra-afghano (ancora in corso), di togliere le sanzioni ai mullah (vedremo), di non attaccare più l’Afghanistan e di “non intervenire nei suoi affari interni”, di “cooperare economicamente alla ricostruzione” una volta che i Talebani, Karzai, Hekmatyar e forse Ghani si saranno messi d’accordo. In cambio i Talebani sono impegnati a “non minacciare la sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati” e pure a mandare “un chiaro messaggio che dica che chi vuole minacciare gli Usa e i loro alleati non ha posto in Afghanistan” (hai capito, al-Qaeda?) e di spiegarlo bene ai loro affiliati, in specie ai 5mila prigionieri liberati nel 2020. Una cosa tipo: stavolta promettete di fare i buoni? Lo dite pure agli amici vostri? Promesso? La sostanza è che Washington non sapeva il giorno, forse, ma dava per scontato che i Talebani avrebbero governato a Kabul (nell’Accordo li impegna persino a non fornire passaporti ai terroristi). Tutto questo per dire: ma insomma com’era il tempo sulla montagna del sapone in questi 18 mesi?