Le 187 mila minacce “no vax” sulla scuola che vuole riaprire

Sono 186.571 i dipendenti scolastici (docenti e personale Ata) che non hanno ancora effettuato neanche una sola dose di vaccino: si tratta del 12,82 per cento del totale, come spiega il report sulle vaccinazioni diffuso ieri dal commissario per l’emergenza. Il generale Figliuolo aveva chiesto alle Regioni di ricevere entro il 20 agosto i dati di dettaglio e, fanno sapere dalla struttura commissariale, servirà ancora del tempo per analizzare le cifre comunicate. Intanto, a soli dieci giorni dall’avvio dell’anno scolastico, la situazione non sembra essere migliorata, anzi. E i dati sulle vaccinazioni dei docenti nelle varie Regioni tracciano scenari assai problematici, con punte di assenza di prima dose in più del 40 per cento della platea. Ma andiamo con ordine e partiamo dalle proteste.

Come se non bastasse, nelle scorse ore, i sindacati della scuola di Cgil, Cisl, Uil e Snals, hanno richiesto un incontro urgente con il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi (minacciando di togliere la loro firma dall’accordo) per ‘protestare’ contro le modifiche al protocollo di sicurezza redatto per il rientro. Una confusione, tra pubblicazioni e precisazioni, che ha fornito un buon gancio di protesta: il 6 agosto viene infatti pubblicato il dl 111/2021 che introduce il green pass obbligatorio per il personale scolastico. Poi, il 14, viene sottoscritto il protocollo sulla sicurezza che prevede la creazione di un fondo “per consentire di effettuare tamponi diagnostici al personale scolastico”.

La frase viene interpretata dai sindacati come la possibilità di effettuare tamponi gratuiti per tutto il personale, pure per l’aggiornamento del green pass. Il 18 agosto, però, è pubblicata una nota di accompagnamento al protocollo che specifica che i tamponi gratuiti sono riservati solo al personale “fragile”, esentato dalla vaccinazione con regolare certificazione medica. “Il complesso di questi atti, che hanno evidenti ricadute sul rapporto di lavoro, non sono stati minimamente condivisi con le OO.SS.”, hanno denunciato in una nota i sindacati. L’incognita del personale non vaccinato è spaventosa per la continuità scolastica: dopo cinque giorni di assenza, ai docenti senza certificato verde saranno infatti sospesi l’insegnamento e lo stipendio. Sempre secondo i dati del report diffuso ieri, la Sardegna è tra le Regioni con il maggior tasso di personale che non ha ricevuto neanche la prima dose, intorno al 32% della platea. In Sicilia si sale addirittura al 42 (anche se ieri dalla Regione parlavano di meno del 20%) e ancora la Calabria con il 30, il Piemonte con il 21 insieme a Umbria e Toscana.

Solo a Firenze sono state raccolte 2 mila firme contro l’obbligo del green pass a scuola. Sono tra l’8 e il 9 % le prime dosi ancora mancanti in Liguria, Marche e Lombardia.

Con questi numeri serve a poco il tentativo del ministro Bianchi, ieri dalle pagine di Repubblica, di rassicurare tutti con una lettera in cui, tra la necessità del green pass e la conta degli stanziamenti, ha parlato dell’assunzione di 46 mila nuovi docenti a fronte dei soli 20 mila dello scorso anno. Un conto che, a onor del vero, va ricondotto per lo più al concorso straordinario voluto e indetto dall’ex ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina. Comunicativamente sembra essere di fronte al tentativo di acquisire un vantaggio sulla narrazione di quanto fatto in vista di un settembre più che turbolento. Anche l’ipotesi dei tamponi a campione sugli studenti, circolata ieri, riguarderà per lo più le regioni che in autonomia lo facevano già. Il tentativo di renderlo sistematico, infatti, era già naufragato a dicembre scorso nonostante la disponibilità dichiarata sia dalle Regioni che dal ministro Speranza.

Protestano, nel mentre, anche i presidi. “A dieci giorni dall’inizio del nuovo anno scolastico l’avvio è pregiudicato da problematiche a cui non è stata ancora fornita una soluzione efficace e univoca – ha detto ieri il presidente dell’Associazione nazionale, Antonello Giannelli –: si tratta di questioni complesse che devono essere affrontate a livello nazionale”.

A preoccupare è il carico di nuove incombenze che arriverà agli istituti e al personale: dal controllo quotidiano, attraverso app, del possesso della certificazione verde alla sostituzione del personale assente per il suo mancato possesso. “Non ci sono poi – continua Giannelli – indicazioni certe sul termine di durata del contratto di supplenza”. E ancora, sui tamponi al personale: “A quale indicazione dovranno attenersi i dirigenti, a quella contenuta nel protocollo o a quella riportata nella nota successiva? E se le scuole devono effettuare lo screening, chi ne decide la cadenza e i destinatari? Sarà effettuato su richiesta del dipendente o sarà il dirigente scolastico, d’accordo con le autorità sanitarie, a determinarne cadenza e possibili beneficiari?”. Il tempo, oramai, stringe davvero.

I leghisti ci sono, Cartabia no

Ci sono ex presidenti del Consiglio, istituzioni europee, leader di partito e ben 11 ministri. Tanti, ma in questo caso a farsi notare è un’assenza, perché quest’anno al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione mancherà la Guardasigilli Marta Cartabia, pure cattolica e con alle spalle una militanza nel movimento fondato da don Giussani.

Più che l’antica vicinanza a Cl, nei pensieri della Guardasigilli pesa oggi il bisogno di apparire super-partes e dunque la volontà di svincolarsi dalle etichette. Non che il tabellone degli eventi manchi allora di prestigio: ieri il Meeting è stato inaugurato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha dialogato col presidente della Fondazione Meeting Bernard Scholz. Nel suo discorso, il capo dello Stato ha fatto riferimento alla situazione pandemica e al valore sociale della vaccinazione: “La responsabilità comincia da noi. Vaccinarsi è un dovere non in obbedienza a un principio astratto, ma perché nasce dalla realtà concreta che dimostra che il vaccino è lo strumento più efficace di cui disponiamo per difenderci e per tutelare i più deboli e i più esposti a gravi pericoli”.

Gli incontri andranno avanti fino a mercoledì. Sul palco di Rimini, per un Meeting che nella sua 42esima edizione torna prevalentemente in presenza, si alterneranno decine di esponenti politici e di protagonisti dell’economia italiana, con al centro il tema della “sostenibilità” nelle sue varie declinazioni.

Alcuni degli incontri, però, restituiscono interessanti composizioni degli ospiti. Martedì, per esempio, si troveranno insieme Giuseppe Conte, Enrico Letta, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Antonio Tajani, Maurizio Lupi ed Ettore Rosato. Tema: “Il ruolo dei partiti nella democrazia di oggi”. Curioso anche il palco di un evento previsto per oggi alle 17, “Riaprirsi al mondo in modo sicuro e sostenibile”. Presenti diversi presidenti di Regione, ma tutti in quota centrodestra: Attilio Fontana (Lombardia), Alberto Cirio (Piemonte), Donatella Tesei (Umbria), Nello Musumeci (Sicilia), Maurizio Fugatti (Provincia di Trento). A dialogare con loro sarà peraltro il ministro al Turismo leghista Massimo Garavaglia. Al Pd, che alla kermesse è in netta minoranza come tutto l’asse giallorosa, non resta che contare sulla presenza del Commissario europeo Paolo Gentiloni e del presidente del Parlamento Ue David Sassoli.

Il Meeting “green” lo paga chi fa affari con trivelle e gas

La parola più frequente nei titoli dei convegni è “sostenibilità”. Se si analizzano i nomi dei finanziatori del Meeting di Comunione e liberazione, però, abbondano le società che fanno affari estraendo o finanziano i combustibili fossili, molto poco sostenibili perché responsabili principali del cambiamento climatico.

Partiamo dai “main partners” dell’evento ciellino. Tra i quattro principali sponsor ci sono Intesa Sanpaolo e Generali, grandi finanziatori di progetti legati a carbone, gas e petrolio. La banca guidata da Carlo Messina nel solo 2020 si è esposta nei confronti del settore fossile per 5,4 miliardi di euro (per metà finanziamenti e per l’altra metà investimenti), hanno documentato in uno studio pubblicato nell’aprile scorso le associazioni Greenpeace e ReCommon. A luglio l’istituto di credito ha annunciato che smetterà di concedere prestiti alle aziende che estraggono carbone, ma solo a partire dal 2025. “Sono cose che servono a poco se prima della loro entrata in vigore si concedono finanziamenti a mega-progetti che mettono a repentaglio il clima, l’ambiente e le comunità locali”, hanno commentato le due ong. Il riferimento è a uno dei principali progetti in cui Intesa è coinvolta: l’Arctic LNG-2, che punta a trivellare l’Artico, tra i luoghi più delicati del pianeta.

Discorso simile per Generali. Nel 2018, dopo le critiche degli ambientalisti, la principale compagnia assicurativa italiana aveva annunciato di voler disinvestire gradualmente dal settore del carbone, il più inquinante dei fossili. Eppure, hanno calcolato Greenpeace e ReCommon in un report di quest’anno, il Leone di Trieste – principale azionista è Mediobanca, insieme a Francesco Gaetano Caltagirone e Leonardo Del Vecchio – può contare ancora oggi su 203 milioni di euro investiti nel carbone, concentrati soprattutto in Polonia e Repubblica Ceca.

Tra i finanziatori del Meeting non poteva poi mancare Eni. Il colosso petrolifero anche quest’anno è uno dei quattro “official partners” dell’evento targato Compagnia delle Opere. Il convegno “Transizione ecologica e sostenibilità ambientale”, tanto per citarne uno, è sponsorizzato proprio dal Cane a Sei Zampe. Che, per la cosiddetta transizione, punta tutto sul metano: un gas serra più potente della CO2 in termini di riscaldamento dell’atmosfera. D’altra parte è il governo, rappresentato a Rimini dal ministro Roberto Cingolani (la conferenza a cui parteciperà è sponsorizzata da Philip Morris e Bayer), ad aver scelto di scommettere su una transizione a base di gas.

Non sorprende che tra gli sponsor del Meeting ci sia dunque un altro campione nazionale del metano, Snam, anch’essa controllata (come Eni) da Cassa depositi e prestiti, quindi dallo Stato.

L’azienda guidata da Marco Alverà, già pupillo di Paolo Scaroni a San Donato, è in prima fila per lo sviluppo dell’idrogeno blu, quello prodotto dalla combustione del metano. Snam sponsorizza quest’anno la conferenza “Le nuove infrastrutture e il pilastro della sostenibilità”. All’ordine del giorno, si legge nel programma, come realizzare “gasdotti”, ma anche “strade, ponti, tunnel, porti e aeroporti”.

Tra gli sponsor ci sono alcuni big delle grandi opere: la multinazionale americana Hines, molto attiva nel mercato immobiliare nostrano; Renexia, società del gruppo Toto; Milanosesto,

l’azienda titolare del progetto di riqualificazione dell’ex area Falck a Sesto San Giovanni, il più grande progetto immobiliare attualmente in corso in Italia. Tutti uniti dall’interesse per la sostenibilità, come detto.

Ma alla kermesse ciellina di quest’anno – tempo di Covid – c’è spazio anche per il settore sanitario. La conferenza intitolata “La filiera italiana del farmaco e l’emergenza” è sponsorizzata ad esempio da Farmindustria, l’associazione confindustriale delle grandi aziende farmaceutiche, contrarie alla moratoria sui brevetti per vaccini e farmaci anti Covid. Un argomento, quest’ultimo, che infatti non compare nel programma del convegno. Impossibile sapere quanti soldi abbia incassato quest’anno dagli sponsor la Fondazione Meeting Amicizia fra i Popoli, l’impresa che organizza l’evento.

Un’indicazione la fornisce il fatturato registrato nel 2019, anno dell’ultimo meeting svoltosi pienamente in presenza: 7 milioni di euro tondi. Di questi facevano parte anche i soldi pubblici arrivati alla fondazione ciellina, che pure stavolta non sono mancati. Da Rimini fanno sapere che gli unici fondi pubblici incassati quest’anno, oltre a 140 mila euro di ristori legati all’emergenza sanitaria, sono stati 30 mila euro donati dalla Regione Emilia Romagna e altri 5 mila euro bonificati dalla Camera di Commercio di Rimini e della Romagna.

Eppure, tra gli sponsor ci sono diversi altri enti pubblici mascherati dietro società di capitali da loro controllate. Oltre alla Regione Friuli Venezia Giulia, guidata dal leghista Massimo Fedriga e presente direttamente tra i sostenitori ufficiali del Meeting, c’è sicuramente il ministero delle Finanze tramite Ferrovie dello Stato, la Regione Lombardia di Attilio Fontana attraverso Ferrovie Nord Milano e la Regione Liguria di Giovanni Toti via Autorità Portuale del Mar Ligure Occidentale.

I fascisti contro l’assessore di Zaia

Ha rivendicato la natura “antifascista” della Lega, ricordato con commozione il fondatore di Emergency Gino Strada e attaccato i no-vax e no green pass nel Carroccio perché “essere contro la scienza è da Medioevo”.

In cambio Roberto Marcato, assessore allo Sviluppo Economico della Regione Veneto e fedelissimo del governatore leghista Luca Zaia, si è visto mettere alla gogna da uno striscione di chiara matrice fascista fuori dallo stadio Appiani di Padova: “Meglio un giorno da leoni che cento da Marcato”. Citazione mussoliniana, carattere da alfabeto runico e un muro che viene spesso usato dalle frange di estrema destra. Una minaccia, su cui indaga la Digos, contro le posizioni degli ultimi giorni di Marcato e in primo luogo sulla sua critica alla proposta del sottosegretario della Lega Claudio Durigon di intitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini invece che a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Chi ha scelto la Lega animato da nostalgie fasciste ha sbagliato sponda – ha spiegato Marcato – qui non c’è spazio per visioni totalitarie”. Poi è entrato anche nello specifico del caso Durigon: “Intitolare un parco al fratello sfigato di Mussolini? Spero sia una boutade o un colpo di sole”. Quando i giornali locali hanno pubblicato la foto dello striscione apparso fuori dallo stadio di Padova, Marcato non ha fatto un passo indietro. Anzi, ha reso esplicita ancora di più la sua posizione su Facebook: “Dopo i leoni da tastiera arriva il leone da striscione, ma c’è da mettere in chiaro una cosa: nella Lega ci sono valori non negoziabili, i fascisti se ne facciano una ragione”.

A far imbufalire molti elettori leghisti e alcuni follower con simpatie neofasciste è stato anche il ricordo di Marcato di Gino Strada ma anche i suoi attacchi contro i parlamentari della Lega che sono scesi in piazza per protestare contro il green pass: “La Lega è totalmente pro-vaccino – ha detto Marcato – è l’unica arma che abbiamo per uscire da questo dramma. Anche Salvini ha fatto il vaccino, il messaggio è chiaro”.

Posizioni condivise anche da Luca Zaia, governatore del Veneto, che negli ultimi giorni è rimasto in silenzio di fronte all’uscita del sottosegretario leghista all’Economia difeso da Matteo Salvini. Sia Zaia che Giancarlo Giorgetti da giorni stanno provando a convincere Salvini – anche facendo leva sui buoni rapporti con Mario Draghi – per sostituire Durigon con il deputato padovano Massimo Bitonci, già sottosegretario al Tesoro durante il governo Conte-1.

“Intervengano Draghi o il Colle. Su Durigon pronti alla piazza”

Quando Giovanni Impastato sente nominare Claudio Durigon ripete sempre la stessa frase: “Non è possibile, non è possibile…”. A lui che ogni giorno porta in giro per l’Italia la memoria di suo fratello Peppino, ucciso dalla mafia la notte del 9 maggio 1978, quella proposta del sottosegretario leghista di intitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini (fratello del duce) invece che ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, proprio non va giù: “Una persona del genere non può far parte delle istituzioni, mi sento offeso e indignato”.

Cosa ha provato quando ha letto le parole di Durigon?

Mi è subito tornato alla mente un caso di qualche anno fa, era il 2009. A Ponteranica, un comune di 7 mila abitanti in provincia di Bergamo, vinse un sindaco leghista, Cristiano Aldegani, e il suo primo atto amministrativo fu quello di togliere l’intitolazione di una biblioteca che era dedicata a mio fratello Peppino per darla a un sacerdote che, con tutto il rispetto, non aveva storia. Anche in quel caso la proposta fu sommersa dalle proteste di molti sindaci e cittadini democratici e sei anni dopo quel luogo di incontro e cultura è tornato a chiamarsi “Biblioteca Peppino Impastato”, quando ha vinto un sindaco civico di centrosinistra. Oggi ci vuole una mobilitazione ancora maggiore perché Durigon è al governo.

Perché?

Una proposta di questo tipo non può venire da una persona che fa parte delle istituzioni: mi sento indignato e offeso. Io ho molto rispetto per le nostre istituzioni ma una figura come Durigon non merita di rappresentare i cittadini. Siamo un Paese antifascista e lo è la nostra Costituzione. Con quelle parole il sottosegretario della Lega l’ha tradita. Per questo deve andarsene.

Dovrebbe dimettersi, dunque?

Sì, oppure dovrebbe essere il presidente del Consiglio Mario Draghi a farlo dimettere subito. Perché il premier dovrebbe essere imbarazzato da tenersi al governo una persona che non è degna di rappresentare le istituzioni. Su antifascismo e antimafia non ci possono essere dubbi da che parte stare, su Falcone, Borsellino, Impastato e tutte le vittime di mafia non si scherza. Quindi se Durigon non si vorrà dimettere, ci mobiliteremo per chiedere a Draghi di allontanarlo.

E come?

In tutti i modi possibili che la Costituzione ci consente, ora ci stiamo appellando a lui. Ho visto anche le dichiarazioni di Salvatore Borsellino e Maria Falcone: tutti stanno chiedendo a Draghi di prendere posizione e mandare via Durigon. Se così non sarà, come vittime di mafia siamo anche pronti a scendere in piazza davanti a Palazzo Chigi per chiederglielo. Bisogna sollecitare tutte le massime cariche dello Stato per fare qualcosa…

Quindi non solo il premier?

Dipende se farà qualcosa o meno. Se servirà ci rivolgeremo anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. D’altronde è lui che ha firmato l’atto di nomina di Durigon su proposta del presidente del Consiglio.

Cosa dovrebbe fare Mattarella?

Il presidente della Repubblica, che ho conosciuto, è fratello di Piersanti, ucciso barbaramente dalla mafia nel 1980: è molto sensibile a queste vicende. Per questo, se non interverrà Draghi, dovrà farlo lui, che di certo non può rimanere indifferente di fronte a un’uscita del genere: dovrà rimuoverlo perché indegno di occupare le istituzioni.

Però rimuovere Durigon sarebbe una mossa molto politica e quindi è improbabile che sia Draghi che Mattarella abbiano voglia di sporcarsi le mani…

Beh, però potrebbe essere uno degli ultimi atti con cui Mattarella potrebbe concludere in maniera perfetta il suo settennato al Quirinale. D’altronde sia Draghi che Mattarella sono i garanti della Costituzione secondo cui la nostra è una Repubblica antifascista.

Perché, secondo lei, Durigon ha fatto quella proposta?

Perché la Lega al centro-sud sta imbarcando di tutto e cercando di vellicare i peggiori istinti neofascisti. Quindi c’è anche un calcolo elettorale, a Latina, per recuperare qualche voto. Ma per il bene della democrazia non ci sono voti che tengono se non si rispetta la Costituzione.

Salvini spesso si erge a paladino della lotta antimafia.

Sono solo chiacchiere: la Lega negli ultimi anni è stata investita da tutta una serie di scandali, con la legalità non ha niente a che fare.

Tutta cene, voli e bodyguard. E per il Colle spera in Renzi

I bookmakers non la quotano ancora, ma lei ci crede. Maria Elisabetta Alberti Casellati intende giocarsela eccome per il soglio quirinalizio e ha fede: Dio, Patria e soprattutto Famiglia, la sua. E chi se ne importa se accusano i suoi gioielli, Ludovica e Alvise, di essersi fatti aiutare nella vita da mammà, prima donna presidente del Senato? Lei si duole per le critiche ma più che altro non si spiega perché non sia ancora un’icona nazionalpopolare, almeno come la Carrà. Per non sbagliare se la piglia con i portavoce che rottama uno via l’altro anche se, poveretti, loro responsabilità per la cattiva stampa proprio non ne hanno. Se non è amata è piuttosto colpa dei voli di Stato che ha usato come taxi durante l’emergenza Covid per far da spola con Padova, sua città natia. O per la storiaccia del vitalizio che le era stato prima negato per gli anni trascorsi al Csm, salvo vederselo, guarda un po’, assegnare quando invece era ascesa allo scranno più alto a Palazzo Madama. Ma non rinuncia a diventare dama di cuori, anche se finora nisba. La sua apparizione al bar dei dipendenti del Senato qualche mese dopo l’elezione, doveva esser gesto di vicinanza alle maestranze: fu la prima e l’ultima, ché non le sono andate giù le critiche per essersi presentata coi bodyguard al seguito, neppure temesse un attentato a Palazzo.

Non le è servitoneppure farsi paladina della causa femminile: “Le donne devono essere protagoniste della rinascita dopo esserlo stato della resistenza alla pandemia” ripete da qualche tempo. Epperò le sue parole non tirano l’applauso, neppure tra le colleghe senatrici che mantengono le distanze: alcune mancano persino visita alle cene periodiche che ha organizzato per fare spogliatoio a Palazzo Giustiniani. Perché? Non si fidano e in molte ancora le rinfacciano la difesa del Cav all’epoca di Ruby-nipote-di-Mubarak.

Il fatto è che risultano indigesti i modi da carabiniera che l’hanno consacrata nell’empireo forzista e che replica pure oggi dai banchi della Presidenza. “Non accetto lezioni da nessuno sulla conduzione dell’Aula”, “decido io”, “non accetto strumentalizzazioni” grida spesso brandendo la campanella d’ordinanza ché le intemperanze – e anche meno – la irritano a morte. Ma è un sentimento ricambiato: certe sue acrobazie sulla gestione del calendario dei lavori come per il ddl Zan hanno fatto venire l’orticaria a chi l’accusa di essere rimasta di parte. Come al tempo in cui, partigiana di Silvio, ci dava sotto con le leggi ad personam o picchettava l’ingresso di Palazzo di giustizia a Milano ritenuto il covo dei magistrati ostili a B.

Che resta la sua stella polare e un solido alleato per il futuro. Appena insediata alla guida del Senato il primo pensiero è stato proprio per lui che ne era stato “esiliato” nel 2013, causa condanna per frode fiscale. Lei invece lo ha invitato a cena a Palazzo accogliendolo come un re: “Questa, caro Silvio, resta casa tua”. Magari poter replicare l’invito anche una volta eletta al Colle se, come pare, Berlusconi non troverà nessuno o quasi a perorarne la causa. Matteo Salvini l’ha mollato dopo averlo illuso, Giorgia Meloni non lo può proprio vedere e invece potrebbe digerire lei: Queen Elisabeth presidente della Repubblica potrebbe allettare il centrodestra, ma anche Matteo Renzi che, si sa, ama sparigliare. Casellati lo stima e soprattutto lo ritiene capace di qualunque mandrakata: adoperandosi per lei conquisterebbe il ruolo di primo Queenmaker della storia. Ma soprattutto si farebbe guida di quella rete dei moderati che Denis Verdini, amico di Renzi e suocero di Salvini, aveva tentato di sublimare già nel 2016 con quel partito della Nazione poi mai nato.

Spera dunque Casellati nei buoni uffici del leader di Italia Viva, ma anche nel feeling che quest’ultimo ha con l’altro Matteo. Con il quale lei stessa coltiva eccellenti rapporti: è merito suo se l’affaire Metropol del tandem Salvini-Savoini non è mai sbarcato in aula per il dibattito richiesto a gran voce dal Pd nel 2019 e stroncato sul nascere da Sua Presidenza: “Il Senato non può essere il luogo del dibattito che riguarda pettegolezzi giornalistici”. Ancor di più è stato gradito il suo interventismo sul citato ddl Zan, prima con l’invito al rinvio (“non si dica che in questa Aula rinunciamo al dialogo per la differenza di una settimana”), poi con una riconvocazione rocambolesca della conferenza dei capigruppo quando era già all’ordine del giorno dell’aula: fatto sta che il disegno di legge alla fine è sparito dai radar. Con tante grazie dalla Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia ostili alle norme sull’omotransfobia. Ma pure da Renzi che sulla necessità di mediare con il centrodestra ha mandato in testa coda il segretario del Pd Enrico Letta.

Ovviamente Casellati s’è fatta anche molti nemici. In tante occasioni dai banchi M5S, Pd e LeU si sono levate proteste all’indirizzo di Sua Presidenza e delle sue decisioni inappellabili. Come quando ha stralciato emendamenti tabù per il centrodestra, tipo la regolamentazione della cannabis light o il trattenimento in servizio oltre l’età di pensione dei magistrati: giammai! Lei rivendica di essere super partes e tira dritto: il physique du rôle per il Colle crede di averlo con annessi carabinieri a due e a quattro ruote che le fanno strada ogni volta che esce da Palazzo. Per ora del Senato, domani chissà.

La disfatta di Schifani: respinto da Meloni resta forzista (e solo)

Ci ha provato ma è stato respinto. Passando in un attimo da ex presidente del Senato, con tanto di ufficio a Palazzo Giustiniani e posto d’onore alle celebrazioni ufficiali, a peone qualsiasi pronto a tutto per una ricandidatura nel 2023. Anche a costo di passare all’opposizione del governo Draghi e, soprattutto, di tradire quel Silvio Berlusconi che in un decennio, tra i Novanta e i Duemila, lo aveva fatto sbarcare a Roma dalla Sicilia e promosso capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, su su fino alla seconda carica dello Stato, ossia facendolo eleggere presidente del Senato.

E così, dopo aver già abbandonato Forza Italia una volta, passando con lo sfortunato Ncd di Angelino Alfano nel 2013, per poi fare ritorno a capo chino nel 2016, a inizio luglio Renato Schifani ha tentato il bis provando a entrare in Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni che secondo i sondaggi ormai supera il 20% e si candida a diventare la prima forza del centrodestra. Ma non c’è stato niente da fare: Giorgia Meloni gli ha fatto sapere, tramite i suoi emissari, che non era proprio il caso. Un conto è il senatore Lucio Malan, passato in FdI il 19 luglio, che studia i provvedimenti, lavora sui dossier ed è considerato un uomo macchina in Parlamento. Un altro è Schifani che, nella testa dei vertici di Fratelli d’Italia, è ormai considerato una cariatide della politica, emblema del berlusconismo che fu e non più in grado di portare “un valore aggiunto”. Che poi, in soldoni, sarebbero i voti. Schifani e Meloni, pur in buoni rapporti, non hanno mai parlato della questione. Il senatore forzista, da vecchia volpe democristiana, ci ha provato in maniera più furba, provando a tastare il terreno, anche per evitare l’umiliazione di un “no” secco da Meloni. E così ha chiesto informazioni, e magari un incontro con Giorgia, agli uomini più vicini alla leader di Fratelli d’Italia: prima a Ignazio La Russa, poi a Guido Crosetto, considerato l’eminenza grigia di Meloni nonostante non abbia ruoli ufficiali nel partito. Solo che lei ha fatto sapere che no, non era il caso. Pochi giorni dopo, Schifani ci ha provato anche con una mossa parlamentare: è stato l’unico di Forza Italia a non votare per il nuovo cda Rai da cui, grazie a un accordo Berlusconi-Salvini, è stato tagliato fuori proprio l’esponente di FdI Giampiero Rossi. Ma non c’è stato niente da fare.

Da diverse settimane Schifani si è chiuso in un pesantissimo silenzio, spia di un malessere perfino ostentato. “Io ormai non so più cosa dire…” va dicendo il consigliere politico di Berlusconi ai colleghi di Forza Italia che gli chiedono il motivo della sua “assenza”. All’ex presidente del Senato non è mai andato giù l’appiattimento di Berlusconi su Salvini – e in particolare l’idea del “partito unico” – ma anche la gestione di Forza Italia nella sua Sicilia dove il coordinatore Gianfranco Micciché ormai spadroneggia, flirtando con il leader della Lega in vista delle regionali del 2022. Solo che il disagio è dovuto anche a un motivo molto più semplice: Schifani, negli ultimi mesi, è stato allontanato sempre di più dalla corte di Berlusconi. Il telefono di Arcore non risponde più. Quindi a inizio estate ha capito che per lui non ci sarebbe stato più spazio dentro al partito e che quella in corso sarebbe stata la sua ultima legislatura, anche alla luce del taglio dei parlamentari che nel 2023 riporterà in Parlamento al massimo un quarto (circa 20) degli attuali deputati e senatori azzurri. E così Schifani ha provato la mossa disperata. Ripudiato.

Dai vertici di Fratelli d’Italia, però, spiegano che Schifani non è l’unico parlamentare di Forza Italia (ma anche dalla Lega) che nelle ultime settimane ha chiesto entrare: “Abbiamo la fila davanti alla porta” dice un big del partito. Tra Camera e Senato se ne contano almeno 10. Ma è probabile che nelle prossime settimane, dopo Malan, non ci sarà alcun cambio di casacca. Così è stato deciso, a inizio agosto, nel vertice a villa Certosa tra Meloni e Berlusconi. Niente sgarbi, almeno fino all’elezione del prossimo capo dello Stato. Poi si vedrà.

“Prima l’Italia”: Salvini propone a B. il “partitone”

L’obiettivo è agire il prima possibile con la “federazione del centrodestra” per pesare di più nel governo e stringere un asse (anche elettorale) che fermi l’ascesa di Giorgia Meloni. E poi, quando si andrà a votare, correre con una lista unica, come se fosse un unico partito, che ha già un nome e un simbolo: “Prima l’Italia”. Con queste intenzioni ieri sera poco prima delle 19 Matteo Salvini, accompagnato dalla fidanzata Francesca Verdini è entrato a villa Certosa, residenza sarda di Silvio Berlusconi. Durante il colloquio, i due hanno parlato della crisi in Afghanistan e dei referendum sulla giustizia di Lega e Radicali, sostenuti anche da Forza Italia. Ma l’argomento clou, su cui Berlusconi e Salvini avevano già iniziato a discutere ad Arcore il 20 giugno scorso, è stata la federazione del centrodestra e le prospettive in vista delle prossime elezioni amministrative e politiche.

Salvinivuole partire il prima possibile, forse già da metà settembre, con la federazione. “Una collaborazione più stringente” la definiscono i fedelissimi del segretario. Un primo passaggio sarà quello di unire i due gruppi parlamentari di Camera e Senato. Il leader della Lega infatti è convinto che un maggiore coordinamento, e quindi proposte di legge ed emendamenti comuni, possa dare più forza al centrodestra di governo contro i giallorosa: insieme Lega e FI avrebbero 210 deputati e 114 senatori. Una federazione parlamentare che prevederà dei portavoce – cosiddetti speaker – alternati tra Camera e Senato. In prima battuta sarebbero Riccardo Molinari della Lega alla Camera e Anna Maria Bernini di Forza Italia in Senato. Ma il leghista deve fare i conti con la freddezza dell’ala liberal di Forza Italia, rappresentata da Mara Carfagna e Mariastella Gelmini, che vede la federazione come la prima mossa verso “l’annessione” della Lega. Perplessità giunte all’orecchio di Berlusconi che infatti ieri sera le ha riferite a Salvini chiedendo qualche settimana per far “ingoiare” la cosa ai suoi. Inoltre c’è da superare lo scoglio di Giorgia Meloni che sta fieramente all’opposizione. E dunque niente federazione, al massimo un incontro a settimana con i capigruppo di Lega e FI.

Ma il leghista in testa ha l’obiettivo delle politiche. Vuole arrivarci con liste uniche anche nel caso si andasse a votare con una legge proporzionale. Il nuovo nome – “Prima l’Italia” – sarà sperimentato a Napoli con Catello Maresca e alle elezioni siciliane del 2022. Un partito unico che unirà Lega, FI e centristi. Per puntare a Palazzo Chigi tagliando fuori Giorgia Meloni.

Titoli-barzelletta, ma tutti scrivono che si negozierà

Quando poi si tratta della guerra sulla stampa nazionale si trova di tutto e soprattutto, immancabile, c’è la divisione tra l’emotività ricercata dei titoli in prima pagina, a volte veri sketch comici, e analisi più puntuali che vengono confinate all’interno e che spesso gli editorialisti di punta non leggono nemmeno.

Si prenda Libero, ad esempio, ieri sollazzatosi con un titolo-barzelletta: “Conte sta con i talebani” sorretto da un occhiello da cabaret: “L’avvocato dei tagliagole”. Eppure sullo stesso giornale, il giorno prima, si leggeva la seria analisi di Fausto Carioti sul “realismo politico” necessario per “trattare anche con il diavolo”: “Sedere al tavolo con il nemico a volte è necessario, la storia è piena di esempi”.

I titoli-barzelletta li fanno anche gli altri giornali di destra mentre Repubblica la barzelletta, “I democristiani con il kalashnikov”, la affida al corsivista Sebastiano Messina che, come spesso gli accade, tira in ballo, senza motivo, anche Il Fatto Quotidiano. Sull’altro quotidiano del gruppo Gedi, La Stampa, si leggono invece le analisi più sbilanciate in direzione della trattativa con i talebani. L’intervento dell’Alto commissario europeo per la politica estera, Josep Borrell, è addirittura il primo editoriale: “Non possiamo concedere a russi e cinesi di prendere il controllo della situazione e diventare i sostenitori di Kabul” scrive l’ex ministro spagnolo, ma “dobbiamo stabilire un contatto con chi detiene il potere a Kabul adesso. Dobbiamo parlare con loro”. Subito sotto, il caporedattore Esteri, Alberto Simoni, ribadisce il ruolo della “Realpolitik e della primacy degli interessi nazionali” e quindi l’Europa “non può stare in disparte, né limitarsi a soli slogan in difesa dei diritti calpestati. Deve essere protagonista e trattare persino con i talebani”.

Concetto ribadito sul Corriere della Sera dall’Alto commissario Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, che si spinge a sottolineare “per il momento, e sottolineo più volte per il momento, il pragmatismo dei nostri interlocutori tra i talebani (…) messaggi incoraggianti da valutare nelle prossime settimane”. “Poi aggiunge: “Non tutti i nostri interlocutori ci piacciono, ma sono quelli che abbiamo e dobbiamo lavorare con loro”.

Che le trattative siano all’ordine del giorno lo dimostra chiaramente Fabio Scuto in queste pagine, ma queste intese potrebbero avere anche delle parti segrete come segnala l’Avvenire a proposito dei patti di Doha che potrebbero avere “delle rassicurazioni sul fatto che Teheran non tragga beneficio” della presa dell’Afghanistan.

Su il manifesto, poi, Alberto Negri ricorda che “da tempo l’Occidente è amico dei peggiori talebani del mondo” mentre sempre sul “quotidiano comunista” si segnala anche l’analisi di Emanuele Giordana che nota come la politica si sia al momento dileguata lasciando il campo solo all’emergenza. Che però dovrà finire. E politica “significa anche dialogare con il nemico”. Trattare, negoziare, dialogare sono però “tre verbi che la società civile italiana ha sempre tentato inascoltata di coniugare sin dall’inizio della sciagurata campagna del 2001”. Mentre discutere del futuro dell’Afghanistan, garantire anche che i diritti acquisiti resistano, presuppone che la politica faccia il suo mestiere mentre invece gran parte degli ambasciatori è andata via.

Per l’Italia, assicurano dalla Farnesina, è rimasto chi in questo momento serve davvero con funzioni operative, vale a dire il giovane console Tommaso Claudi che sembra sia davvero molto capace. Ma in città si stanno già svolgendo incontri e trattative per la formazione del nuovo governo con altri ambasciatori che non si tirano indietro.

La parola “trattativa” dunque è centrale. Solo che trattare, negoziare è il contrario della guerra e quindi si capisce bene perché appena la parola “dialogo” viene rimessa al centro del dibattito si scateni un tiro al bersaglio irragionevole. Quello che spaventa è proprio che si ponga fine a una fase di guerre “democratiche”, “intelligenti”, “da esportazione” che hanno fatto felici guerrafondai di ogni specie. Oggi l’America vuole “fare nation-building a casa” come nota Federico Rampini su Repubblica anche se politici e giornalisti con l’elmetto non riescono a farsene una ragione.

Quarant’anni di trattative coi “tagliagole”

Il riconoscimento di un’autorità rivoluzionaria non è mai una questione semplice. Dopo che i bolscevichi presero il potere in Russia nel 1917, ci vollero anni prima che l’Unione Sovietica fosse riconosciuta dalle nazioni occidentali. Gli Stati Uniti negarono il riconoscimento fino al 1933. Una domanda simile si pone ora a Kabul. Ma il periodo buio che attende l’Afghanistan sotto il dominio talebano non esclude la possibilità di costruire relazioni di livello internazionale, quelle che darebbero legittimità ai talebani ma forse contribuirebbero ad attutire il previsto colpo di frusta sulla società civile afghana.

I Paesi occidentali stanno tenendo duro o almeno fingono di farlo, perché certamente non si può lasciare il predominio di Cina e Russia – ben posizionate con i nuovi talebani a Kabul – in una regione così strategica. Dovrebbe prevalere una “realpolitik” – il capo degli Esteri della Ue Josep Borrell ha già dichiarato: “Sono loro che hanno vinto la guerra e con loro dobbiamo parlare” –. Alla Casa Bianca di Joe Biden forse è presto per parlarne – brucia ancora la ritirata stile Saigon da Kabul – ma potrebbe essere inevitabile. L’America ha le mani in pasta in Afghanistan da oltre 40 anni e non sarebbe certo la prima volta che “cambia” cavallo.

 

1979-1982

Gruppi di guerriglieri noti come mujahiddin organizzano un’opposizione e un jihad contro le forze d’invasione sovietiche. Gli Usa attraverso l’Arabia Saudita iniziano segretamente a incanalare armi ai mujaheddin dal Pakistan.

 

1983-1986

Il presidente Ronald Reagan accoglie i combattenti afghani alla Casa Bianca nel 1983 e il leader dei mujahiddin Yunus Khalis visita lo Studio Ovale nel 1987. La Cia, fornendo i missili antiaerei Stinger ai mujaheddin, cambia le sorti della guerra, permettendo loro di abbattere gli elicotteri da combattimento sovietici.

 

1988-1993

Gli accordi di pace di Ginevra sono firmati da Afghanistan, Unione Sovietica, Stati Uniti e Pakistan, e le forze sovietiche iniziano il loro ritiro il 15 febbraio 1989. L’Afghanistan precipita nel caos con i signori della guerra (e della droga) che si combattono senza tregua.

 

1994

I talebani, studenti-guerrieri afghani ultraconservatori che emergono da gruppi di mujahiddin e seminari religiosi in Pakistan e Afghanistan, prendono il controllo di Kandahar, promettendo di ristabilire l’ordine e portare maggiore sicurezza. Impongono rapidamente la loro dura interpretazione dell’Islam sul territorio che controllano.

 

1996

I talebani conquistano Kabul. Solo tre Paesi riconoscono ufficialmente il regime: Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

 

1997

Appena un anno dopo però il gigante petrolifero statunitense Unocal ospita una delegazione di leader talebani, tra cui l’ex ministro degli Esteri Mullah Mohammad Gaus, negli uffici della compagnia a Houston, in Texas. Lo scopo della visita della delegazione – in cui hanno ricevuto un trattamento regale, incluso un viaggio vacanza al Monte Rushmore – era quello di firmare un accordo per costruire un gasdotto che sarebbe andato dal Turkmenistan attraverso l’Afghanistan fino al Pakistan e India. Per i talebani sul piatto 100 milioni di dollari l’anno.

 

2001

L’Alleanza del Nord, appoggiata dagli Stati Uniti, entra a Kabul il 13 novembre. I talebani fuggono a sud e il loro regime viene rovesciato. Dopo l’invasione americana dell’Afghanistan nel 2001, le autorità d’occupazione Usa nominano presidente Hamid Karzai, carica che ha ricoperto fino al 2014. Karzai è un membro della tribù Popalzai, la stessa tribù di Abdul Ghani Baradar, un tempo vice del mullah Omar (una celebre foto li ritrae insieme mentre stanno fuggendo in motocicletta) e ora leader dei nuovi talebani. Baradar venne catturato nel 2010 dagli americani e liberato nel 2018 per ordine di Donald Trump per portarlo al tavolo dei negoziati a Doha che gli Usa hanno tenuto con la leadership talebana nel 2020. È quasi impossibile tracciare le linee che separavano il governo corrotto di Karzai dai talebani, ma allo stesso tempo quei legami potrebbero aiutare oggi gli Stati Uniti a trovare canali per arrivare ai nuovi signori di Kabul. Perché ci sono in gioco immensi interessi economici. Gli Usa non solo hanno continuato a portare avanti l’idea del gasdotto dal Turkmenistan, ma l’hanno trasformata in un progetto di punta nel 2014 che potrebbe generare enormi profitti per l’Afghanistan, il Turkmenistan e le società americane che avrebbero dovuto costruirlo. Ancora più importante, il progetto è un modo per aggirare la pipeline degli ayatollah iraniani. I Paesi attraverso i quali dovrebbe passare – Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India – hanno firmato un accordo per costruire la pipeline a un costo stimato di 7,5 miliardi di dollari. La costruzione è iniziata nel 2015 e, sebbene gli Stati Uniti non siano partner nel finanziamento o nella costruzione, vedono il suo completamento come una mossa che potrebbe aiutare a riabilitare l’Afghanistan.

 

2013

L’Amministrazione Obama annuncia l’intenzione di avviare colloqui formali di pace con i talebani.

 

2020

Dopo due anni di trattative Stati Uniti e talebani firmano un accordo di pace a Doha, in Qatar, il 29 febbraio. È qui che i talebani acquisiscono la loro legittimità, quando sono riconosciuti dalla Casa Bianca di Donald Trump come partner nei colloqui diplomatici sul futuro dell’Afghanistan. La firma di quell’accordo – che prevedeva la liberazione di 5.000 talebani detenuti e la fine degli attacchi alle forze Usa in cambio del ritiro – è di fatto un certificato di legittimità.

Gli Stati Uniti non sono l’unica potenza che ha mantenuto canali aperti con il “nemico” talebano. Russia e Cina (che condivide con l’Afghanistan un delicato confine di 45 chilometri) quest’anno hanno ospitato rappresentanti del movimento e hanno tenuto e stanno tenendo – a Mosca, a Pechino e Kabul – colloqui sulla costruzione e il rafforzamento dei legami economici. Arabia Saudita, India, Pakistan ed Emirati Arabi Uniti hanno aiutato – economicamente e militarmente – i talebani nel corso di questi anni e ora sperano di raccogliere i frutti dei loro investimenti.