Le “sognatrici”: il team di robotica tradito dalle promesse Usa

In una foto di quattro anni fa che le ritraeva intente in una gara internazionale a Washington, le ragazzine del team femminile afghano di robotica portavano sul capo solo un leggero velo bianco e sul volto l’orgoglio di poter competere alla pari con le future scienziate di Intelligenza artificiale dei paesi più avanzati del mondo. La sede di quella gara si trovava a pochi isolati dalla Casa Bianca, allora abitata da Donald Trump. Ironia – tragica – della sorte si deve proprio al tycoon che ha di fatto riportato i talebani al potere, decidendo di aprire i negoziati per il ritiro americano dall’Afghanistan, la partecipazione delle giovani informatiche a questo importante appuntamento. Fu The Donald infatti a ordinare la concessione dei visti d’ingresso. Questo episodio è lo specchio della schizofrenia americana e, al contempo, quello della condizione femminile afghana. A guardare quegli sguardi curiosi e fiduciosi in un futuro migliore si prova allo stesso tempo rabbia e commozione.

La maggior parte delle componenti del “team delle afghane sognatrici” (il nome ufficiale) è nata dopo che i talebani vennero cacciati dal potere nel 2001. Per questo i loro successi sono tra i simboli più fulgidi di quello che è stato per vent’anni il nuovo Afghanistan dove le bambine potevano andare a scuola e le donne avevano l’opportunità di emanciparsi attraverso il lavoro. Possibilità che durante il governo degli “studenti coranici” erano state loro negate. Con il ritorno dei talebani, le “sognatrici” che durante la prima ondata di Covid avevano contribuito a salvare molte vite costruendo dei ventilatori per le poche terapie intensive del paese riciclando dei pezzi di automobile, non potranno più continuare le proprie ricerche. Ne è certa Kimberly Motley, un’avvocata statunitense che le rappresenta da anni ed è ancora in contatto con alcune di loro. Roya Mahboob, imprenditrice tecnologica afghana che ha contribuito a formare la squadra di robotica ha rivelato che solo alcune delle ragazze sono riuscite a ottenere rifugio in Qatar. Il team, nato nel 2016, era formato inizialmente da una dozzina di ragazze adolescenti ed era basato nella città occidentale di Herat dove Mahboob dirigeva il Digital Citizen Fund (un ente per promuovere l’alfabetizzazione digitale dei cittadini). La squadra delle “cervellone” nel corso del tempo è cresciuta fino a contare 20 studentesse. Nella gara indetta nella capitale americana, il gruppo aveva ottenuto il premio per il “risultato coraggioso”. Somaya Farooqi, capitano della squadra di robotica, aveva commentato: “Quel premio è stato il risultato del nostro duro lavoro. E ci ha spinto a lavorare ancora di più”, Secondo l’avvocata Motley che lavora in Afghanistan dal 2008, l’amministrazione Biden doveva sapere che il ritiro americano avrebbe avuto un impatto dannoso sulle ragazze afghane. “Siamo andati lì e abbiamo venduto loro un sogno di democrazia e libertà. Grazie a questo, milioni e milioni di bambine sono state istruite.

Quando il presidente Biden accusa i soldati afghani di non aver combattuto, non considera che si può creare una resistenza e metterla in pratica anche attraverso la realizzazione di un team di ricercatrici adolescenti nell’ambito più promettente degli anni a venire, cioè l’intelligenza artificiale. È un altro modo per aiutare le donne afghane e il paese in generale a progredire”, sottolinea l’avvocata americana. Motley riceve ogni giorno telefonate disperate e angosciate non solo delle aspiranti scienziate ma anche di molte donne che si sentono già schiacciate, se non in pericolo di morte.

“Da donna mi rivolgo ai mullah: o cambiano o faremo opposizione”

Cina, Pakistan e Russia sono i Paesi che influiranno sull’evoluzione della tragedia afghana. Lo dice da Kabul Fawzia Koofi, prima vice presidente donna dell’Assemblea nazionale del governo che non esiste più. Koofi ha partecipato ai negoziati di pace tenutisi con i talebani a Doha, in Qatar, fino a qualche settimana fa.

Una parte degli afghani ha vissuto come un tradimento il ritiro americano.

Non hanno nemmeno aspettato l’esito dei negoziati di Doha, ma ogni interrogativo sul loro ritiro va posto a loro. Se fosse stato ritardato, avremmo potuto raggiungere un accordo politico prima che crollasse tutto così. Adesso è un incubo.

Con gli Usa lontani, sembra che nuove potenze bilancino ora gli equilibri afghani.

La politica attuale e le sue dinamiche sono cambiate: cinesi, pachistani e russi hanno mantenuto le ambasciate aperte. I talebani, violando le sanzioni dell’Onu su viaggi e spostamenti, sono andati in Russia, Cina, Iran, Asia centrale per rafforzare il loro capitale politico e manterranno queste relazioni. Questi sono i Paesi che influenzeranno la situazione. Alla base aerea di Bagram, fino a pochi mesi fa, sventolava la bandiera americana: quale sarà la prossima?

Lei non è scappata come il presidente Ashraf Ghani.

Io rimarrò in Afghanistan per quanto a lungo ci riuscirò e, se me ne andrò, sarà solo per qualche giorno. Per le donne che fanno politica però lo spazio si sta riducendo: vedo quanti incontri tengono gli islamisti con esponenti del precedente governo. Quelli che sono rimasti a Kabul seguono i passi dei talebani, organizzano riunioni senza chiamare neppure una donna. Ma le ragazze non smettono di lottare e resistere. Appaiono nei tg e sui social media. Ma qui stiamo tutti aspettando di vedere come evolve la situazione.

A che punto è la formazione del nuovo governo?

Il precedente ormai si è dissolto ma il nuovo non è stato formato. I talebani hanno preso il controllo militarmente e per le strade di Kabul non si vedono che loro, sulle auto con pistole e armi. Per molte persone il tracollo delle istituzioni è terrificante, molte cose sono collassate, servizi umanitari, sanitari e municipali compresi. Ci sono file ai cancelli delle ambasciate straniere, si chiedono i visti per andare via, specialmente donne e giovani sono scettici sul futuro.

Cosa rimane delle autorità ufficiali di Kabul?

Sulla transizione dei poteri tutto è incerto e non posso dichiarare niente. Ma l’unico governo di cui riesco a immaginare la durata è quello di una coalizione di “fratelli”, basato sulla democrazia e l’inclusione femminile. Le persone devono avere due cose: voce e scelta. Se ci sarà un governo dove le persone non possono partecipare e tutto sarà basato sulle decisioni di un gruppo ristretto, sarà difficile che i cittadini lo accettino. Di certo gli afghani non accetteranno il ritorno dell’Emirato vecchio stampo. I talebani devono capire che l’Afghanistan è cambiato. Le donne che stanno protestando per i loro diritti per strada sono già simbolo della trasformazione del Paese, che non può più essere marginalizzato: i talebani devono rapportarsi a questi cambiamenti, se vogliono vivere in pace col mondo e con gli afghani.

I miliziani hanno più volte fatto dichiarazioni su “un’apertura all’opposizione”.

Non mi fido dei talebani e, in ogni caso, l’opposizione politica non viene decisa da un’autorità. Posso dire questo: si deve trovare un punto d’incontro tra i mullah e gli attivisti e i politici che hanno lavorato per il Paese: se non vi saranno partecipazione, elezioni, rispetto delle donne e diritti umani, i cittadini si opporranno. Ed è già nata un’opposizione militare.

A nord della Capitale, nella valle del Panjshir, l’ex presidente Amrullah Saleh, dichiaratosi presidente ad interim dopo la fuga di Ghani, ed Ahmad Masud, figlio del “leone del Panjshir”, hanno iniziato la resistenza dell’Alleanza del Nord. Joseph Borrell, Alto rappresentante dell’Unione europea, invece ha dichiarato che “bisogna stabilire un contatto con chi detiene il potere a Kabul adesso”. Ciò che sembra più di tutto temere l’Occidente è l’ondata migratoria.

Non credo che l’unico problema siano i migranti. Ci sono più di 35 milioni di afghani e non scapperanno via tutti. Il dialogo è sempre importante: io da tre anni parlo con i talebani ai negoziati, dobbiamo fargli cambiare idea, visione, prospettiva. L’Afghanistan non vivrà nel modo in cui vogliono loro, si ottiene armonia e pace solo con un governo che ha basi democratiche. Armi e pistole non servono a prendere decisioni corrette: solo il confronto ci può aiutare.

La Merkel chiede aiuto a Putin: parlare con Kabul. Nato: governo “inclusivo”

Episodi di violenza in Afghanistan, dove i talebani uccidono un familiare di un giornalista locale, cui danno la caccia, della Deutsche Welle. Un fotografo del Los Angeles Times riferisce d’essere stato malmenato da un miliziano, prima di essere ‘salvato’ da un altro, che parlava inglese. L’epicentro della tensione a Kabul resta localizzato intorno all’aeroporto internazionale, da dove continuano a decollare i ‘voli della libertà’. Il resto della città è relativamente calmo: il mercato è aperto ma ci sono pochi avventori, la gente resta in casa, le raffiche di mitra sono sporadiche. Giungono notizie di proteste da diverse città, per sedare le quali i talebani avrebbero percosso manifestanti e fatto uso delle armi: sono tutte informazioni non verificabili in modo indipendente.

In una moschea di Kabul – ieri era giornata di preghiera –, secondo fonti Talib “centinaia di persone hanno giurato fedeltà ai talebani” e una “folla plaudente ha salutato Khalil Haqqani”, un ricercato sul cui capo pende una taglia Usa da cinque milioni di dollari. Fronte Europa. La cancelliera tedesca Angela Merkel era ieri a Mosca dal presidente russo Vladimir Putin, cui chiede di esercitare tutta la sua influenza sul nuovo regime. “I talebani – dice Putin – ora controllano il Paese … Dobbiamo evitare la distruzione dello Stato … Noi conosciamo molto bene l’Afghanistan, sappiamo quanto controproducente sia imporvi modelli stranieri, non ha mai successo … Non si può esportare la democrazia”. Merkel sostiene che “bisogna parlare con i Talebani per le evacuazioni degli afghani, e spero che il Paese non sia più in futuro una minaccia internazionale”.

Alla Nato, c’è stata una riunione virtuale del Consiglio atlantico, a livello di ministri degli Esteri: sono emerse le priorità di uno stop alle violenze e della formazione di un governo “inclusivo”, dell’evacuazione del personale alleato e delle loro famiglie. Per ora, l’Alleanza decide di bloccare ogni sostegno alle autorità afghane e ribadisce l’impegno a combattere il terrorismo, che il ministro italiano Luigi Di Maio vede a rischio d’espansione. Di Maio annuncia un imminente G20 e sollecita a coordinare l’azione (anche con la Cina) e a tutelare i diritti delle donne e delle minoranze. Proprio su questo tema Amnesty segnala che i talebani hanno “massacrato” e torturato, oltre un mese fa, almeno nove hazari, il terzo maggiore gruppo etnico del Paese, nella provincia di Ghazni. Nel Panshir, invece, dove, ad Anabah, c’è un presidio di Emergency, i talebani non sarebbero ancora entrati: secondo l’ex ministro della Difesa Bismillah Khan Mohammadi, “le forze della resistenza” hanno anzi riconquistato tre località. Il Programma alimentare mondiale, un’agenzia dell’Onu, vede il rischio d’una tragedia umanitaria: un afghano su tre sarebbe a rischio di morire di fame.

Per Emergency, la folla che si accalca all’aeroporto nella speranza di salire su un volo è di circa 10 mila persone: di lì vengono tutti i feriti portati all’ospedale dell’organizzazione umanitaria. I militari – s’ignora di che nazionalità – avrebbero sparato in aria e usato lacrimogeni per contenere la folla. Fonti britanniche riferiscono che i talebani usano più la burocrazia ai posti di blocco che la violenza per rallentare l’esodo, forse per controllare che non vi siano fra chi fugge persone di loro interesse. La Casa Bianca calcola che siano già state evacuate oltre 9.000 persone, ma che ne restino 80 mila. Fra i voli di ieri, un quarto verso l’Italia con 103 a bordo, un secondo verso la Spagna. Drammi, ma anche storie a lieto fine: Mohammad Khalid Waedak, poliziotto afghano di alto profilo, è in salvo con tutta la sua famiglia.

Sul fronte politico, i talebani lavorano alla formazione di un governo “inclusivo”, come chiedono anche i principali referenti del nuovo regime, Cina e Russia. Tolo News cita un alto responsabile, secondo cui il nuovo esecutivo “includerà tutti gli afghani”: “Stiamo vagliando le figure politiche tra quelle disponibili”. Gli Stati Uniti sempre in difficoltà, la vice di Biden, Kamala Harris, verso l’Asia per ricucire i rapporti con gli alleati. Il collasso afghano crea dubbi, scrive il Washington Post, sul ruolo degli Usa nel mondo e, nel contempo, ne mette a nudo, scrive il New York Times, “la perdurante arroganza”.

Taleballe

Il Cretino Collettivo che discetta di tutto lo scibile umano – dai vaccini al green pass, dalla giustizia al Reddito – con la stessa enciclopedica incompetenza, ha traslocato armi e bagagli a Kabul senza muoversi dal divano o dalla sdraio né accettare alcuni dati di fatto. 1) La guerra l’hanno vinta i Talebani e l’hanno perduta gli Usa e i loro reggicoda, Italia inclusa. 2) Gli Usa si sono ritirati non perché Trump era sovranista e Biden è un vecchio rinco, ma perché han perso. 3) Quando finisce una guerra, comandano i vincitori, non gli sconfitti, quindi a Kabul comandano i Talebani (che fra l’altro sono afghani), non gli occidentali (che fra l’altro non lo sono). 4) I vincitori di solito non piacciono agli sconfitti, perché sono il nemico. Ma è fra nemici che si tratta, non fra amici. Gli sconfitti non possono scegliersi i vincitori preferiti: devono tenersi quelli che hanno, farsene una ragione e decidere se trattarci o meno. Se non trattano, i vincitori fanno come gli pare; se trattano, può darsi che i vincitori li ascoltino, ma solo se gli conviene (in cambio di aiuti o per paura di ritorsioni). 5) I talebani si son travestiti da dialoganti (“fanno i democristiani”, diceva il nostro titolo ironico su un fatto decisivo, notato da tutti gli osservatori) per mettersi all’asta nelle trattative. E con loro già trattano i russi e i cinesi (avvantaggiati dal fatto di non averli mai attaccati). Chi, in Europa, piagnucola perché Pechino e/o Mosca si pappano Kabul dovrebbe fare qualcosa di più astuto che tenere il broncio ai talebani: tipo smarcarsi dagli Usa, che ci hanno bellamente scaricati (Biden non cita mai Ue e Nato), e offrire loro qualcosa in cambio di corridoi umanitari e politiche meno efferate di 20 anni fa.

6) Coi talebani gli Usa trattano da sempre: Reagan per foraggiarli contro l’Urss, Clinton per farsi consegnare Bin Laden dopo i primi attentati di al Qaeda, Obama a guerra ormai persa, Trump per siglare l’accordo di Doha sul ritiro Usa, ora militari e diplomatici rimasti per l’esodo dei collaborazionisti (nessuno parte senza l’ok dei talebani). 7) Chi vuole sperare in corridoi umanitari e in un regime meno feroce e sessista deve parlare coi talebani, almeno fingere di credere alle loro aperture e metterli alla prova. L’han detto Borrell della Ue (“Ue obbligata a dialogare coi talebani”), Grandi dell’Unhcr (“Per ora i talebani mostrano pragmatismo, ma se non trattiamo non potremo mai accertarlo né ottenerlo”) e i ministri del G7. Ma appena lo dice Conte, i giornali di destra gli danno dell’“avvocato dei tagliagole” (Libero) col “fascino del kalashnikov” (Repubblica). In attesa del primo videomessaggio del Mullah Giuseppi dalla caverna con la pochette a tre punte sulla bandiera nera di al Qaeda, qualcuno chiami l’ambulanza.

Nuova vita ai Trabucchi: dai Fenici a D’Annunzio con i giganti del mare

Bizzarre sagome al vento, linee sottilissime che sconfinano nell’orizzonte. C’è della poesia nelle geometrie tanto essenziali quanto eloquenti dei trabocchi, le antiche macchine da pesca in legno ancorate alla roccia e protese verso il mare aperto. Hanno un secolo, due o forse millenni. Ci sono storici che ne attribuiscono l’invenzione ai Fenici. Le differenze via via che si percorre il basso Adriatico, dall’Abruzzo al Gargano passando per il Molise, sono percepibili e per le fattezze e per i nomi: si chiamano trabocchi per gli abruzzesi, le cui strutture sono più piccole e dotate di lunghe passerelle sul mare; trabucchi per i foggiani dove invece sono più grandi e fissati agli scogli. Detentori di antiche memorie e tradizioni, sono ancora diffusi nella provincia di Chieti, da Ortona a Vasto, a Termoli e sul Gargano, a Peschici e Vieste. Molti di questi “giganti del mare”, però, non sono stati risparmiati dalla mercificazione. In alcuni casi lussuosissimi ristoranti hanno spodestato la tradizione marittima. Tuttavia c’è chi prova a rimetterli a nuovo per farli rivivere. Lungo i 42 chilometri della Costa dei Trabocchi, in Abruzzo, c’è Rinaldo Verì che ne ha salvati – talvolta dovendoli letteralmente ricostruire – ben 32. Anche in Puglia si è puntato alla “Rinascita dei trabucchi storici”. È questo il nome della onlus di Vieste (Foggia), presieduta da Matteo Silvestri e Gianni Spalato, che dal 2012 ha avviato il ripristino di 5 strutture lignee; ne restano altre 5 da restaurare. Giovani e anziani – mastri trabuccolanti per la precisione – hanno tirato su un’accademia allo scopo di tramandare i saperi e preservare questi gioielli, consentendo ai turisti di vivere l’esperienza della pesca da avvistamento, che va a buon fine solo quando i banchi di pesci si avvicinano all’enorme rete. “Proteso dagli scogli, simile ad un mostro in agguato, con i suoi cento arti, il trabocco aveva un aspetto formidabile – scrisse D’Annunzio nel 1894 – la lunga e pertinace lotta contro la furia e l’insidia del flutto pareva scritta su la gran carcassa”. Questi “anfibi antidiluviani” – come li definiva lui – finirono nel ‘64 al MoMa di New York, quando Bernard Rudofsky allestì una mostra sulla “architettura vernacolare”. L’immagine del Trabucco di Punta della Torre di Vieste venne esposta accanto a quella di una struttura di pesca in bamboo scattata in Congo. Sono costruzioni primitive, essenziali, eppure capaci di esercitare ancora un fascino ancestrale.

 

Sesso, droga e festini: quando Helmut Berger mi ha morso la mano

Dannato. Pericoloso. Bello come pochi. Osannato. Ricercato. Ambito. Utilizzato. Talmente altro da diventare un trofeo. Forse anche un po’ stupido. Helmut Berger è stato la reale star, talmente star da ricoprire tutti gli stereotipi del mondo dello spettacolo. Sesso, droga, feste e sbronze rientravano nella sua vita quotidiana, e io lo ritrovavo ovunque, il flusso della vita mi portava da lui e lui non si sottraeva.

Spesso neanche se ne accorgeva.

Solo una volta mi venne addosso: all’uscita da un locale romano mi vede, dice qualcosa di incomprensibile alla donna che era con lui, quindi barcollante si avvicina e addenta la mia mano. Un po’ all’Alberto Sordi gli urlo: “Che stai a fa’?”. Sto per colpirlo e invece mi guarda, si calma e inizia a leccarmi il dorso.

Non stava bene. Non ho mai visto nessuno posseduto da una tale capacità autodistruttiva: l’ho beccato mentre si fumava gli spinelli con la donna di Mick Jagger, poi diventata la signora Murdoch; l’ho pizzicato con tutta la nobiltà capitolina in festini strani; oppure in vacanza in Sardegna nei panni del pagliaccio, con il culo a mo’ di gallina, mentre le donne dell’alta borghesia si fingevano libere e mostravano le tette.

Povere donne.

In tante, troppe hanno giocato a sedurlo, lui in qualche modo ci stava, ma sempre fino a certi limiti: in realtà la realtà femminile gli interessava poco, era pur sempre legato alla sfera di Visconti. Fino a quando il regista si stufò di certi atteggiamenti. Ed Helmut la pagò cara, nel senso pratico: nel 1974, per i suoi trent’anni, organizzò una festa al solito Jackie O’ di Roma. Dieci milioni di lire il conto finale, con un enorme “però” di sottofondo: Helmut non aveva più una lira e il proprietario del locale lo capì troppo tardi. Per fortuna del “povero” Berger vari avventori lo fermarono mentre tentava di agguantarlo per picchiarlo.

Lettera del ‘48 su Sciascia: “Sì, ha passato il concorso”

La lettera porta la data del 12 ottobre 1948. Un funzionario del Provveditorato agli Studi di Agrigento, Vincenzo Lala, scrive all’onorevole Pietro Sapienza, deputato regionale eletto nelle liste dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini alle prime elezioni del 1947, assessore supplente all’Istruzione nella prima giunta siciliana di Giuseppe Alessi.

L’assessore sette giorni prima aveva chiesto lumi sul concorso sostenuto dall’allora 27enne Leonardo Sciascia.

“Con riferimento alla Sua del 5 u.s. Le comunico – scrive il funzionario al politico – che l’insegnante Sciascia Leonardo (e non Leonarda) di Pasquale, candidato al Concorso magistrale B.6 ha riportato punti 37,5/50”, seguono ossequi.

La lettera è una fotografia inedita del momento che ha cambiato la vita di Sciascia. Nato nel gennaio del 1921, a venti anni aveva vinto un posto al Consorzio Agrario di Racalmuto come addetto all’ammasso del grano, un impiego inadeguato per un uomo di lettere.

Nel 1944 aveva sposato Maria Andronico, insegnante fuori sede alla scuola di Racalmuto. Quando partecipa al concorso Sciascia è già padre di due figlie. Le due zie fondamentali nella sua formazione sono insegnanti come la moglie.

Dopo aver tentato la via universitaria senza successo (una bocciatura in lettere e un 18 in filosofia) Sciascia punta insieme alla sorella sul concorso magistrale accessibile anche ai non laureati.

Perché il deputato regionale, ‘qualunquista’ e poi missino, Pietro Sapienza si interessa all’esito del suo concorso? Mistero. Nell’archivio del politico infatti non c’è traccia di nessuna richiesta di interessamento da parte di Sciascia.

Anzi la specifica del funzionario Lala (il candidato Sciascia non è ‘Leonarda’ ma ‘Leonardo’) fa pensare che Sapienza non conoscesse lo scrittore. Originario di Castelbuono (paese delle Madonie lontano 150 km da Racalmuto) dove tutti lo ricordano con stima e rispetto anche a sinistra, Sapienza aveva ricoperto il ruolo di direttore didattico a Palermo. Eletto nel 1947 nelle liste del Movimento fondato da Guglielmo Giannini (che raccolse in Sicilia l’1,5 per cento dopo il 5,3 per cento nazionale) Sapienza passò poi al Movimento Sociale Italiano e fu eletto più volte in Consiglio comunale fino alla sua morte nel 1971.

Magari l’onorevole (lontano anni luce da Sciascia a parte l’unica coincidenza che entrambi votarono per la monarchia) si sarà mosso per comunicare l’esito a un familiare ansioso di sapere se Leonardo sarebbe divenuto un maestro.

La famiglia Sciascia stava attraversando un momento difficile. Il 5 maggio 1948 il fratello di Leonardo, Giuseppe Sciascia, si uccide con la rivoltella del padre nella miniera di zolfo dove entrambi lavoravano come impiegati. Appena 20 giorni dopo quello sparo Leonardo sostiene la prova scritta.

La lettera comunica il risultato finale pari a un voto di 7 e mezzo su 10. Abbastanza per passare. Così Sciascia il 12 ottobre del 1949 entra come maestro nell’Istituto Magistrale di Racalmuto dove era stato studente. Sarà insegnante per 8 anni fino al 1957.

La lettera è stata scovata per caso da un giovane storico-giornalista: Giuseppe Spallino. Nativo di Castelbuono, laureato con il professore Salvatore Lupo a Palermo con una tesi sul sindaco Nicolò Turrisi Colonna. Dopo il dottorato a Padova, Spallino insegna alle magistrali, come Sciascia. Giornalista per passione però collabora anche con il Giornale di Sicilia. I figli di Sapienza gli hanno chiesto di dare un’occhiata alle carte del padre e lui ha tirato fuori la missiva.

Chissà cosa ne direbbe Sciascia. Nel 1986 su L’Espresso scrisse una nota divertita dedicata alla raccomandazione in Sicilia dal titolo “Mi manda Manzoni”. Lo spunto era proprio un carteggio sul quale annotava divertito: “il fatto che tra le 1.816 lettere di Manzoni, pubblicate per cura di Cesare Arieti, delle due che vagamente hanno a che fare con la Sicilia – la prima indirizzata a Palermo a un personaggio autorevole, la seconda a un ministro siciliano – una sia di raccomandazione nei modi tuttora correnti, l’altra di smentita a una raccomandazione”.

Nella lettera però non c’è nessuna traccia di raccomandazione. E comunque ci sia permessa una riflessione ipotetica: senza quel concorso Sciascia non sarebbe diventato il maestro di Racalmuto, non avrebbe scritto nel 1954 le sue ‘Cronache Scolastiche’ sull’esperienza vissuta. Italo Calvino non le avrebbe apprezzate e Nuovi Argomenti non le avrebbe pubblicate nel primo numero del 1955. Vito Laterza non le avrebbe lette e non avrebbe chiesto a Sciascia di scrivere la sua prima opera Le parrocchie di Regalpetra.

Se anche Sapienza avesse ‘raccomandato’ Sciascia (e non lo ha fatto) sarebbe un benemerito.

“Forza Italia non mi perdona i porno, sono come Giovanna d’Arco”

Grosso scandalo in DeLuchistan: i socialisti del Nuovo Psi hanno scelto di mettere in lista l’ex pornostar Tina Ciaco, in arte Priscilla Salerno, a sostegno di Michele Sarno, il candidato sindaco del centrodestra alle elezioni di ottobre. Poi però i dirigenti locali di Forza Italia sono insorti contro l’attrice hard e ieri Sarno ha annunciato la cacciata di Priscilla dalla coalizione. Lei non si dà pace: “Il Psi è tutto con me, se non mi candidano ritiriamo la lista”.

Signora Salerno, vittima dei moralisti.

Fanno veramente schifo. Sono ambasciatrice contro la violenza sulle donne, ho aiutato a scrivere la legge sul revenge porn, ho collaborato con avvocati, magistrati, associazioni; ho fatto lezioni di educazione civica nelle scuole…

Quando ha scoperto la vocazione politica?

Ce l’ho sempre avuta dentro. E sempre per il centrodestra.

Certe polemiche nel partito di Berlusconi… fanno specie.

Ho appena scritto una lettera al Presidente, sono sicura che mi darà una mano.

Lui ha una sensibilità particolare sull’argomento.

Ha una mentalità aperta, è un imprenditore come me.

Lei non recita più?

No. Ho aperto una casa di produzione a Miami, dove ho vissuto negli ultimi 9 anni.

Allora che ne sa di Salerno?

Sono tornata spesso qui. Credo di essere molto più qualificata dei politici marci che girano ora, trasformisti e voltagabbana.

D’accordo, ma per Salerno cosa farebbe?

Posso occuparmi di Turismo, parlo tre lingue. Negli Usa mi hanno riconosciuto un visto per “extraordinary ability” nell’intrattenimento. Qui c’è un solo festival, “Luci d’artista”, per il resto è un mortorio. E siamo indietro nell’urbanistica.

Mannaggia ai moralisti.

Mi sento come Giovanna d’Arco sul rogo. Che ho fatto di male? Non ho niente di cui vergognarmi.

Catania, per ore sotto il sole: muore 14enne disabile

È stato sottoposto “all’esposizione prolungata ai raggi solari per un notevole lasso di tempo”. Tradotte, le parole del medico legale suonano così: è stato lasciato sotto il solleone per ore. Un tempo sufficiente a uccidere un 14enne disabile. Per la sua morte la Procura di Caltagirone ha chiesto e ottenuto il fermo della madre, una 45enne disoccupata. Che ora è indagata per abbandono aggravato di minore.

A Grammichele, paesino della Piana di Catania, in quei giorni la colonnina di mercurio aveva superato i 40 gradi. Il ragazzo, “affetto da tetraparesi spastica e ritardo mentale grave”, ricostruiscono i pm, era una “persona incapace di provvedere a se stessa per malattia di mente e di corpo”, e sua madre aveva “la sua custodia esclusiva”. Eppure, secondo l’accusa, la donna, di origine romena, avrebbe lasciato il figlio al sole per diverse ore, tanto da cagionarne il decesso. In un secondo momento, poi, avrebbe spostato il corpo, poggiandolo nel letto della loro casa dove sarebbe rimasto, con i climatizzatori accesi, per 36 ore prima che i carabinieri lo trovassero. La donna – che ha un precedente per abbandono che riguarda sempre suo figlio, commesso con il marito poi deceduto – non ha saputo fornire risposte “convincenti e univoche” per spiegare l’accaduto. Per il medico legale, il decesso potrebbe essere collegato a una “prolungata esposizione esterna, verosimilmente all’azione dei raggi solari, inconciliabile con la sede di ritrovamento della salma, tanto da far presupporre che sia da collocare almeno 36 ore prima dell’arrivo dei militari”.

Le indagini, coordinate dal procuratore Giuseppe Verzera, hanno fatto emergere “un gravissimo quadro indiziario” nei confronti dell’indagata. A cominciare dalle “versioni dei fatti contrastanti fornite dalla donna, a partire dalla chiamata al 112 e rese poi nel corso del sopralluogo degli investigatori”, per passare agli “svariati tentativi della stessa di fuggire”. Ora si trova nel carcere di Catania.

Salerno non è giallorosa: per Conte intesa impossibile con il Pd nel regno di De Luca

Con due ore di ritardo causa consueto imbottigliamento agostano sulla costiera amalfitana, Giuseppe Conte approda a Salerno per ribadire che qui tra M5S e Pd l’alleanza non s’ha da fare. Perché qui se dici Pd dici il sistema di potere di Vincenzo De Luca, il governatore della Campania e padre-padrone di Salerno dal 1993, lui o per interposta persona. Infatti si ricandida per un secondo mandato il suo ex segretario Vincenzo Napoli, mentre De Luca pensa a modificare la legge elettorale per ottenere nel 2025 un terzo mandato in Campania. Ma attenzione, questo non è un virgolettato di Conte che anzi sul punto, sollecitato da qualche cronista, non pigia sull’acceleratore e si mantiene vago. “Non sono qui per parlare del terzo mandato di De Luca, anche se penso sia sempre preferibile una logica turnaria – afferma Conte –. Col Pd noi abbiamo un dialogo privilegiato e anche con Leu. In alcune competizioni territoriali questo dialogo ha dato dei frutti, in altre, come a Salerno, c’è una proposta che vede il M5S con un’ampia serie di liste civiche, con una candidata che ha tutte le qualità per far bene”.

La candidata sindaco in questione si chiama Elisabetta Barone, ha accompagnato Conte a stringere mani e scattare selfie tra bar e vicoli del centro storico, e non è una pentastellata: è una dirigente scolastica con profilo da società civile. Più o meno la stessa operazione che Conte vorrebbe fare a Milano (dove ancora non c’è alcuna candidatura). Barone guiderà una coalizione di otto liste nelle quali entrerà anche Leu, rappresentata territorialmente dal parlamentare Federico Conte. Però il partito di Speranza, al contrario del M5S, non userà il simbolo, si limiterà a esprimere dei nomi in una civica. Conte ha messo la faccia e il simbolo su una operazione della rappresentanza parlamentare pentastellata di Salerno: Andrea Cioffi, Nicola Provenza e Angelo Tofalo. I tre hanno parlato di “patto civico per Salerno” e puntano a quella fascia di salernitani che non votano più. Non è stata una decisione facile. Ci sono stati degli strascichi con la ‘base’. La rottura ha prodotto la candidatura alternativa di Simona Libera Scocozza, storica attivista dei meet up. Che si va ad aggiungere a quella di Oreste Agosto, avvocato ambientalista in prima fila nelle battaglie legali contro l’urbanistica ciclopica di De Luca, Crescent in testa. Agosto guiderà un paio di civiche, tra cui quella dei ‘Figli delle chiancarelle’. Cinque anni fa doveva essere lui il candidato dei Cinque Stelle, ma la sua investitura fu invalidata per presunte indebite pressioni sul voto degli attivisti. Risultato? M5S non partecipò alle amministrative, Grillo non concesse il simbolo a nessuno. I deluchiani gongolarono.