Dubai, arrestato il superlatitante Imperiale: re del narcotraffico amante di Van Gogh

Una fuga di notizie su una testata olandese, molto attenta alle sorti di un uomo che ha costruito nei Paesi Bassi le sue fortune criminali, ha reso pubblica ieri una notizia già nota agli inquirenti italiani dal 4 agosto: l’arresto a Dubai da parte della polizia locale di Raffaele Imperiale, in cima alle classifiche dei latitanti più pericolosi, considerato il più potente narcotrafficante d’Europa. Viveva negli Emirati Arabi da circa 15 anni, da dove ha continuato a coltivare i suoi affari nella droga. Dal gennaio 2016 era inseguito da un mandato di cattura. Qualche mese dopo nella villa del padre a Castellammare di Stabia furono poi ritrovate due opere di Vincent Van Gogh rubate nel 2002 in un museo di Amsterdam.

Imperiale è in manette dal 2 agosto e la Procura di Napoli avrebbe preferito mantenere riserbo fino al perfezionamento dell’estradizione in Italia, non ancora compiuta. Pratica avviata nel maggio 2019, poi conclusa e inviata allo Stato arabo dal nostro ministero di Giustizia tramite i canali diplomatici nel febbraio 2021.

No controlli e prefetto leghista. Rave, ora si temono i contagi

Sembrava una questione di ordine pubblico. Si è trasformata in un’emergenza sanitaria. In giro fra l’alto Lazio e la Toscana da giorni ci sono molti dei 10 mila partecipanti al rave party andato in scena su 30 ettari di prato in riva al Lago di Mezzano, pochi chilometri a sud del confine tra le due regioni. Quando fra mercoledì sera e ieri mattina gli organizzatori franco-olandesi del “Teknival” hanno portato via i tir con le attrezzature acustiche – quattro di loro, due italiani e due olandesi, sono stati denunciati per aver tentato di forzare il posto di blocco – ormai la maggioranza dei ragazzi si era già spostata verso nord, tra la Maremma e la Val d’Orcia. Nessuno li ha controllati e, sostengono le autorità sanitarie locali, ci sono buone possibilità che molti di loro siano positivi al Covid. Gli unici a essere stati esaminati, infatti, sono stati i 4 ragazzi ricoverati all’ospedale di Pitigliano coi sintomi del coma etilico, di cui due positivi al Covid.

Andiamo con ordine. È la sera di giovedì 12 quando i primi camion fanno irruzione nel terreno di Piero Camilli. L’imprenditore romano, noto alle cronache per essere stato presidente delle squadre di calcio del Grosseto e della Viterbese e candidato al Senato (senza essere eletto) nel 2013 con Fratelli d’Italia, era in vacanza in Sardegna. “Sono stato allertato dai miei dipendenti – racconta Camilli al Fatto – Abbiamo avvertito le forze dell’ordine la sera stessa e formalizzato la denuncia all’alba del venerdì. La polizia era sul posto già al mattino, la fiumana di ragazzi era ancora in marcia, si poteva bloccare ma sono rimasti a guardare”. “Non abbiamo ricevuto denunce. Siamo arrivati a cose fatte”, dice al telefono Alessandro Tundo, capo della Squadra Mobile di Viterbo.

Lo sballo ha inizio. Domenica, Ferragosto, si arriveranno a contare 10 mila persone in balia dell’incessante tunz-tunz che fuoriesce dalle casse da migliaia di watt allestite in riva al Mezzano. Qui il mancato uso della mascherina è l’ultimo dei problemi. Sull’ideale pista da ballo gli avventori urinano, lasciano escrementi, consumano rapporti sessuali, assumono droghe lasciando le siringhe a terra. Una promiscuità che va avanti fino al mercoledì sera, quando la “trattativa” fra la Squadra Mobile e gli organizzatori va a buon fine e gli ultimi partecipanti lasciano l’area. Già dalla domenica, però, al vicino ospedale di Pitigliano erano stati ricoverati due ragazzi in coma etilico. Saranno cinque in tutto, compresa l’unica vittima fin qui accertata. Fra lunedì e martedì mattina arriva anche la notizia di due positività: il rave è un probabile focolaio Covid. In tanti lasciano il party già il lunedì. A gruppi raggiungono l’Argentario, si accampano nei pressi delle Terme di Saturnia, si stendono al sole della Val d’Orcia. E i sindaci locali ora temono ripercussioni sui contagi. I punkabbestia ormai sono una potenziale bomba Covid. “Nessuno è stato controllato in uscita” dice Stefano Bigiotti, sindaco di Valentano, Comune dove ricade l’area. “Non ci saremmo mai riusciti, erano troppi, c’era un problema di sicurezza”, conferma Alessio D’Amato, assessore alla Sanità del Lazio, che annuncia screening fra le comunità locali limitrofe.

I buoi però sono ormai fuori dal recinto. Così impazza la polemica politica. Il leader della Lega, Matteo Salvini, è stato il primo a chiedere le dimissioni della ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. Nessuno, al Viminale, si è accorto che si stava organizzando un evento abusivo di tali portate grazie al tam-tam sui canali Facebook e Telegram. Eppure già ai primi di luglio ce n’era stato uno in provincia di Pisa, mentre a giugno un rave party era in scena anche vicino Civitavecchia. Sotto attacco, a Viterbo, è finito anche il prefetto, Giovanni Bruno, molto vicino proprio alla Lega e a Salvini, “simpatia” che non ha mai rinnegato, anzi. Bruno da giorni è nell’occhio del ciclone per i controlli sul rispetto delle normative anti-Covid che svolgerebbe personalmente (lo hanno ribattezzato “lo sceriffo”) in bar e ristoranti della Città dei Papi. Pochi giorni fa, il prefetto è arrivato a inimicarsi del tutto i viterbesi, vietando – riporta il sito locale EtruriaNews – il tradizionale trasporto della Macchina di Santa Rosa, evento da sempre “amato” dai leader del centrodestra. “Si vieta Santa Rosa e si permettono spettacoli del genere”, ha detto ieri mattina Salvini. Chissà se ce l’aveva anche con il suo “amico” Bruno.

Latina: giallorosa divisi, strada spianata a destra

L’ultima volta, nel 2016, due liste si erano fatte la guerra e Beppe Grillo aveva ritirato il simbolo. Così il M5S non aveva avuto candidati e molti suoi elettori avevano scelto Damiano Coletta (nella foto, ndr), portandolo prima al ballottaggio e poi alla vittoria, complice il centrodestra che si era presentato diviso. Cinque anni dopo, lo scenario è cambiato: il sindaco civico che a Latina ha interrotto un regno che dal Movimento sociale a Fratelli d’Italia durava dal 1993 si ripresenta, ma di fronte avrà Lega, FdI e Forza Italia uniti (almeno finora) sulla candidatura di Vincenzo Zaccheo. Questa volta il Movimento si presenta ma lo fa da solo, e c’è chi fa notare: così toglie voti a Coletta e rischia di consegnare la città all’ex missino. E quindi a Claudio Durigon, che lo ha imposto da Roma.

L’ok dai vertici non c’è ancora, ma la decisione a livello locale è presa: il M5S corre contro la coalizione di “Damiano Coletta Sindaco” sotto le cui insegne si presentano il suo movimento “Latina Bene Comune”, il Pd e “Per Latina 2032”. “La nostra lista è pronta – spiega Gianluca Bono, candidato sindaco in pectore –. Stiamo aspettando solo la delega notarile”. Il tempo per presentare le liste scade il 2 settembre, “entro la prossima settimana confido che arrivi il via libera”. Ma la questione è delicata, visto che il passaggio al secondo turno potrebbe giocarsi su uno “zero virgola”: nel 2016 Coletta andò al ballottaggio con soli 700 voti sul dem Enrico Forte, lo 0,8% dei 90 mila votanti. Ergo, voto disgiunto a parte, anche un risultato non entusiasmante dei 5S toglierebbe voti all’attuale sindaco, compromettendone il passaggio al secondo turno. “Latina è rimasta ferma – spiega Bono –. Coletta nel 2016 ha vinto per caso, non aveva una filiera politica pronta a gestire un Comune in dissesto amministrativo. Si sono impantanati in problemi come la raccolta dei rifiuti e la città è rimasta sporca per 2 anni e mezzo”, prosegue Bono, che su Facebook ha attaccato Coletta anche per gli 8 mila euro spesi per un volume che sintetizza i risultati del suo mandato e per “l’assunzione di 45 autisti per l’azienda ABC (municipalizzata dei rifiuti, ndr) con scadenza 30 settembre”. “Il rischio di consegnare Latina a Zaccheo? – prosegue –. Non c’è. Nel 2016 non tutti i nostri elettori votarono Latina Bene Comune. E oggi non danneggiamo nessuno: se il cittadino non sceglierà noi per paura di riconsegnare la città alla destra, voterà Coletta”. Una posizione che in molti leggono con malizia: il M5S va in solitaria per pesare al tavolo a cui l’attuale sindaco dovrà sedere in caso di secondo turno. “Al ballottaggio il Movimento potrà dire la sua, ma non abbiamo fatto questo calcolo”, assicura Bono. E se il simbolo non dovesse arrivare? “Non voglio neanche pensarci”. Ma a Roma qualcuno pensa che serva un’alleanza strategica. “La decisione è stata votata due volte, poi se interverranno altri tipi di meccanismi sopra di noi non lo so”.

Altri voti che nel 2016 andarono a Latina Bene Comune potrebbero seguire Nicoletta Zuliani. Eletta col Pd e in maggioranza fino al 17 luglio, la professoressa ha lasciato i dem per passare al Misto in polemica con la scelta dei vertici di rinunciare al simbolo. Per poi candidarsi a sindaco 5 giorni dopo con Azione di Carlo Calenda in nome di un “profondo rinnovamento della classe politica”. Dopo 10 anni passati in Consiglio comunale.

“Draghi si tiene Durigon per fare un favore a Salvini: imbarazzante”

“Dopo un’uscita del genere il presidente del Consiglio Mario Draghi dovrebbe prendere Claudio Durigon e dirgli: ‘Bene, è stato un piacere’. E poi accompagnarlo alla porta”. Claudio Fava, figlio del fondatore de I Siciliani Giuseppe Fava, ucciso da Cosa Nostra nel 1984, oggi è presidente della commissione Antimafia della Regione Sicilia e commenta così l’uscita del sottosegretario all’Economia della Lega, che ha proposto di reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini (fratello del duce) invece che ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Onorevole Fava, cosa ne pensa della proposta di Durigon?

È una manifestazione di cretinismo dietro la quale c’è il nulla, il vuoto atmosferico. In questi casi, politicamente, a un personaggio del genere non bisognerebbe dare nemmeno un quarto d’ora di celebrità.

E quindi?

Il giorno dopo il premier Draghi avrebbe dovuto cacciare Durigon. D’altronde il presidente del Consiglio dei Ministri interpreta il sentimento comune, i valori e la storia di un Paese e qui non stiamo parlando di una storia antica ma di una recentissima. Se una persona qualunque dice una cosa del genere, è un cretino e te ne freghi, ma se fa il sottosegretario lo mandi via a ripetizione di storia come con i ragazzi che non hanno voglia di studiare.

Dunque secondo lei è solo una questione di ignoranza?

No, anche l’ignoranza per Durigon sarebbe un privilegio. È uno che non ha il senso e la misura delle cose che dice.

E allora perché se n’è uscito con quella proposta?

Vuole raccattare qualche voto in più e vellicare lo spirito dei neofascisti. D’altronde è quello che la Lega sta facendo anche in Sicilia: Salvini va a cercare i voti nella pancia del Paese e, visto che deve rimontare sulla Meloni, non gliene importa nulla da dove li prende. Il contrario della vecchia Lega di Bossi di “Roma Ladrona”. In Sicilia Salvini sta imbarcando vecchi e nuovi democristiani che hanno i voti, anche se hanno alle spalle pendenze giudiziarie spesso pesanti, e sta raccattando molta gente che viene dalle esperienze di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo. Ormai la Lega è un partito onnivoro a-ideologico: quindi non penso che Durigon sia un fascista…

Perché?

Vuole solo recuperare qualche voto a Latina ma se fosse stato animato da un orgoglio e un’ideologia fascista, non avrebbe esposto i suoi miti alle pernacchie pubbliche. Semplicemente è una persona fuori controllo. Che è cosa più devastante di un fascista perché, se lo metti a dirigere un posto in un ministero, fa ancora più danni.

È considerato il padre di “Quota 100” e delle proposte economiche della Lega.

Appunto, le manifestazioni di questo cretinismo diventano danni per l’economia italiana. Per questo va allontanato dal governo: Durigon è pericoloso. Io a uno così non darei nemmeno le chiavi della mia macchina, figuriamoci della nostra economia.

Salvatore Borsellino dice che l’uscita di Durigon è uno sfregio a tutte le vittime (e ai familiari) di mafia. Anche per lei è così?

No, non voglio dare a Durigon la soddisfazione di sentirci tutti feriti e umiliati in quanto vittime. Mi sento solo molto in imbarazzo perché il presidente del Consiglio non lo ha ancora cacciato.

E perché, secondo lei?

Perché Salvini gli avrà chiesto di non far esplodere lo scandalo e di sopire e troncare. Credo che sia un pedaggio pagato a questo fragile equilibrio di governo. Ma se io fossi il premier non mi piegherei e allontanerei subito Durigon.

Come andrà a finire questa vicenda?

Alla fine credo che troveranno il modo di farlo dimettere senza clamore. Lo giubileranno senza dare scandalo e non come risposta alle piazze. Ma credo che l’esperienza di Durigon con questo governo sia finita qui.

Mail Box

 

La sinistra non c’è più e a nessuno importa

Sul Fatto online del 5 agosto, leggo il titolo: “Contratti a termine. La maggioranza scardina il decreto Dignità”. È la dimostrazione che i rapporti di forza tra capitale e lavoro ormai vedono il primo prevalere in misura schiacciante sul secondo. A livello politico, ormai spadroneggia la destra nelle sue varie, diverse, sfumature: 1) Classica, quella di Berlusconi, Meloni, Salvini; 2) Neo-classica, anche nota come neo-rinascimento arabo: Italia Viva (più che altro morta); 3) Radical chic o bella statuina che non si muove e non si tocca: Pd. Quel che resta della sinistra è rappresentato da Conte, 5S e Leu, assediati da tutte le parti e non più in grado di influenzare le scelte politiche, oggi dettate da lobby e comitati d’affari. Agli italioti non resta che starnazzare: “pooo po po po po pooo” .

Maurizio Burattini

 

Rave party a Viterbo, subito provvedimenti

Da giorni circa 8.000 individui pieni di droga e alcol, arrivati da tutta Europa con camper e tir per il trasporto di casse acustiche, stanno distruggendo ciò che hanno occupato abusivamente per fare i loro schifosi porci comodi. Se non si intende mandare l’esercito, a mio avviso sarebbe sufficiente un massiccio intervento di aerei Canadair, dotati di acqua e disinfettante, per farli sgombrare immediatamente. Mi chiedo come sia stato possibile che nessuno se ne sia accorto. I responsabili, che con faciloneria hanno permesso questo schifoso disastro ambientale, ora dovrebbero pagarne le conseguenze.

Cristina Brancati

 

Solo Covid e vaccini: la scuola non fa notizia

In queste vacanze di Covid, vaccini e Green Pass, vorrei parlare di scuola. Il ministero ha deciso che assumerà a tempo indeterminato anche insegnanti delle Gps di prima fascia. Il superamento di un concorso non sarà necessario, basteranno 3 anni di insegnamento svolti negli ultimi 10. In barba ai 450.000 iscritti al concorso ordinario, che probabilmente non si farà mai. Un’iniziativa applaudita da sindacati e partiti, che metterà in ruolo migliaia di insegnanti senza profili aggiornati: molti faranno valere diplomi presi più di 20 anni fa. Il procedimento farà saltare le graduatorie costruite su anni di servizio e titoli, che pare non contino più nulla. Assistiamo a una ingiustizia tale senza poter fare nulla. Non fa notizia che lo Stato possa assumere senza un concorso? Sono una insegnante laureata, precaria e addolorata nel vedere che la cultura non conta, che non si pensa ai bambini. Del resto, più i futuri cittadini resteranno ignoranti, meno problemi creeranno alla classe dirigente.

Chiara Lanfranchi

 

Che fine hanno fatto gli “eroi in corsia”?

Ricordate i giorni nefasti della prima ondata con annessa retorica “sentimental-patriottica”? “Tutti insieme uniti contro il virus”, ma soprattutto l’ipocrisia verso una categoria di professionisti da sempre vituperata e dileggiata moralmente ed economicamente e invece solo in quei drammatici frangenti assurti a “angeli benefattori” ed “eroi”. Qualcuno ora si ricorda degli infermieri? Ecco, da vecchio infermiere che ha perso colleghi e amici per questa tragedia, trovo agghiacciante il silenzio verso chi ha dato tanto ma non riceve nulla. Scusate lo sfogo. Il vostro giornale è ancora di salvezza etica e politica.

Giuliano Palieri

 

Ci vorrebbe l’ergastolo per chi appicca incendi

Sono sconvolta dalla situazione incendi. È distrutto un tessuto economico e sociale. I costoni della mia città, Enna, sono stati divorati dalle fiamme, le tapparelle dei palazzi si sono sciolte e in inverno, con le piogge, quelle strade e forse i palazzi potranno crollare e isolare la città. In campagna, a Pergusa, il luogo del ratto di Proserpina, la casa di mia sorella si è salvata, ma in quella del vicino (astrofisico che vive a Roma), il telescopio costosissimo presente, si è liquefatto. È una tragedia. Questa gente merita l’ergastolo! Lanciate una petizione!

Lorella Russo

 

Le misure anti-contagio e la perdita di laicità

Premetto che sono credente, vaccinato e a favore del Green Pass. Sono rimasto stupito dall’esenzione dei credenti per le cerimonie cultuali, di qualsiasi religione, in relazione al Pass. Non penso che una messa cattolica, un culto evangelico, una preghiera comune di ogni religione possa essere equiparata al bar o al ristorante, certo, ma a cinema o teatro sì (come presenza e possibile contagio). Dovremmo tenere conto dei saluti e dei gesti presenti prima, durante e dopo la celebrazione religiosa. A me sembra sempre più che lo Stato perda giorno per giorno piccoli aspetti della sua laicità. Purtroppo non ho sentito o letto nessuno che abbia fatto accenno a questo aspetto. Non i partiti, forse perché si avvicinano le elezioni amministrative, ma neppure le associazioni laiche. Forse siamo assuefatti a perdere tasselli di laicità?

Fabio Perroni

Telepass. L’offerta della banca spiegata in 117 pagine. Meglio leggere un libro

 

Gentile redazione, ho ricevuto un’offerta speciale di Telepass Pay per non pagare il canone mensile. C’erano anche tre allegati. Il primo: una nota informativa precontrattuale di 30 pagine scritte fitte fitte; il secondo: un foglio informativo dei servizi Telepass Pay X di 21 pagine; terzo e ultimo allegato: l’informativa sulla protezione dei dati della mia banca di 66 pagine fitte fitte. Per un totale di 117 pagine. Pur essendo pensionato, non ho tempo da perdere, per cui continuo a pagare il canone mensile e preferisco leggere un libro o il giornale piuttosto che tutte quelle clausole che sono scritte evidentemente per tutelare più la società stessa che il cittadino.

Claudio Carlisi

 

Gentile Carlisi, il più grande errore che un consumatore possa commettere è non leggere quello che firma o, come nel suo caso, lasciarsi sfuggire la possibilità di risparmiare perché si è deciso di non sottostare a una straziante tortura burocratica-amministrativa. È proprio perché si tende a non addentrarsi in questa giungla di scartoffie che poi si finisce per rimetterci in un senso o nell’altro. Ovvio che lei abbia pienamente ragione: è decisamente meglio leggere un libro piuttosto che 117 pagine di postille e frasi dai caratteri talmente piccoli che non basta una lente di ingrandimento. Ma purtroppo arrendersi prima di iniziare a lottare non è la soluzione migliore. Si può segnalare il caso alla Banca d’Italia, visto che sono del 2009 le disposizioni sulla “Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti”. In altre parole, è sancito che tutte le informazioni fornite dalla banche nei contratti debbano essere chiare e comprensibili in modo da consentire di effettuare scelte più ponderate e coerenti con le proprie esigenze finanziarie e familiari. E questo avviene non solo per il contratto del pedaggio autostradale, ma anche per i conti correnti, i prestiti o le bollette dell’elettricità o del gas. Basti pensare che già nel 1998 il linguista Tullio De Mauro per conto dell’Enel rielaborò le clausole dei contratti di fornitura per rendere più fruibile il linguaggio. Un restyling della bolletta, definita come “amichevole, personalizzata e non più scritta in burocratese”. Sfido chiunque a distanza di anni non solo a considerarla tale, ma soprattutto a leggerle.

Patrizia De Rubertis

Lì dove l’uomo s’arrende, trionfa la donna nel parcheggio

È emerso un problema dalle mie parti durante l’estate ancora in corso, è quello di trovar parcheggio soprattutto nelle ore di punta. Così ciascuno si arrangia come può, girando all’infinito prima di trovare un buco oppure rinunciando e mandando a quel paese il mio paese oppure come ha fatto la donna che ho visto giorni orsono abbandonando la macchina guidata dal marito e poi piantonando il lungolago fino al momento in cui un posto si è liberato e lei l’ha bellamente occupato in attesa del coniuge. Sennonché, prima del consorte, giunge un altro viandante automunito che fa la mossa di infilarsi lì dove sta lei. Non può che fermarsi, abbassare il finestrino, chiedere di spostarsi giusto per ricevere una risposta secca, Non si può occupato! Basito, ma educato, quello le fa notare che non può farlo, questione di logica, quello che lei presiede è un posto macchina e lei un essere umano. Parcheggi allora, provoca quella facendo due passi avanti, mi investa, forza! Sono in attesa della mossa successiva quando arriva il marito che immediatamente sospetta qualcosa e scende per essere edotto. Ascolta dapprima la campana del collega automunito, poi quella della moglie. E infine, probabilmente dotato di un cuore intelligente pari a quello che a quanto dicono re Salomone chiedeva all’Altissimo, osserva che la bilancia pende tutta a sfavore della moglie. La quale però, all’udire la sentenza, si scaglia contro di lui. Vorrebbe che dopo tutta la fatica fatta, la tenacia nell’aver mantenuto la posizione contro esuberanti forze nemiche, alzasse bandiera bianca o si piegasse a vergognosa ritirata? Nemmeno per idea. I due uomini si stringono nelle spalle, il primo perché non vuole prolungare il siparietto, l’altro perché conosce la moglie, una vera e propria macchina da guerra: cioè, ordigno o congegno mobile (le gambe), specie di grosse dimensioni (la stimo sugli ottanta chili), che prima della scoperta delle armi da fuoco era usata per sfondare porte, scalare mura o operazioni di assedio. L’evoluzione della specie la porta oggi anche a occupare un’area di parcheggio dove infine il marito, invero perplesso, entra.

No-pass/sì-party, ultimo slogan di questa estate

Aproposito del rave party di Valenzano, sgomberato dopo sei giorni, la stampa di destra attacca il ministro degli Interni, Luciana Lamorgese chiedendo come sia possibile che “clienti e ristoratori siano multati per mancato green pass mentre da giorni migliaia di persone sono libere di ammassarsi ignorando ogni precauzione” (La Verità)? Medesimo concetto lo troviamo sul Fatto Quotidiano (“Viterbo, il rave al lago è ‘fuori controllo’, ma nessuno interviene”) perché di fronte a una realtà dei fatti così lampante, e sconcertante, non esistono differenti valutazioni politiche ma la comune presa d’atto di un assurdo scandalo al sole. Perché la concentrazione di una folla di giovani, giunti da tutta Europa, in un luogo sprovvisto delle più elementari strutture igienico sanitarie, e in piena pandemia mondiale, è pura follia. Perché se in queste ore la strategia delle forze di polizia per concordare l’avvenuto sgombero senza ulteriori problemi è frutto dell’emergenza, ci si domanda chi e cosa abbiano consentito che questa stessa emergenza si creasse dal nulla. Con sei, otto, diecimila giovani (e chi lo sa?) affluiti in un terreno privato nella più totale assenza di controlli da parte delle istituzioni preposte. Bilancio (provvisorio) di questo scandalo del disinteresse pubblico: un ragazzo di 24 anni annegato nel lago, due ragazzi in overdose, due denunce di violenza sessuale, vari ricoveri per coma etilico, danni faunistici da verificare, inevitabili casi di positivi al Covid da quantificare.

Poi c’è l’aspetto davvero intollerabile dei due pesi e delle due misure. Come si fa a concepire che in un luogo sottoposto alle leggi dello Stato italiano sia stata tollerata la più assoluta licenza di contagio? Mentre nel resto del paese quello stesso Stato impone i più rigorosi controlli sull’uso del green pass multando e sanzionando cittadini ed esercenti che non si attengono alle regole? Una palese, clamorosa “ingiustizia” che oltre ad alimentare le polemiche dell’opposizione No-pass (e a fornire altre pelose giustificazioni a No-vax e compagnia cantante) indebolisce le motivazioni alla base dei divieti. E che rischia di mandare in malora quel senso civico collettivo che il governo cerca faticosamente di costruire attraverso la campagna di vaccinazione e di convincimento. No-pass, Sì-party: ecco lo slogan di questa estate ubriaca dell’anarchia sanitaria.

Da Kabul a Gheddafi, prendi i soldi e…

Il traballante presidente afghano Ashraf Ghani non ha deluso chi si aspettava da lui il peggio: è bastata l’ombra dei talebani per farlo dileguare da Kabul, nella notte prima della disfatta. Scappato senza vergogna con quattro automobili piene d’oro, direzione Uzbekistan, mezza famiglia già in salvo negli Stati Uniti e un elicottero così carico di gioielli, tappeti, quadri, lingotti che non è riuscito a decollare per il troppo peso, dicono i russi d’ambasciata, anche loro esperti di dittatori in fuga. Tutto secondo copione.

Perché alla fine di tutte le roboanti menzogne pronunciate in ogni epoca, a ogni latitudine, a favor di popolo, su dio, patria, onore, famiglia, dopo le parate militari e naturalmente il sangue versato a fiumi, la verità sui piccoli e i grandi tiranni, si rivela sempre nel giorno della fuga, l’istante che chiude il cerchio della Storia, quello in cui il dittatore di turno, il Re vero o il Re fantoccio, il Presidente, il Generalissimo, il Maresciallo e pure il Colonnello, se ne scappano nottetempo con l’argenteria.

Argenteria per modo di dire, visto che a pescarne uno a caso, Augusto Pinochet Ugarte che si masticò il Cile dal 1973 al 1990, protetto dal suo amico Henry Kissinger, che da Washington custodiva i diritti umani dell’intera America Latina, prima di lasciare il Palazzo presidenziale della Moneda, aveva stipato 9 tonnellate di lingotti d’oro nei forzieri della Hsbc, la Hongkong and Shanghai Bank, valore stimato 180 milioni di dollari. Non male per un generale che onorava la santa bandiera e la sacra divisa, guadagnando ufficialmente 3 mila dollari al mese.

Probabile che Ashraf Ghani, 72 anni, nuova residenza negli Emirati Arabi che lo hanno accolto “per motivi umanitari”, farà ritorno da dove vent’anni fa era partito, gli Stati Uniti, dove ha studiato, laureandosi in Antropologia, docente universitario prima in Oregon, poi in California, specializzato alla Business School di Harvard, membro della Banca Mondiale, rispedito a Kabul in qualità di ministro delle Finanze nel governo Karzai, che regnò dopo la prima vittoria contro i talebani, nel decennio 2004-2014, eccellendo in due soli campi, l’eleganza privata e la pubblica corruzione. Erede di quel governo fantoccio, Ghani edificò il successivo, ben addestrato all’obbedienza, un po’ meno all’abbandono di chi lo aveva in tanti anni finanziato, armato, protetto.

Se n’è andato in automobile proprio come capitò ai nostri ultimi due eroi nazionali, re Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini, che prima di annegare provarono a galleggiare dentro alla tragedia della Seconda guerra mondiale che avevano assecondato. Il primo, celebrato nel soprannome Sciaboletta, scappato all’alba del 9 settembre 1943, direzione Ortona, con 8 automobili Fiat 2800 cariche di contanti e oro, lasciando al loro destino non solo i dignitari, ma anche i maggiordomi di Casa reale e incidentalmente l’intera Italia, ostaggio da quel giorno dei tedeschi occupanti. Mentre il secondo, il Dux degli arciitaliani, due anni più tardi, tentò anche lui la fuga in auto, grottescamente travestito da tedesco, intercettato dai partigiani della 52esima Brigata Garibaldi a Dongo, in cima al Lago di Como. Riconosciuto, arrestato, fucilato all’alba del giorno dopo, con il famoso “oro di Dongo” al seguito: 36 chili in lingotti, si disse, più 4 sacchi di juta pieni di contanti in lire, sterline, dollari. Tesoro che ebbe un destino incerto, come si addice ai bottini di guerra, sparito dentro mille ricostruzioni, mai del tutto verificate.

“Di tutti gli atti vigliacchi – recita lo storico – la fuga è il più spregevole”. Ed è per questo che ci vuole tanto oro, tanti diamanti & contanti per sopportarne il peso – non quello etico, ma i costi della latitanza con piscina, e persino i progetti di una riscossa armata – come capitò nell’Africa tormentata dai tiranni cleptomani. O alle decine di dittatori sudamericani, magari di terz’ordine, ma con i “consiglieri militari” della Cia sempre incorporati che li usavano “contro il pericolo comunista nel cortile di casa” per poi buttarli nella spazzatura della Storia. O addirittura in galera, destino che inghiottì Noriega, il celebre Faccia d’Ananas, presidente di Panama trafficante di cocaina. E poi la famiglia Somoza che regnò sul Nicaragua fino alla rivoluzione sandinista, costretta a fuggire con il solito corteo di automobili imbottite d’oro, in una notte di pioggia centroamericana.

Più comoda la fuga di Ferdinand e Imelda Marcos, per vent’anni dittatori filippini, decollati anche loro di notte, anno 1986, destinazione Honolulu, con 4 elicotteri per i lingotti e il bagaglio al seguito. Non abbastanza capienti, visto che la povera Imelda fu costretta ad abbandonare le sue 2.700 paia di scarpe, imbarcandosi con indosso un misero paio di espadrillas prese all’ultimo momento.

È la breve folata di aria fresca della Primavera araba a raccontarci altre fughe dei rais miliardari che per decenni hanno ingannato, affamato e tormentato i rispettivi popoli, da Mubarak, presidente egiziano, a Gheddafi, padrone della Libia, passando per il dittatore tunisino Ben Ali, quello che accolse il suo migliore amico occidentale, Bettino Craxi, proteggendogli la lunga latitanza e i conti correnti. Scappò anche lui con la cassa in Arabia saudita, anno 2011, dopo che il suo esercito aveva ucciso 300 manifestanti che chiedevano farina e democrazia. Una parte del suo tesoro, 320 milioni di dollari, è rimasto fino a ieri nelle banche svizzere, preteso dagli eredi, alla fine sconfitti.

Ladri tutti i dittatori. Quasi mai dal primo istante. Ma sempre all’ultimo. Anche se talvolta neanche l’oro serve a metterli in salvo. Se ne accorse Gheddafi in fuga da Tripoli nella Sirte. Il suo convoglio di Toyota cariche d’oro intercettato dai Mirage francesi e da un drone americano. Bombardato, disperso. Lui che a piedi prova a nascondersi dentro a un condotto, dove lo scovano i ragazzi guerrieri che lo uccideranno sparandogli in testa con la sua pistola, anche quella d’oro, mentre lui grida l’ultima frase di ogni dittatore in fuga: “Ma io che vi ho fatto?”.

I taliban buoni: è già una soap

Oggi parliamo del ruolo della donna, né potrebbe essere diversamente. In tv tutti si interrogano sulla sorte della condizione femminile sotto la scure del medioevo afghano; conduttori, politici, opinionisti ad ampio spettro (Viterbo-Kabul in trenta secondi, da casello a casello). Per ora tacciono solo i virologi, che pure non schiodano dai talk show, forse in attesa di sapere quanti sono i contagiati a Kabul, dove il green pass non va per la maggiore. A misura di talk, i nuovi talebani sono molto meglio dei vecchi perché più difficili da interpretare: si può dirne tutto e il contrario di tutto, mentre le loro prime mosse mediatiche sono tutt’altro che ingenue; anzi, parrebbero piuttosto smaliziate, fatte da chi sa quanto nell’era digitale è il percepito a tracciare il solco, se sai vendere la tua immagine sei a metà dell’opera.

Voi dite che stiamo segregando le donne? E noi diffondiamo le immagini dei tg dove le giornaliste sono tornate al loro lavoro. Immagini pesanti: per qualsiasi donna l’imposizione di un burqa è una deplorevole violenza, ma per una mezzobusta diventa un colpo mortale. Invece, sia la giornalista in studio, sia l’inviata per le strade di Kabul esibivano il solito, elegante velo che accentua la naturale grazia mediorientale, e nulla più. Dunque, tutto ok? No di certo. Non siamo esperti di Islam, ma difficilmente la sharia consentirebbe le donne-lampadario viste al compleanno di Diletta Leotta. Pazienza; però abbiamo visto la conduttrice in studio intervistare un potente mullah. Sorrisi, rispettosi silenzi, estatiche controscene: esattamente come quando i nostri mezzibusti ostendono il microfono a Renzi, a Salvini o a chi altri vi pare ancora. In attesa che l’enigma dei nuovi talebani si chiarisca, nasce un dubbio, anzi due; forse i fondamentalisti non hanno scoperto la tolleranza come vorrebbero farci credere, ma forse i nostri media sono più fondamentalisti di quanto ci piace pensare. Di fronte al potere, tutto il mondo dei media è paese.