Il traballante presidente afghano Ashraf Ghani non ha deluso chi si aspettava da lui il peggio: è bastata l’ombra dei talebani per farlo dileguare da Kabul, nella notte prima della disfatta. Scappato senza vergogna con quattro automobili piene d’oro, direzione Uzbekistan, mezza famiglia già in salvo negli Stati Uniti e un elicottero così carico di gioielli, tappeti, quadri, lingotti che non è riuscito a decollare per il troppo peso, dicono i russi d’ambasciata, anche loro esperti di dittatori in fuga. Tutto secondo copione.
Perché alla fine di tutte le roboanti menzogne pronunciate in ogni epoca, a ogni latitudine, a favor di popolo, su dio, patria, onore, famiglia, dopo le parate militari e naturalmente il sangue versato a fiumi, la verità sui piccoli e i grandi tiranni, si rivela sempre nel giorno della fuga, l’istante che chiude il cerchio della Storia, quello in cui il dittatore di turno, il Re vero o il Re fantoccio, il Presidente, il Generalissimo, il Maresciallo e pure il Colonnello, se ne scappano nottetempo con l’argenteria.
Argenteria per modo di dire, visto che a pescarne uno a caso, Augusto Pinochet Ugarte che si masticò il Cile dal 1973 al 1990, protetto dal suo amico Henry Kissinger, che da Washington custodiva i diritti umani dell’intera America Latina, prima di lasciare il Palazzo presidenziale della Moneda, aveva stipato 9 tonnellate di lingotti d’oro nei forzieri della Hsbc, la Hongkong and Shanghai Bank, valore stimato 180 milioni di dollari. Non male per un generale che onorava la santa bandiera e la sacra divisa, guadagnando ufficialmente 3 mila dollari al mese.
Probabile che Ashraf Ghani, 72 anni, nuova residenza negli Emirati Arabi che lo hanno accolto “per motivi umanitari”, farà ritorno da dove vent’anni fa era partito, gli Stati Uniti, dove ha studiato, laureandosi in Antropologia, docente universitario prima in Oregon, poi in California, specializzato alla Business School di Harvard, membro della Banca Mondiale, rispedito a Kabul in qualità di ministro delle Finanze nel governo Karzai, che regnò dopo la prima vittoria contro i talebani, nel decennio 2004-2014, eccellendo in due soli campi, l’eleganza privata e la pubblica corruzione. Erede di quel governo fantoccio, Ghani edificò il successivo, ben addestrato all’obbedienza, un po’ meno all’abbandono di chi lo aveva in tanti anni finanziato, armato, protetto.
Se n’è andato in automobile proprio come capitò ai nostri ultimi due eroi nazionali, re Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini, che prima di annegare provarono a galleggiare dentro alla tragedia della Seconda guerra mondiale che avevano assecondato. Il primo, celebrato nel soprannome Sciaboletta, scappato all’alba del 9 settembre 1943, direzione Ortona, con 8 automobili Fiat 2800 cariche di contanti e oro, lasciando al loro destino non solo i dignitari, ma anche i maggiordomi di Casa reale e incidentalmente l’intera Italia, ostaggio da quel giorno dei tedeschi occupanti. Mentre il secondo, il Dux degli arciitaliani, due anni più tardi, tentò anche lui la fuga in auto, grottescamente travestito da tedesco, intercettato dai partigiani della 52esima Brigata Garibaldi a Dongo, in cima al Lago di Como. Riconosciuto, arrestato, fucilato all’alba del giorno dopo, con il famoso “oro di Dongo” al seguito: 36 chili in lingotti, si disse, più 4 sacchi di juta pieni di contanti in lire, sterline, dollari. Tesoro che ebbe un destino incerto, come si addice ai bottini di guerra, sparito dentro mille ricostruzioni, mai del tutto verificate.
“Di tutti gli atti vigliacchi – recita lo storico – la fuga è il più spregevole”. Ed è per questo che ci vuole tanto oro, tanti diamanti & contanti per sopportarne il peso – non quello etico, ma i costi della latitanza con piscina, e persino i progetti di una riscossa armata – come capitò nell’Africa tormentata dai tiranni cleptomani. O alle decine di dittatori sudamericani, magari di terz’ordine, ma con i “consiglieri militari” della Cia sempre incorporati che li usavano “contro il pericolo comunista nel cortile di casa” per poi buttarli nella spazzatura della Storia. O addirittura in galera, destino che inghiottì Noriega, il celebre Faccia d’Ananas, presidente di Panama trafficante di cocaina. E poi la famiglia Somoza che regnò sul Nicaragua fino alla rivoluzione sandinista, costretta a fuggire con il solito corteo di automobili imbottite d’oro, in una notte di pioggia centroamericana.
Più comoda la fuga di Ferdinand e Imelda Marcos, per vent’anni dittatori filippini, decollati anche loro di notte, anno 1986, destinazione Honolulu, con 4 elicotteri per i lingotti e il bagaglio al seguito. Non abbastanza capienti, visto che la povera Imelda fu costretta ad abbandonare le sue 2.700 paia di scarpe, imbarcandosi con indosso un misero paio di espadrillas prese all’ultimo momento.
È la breve folata di aria fresca della Primavera araba a raccontarci altre fughe dei rais miliardari che per decenni hanno ingannato, affamato e tormentato i rispettivi popoli, da Mubarak, presidente egiziano, a Gheddafi, padrone della Libia, passando per il dittatore tunisino Ben Ali, quello che accolse il suo migliore amico occidentale, Bettino Craxi, proteggendogli la lunga latitanza e i conti correnti. Scappò anche lui con la cassa in Arabia saudita, anno 2011, dopo che il suo esercito aveva ucciso 300 manifestanti che chiedevano farina e democrazia. Una parte del suo tesoro, 320 milioni di dollari, è rimasto fino a ieri nelle banche svizzere, preteso dagli eredi, alla fine sconfitti.
Ladri tutti i dittatori. Quasi mai dal primo istante. Ma sempre all’ultimo. Anche se talvolta neanche l’oro serve a metterli in salvo. Se ne accorse Gheddafi in fuga da Tripoli nella Sirte. Il suo convoglio di Toyota cariche d’oro intercettato dai Mirage francesi e da un drone americano. Bombardato, disperso. Lui che a piedi prova a nascondersi dentro a un condotto, dove lo scovano i ragazzi guerrieri che lo uccideranno sparandogli in testa con la sua pistola, anche quella d’oro, mentre lui grida l’ultima frase di ogni dittatore in fuga: “Ma io che vi ho fatto?”.