Caro monsignor Paglia, ti sfido a un confronto sull’eutanasia

Caro Vincenzo, non hai perso tempo! Marco Cappato aveva appena annunciato il raggiungimento di mezzo milione di firme per abrogare quella parte di una legge fascista che condanna a anni e anni e anni di carcere l’omicida di consenziente (una obbrobriosa “contradictio in adiecto”), che tu scatenavi il fuoco di sbarramento, tuonando contro la nuova concezione: “Chi è nato e non è sano, deve morire. È l’eutanasia. Questa è una pericolosa insinuazione che avvelena la cultura”. Nell’urgenza della polemica devi aver dimenticato l’ottavo comandamento, che proibisce la menzogna (o dirai che la tua non è una falsa testimonianza perché non è una testimonianza? Più testimonianza di così, coram populo…). Il referendum, per il quale la raccolta di firme continua fino a tutto settembre (bisogna raccoglierne molte di più per evitare la cabala degli annullamenti) non si sogna minimamente di stabilire che “chi è nato e non è sano, deve morire”. Chiede che non sia più un reato l’aiuto che si offre a chi, vivendo la propria vita ormai solo come tortura, invoca che a quella tortura sia posto fine, senza dover ulteriormente soffrire di una forma di morte agghiacciante. È concesso perfino nelle esecuzioni, si chiama, non a caso, colpo di grazia.

Sono cose che sai benissimo. Perché menti, allora? E in che qualità menti? Di cittadino italiano o di alto esponente della gerarchia vaticana e della Chiesa cattolica? Poiché le tue bugie sono state diffuse da Vaticano news sembrerebbe darsi il secondo caso. E allora ti staresti rivolgendo solo alle pecorelle del tuo gregge, che del resto sanno benissimo che l’eutanasia è condannata dalle gerarchie cattoliche come peccato mortale, per il quale la pena si paga nell’aldilà, si tratti di fiamme o di privazione della visione di Dio, i teologi discordano, sempre per l’eternità, comunque. (L’eutanasia è condannata dalle gerarchie, sottolineo. Grandi cattolici come il teologo Hans Küng, o il più giovane dei “padri conciliari” del Vaticano II, Dom. Giovanni Franzoni, hanno scritto per il diritto di ciascuno all’eutanasia, con argomenti squisitamente cristiani, dottrinali, scritturali, oltre che generalmente umani).

Dunque la raccolta delle firme non c’entrerebbe per nulla, sarebbe solo una occasionale convergenza temporale.

Questo se vogliamo giocare al gioco dell’ingenuità irresponsabile, o, come direbbe il Vangelo, dei “sepolcri imbiancati” e degli “scribi e farisei”. Tu in realtà stai alzando il fuoco di sbarramento contro la possibilità di questo referendum, che sancirebbe l’avvenuta secolarizzazione della società italiana in modo perfino più clamoroso dei referendum sul divorzio e sull’aborto. E conti sul fatto, evidentemente, che oggi tutte le poltrone chiave della vita istituzionale italiana sono occupate da personalità cattoliche.

Ma se sei davvero convinto che anche in termini laici sia possibile portare argomenti contro il diritto di ciascuno all’eutanasia, perché non accetti un confronto pubblico? Ti sfido una volta di più a questo confronto, dove vorrai e nei termini che vorrai, sono certo che non ci sia un solo festival o una sola trasmissione televisiva che ti rifiuterebbe lo spazio adeguato.

Temo però che ti sottrarrai una volta di più. Sul tema del diritto all’eutanasia ciascuno di noi ha scritto un libro (Vincenzo Paglia, Sorella morte, Piemme 2016, Paolo Flores d’Arcais, Questione di vita e di morte, Einaudi, 2019), perché hai paura che le tue ragioni non reggerebbero contro le mie in un dialogo argomenti razionali contro argomenti razionali? Audere sape!

Con immutato affetto

Paolo Flores d’Arcais

Palamara candidato: in Italia la parola “etica” è fuori moda

Noi non sappiamo se l’ex magistrato Luca Palamara sia colpevole dei reati che gli vengono contestati. A dircelo saranno i giudici. Sappiamo però che Palamara è a lungo stato, per sua stessa ammissione, una pedina fondamentale del sistema malato delle correnti tra le toghe. I suoi comportamenti, e quelli di alcuni suoi colleghi, hanno minato la fiducia dei cittadini nella giustizia e hanno dato fiato alle trombe non di chi correttamente si batte per avere finalmente processi celeri e giusti, ma dei molti mascalzoni che popolano la nostra politica e le nostre classi dirigenti. Le sue confessioni che tanto hanno scandalizzato l’opinione pubblica non sono frutto di un pentimento o della volontà di scardinare un sistema di potere. Sono invece arrivate quando l’ex presidente della Anm, finito sotto inchiesta, ha dovuto difendersi davanti alla Procura di Perugia. È stato solo allora che Palamara ha parlato denunciando il sistema di cui lui aveva per tanti anni beneficiato.

Per questo ora che lo vediamo candidato in Parlamento alle elezioni suppletive di ottobre in un collegio di Roma non possiamo fare a meno di ricordare una frase di Publio Cornelio Tacito: “Il crimine quando scoperto non ha altro rifugio che nella sfrontatezza”. Nessuna legge può ovviamente impedire a un imputato di entrare nell’agone elettorale. Palamara come ogni altro cittadino è innocente fino a sentenza definitiva. Ma se realmente, come sostiene, ora partecipa al dibattito pubblico per cambiare in meglio le tante cose che non vanno nella magistratura italiana, non la legge, ma la decenza avrebbe dovuto spingerlo a non avanzare la candidatura. E i partiti, di qualunque colore essi siano, avrebbero dovuto fare muro presentando nel suo collegio personaggi notoriamente integerrimi. Invece siamo costretti ad assistere all’ennesimo triste spettacolo. Cinque stelle e Pd, uno contro l’altro armati nelle amministrative della Capitale, non danno segni di vita e ancora non avanzano dei nomi. Nel centrodestra addirittura su Palamara si dibatte. O perlomeno si è dibattuto, visto che non più di quattro giorni fa Alfredo Becchetti, responsabile della Lega a Roma, ha dichiarato: “Quella del magistrato è una candidatura cui guardiamo con attenzione, che avrebbe un valore politico nazionale: sarebbe il simbolo di una battaglia giusta, quella per la riforma della giustizia, cui l’elettorato dell’intero centrodestra è interessato. La competenza è del tavolo della coalizione. Ma se la coalizione scegliesse Palamara, mettiamola così, non ci opporremmo di certo. Anzi…”.

Poi si sono messi di traverso Fratelli d’Italia e Forza Italia e l’ipotesi è rientrata. Anche perché il forzista romano Maurizio Gasparri, per una volta, ha preso una posizione che in parte condividiamo: “Per carità racconta cose interessanti, ma è pur sempre un pentito. È come se candidassimo Buscetta. La politica non può diventare la discarica del fallimento in altri settori”.

Nessuno però tra chi si è opposto ha sentito il bisogno di sollevare il vero punto: Palamara non dovrebbe essere sostenuto nella sua corsa elettorale per una questione di carattere semplicemente etico. Qui non si tratta di pretendere una (ingiusta) gogna per chi ha sbagliato, ma se si hanno a cuore l’integrità e la reputazione delle istituzioni si tratta di non accettare l’idea che il Parlamento venga infangato dalla presenza di chi con i suoi comportamenti ha già infangato un altro potere dello Stato: quello giudiziario. In Italia però la parola etica non va più di moda. E così ora Palamara può davvero sperare di essere eletto.

 

Afghanistan, piovono lacrime di coccodrillo

Basta un’infarinatura di Gramsci per ricordare che non bastano i soldi e le armi per conservare un’egemonia declinante. Non sono credibili i paladini dei diritti umani e dell’emancipazione femminile che se ne infischiano quando a calpestarli sono i regimi loro amici. Sull’Afghanistan in questi giorni vengono sparse lacrime di coccodrillo. Certo, il disonore dell’“invincibile armada” occidentale, che non ha mantenuto la promessa di mettere in salvo i suoi collaboratori prima dell’annunciatissimo ritiro delle truppe Nato, suscita un sentimento di vergogna. Temo che durerà poco. Meglio allora riconoscere a ciglio asciutto cosa annuncia questa débacle: la vittoria dei talebani evidenzia nuovi rapporti di forza mondiali, derivanti da una redistribuzione della ricchezza al di fuori dell’area capitalistica nordamericana ed europea. Per giunta nel contesto di un pianeta malato, surriscaldato, mortalmente ferito da un virus sconosciuto. Riconoscerlo non significa parteggiare per i talebani o per i cinesi, come vorrebbe una propaganda grossolana, ma prendere atto del caos in cui rischiano di precipitare le relazioni internazionali. Vent’anni dopo il trauma dell’11 settembre 2001, non ci aiuteranno a venirne fuori i nostalgici di un indifendibile ordine mondiale che fu, capaci solo di criticare a cose fatte l’inevitabile ritiro dall’Afghanistan; e senza neanche il coraggio di sostenere che fosse lì necessario mantenere una presenza della Nato (alleanza militare palesemente obsoleta). Nell’ottobre 2001 l’operazione Enduring Freedom prese le mosse dalla convinzione che il fanatismo islamista fosse il nemico principale della civiltà occidentale, minacciata addirittura di invasione. Per questo, per debellare Al Qaeda e le sue propaggini, furono inviate le truppe in Afghanistan e poi in Iraq. La guerra asimmetrica portata nel cuore di New York fu seguita anche da sanguinose incursioni terroristiche sul territorio europeo. Ma in breve sarebbe apparso chiaro che il progetto jihadista, generatosi nelle ricche petromonarchie “amiche” del Golfo, poteva sì radicarsi nei paesi islamici ma non poteva aspirare a una dominazione mondiale. Ora che la ritirata occidentale iniziata in Siria e nel Sahel prosegue in Afghanistan, gli stessi dottor Stranamore che propugnarono la crociata antislamica puntano un bersaglio ancora più grosso: la Cina, eletta nuovo nemico principale della guerra (speriamo) fredda in cui dovremmo impegnarci. A supportare la loro teoria citano l’ovvio tentativo cinese di riempire il vuoto lasciato dagli americani, come se ciò bastasse. Pochi giorni prima della presa talebana di Kabul, qui in Italia, è stato Angelo Panebianco a indicare sul Corriere della Sera la prossima “grande calamità”: cioè “un’alleanza cino-islamica” in grado di realizzare una manovra a tenaglia, combinando la potenza economica di Pechino con il fanatismo religioso musulmano, di cui l’Europa sarebbe il primo bersaglio. Una visione da incubo.

Poco importa che di tale alleanza cino-islamica manchino i fondamenti culturali e la convergenza di interessi strategici. Poco importa che anche la Cina e la Russia vivano il jihadismo come minaccia esistenziale. L’importante è delineare uno scenario in cui Usa ed Europa rigenerino un anacronistico blocco militare atlantico, a tutela del nostro modello sociale reso sempre più fragile dalle sue contraddizioni interne. Panebianco è studioso serio. Attendiamo, dopo di lui, chi sarà l’Oriana Fallaci in grado di trasformare le nostre paure in visione apocalittica. Già avanzano un Renzi che si smarca al volo dalla debolezza di Biden o un Rampini che, dopo essere stato tutto e il contrario di tutto, fa sua la parola d’ordine “fermare Pechino”. Lo stesso Giuliano Ferrara, che pure aveva saputo prendere le distanze da Trump, pretende di ricordare a Letta che anche la caduta del muro di Berlino fu un caso di esportazione della democrazia. Come se ad abbatterlo fossero stati i marines e non il popolo della Germania est. Non mi nascondo dietro a un dito. Anch’io vent’anni fa ero convinto che fosse necessario inseguire nei loro santuari afghani gli organizzatori dell’attacco all’America. Meno di due anni dopo, però, apparivano già evidenti le motivazioni strumentali della seconda guerra mossa all’Iraq. Le si era opposto anche il giovane senatore Obama. Spero che da quegli errori si tragga insegnamento e che trovino minor udienza i soliti bellicosi cantori dell’“armiamoci e partite”. L’odierna loro indignazione per la sorte della popolazione civile afghana maschera pessime intenzioni. Quanto al confronto col modello autoritario cinese e con le mire egemoniche di Pechino, avremo ben poche possibilità di reggerlo se ci limiteremo a difendere il sistema economico ingiusto e vacillante delle nostre società, non a caso incapaci di trasmettere i valori di libertà proclamati a parole.

 

Basta con le frottole: ai ricchi piace la guerra, a morire sono i poveri

La guerra piace ai politici che non la conoscono. Che votano perché l’Italia invada l’Afghanistan, senza essere in grado di piazzare l’Afghanistan su una piantina muta del pianeta. La guerra piace a chi ha interessi economici, che se ne sta ben distante dai teatri di guerra. Chi invece la conosce si fa un’idea molto presto. Io che non sono tanto furbo ci ho messo qualche anno a capire che non importa perché c’è una guerra. Non importa se la si chiama guerra contro il terrorismo, guerra per la democrazia, per i diritti umani. Guerra per questo, per quello, per quello. Ogni guerra ha una costante: il 90% delle vittime sono civili, sono persone che non hanno mai imbracciato un fucile. Sono persone che molto spesso non sanno neanche perché gli scoppia una mina sotto i piedi o gli arriva in testa una bomba. Le guerre vengono dichiarate dai ricchi e dai potenti, che poi ci mandano a morire i figli dei poveri. Questa è la realtà. (Gino Strada, Festa della Scienza e filosofia, 2018)

 

Il Vietnam afghano (per la cui ricostruzione storico-satirica rimando ai Ncdc del giugno scorso: bit.ly/3CSBXL8) non impedisce ai frottoli nostrani di continuare a frottolare. A sputtanarli basta ormai un tweet di cittadini informati. Ne abbiamo già visti alcuni. Ecco gli ultimi tre.

Matteo Matzuzzi: Lo scoramento social per la caduta dell’Afghanistan nelle mani dei talebani, tra cuoricini spezzati e citazioni da film, conferma (se mai ce ne fosse ancora bisogno) che la guerra del 2001 fu giusta e sacrosanta. Contro la barbarie un vento di libertà che oggi già si rimpiange (Paolo Pocaterra: Chiedi alle migliaia di morti e feriti se è stata giusta. Alessandro Manica: I talebani non si potevano sconfiggere perché avevano l’appoggio logistico del Pakistan. Se la NATO avesse voluto prevalere, avrebbe dovuto dichiarare guerra al Pakistan, che è una potenza nucleare. È semplice. Alberto: Mi sembra giusto basare la propria valutazione sul numero di cuoricini spezzati sui social).Giuliano Ferrara: Biden persona decente, il suo speech una apologia della disfatta. Puoi essere contro la guerra in Afghanistan, ma da presidente devi spiegare con moralità politica perché in vent’anni gli Usa non sono riusciti a contenere e limitare il potere assoluto dei Talebani. #troppocomodo (Pasquino 70: Ce lo dovrebbe spiegare anche Trump, visto che ci è seduto allo stesso tavolo e gli ha fatto firmare un accordo. Piero Massi: Forse alcuni giornalisti dovrebbero spiegarci come potevano lodare come “democrazia” quella pantomima che abbiamo creato, ipercorrotta, in cui il potere reale era lasciato ai signori della guerra locali. Perché pensate quel governo sia crollato così? Federico Donelli: Perché per quanto ci piaccia pensare il contrario, nella società afghana i talebani non sono male assoluto, ma espressione di valori che vengono da millenni di storia e sono condivisi da una larghissima parte di popolazione. Matteo Morra: Scusi, ma lei che era favorevole, in prima linea a difendere le strategie di Bush Jr., Rumsfeld e compagnia, non dovrebbe spiegarci lei il fallimento? #troppocomodo scaricare su Biden e su chi non ha mai condiviso l’intervento. Luca Martini: Io ricordo ancora i “neocon” che tanto ti piacevano e il Progetto per un Nuovo Secolo Americano. L’ignoranza al potere. L’Halliburton al potere. E tu che cercavi di convincerci che era tutto giusto. Francesco Piccolo: Perché quelli come lei, quelli della superiorità occidentale, quelli che esportano la democrazia, 20 anni fa avevano torto! Potrebbe ammetterlo. Sarebbe decente, sarebbe serio, sarebbe dovuto. Grazie). Matteo Renzi: Che la terra ti sia lieve, #GinoStrada (Maranz: “Export di armi, record del governo Renzi”, La Stampa). (3. Fine)

 

La guerra oscena dei soldi mischiati a valori e sangue

Al pari di altri leader europei, Draghi ha speso poche parole sul ritiro di Washington e della Nato dall’Afghanistan. Si è limitato a dire che il rientro degli italiani e dei cooperanti afghani avverrà nel rispetto dei diritti umani, e che una cooperazione mondiale dovrà avere come sede il G20. Ha poi invitato a “riflettere sull’esperienza” passata, ma non ha azzardato alcun tipo di riflessione visto che “non è questa la cosa più importante”.

È la più importante, invece. Sapere perché la guerra d’invasione sia stata inutile oltre che nefasta, e come abbia potuto durare 20 anni, mietere tanti morti, non produrre alla fine altro che caos: rispondere a tali domande è cruciale, altrimenti non proveremo che smarrimento di fronte a un conflitto che finisce in modo così catastrofico: ben più catastrofico di quanto avvenne dopo la guerra di 9 anni condotta dall’Urss. Il governo pro-sovietico sopravvisse qualche anno dopo il ritiro del 1989; il governo di Ashraf Ghani protetto da Washington si è dato alla fuga immediatamente.

Quanto al G20, Draghi e molti suoi colleghi ignorano la necessità di trattare non solo con Russia, Cina e Turchia ma anche e soprattutto con i due Paesi che pesano maggiormente sulle sorti afghane e che tuttavia non sono nel Gruppo dei Venti: l’Iran che ha un lungo confine con l’Afghanistan (4 milioni di Hazara sciiti vivono nel timore), e il Pakistan che è il primo interlocutore-garante dei talebani. Senza di loro la guerra civile afghana è assicurata.

Nessun dirigente europeo ha mostrato di voler imparare dalla disfatta, e infatti la parola sconfitta è assente. Fa eccezione Angela Merkel, che ha ammesso errori ma non ha specificato quali, né quando e perché furono commessi: dunque le sue parole restano vacue. In Europa ci si preoccupa giustamente degli afghani traditi, che fuggiranno dal proprio paese. O del peso esercitato dai talebani sul narcotraffico (Roberto Saviano). O delle donne che potrebbero patire persecuzioni. Ma il vero dramma è occultato: la fine di un’Alleanza Atlantica creata per fronteggiare l’Urss ma che nel dopo Guerra fredda non ha saputo far altro che provocare o indirettamente favorire ulteriori guerre, tutte fallimentari: in Afghanistan, Siria, Iraq, Somalia, Libia, Sahel. L’appoggio sistematico agli integralisti più radicali: contro l’Urss in Afghanistan, contro Assad in Siria. L’incapacità di costruire un sistema di sicurezza internazionale che oltrepassi il multilateralismo – la forma gentile dell’atlantismo – e diventi infine multipolare, composto di potenze non omologabili alle idee di civiltà di volta in volta dominanti in occidente.

I difensori dei diritti delle donne conducono giuste battaglie ma non sempre in buona fede. Non solo perché la politica dei talebani è ancora incerta, ma perché i diritti sono stati in questo ventennio una conquista nelle grandi città, non nei villaggi. Perché sono migliaia le donne e i bambini morti sotto le bombe Usa. Perché l’Afghanistan, come del resto l’Iraq, non ha mai sopportato le aggressioni, anche liberatrici, dei forestieri. E chissà, forse i talebani, o una parte di essi, hanno imparato dalle ultime guerre più cose di noi. Forse daranno vita a governi più inclusivi delle varie etnie, e a forme di pacificazione con i Paesi limitrofi che scongiurino devastanti guerre civili.

La confusione delle nostre menti è rafforzata da ventennali menzogne. Ed è una confusione che persiste perché buona parte delle sinistre e dei commentatori sono figli più o meno consapevoli del pensiero neo-conservatore, del suo falso umanitarismo, delle teorie sullo scontro fatale tra culture. Tessono le lodi di Gino Strada, ma in cuor loro sperano che alle guerre infinite facciano seguito guerre civili altrettanto infinite, che diano diritti alle donne bombardandole.

Riflettere sull’esperienza passata vuol dire fare il punto sulle origini di una guerra che apparentemente fu una risposta all’attentato dell’11 settembre 2001. Fu la prima finzione, subito seguita dalle menzogne sulle armi di distruzione di massa detenute da Saddam in Iraq. Gli attentatori dell’11 settembre trovarono rifugio in Afghanistan ma erano legati all’Arabia Saudita, alleata di Washington.

Un’altra bugia riguarda il denaro “speso in Afghanistan”: oltre 3000 miliardi di dollari. Non sono stati spesi “in Afghanistan”. Hanno arricchito rappresentanti dei governi fantoccio, e in primo luogo le industrie delle armi in Usa ed Europa. Andrew Cockburn spiega bene come il complesso militare-industriale esca non perdente ma vincente dal conflitto, avendo accumulato profitti enormi dalla vendita di armi spesso inutilizzabili (The Spectator, agosto 2021). Il caso più spettacolare: la vendita degli aerei da trasporto italiani G-222, comprati dagli Usa per questa guerra (500 milioni di dollari). John Sopko, l’Ispettore Generale per la Ricostruzione Afghana nominato nel 2012 dal Congresso Usa ha rivelato: “I G-222 erano aerei del tutto inadeguati, inadatti alle altitudini e al clima”. I loro relitti giacciono oggi nei pressi dell’aeroporto di Kabul. La sentenza di Sopko: “La ricostruzione afghana è un villaggio Potemkin”. Una finzione.

Biden ha mantenuto la promessa del ritiro, anche se la gestisce male, ma quel che dice sulla colpa del governo e dell’esercito di Kabul è in minima parte verosimile (“Le truppe americane non dovrebbero combattere e morire in una guerra che le forze afghane non sono disposte a combattere per conto proprio”). Se gli afghani non erano “disposti” è colpa di quattro amministrazioni Usa che li hanno male attrezzati e infine abbandonati.

Dopo aver fatto il guaio, i belligeranti temono ora i suoi effetti inevitabili: l’arrivo dei profughi. Macron chiede di “irrobustire” i confini contro i “flussi migratori irregolari”, come se i profughi avessero il tempo di verificare la “regolarità” della loro fuga. La speranza è di mantenere, come se nulla fosse, gli accordi sui respingimenti negoziati fra Ue e Kabul nell’ottobre 2016 (Joint Way Forward on migration issues).

La parola d’ordine è dunque: guardare avanti, non attardarsi in autocritiche. Non imparare dagli errori, ma commetterne di nuovi preservando strutture fallimentari come la Nato, proteggendo le lobby militari che mischiano oscenamente “valori” e guerre, tuonando contro la Cina che minaccia Taiwan. Il vuoto di riflessioni non promette niente di buono. La spedizione in Afghanistan finisce ma già gli apparati militari-industriali d’occidente si preparano a future guerre, dirette o per procura.

La legge Trump: guadagnare di più tagliandosi lo stipendio

La riforma fiscale propagandata nel 2017 dall’ex presidente Donald Trump come il suo regalo di Natale a tutti gli americani si è rivelata solo una scappatoia che consente ai top manager di guadagnare milioni di dollari tagliando i propri stipendi. A smascherare questa sorta di trucco contabile voluto dall’ex presidente è un’inchiesta di ProPublica, una ong dedita al giornalismo investigativo non profit.

Un breve riepilogo. Il nocciolo della Tax Cuts and Jobs Act, la riforma pensata soprattutto per accogliere le richieste dei grandi finanziatori della campagna elettorale repubblicana, è il taglio delle imposte sui profitti aziendali dal 35 al 21%. Trump aveva promesso che questa sforbiciata avrebbe reso più ricco l’americano medio creando un fiume di investimenti. Il magnate aveva anche parlato di un possibile bonus che le imprese avrebbero girato ai dipendenti grazie ai risparmi fiscali introdotti dalla riforma. E, in effetti, il taglio delle tasse c’è stato, così come il risparmio. Peccato che i soldi, sottolinea ProPublica, anziché andare ai lavoratori sono stati trattenuti da chi è sia proprietario che dipendente di un’azienda. Semplificando molto, questi manager si sono tagliati lo stipendio (i salari sono rimasti tassati a un’aliquota massima del 37%) spostando il loro guadagno sui profitti che, secondo la riforma Trump, sono tassati a un aliquota massima del 29,6%. Un “giochino” fiscale che anche prima che la legge fosse approvata era stato stroncato da più parti. I misteriosi tagli salariali – spiega ProPublica – si sono verificati in tutti i settori: dalle società di logistica alle immobiliari, passando per i produttori di vasche da bagno. Spicca il calo di stipendio del produttore di accessori per auto David MacNeil, i cui tappetini sono sempre presenti negli spot del Super Bowl, sceso da 68 milioni di dollari nel 2017 a 47 milioni nel 2018. Poi c’è quello di Jeffrey Records, ceo della MidFirst Bank di Oklahoma City, crollato da 8,6 milioni a 1,8. E il salario di Dick Uihlein, il maxi-finanziatore repubblicano, sceso da 5,1 milioni a 2,1. È impossibile dire quanti soldi siano stati spostati dopo il 2017. È noto che dopo la legge Trump, i risparmi fiscali sono triplicati, arrivando all’11%.

Frodi europee, così spariscono 2,7 mld l’anno

Dai 2 ai 2,7 miliardi, ovvero tra l’1 e il 2% del bilancio dell’Unione Europea che l’anno scorso è stato di 165,8 miliardi. Questa è la stima – molto cauta – della quota del budget Ue che ogni anno, tra entrate e uscite, finisce nelle mani della criminalità organizzata. Un fronte sul quale, nonostante la continua attività di contrasto degli inquirenti nazionali abbia dato ottimi risultati, l’Italia purtroppo svetta ancora.

Sul fronte delle spese, secondo un recente studio del Parlamento europeo, per l’esercizio 2019 gli Stati membri hanno segnalato alla Commissione la scoperta di 11.726 irregolarità, fraudolente e non fraudolente, in calo del 2% sul 2018 per un importo di 1,6 miliardi. Di questi, 939 casi sono stati indicati quali frodi per un importo di 461,4 milioni. Quanto alle entrate, compreso il Regno Unito, nel 2019 sono state rilevate a livello statale 425 frodi per un importo di 79,8 milioni, un numero inferiore del 21% rispetto alla media del periodo 2015-19 nel suo complesso, mentre per quanto riguarda l’importo scoperto il calo rispetto alla media era del 19%. Tra i settori maggiormente colpiti vi sono l’agricoltura, la pesca, le politiche interne e quelle di coesione. Ma queste sono cifre parziali.

A livello Ue, l’Ocse rileva che ogni anno vengono frodati oltre 390 milioni di fondi strutturali. Nella Politica agricola comune, nel 2019 sono stati segnalati 235 casi di frode (in calo del 3% su base annua) per un importo di 24,6 milioni (in calo del -62% dal 2018). Le frodi si concentrano in alcuni Stati membri, tra i quali l’Italia, ma ciò potrebbe essere dovuto alla differenza tra i Paesi nella loro capacità di individuare e prevenire le frodi, nonché nel modo in cui le segnalano. Nella politica di coesione e nella pesca sono state registrate 187 frodi (-43%) per 338,8 milioni (-59%).

L’indagine sull’impatto della criminalità organizzata sugli interessi finanziari della Ue ha poi realizzato anche un proprio modello quantitativo per stimare la dimensione delle frodi. Dal punto di vista delle entrate, la Commissione stima che il “buco” di maggior entità sia quello causato dalle frodi intracomunitarie dell’operatore inadempiente (Mtic), che coinvolgono gruppi della criminalità organizzata, il cui controvalore in termine di perdite fiscali si aggira tra i 40 e i 60 miliardi l’anno. Si tratta della sottrazione dell’imposta sul valore aggiunto attraverso l’abuso delle norme Iva per le transazioni transfrontaliere. I truffatori ottengono profitti per miliardi eludendo il pagamento dell’Iva o chiedendo in modo fraudolento il rimborso alle autorità nazionali. La più semplice delle frodi Mtic prevede attività organizzate per sfruttare le differenze fiscali nei diversi Stati Ue e avvalersi dell’esenzione Iva negli scambi intracomunitari, importando merci e vendendole addebitando l’Iva agli acquirenti senza però versarla. I casi più complessi di frode Iva sono le frodi carosello: le merci vengono importate e vendute attraverso una serie di società prima di essere nuovamente esportate. La prima società della catena nazionale addebita l’Iva ai clienti ma non la versa al governo, diventando quello che viene definito il “commerciante scomparso”. Gli esportatori delle merci ricevono il rimborso di pagamenti Iva mai avvenuti.

Come spiega Europol, la percentuale di irregolarità fraudolente commesse dalla criminalità organizzata è, tuttavia, probabilmente molto elevata dal lato delle entrate del bilancio della Ue a causa della complessità degli schemi necessari per portare a compimento i reati. Non a caso l’80% delle frodi Mtic è realizzato solo dal 2% dei criminali coinvolti. Le cifre più recenti calcolano in 8,5 miliardi l’anno il valore delle frodi sull’Iva nel settore del tabacco, 4 miliardi per la benzina e i prodotti petroliferi e 1,3 miliardi per gli alcolici. Ma a far riflettere è la crescente percentuale di frodi Iva nel commercio elettronico, che si stima rappresentino ormai tra l’8 e il 12% dell’imposta totale sottratta. Buona parte di queste somme poi sparisce tramite complessi schemi finanziari che spesso transitano nei paradisi fiscali.

900 miliardi di utili nei paradisi fiscali

Com’è fatto un paradiso fiscale? Be’, a prima vista è un posto come un altro, ma al suo interno si assiste a un bizzarro fenomeno numerico: le società locali presentano bilanci con un normale rapporto tra utili pre-tasse e salari attorno al 30-40%, mentre quelle straniere che hanno base in quei magici luoghi riportano performance assolutamente fuori scala. Ad esempio le sedi di società straniere che hanno sede in Lussemburgo hanno un rapporto tra utili e stipendi del 600%: per ogni euro di stipendio che paga nel Granducato, una multinazionale ne accumula sei di profitti.

Com’è possibile? In realtà la risposta è nota da tempo: le grandi multinazionali spostano nei cosiddetti paradisi fiscali, attraverso operazioni intragruppo, profitti realizzati in altri Stati per pagare meno tasse. Quanti? La risposta per il 2018 è arrivata ieri: circa il 40% del totale, che fa oltre 770 miliardi di euro (900 miliardi di dollari, 250 miliardi di euro in più rispetto al 2015) con un conseguente abbassamento della loro aliquota fiscale del 10%. Per quelli a cui occorre un caso pratico citeremo Alphabet, la holding che controlla Google: secondo il suo bilancio 2017, la società ha fatto la bellezza di 23 miliardi di utili solo a Bermuda, una piccola isola nell’Atlantico in cui la tassa sulle imprese è casualmente zero.

I numeri sono estrapolati da un database – creato da tre economisti delle Università della California, di Copenaghen e di Berkeley (Gabriel Zucman, Ludwig Wier e Thomas Tørsløv) – pensato per mostrare dove le grandi corporation registrano i loro profitti e stimare quanti di questi vengono spostati per motivi esclusivamente fiscali, scegliendo dal menù delle norme in materia di tassazione quelle che più convengono: sono gli Stati, facendosi concorrenza fiscale a vicenda, a rendere possibile questa enorme elusione. Ovviamente il mare di capitali che ogni anno viene sottratto ai Paesi che li generano non è senza effetti: meno entrate fiscali a fronte di infrastrutture e servizi che la comunità mette a disposizione delle aziende, concorrenza sleale, statistiche inaffidabili sull’economia dei vari Paesi, l’accumulo di un enorme potere in mano a organismi economico-finanziari che si percepiscono di fatto come legibus soluti.

Queste pratiche hanno anche curiose ricadute geopolitiche, per così dire: le multinazionali Usa tendono a spostare nei paradisi fiscali una quota maggiore dei loro profitti (il 60%) rispetto al resto del mondo (il 40% in media) e in particolare ai concorrenti europei (25-30%): “Gli azionisti delle grandi corporation Usa paiono quindi – scrivono i tre economisti – i principali vincitori del trasferimento globale dei profitti”. Insieme, ovviamente, ai governi dei paradisi fiscali: anche se il loro prelievo è minimo (il 3,5%), la mole di capitali attirati gli garantisce notevoli introiti da tassazione. L’Europa – non tutta come vedremo – è invece la principale vittima di questa guerra.

E l’Italia? Anche l’Italia ovviamente è tra le vittime: nel 2015 perdeva poco meno di 20 miliardi di euro di profitti realizzati dalle multinazionali sul suo territorio, che erano diventati oltre 27 miliardi nel 2018 con una perdita di gettito fiscale calcolabile in 6,6 miliardi di euro (e solo di tasse sugli utili). E chi ha invece guadagnato sull’elusione subita dall’Italia? Sostanzialmente i paradisi fiscali europei: il Lussemburgo (11,5 miliardi di profitti provenienti dall’Italia), l’Irlanda (6 miliardi), i Paesi Bassi (4,1 miliardi), il Belgio (1,6 miliardi) e in misura minore Cipro e Malta (altri 3,5 miliardi vengono dirottati fuori dall’Ue, soprattutto in Svizzera).

Gli altri. Peggio ancora va alla Francia, che perde 40 miliardi di profitti e oltre 13 miliardi di tasse, e alla Germania, che vede prendere il volo più di 71 miliardi di euro di utili delle multinazionali e 21 miliardi abbondanti di incassi dell’erario. Non va meglio alla Gran Bretagna, che lascia per strada 100 miliardi di euro di utili e quasi venti di tasse. Anche in questi tre casi (nel 2018 Londra era ancora nell’Ue), i principali beneficiari sono i cinque paradisi fiscali targati Unione europea. La cosa notevole è che i profitti spostati in Lussemburgo, Irlanda & C. in genere non restano lì a lungo: il 77% dei profitti spostati da Germania, Italia e dagli altri Paesi finisce ai “concorrenti” interni, ma la metà prende la via di paradisi fiscali ancora più convenienti come Bermuda, Barbados o simili. Insomma, il passaggio nei Paesi Ue serve a togliere possibilità agli altri Stati membri la possibilità di intervenire (il mercato è unico anche se con regole fiscali differenti per ogni Stato).

Secondo il database di Zucman, Wier e Tørsløv, l’Europa è la principale vittima dell’elusione delle grandi compagnie: oltre il 35% dei profitti spostati viene dal Vecchio Continente, meno del 25% dagli Stati Uniti. Questo non vuol dire che la perdita degli Usa non sia comunque enorme: i profitti realizzati negli States e spostati in paradisi fiscali ammontano a circa 160 miliardi di euro, a più o meno 43 miliardi le tasse non incassate. Ovviamente in questo caso i principali beneficiari sono i paradisi off shore come Bermuda, Porto Rico, Hong Kong, Singapore, eccetera, ma i sei europei fanno comunque la loro parte accaparrandosi una quarantina di miliardi dei profitti in uscita.

Anche in Africa. Il fenomeno riguarda anche Paesi non ricchi. Ad esempio la Nigeria perde il 25% delle tasse sui profitti realizzati sul suo territorio: quasi un miliardo di euro per la precisione, a fronte di circa 3 miliardi spostati nei paradisi fiscali, compresi ovviamente il Lussemburgo, l’Irlanda e gli altri Paesi europei della lista.

È a questa inaccettabile situazione che dovrebbe porre rimedio l’accordo sulla tassa minima globale su cui – sotto l’impulso del presidente Usa Joe Biden – si sono accordati decine di Paesi all’Ocse (compresa l’Italia). Un accordo “storico, inadeguato e promettente”, lo ha definito al Fatto Gabriel Zucman, uno dei tre autori del database da cui sono tratti i numeri qui sopra: “Storico, perché per la prima volta dei Paesi si sono accordati su un’aliquota minima. Inadeguato, perché l’aliquota minima ipotizzata (15%, ndr) è davvero troppo bassa. Promettente, perché non c’è alcun ostacolo che impedisca di arrivare al 25%”, generando “circa 170 miliardi di euro all’anno per la sola Unione europea, 3-4 volte più di quanto verrebbe raccolto con un’aliquota minima del 15%”. Problema: l’accordo su cui a chiacchiere c’è gran consenso per ora rimane sulla carta, a non dire che saranno i dettagli tecnici – ammesso che si arrivi al varo della tassa minima – a stabilire se siamo all’inizio di una nuova era o all’ennesima presa in giro. Per ora, l’effetto certo è che in mezza Europa è stata bloccata la cosiddetta “web tax”.

Il paradosso d’Israele, il Paese “iperimmune” con la quarta ondata

Israele è in un momento cruciale nella sua campagna contro il Covid. Il numero di nuovi casi, ricoveri, malattie gravi e decessi è in aumento nelle ultime sette settimane, con un picco di 8.600 nuovi casi martedì. Gli esperti prevedono che i numeri continueranno ad aumentare per qualche settimana. Ma ci sono anche indicazioni positive. L’indice Rt ha iniziato a diminuire e ci sono prove che gli israeliani che hanno ricevuto la terza dose di richiamo – oltre un milione – hanno migliorato significativamente la loro protezione contro il virus. La domanda è se la terza dose sarà abbastanza efficace da frenare l’aumento dei casi prima che gli ospedali – che sono tornati in allarme rosso e hanno bisogno dei riservisti dell’esercito per far fronte all’emergenza – siano sopraffatti.

Il professor Ran Balicer, che dirige il gruppo di esperti sulla pandemia, ha spiegato in tv che il paese ha attualmente 100 nuovi pazienti gravi al giorno, il che è un enorme onere per il sistema sanitario, anche se si registra un rallentamento dei contagi tra gli over 60.

Molteplici fattori rendono la quarta ondata di Covid molto diversa dalle tre precedenti, soprattutto in Israele. Non è solo il maggiore livello di infettività della variante Delta. Questa è la prima ondata che arriva con la maggioranza della popolazione completamente vaccinata.

Israele è stato uno dei Paesi più virtuosi nella gestione dell’emergenza Covid, ma a pesare adesso nel boom di nuovi contagi sono i tantissimi (circa un milione) che non hanno risposto alla campagna vaccinale e che pur potendosi vaccinare finora “resistono a tutti gli appelli”. La gran parte dei refrattari alla vaccinazione è nella comunità ultraortodossa, da sempre scettica sul valore della Scienza sulla preghiera.

Oltre ai fattori epidemiologici, ci sono anche quelli sociali. I vaccini hanno finora goduto di un alto livello di fiducia tra gli israeliani e il successo della terza dose nel combattere questa ondata è cruciale per salvaguardare quella fiducia e convincere anche gli scettici a farsi vaccinare.

Il primo ministro Naftali Bennett, che ha sostenuto la vaccinazione diffusa come alternativa ai lockdown, ha recentemente incaricato i direttori delle quattro organizzazioni israeliane di mantenimento della salute di raddoppiare i loro tassi di vaccinazione e di offrire vaccinazioni 24 ore su 24. Finora, 5,8 milioni di israeliani hanno ricevuto la prima dose, mentre 5,4 milioni ne hanno ricevuto una seconda. Altri 1,2 milioni hanno ricevuto un terzo colpo di richiamo.

È una corsa contro il tempo perché martedì 7 settembre comincia la lunga serie di festività – con il Capodanno ebraico – che andranno avanti tutto il mese. Stagione di acquisti, di riunioni familiari, di visite ai parenti, di arrivi e partenze da e per l’estero. Bennett vuole evitare il lockdown – che sarebbe devastante – durante questo periodo. Intanto ha fatto spostare l’apertura delle scuole alla fine di queste festività, cioè il 1 ottobre.

L’aumento della contagiosità del Covid è solo temporaneo ha spiegato ieri sera su Channel 12 il biologo Eran Segal, i tassi di contagio dovrebbero scendere entro un paio di settimane. Segal, capo della Biologia del Weizmann Institute of Science, afferma che c’è stato un rallentamento nell’aumento dei casi gravi, per il quale attribuisce la nuova spinta a dare dosi di richiamo a tutti gli israeliani di età superiore ai 50 anni.

“In tutta onestà non sappiamo cosa vincerà, la campagna o il tasso di infezione, ma siamo ottimisti”, ha spiegato davanti alle telecamere, “credo che intorno alla prima o alla seconda settimana di settembre fermeremo l’aumento della morbilità”. Segal ha detto anche di essere favorevole a una terza dose a tutti coloro che hanno più di 40 anni.

“I morti sono quasi tutti over 60 senza vaccino”

“Il beneficio del vaccino è una scala di grigi. È stato creato per evitare la malattia sintomatica e come tale funziona”. Giuseppe Di Perri, direttore del dipartimento malattie infettive dell’Ospedale Amedeo di Savoia di Torino, dopo tutto quello che ha visto in un anno e mezzo di pandemia, non è più di tanto allarmato per l’alta circolazione del virus di questa estate 2021.

Professor Di Perri, c’è un allarmismo ingiustificato a proposito dell’efficacia dei vaccini?

A parità di circolazione del virus l’impegno ospedaliero è considerevolmente minore. Questo è evidente. Il vaccino serve a non ammalarsi gravemente. Se un anno fa ci avessero raccontato che grazie al vaccino chi ha più di 60 anni ha una probabilità sei volte minore di finire in ospedale in caso di infezione avremmo messo non una ma dieci firme.

Però ci si continua ad ammalare. E a morire.

Il 98% delle vittime sono ultrasessantenni non vaccinati. Quanto ai ricoverati, sono quasi tutti non vaccinati, qualcuno lo è con una sola dose, oppure con la seconda fatta a ridosso del ricovero. Altri, pochissimi, sono completamente vaccinati. Questi ultimi sono generalmente pazienti dal profilo di rischio piuttosto elevato, soggetti che danno comunque l’impressione di resistere alla malattia conclamata molto meglio di quanto sarebbe successo se non fossero stati vaccinati. L’età media è in calo, ma è un fatto fisiologico: si ammalano soprattutto i non vaccinati e i non vaccinati sono soprattutto giovani. Verosimilmente, poi, credo esista una predisposizione genetica alla malattia che ancora non siamo in grado di valutare, ma i fatti suggeriscono che la genetica talvolta giustifica la severità della malattia come per il diabete, l’ipertensione o l’obesità. In ogni caso questi giovani hanno quasi tutti una prognosi molto buona, qualcuno necessita di ventilazione, quasi mai è necessaria l’intubazione.

Quindi dobbiamo accettare l’idea che anche con una doppia dose ci si può reinfettare?

Certamente. Bisogna accettare che accada.

È quello che sta succedendo in Israele, per esempio?

Certo. È il fenomeno del paradosso di Simpson. Se la maggior parte della popolazione è vaccinata, è probabile che tra gli ammalati ci sia un’alta quota di vaccinati. È matematica. In Israele circa l’80-85 per cento della popolazione è vaccinata, il numero di dosi somministrate ogni 100 abitanti è più alto che da noi. E soprattutto fanno molti più tamponi. Anche per questo intercettano molti contagi.

Come vede l’autunno?

Molto dipenderà dal nodo scuola, avremo certamente fluttuazioni di casi abbastanza importanti, ma credo che dopo l’autunno potremmo finalmente uscire dalla fase emergenziale ed entrare in un disegno strategico post emergenziale che combini vaccinazione e protezione non vaccinale. Oltre al green pass, il cui obbligo dovrà necessariamente estendersi ai mesi invernali per i luoghi chiusi, ci sarà da affrontare il tema di come proteggere alcune categorie particolari, in particolare le persone che per motivi vari non hanno risposto al vaccino, che andranno protetti con farmaci monoclonali e con antivirali. Questi ultimi saranno farmaci che si potranno tenere in casa e assumere ai primi sintomi. Ho fiducia che l’uso precoce di monoclonali e antivirali nei prossimi mesi mitigherà la cappa d’angoscia che ancora ci attanaglia.