La Sicilia ha trovato la soluzione. Dimette i positivi e resta bianca

Contrordine. Si resta tutti in bianco. Salvo sorprese, infatti, oggi la Cabina di regia non decreterà, come previsto nei giorni scorsi, il passaggio della Sicilia (e dunque nemmeno della Sardegna) in zona gialla. E tutta l’Italia resterà bianca almeno per un’altra settimana ancora. A quanto risulta da indiscrezioni di palazzo, i dati in possesso della Cabina di regia differirebbero di qualche decimale rispetto a quelli diffusi da Agenas, l’agenzia ministeriale per i servizi sanitari, secondo cui l’Isola avrebbe superato entrambe le soglie critiche di occupazione dei posti letto sia nei reparti ordinari (17%, limite del 15) che in quelli di terapia intensiva (10,2%, soglia al 10). Questo nonostante la Sicilia anche ieri abbia registrato i dati più alti d’Italia, con 1.377 nuovi positivi e 16 morti. 724 i ricoverati, 23 in più rispetto al giorno precedente, mentre in terapia intensiva sono 83 i ricoverati, 3 in più rispetto a mercoledì.

La retrocessione in zona gialla, stando a quanto riporta livesicilia.it, potrebbe essere evitata anche grazie alla delibera “svuotareparti” firmata dal direttore del dipartimento regionale per la Pianificazione strategica dell’assessorato alla Salute Mario La Rocca datata 13 dicembre. Il dirigente autorizza le aziende sanitarie siciliane a dimettere, anche se positivi al Covid, pazienti che non abbiano febbre da 48 ore, che abbiano una saturazione uguale o superiore a 92% o 90% per i cronici da almeno 48 ore, che non siano in ossigenoterapia, che siano emodinamicamente stabili e “autosufficienti nella gestione delle attività quotidiane”. La cura del paziente dimesso, si legge sempre nella circolare, sarà affidata alle Usca, le Unità speciali di continuità assistenziali della Regione.

Insomma, dopo l’aumento del numero di posti letto in terapia intensiva (da 730 a 762 in una settimana), l’ulteriore alleggerimento della pressione sul sistema sanitario siciliano potrebbe risparmiare all’Isola il giallo.

Ma cosa eviterebbero i siciliani? Ben poco. Le regole della zona gialla prevedono solo il ritorno dell’obbligo di mascherina all’aperto e il divieto di tavolate superiori a quattro persone. Per il resto tutto uguale alla zona bianca. Un approccio “soft” che comincia a destare qualche interrogativo: “Il vaccino è indispensabile ma non basta – dichiara all’AdnKronos il virologo Francesco Menichetti, primario di Malattie infettive dell’ospedale di Pisa – Bisogna capire rapidamente che ci difende dal Covid grave, dalla morte e riduce in parte la diffusione del contagio, però abbiamo anche reinfettati in persone che hanno ricevuto il vaccino a ciclo completo, quindi dobbiamo continuare a difenderci adottando le norme di precauzione: mascherina, lavaggio delle mani, distanziamento ed evitando gli assembramenti. Bisogna riprendere – conclude – una campagna vigorosa sui comportamenti che è stata abbandonata con l’abolizione dell’obbligo di mascherina all’aperto”.

Nelle prossime ore sul tavolo della Cabina di regia dovrebbero arrivare anche i dati delle Regioni sui decessi delle ultime settimane. La maggior parte non era vaccinata o aveva ricevuto una sola dose: “È un dato atteso – sostiene Roberto Cauda, direttore dell’Istituto di malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma – il parametro dei decessi è evidentemente legato a quello dei contagiati ricoverati, e secondo l’Istituto superiore di Sanità l’incidenza delle infezioni è 10 volte più bassa nei vaccinati”.

Oltre alla Sicilia, sotto osservazione anche la Sardegna che sale di un punto, con l’11% di occupazione dei posti letto nell’area medica e il 10% in rianimazione, seguita dalla Calabria (rispettivamente 16 e 7%). Ma i numeri, seppur moderatamente, crescono in tutta Italia: sono 7.260 i positivi ai test Covid secondo l’ultimo bollettino e 55 le vittime in un giorno (ma sono stati conteggiati dieci decessi in più, che riguardano i giorni precedenti). Il tasso di positività è del 3,5%, in leggero aumento rispetto al precedente 3,1% e in tutto il Paese sono 460 i pazienti in intensiva, 18 in più di ieri nel saldo tra entrate e uscite. Gli ingressi giornalieri sono 40 e i ricoverati con sintomi nei reparti ordinari sono 3.627 (+68).

Tutti contro Conte: si può dialogare, ma guai a dirlo

Nel sostanziale stallo internazionale seguito alla vittoria talebana in Afghanistan, inizia a porsi il problema del negoziato da intraprendere con i seguaci del Mullah Omar. Con i talebani, del resto, si discute da circa dieci anni ed è evidente che, se non si vuole lasciare un vantaggio competitivo a Cina, Russia, Pakistan o alla Turchia – ieri Recep Erdogan ha mandato i primi segnali pubblici di dialogo – anche l’occidente dovrà trovare una strada diplomatica.

Va in questa direzione il G7 dei ministri degli Esteri che si è riunito in conferenza ieri. “La crisi in Afghanistan richiede una risposta internazionale che comprenda un intenso impegno sulle questioni critiche che affliggono l’Afghanistan” si legge nella dichiarazione conclusiva che chiede “alla comunità internazionale di unirsi con una missione condivisa per impedire un’escalation della crisi in Afghanistan”. Dopo aver fissato come punti fermi la necessità di mettere fine alla violenza e di rispettare i diritti di donne e minoranze, i ministri del G7 (per l’Italia Luigi Di Maio) auspicano “negoziati inclusivi sul futuro dell’Afghanistan” sottolineando “la necessità che tutte le parti rispettino il diritto internazionale umanitario”.

Il riferimento ai negoziati è sfumato, ma c’è. Molto più esplicito, invece, è l’Alto rappresentante europeo per la politica estera, Josep Borrell, che in un’audizione al Parlamento europeo ha sostenuto che “dobbiamo parlare con loro (i talebani, ndr) per cercare di evitare un deterioramento della situazione. Certo che dobbiamo parlare con i talebani, ma non vuol dire riconoscerli né assisterli militarmente”.

A Kabul, tra sventagliate di mitra, disperazione degli anti-talebani e una situazione i cui sviluppi è difficile prevedere, ieri si è notato l’attivismo dell’ambasciatore pakistano a Kabul Ahmed Khan che ha incontrato l’ex presidente Karzai mentre il presidente fuggitivo, Ashraf Ghani, si è detto favorevole a intavolare un negoziato con i talebani.

In Italia, invece, l’attenzione è stata monopolizzata da una dichiarazione di Giuseppe Conte, intervenuto a un dibattito sulla Costiera amalfitana, basata su un approccio diplomatico: facciamo tesoro della lezione, ha detto l’ex presidente del Consiglio, sapendo che “le armi non risolveranno i problemi” e poi disponiamoci alla diplomazia coltivando “un dialogo serrato” anche con il nuovo regime visto che “a parole, propone un approccio distensivo”.

La parola “dialogo”, che occupa i pensieri di tutta la diplomazia internazionale, e come abbiamo visto anche di Borrell, è sembrata una bestemmia innanzitutto ai vari dirigenti di Italia Viva, Forza Italia fino a Carlo Calenda. Il gioco politico, in questo caso, è sempre il solito: alzare il tiro contro il M5S per spingere il Pd a distanziarsi dal suo “alleato”. L’operazione sembra essere riuscita visto che Enrico Letta al Tg3 ha giudicato molto difficile l’ipotesi del dialogo invitando “a prepararsi al peggio”.

Nel pomeriggio, sui siti online dei quotidiani e nei vari social media, è stata anche costruita l’ennesima contrapposizione tra Conte e il compagno di partito Di Maio il quale, intervenuto al G7, aveva invitato a giudicare i talebani più per le “azioni” che per “le parole”. Di Maio ha in realtà garantito riservatamente che quelle parole erano state concordate con lo stesso Conte.

Il quale è intervenuto di nuovo replicando alle accuse: “Di fronte al disastro umanitario che è in corso in Afghanistan – ha scritto in un post su Facebook – è vergognoso che in Italia ci sia chi gioca a strumentalizzare fatti e dichiarazioni per biechi fini di polemica politica”. L’accusa è soprattutto “agli esponenti di quella stessa forza politica che ha inneggiato al ‘rinascimento arabo’”, leggi Italia Viva e “che ha sostenuto fideisticamente che il percorso che si stava compiendo in Afghanistan fosse risolutivo e privo di errori”.

Dietro le parole “serrato dialogo”, dice Conte, si voleva intendere che “la comunità internazionale esprima una compatta pressione sui talebani affinché siano costretti ad accettare condizioni e garanzie per il riconoscimento e la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali della popolazione”.

Da segnalare infine anche la presa di posizione del blog di Beppe Grillo che ha pubblicato un articolo molto duro contro i presidenti, re e dittatori che scappano (riferimento a Ghani), ma soprattutto contro tutti i governi che hanno sostenuto la guerra in Afghanistan. E nell’elenco, da Prodi a Berlusconi, finiscono anche Conte e Di Maio.

I due “Leoni del Panjshir” non si fidano dei mullah

A nord di Kabul c’è chi non sventola bandiera bianca, il vessillo talebano. Nella valle del Panjshir è rinata “l’Alleanza del Nord”, già suggellata negli anni 80 dai mujahidin per resistere ai sovietici. A guidarla sono Amrullah Saleh, vice-presidente afghano dichiaratosi su Twitter presidente ad interim dopo la fuga di Ashraf Ghani, ed Ahmad Massud, che porta lo stesso nome di suo padre, il “leone del Panjshir”, che Saleh servì durante la guerra contro Mosca.

Dopo aver combattuto prima contro i russi, poi contro gli islamisti, Saleh divenne rappresentante diplomatico di Massud padre, prima in Tagikistan e poi in India, eterna nemica di quel Pakistan che sostiene i talebani. “Le spie non si arrendono mai” è il suo motto da quando, nel 2004, il presidente Hamid Karzai lo ha messo a capo della Nds, l’intelligence afghana che ha costruito più che gestito. Criticò l’ex capo di Stato per approccio timido contro “gli studenti di religione” mentre guidava ancora il direttorato dei servizi segreti, che riuscirono a infiltrarsi, seguendo i suoi ordini, tra le tribù di etnia pashtun che nascondevano Bin Laden. Non solo per questo lo amava Washington. Possedeva una dote che mancava a tutti gli altri politici afghani: era onesto, non corruttibile. Divenne ministro degli Interni di Ghani nel 2017 e poi suo vice nel 2020. Contro i talebani, che torturano sua sorella Mariam per trovare lui, ha fondato il partito Basej-e Milli , “mobilitazione nazionale”. Nonostante i tentativi di omicidio e attentati, è sopravvissuto a molti agguati in cui una decina di persone ha invece perso la vita. L’ultima volta che i talebani hanno provato a ucciderlo è stato il 9 settembre 2020: nello stesso giorno, ma nel 2011, poco prima che cadessero le Torri gemelle a New York, fu ammazzato da Al Qaeda “il leone del Panjshir”, che si lasciava dietro una leggenda ineguagliabile e sei figli. Cinque femmine, un maschio: Ahmad. È con lui che ora Saleh vuole riprendersi l’Afghanistan.

Ahmad ha lo stesso nome di suo padre, ma non il suo titolo di shah, “capo”. Indossa il pakol, copricapo afghano, dello stesso colore e nello stesso modo in cui faceva il genitore, per sottolineare una somiglianza già netta. Il ragazzo in tunica e kalashnikov che ha dichiarato ieri l’inizio della resistenza anti-talebana, qualche anno fa, sorrideva in posa e in toga nera e lucida il giorno della sua laurea in Studi bellici al prestigioso King’s college di Londra. Ha imparato a dibattere in un inglese impeccabile all’accademia militare di Sandhurst, in Gran Bretagna, frequentata dopo le scuole in Iran. Del padre ricorda le gesta eroiche in appelli che pubblica il Washinton Post, chiede aiuto e armi per la sua patria, dove ha però fatto ritorno solo cinque anni fa e di cui, dicono i detrattori, sa poco.

Gli uomini dell’Alleanza del Nord hanno poche armi e le vogliono dall’“arsenale della democrazia”, gli Stati Uniti. Pochi combattenti: quasi tremila. Poco territorio: non riescono a mantenere il controllo dalla valle alla frontiera. Dall’altro lato, sulla barricata islamista, c’è un altro discendente che deve dimostrarsi all’altezza del mito di suo padre: Mohammad Yaqoob, figlio del mullah Omar, che i talebani li ha fondati. Come Ahmad, ha circa 30 anni e, come lui, è stato più volte valutato troppo giovane per poter essere un leader. Entrambi sono stati accusati di vivere di un’eredità che non hanno ancora dimostrato di meritare per l’assenza di biografia bellica: in battaglia, i figli dei due guerrieri che hanno plasmato la storia afghana, non ci sono ancora mai stati.

“Anche i tribunali di Allah e le pene severe preferiti alla corruzione dilagante”

Vent’anni dopo essere stati cacciati da Kabul, i talebani ne hanno ripreso il possesso. Cosa sappiamo dell’evoluzione e dei cambiamenti di questo movimento? Per Adam Baczko, analista di Sciences Po, che ai talebani ha dedicato un libro di imminente uscita, la loro coesione ideologica e organizzativa è rimasta notevolmente elevata. Un dato che non permette di prevedere alcun allentamento della loro intransigenza religiosa e politica.

“All’origine della struttura gerarchica ci sono i membri del clero islamico, che si presentano come il partito dell’ordine e della legge. Al potere troviamo gli Alim, dei dottori del diritto coranico, che godono dello status di giudici”.

Al di là del rigorismo religioso, cosa caratterizza il progetto talebano?

È un movimento nazionalista, statalista e moralista. Per i talebani, l’origine della guerra risiede nella corruzione, in particolar modo di chi collabora con lo straniero, prima i sovietici, poi gli occidentali. Di qui il loro rigorismo: se le persone si comportano bene, non saranno più tentate dalla sovversione e l’ordine sarà ristabilito. I giudici giustificano in questo modo la severità delle loro sanzioni.

Il movimento, rispetto al 2001, è rimasto coerente alla sua ideologia?

Dagli anni 2000 a oggi non esistono fonti serie a riguardo. Ma se da sociologo osservo gli effetti delle decisioni prese dai talebani, noto che la giustizia da loro praticata è la stessa nelle diverse aeree geografiche del paese, basandosi su principi generali che riprendono quelli degli anni 90. Si può dire quindi che la matrice ideologica è stata preservata. La strategia della Cia di dividere il movimento in micro-gruppi è stata fallimentare.

Al di là della forza, che metodi hanno usato i leader per garantirsi lealtà dopo il 2001?

Al potere tra il 1996 e il 2001, i talebani sono stati considerati, e non a torto, responsabili del disastro economico del paese. Le limitazioni alla libertà e la severità della loro repressione avevano contribuito all’insoddisfazione della popolazione. Nel 2001, quando il movimento si è disgregato, le forze statunitensi hanno dato la caccia ai militanti vicini ai talebani e ad Al Qaeda, appoggiandosi però su milizie che ne approfittavano per portare avanti i propri regolamenti di conti. Ne sono seguiti molti abusi. Persone che non c’entravano nulla con i talebani sono state arrestate o sono state uccise. Dal 2002 in tanti hanno dunque scelto la via dell’insurrezione. I talebani hanno cominciato a ricostruire le loro basi, eliminando funzionari legati al regime, creando istituzioni proprie, ponendosi come un’autorità imparziale.

Come hanno fatto a rendere il loro regime, conservatore e repressivo, persino preferibile al governo sostenuto dall’Occidente?

Bisogna considerare il grado di corruzione raggiunto dal governo appena decaduto. I processi assomigliavano a delle aste al miglior offerente. La guerra civile si traduce concretamente per la gente in una profonda incertezza riguardo ai beni fondamentali, alla situazione matrimoniale, alla proprietà. Il governo afghano ha perso credibilità esacerbando queste incertezze. I talebani hanno fatto l’esatto contrario, riguadagnando il credito perso quando erano al potere. Sono riusciti a presentarsi come l’incarnazione dell’ordine e dell’autorità.

Oggi il loro trionfo sembra totale…

Alla caduta dei talebani, c’è stato un vero slancio democratico. Milioni di afghani sono andati alle urne a rischio della propria vita. Hanno guadagnato margini di libertà per istruirsi, viaggiare, esercitare professioni prima impossibili. Ma non hanno mai svolto un ruolo nella definizione del paese. Hamid Karzai, presidente dal 2001 al 2014, è stato imposto dagli Stati Uniti. Per gli afghani era uno sconosciuto.

(Traduzione di Luana De Micco)

La “protesta della bandiera” è un banco di prova per i Talib

Dalle province, dov’era già esplosa mercoledì, la protesta anti-talebani raggiunge Kabul: centinaia di persone hanno ieri manifestato presso il palazzo presidenziale. E dopo i morti di Jalalabad, ve ne sono stati altri – almeno quattro – ad Asadabad, nell’Est del Paese. L’insegna della protesta è la bandiera afghana, che i talebani vogliono sostituire con il loro vessillo bianco con caratteri arabi in nero. La sfida del popolo è una delle prove che gli ‘studenti’ devono superare per riuscire a gestire l’Afghanistan, dopo avere dimostrato, negli ultimi vent’anni, di sapere condurre con successo un’insurrezione. Ieri, era stata proclamata la Giornata dell’Indipendenza, per celebrare la vittoria sull’“arroganza delle potenze mondiali”. Al di là dei fremiti di protesta, e della situazione intorno all’aeroporto, Kabul è stata sostanzialmente calma: l’ospedale di Emergency registra l’arrivo di feriti, ma meno che nei giorni precedenti – e tutti provenienti dall’aeroporto –. Però, giungono testimonianze di episodi di caccia ai collaboratori degli americani. E il video di una giornalista cui è stato impedito l’accesso alla redazione, Shabnam Dawran, è divenuto virale.

Fuori dall’aeroporto, i talebani usano la forza per bloccare o limitare l’esodo: mamme hanno lanciato i loro bambini oltre il filo spinato, perché i soldati che presidiano lo scalo li raccogliessero. Dentro l’aeroporto, il cui cielo è pattugliato da caccia Usa, non tutti trovano posto: finora sono state evacuate circa 7.000 persone, ma si calcola che solo i cittadini statunitensi da portare via siano tra gli 11 e i 15 mila. Usa, Nato e Ue coordinano le operazioni: ieri ci sono stati decolli verso Italia – 202 gli sbarcati a Fiumicino, altri 198 in arrivo –, Spagna, Turchia, Usa. Mosca si dice pronta a portare gli afghani in Paesi che vogliano accoglierli. L’Uzbekistan ha già ricevuto 1500 profughi, il Pakistan ne ospita da anni milioni. Joe Biden fa sapere che le truppe Usa potrebbero restare oltre la data limite del 31 agosto, se fosse necessario per evacuare tutti gli americani e i loro collaboratori. A Washington, s’è impantanati nelle polemiche sulla gestione dell’esodo. L’intelligence insiste: avevamo avvertito che il governo afghano si sarebbe dissolto, una volta che le nostre truppe se ne fossero andate. Ma la rapidità del collasso non era stata prevista né dagli 007 né dai militari né dai politici: sono così andate perdute settimane che potevano essere dedicate a un esodo ordinato. Il presidente si assume la responsabilità del ritiro: “Lo avrei fatto anche senza l’intesa siglata da Donald Trump… E i militari non erano contrari”. I leader del Congresso gli hanno chiesto un briefing riservato, che ci sarà oggi virtuale e martedì in persona. E mentre ci si interroga sulle conseguenze politiche del disastro afghano sulla presidenza Biden – una maggioranza di americani continua a condividere la decisione di venire via dall’Afghanistan, anche se depreca il modo –, emerge nelle consultazioni internazionali la priorità umanitaria, quello che il Washington Post chiama “l’obbligo morale” nei confronti dei rifugiati. L’Ue annuncia lo stop ai fondi per lo sviluppo dell’Afghanistan, in attesa di vedere quale sarà l’assetto di governo a Kabul, e ipotizza il ricorso a una direttiva del 2001 mai usata per l’accoglienza dei richiedenti asilo in circostanze eccezionali. Bruxelles non vuole lasciare la gestione del rapporto con i talebani a Cina e Russia che appaiono meglio piazzate dell’Occidente con gli ‘studenti’.

Per Pechino questi talebani, rispetto a quelli cacciati dal potere vent’anni or sono, sono “più sobri e razionali”. La Russia lavorava da anni metodicamente a costruire le basi di relazioni con il movimento islamico, che pure, ufficialmente, considera ancora un’organizzazione terroristica, e insiste perché s’arrivi a un governo inclusivo. Anche la Turchia fa sapere di volere agire d’intesa con la comunità internazionale, ma il presidente Erdogan esclude di prestarsi a fare da hub dei richiedenti asilo nell’Ue, com’è avvenuto con i profughi siriani: un modo di tirare sul prezzo.

Tale Bano tale Merlo

Molti ci scrivono che non leggono più Stampubblica, ma sbagliano. È vero che ieri abbiamo scritto del patteggiamento di Fca per aver corrotto dei sindacalisti Usa e Stampubblica no. Però abbiamo bucato almeno due notizie mica da ridere. La prima è di Marcello Sorgi su La Stampa: “La crisi afghana… proietta in primo piano Draghi, e per suo tramite l’Italia”. Basta tendere l’orecchio in ogni angolo dell’orbe tarracqueo per udire genti delle più varie inflessioni discutere animatamente associando alla parola “talebani” il nome “Draghi” e poi sorridere. Del resto “cos’abbia in testa SuperMario lo si è capito dall’intervista al Tg1 che ha segnato il suo ritorno in scena dopo la breve vacanza in cui, in sua assenza, il dibattito politico era immediatamente sceso di tono”. Per dire: c’era persino un tizio che invocava una giunta militare in caso di caduta del governo: un certo Sorgi.

Un’altra raffica di scoop la svela Francesco Merlo di Repubblica: abbiamo “in casa i talebanini, gli ‘italiban’, quelli che l’orrore del terrorismo è meglio dell’orrore dell’Occidente”. Chi siano non è dato sapere, né quale legge imponga di preferire l’orrore di qualcuno anziché rifiutarli tutti (come facciamo noi). Però il Merlo traccia un identikit degl’italiban. Sono quelli che “spacciano Gino Strada per maestro di pensiero politico”, invece di deridere le sue idee ora che è morto e i fatti gli danno ragione. Quelli che si ostinano a definire “guerra di aggressione” quella che per lui era “guerra di Civiltà contro l’Inciviltà” e “necessaria risposta alla guerra contro l’Occidente dell’islamismo fanatico con l’attacco alle due torri”, che fra l’altro aveva “liberato Kabul dalle barbe dell’Islam”. Una barzelletta che, a parte il Merlo e Giuliano Ferrara (citato come maestro di pensiero politico), non sostiene più nessuno, neppure alla Casa Bianca. Lì hanno finalmente capito dov’è Kabul e scoperto ciò che già si sapeva nel 2001: Bin Laden era un saudita sostenuto da Riyad e dal Pakistan e nei commando delle Due Torri non c’erano afghani, come in quelli che in 20 anni di guerra al terrorismo han seminato nel mondo molti più morti di prima. Memorabile il parallelo fra guerra all’Afghanistan e resistenza al nazismo: come se i talebani avessero invaso gli Usa o la Ue. Non è una battuta. Il Merlo ci crede veramente: “I talebani mettono bombe e tagliano gole anche nelle città dell’Occidente”. Abbiamo cercato negli archivi di Rep almeno un caso di talebano che mettesse bombe o tagliasse gole in Occidente. Invano. Quindi il Merlo tace gli scoop persino al suo giornale. O scambia per talebano chiunque abbia la barba. Nel qual caso, non vorremmo essere nei panni di Scalfari.

727 anni di “Perdonanza”: L’Aquila tra sacro e profano

È in arrivo la 727esima edizione della Perdonanza Celestiniana, la Festa per eccellenza dell’Aquila, tra le più longeve al mondo. Nel dicembre del 2019, l’Unesco l’ha consacrata patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Resiste ai fuochi fatui spirituali del progresso, e deve il suo nome a quella “Bolla del Perdono” che papa Celestino V emanò, nel remoto 1294, a mo’ di indulgenza plenaria. Un salvacondotto universale dell’anima senza compravendite o apartheid censitari, free: unica conditio sine qua non, il professarsi “veramente pentiti e confessati” e l’avere avuto accesso tra il 28 e il 29 agosto alla basilica di Collemaggio. Un rito social-religioso, privato e collettivo che si ripete tutte le estati: anticipò di sei anni la nascita dello stesso Giubileo cristiano. Un evento sempre contemporaneo al suo tempo, dalle mille sfumature pop. Tra gli ospiti del cartellone collaterale di spettacoli allestito dal maestro Leonardo De Amicis ci saranno infatti, tra gli altri, Roby Facchinetti, Irene Grandi, Simone Cristicchi, Michele Zarrillo e Orietta Berti (la sera del 23, presenta Lorena Bianchetti); il “Gran Galà di étoiles” con i primi ballerini e solisti della Scala di Milano, del Teatro dell’Opera di Roma, del San Carlo di Napoli e del Centro Danza Art Nouveau (il 24, conduce Lorella Cuccarini); Gigi D’Alessio con “Il Racconto” (il 25, special guests Arisa e Clementino); Max Pezzali il 26 e Franco 126 il 27; lo show finale del 30 con Fabrizio Moro, Ermal Meta, Dulce Pontes, Monica Guerritore, Stefano Fresi, i Neri per Caso, il ritorno di Riccardo Cocciante e la partecipazione straordinaria di Renato Zero. Le due giornate centrali però resteranno, pena la mancata e bonaria remissione dei peccati, quelle liturgiche e tradizionali del 28 e 29 agosto. Il 28 il cardinale Enrico Feroci aprirà la Porta Santa di Collemaggio (richiusa la sera successiva dall’arcivescovo Giuseppe Petrocchi e dal sindaco Pierluigi Biondi) e partirà il corteo storico con i figuranti in costume, anche se, causa Covid, “sarà di nuovo in forma statica – spiega il primo cittadino –. Il tema di quest’edizione? Nell’anno della Dad abbiamo scelto la formazione”. E così a vestire i panni della Dama della Bolla sarà Marianna Capulli, insegnante della scuola primaria, mentre nel 2020 era toccato a Desiree Biccirè, medico anestesista. Rappresentanti di due tra le categorie più esposte durante la pandemia: le avremmo perdonate comunque.

Combatti ancora Joanie. “Capitol Hill mette paura”

Joan Baez mi ha inviato la lettera che segue il giorno 2 agosto. L’argomento è l’attacco al Campidoglio. È un evento che l’ha coinvolta nella condanna della parte di un grande Paese, che è rimasta immobile o assente o preferisce (anche il “liberal-left”) chiudere l’argomento, come se una cosa così grave come l’assalto preordinato al Parlamento non fosse mai avvenuta.

La giovane ribelle della guerra al Vietnam ha invece cominciato, appena compiuti 80 anni, a scriverne o a parlarne, anche in situazioni improvvisate, anche senza la folla di un tempo, come ormai non faceva da anni.

È facile immaginare, dato il suo passato, che sia alla testa di un movimento. Invece si sente solitudine e un grande spazio vuoto, intorno a lei, persino nel Paese strappato a Donald Trump e dato all’onesto liberal Joe Biden, si sente una sorta di debolezza nelle ossa che suggerisce cautela piuttosto che ribellione.

Certo non per Joan Baez.

“Caro Furio, ti ricordi quando dicevano che ero una idealista? Poi, visto che mi battevo contro la guerra hanno detto: una ottimista, credevo addirittura possibile un mondo senza morti in divisa e bandiera. E alla fine mi vedevano come una pessimista, perché non mi rassegnavo alla conta dei morti che durante la guerra in Vietnam veniva fatta ogni giorno.

Adesso sono profondamente coinvolta con l’impegno a provare che ciò che è accaduto in Campidoglio il 6 gennaio è stato esattamente ciò che sembrava: una insurrezione organizzata, e devo dirlo contro i tanti che ci vedevano una festicciola un po’ disordinata. Quello che è accaduto è stato preparato e, persino da chi ne era stato informato, lasciato accadere. Perché si è creata una sorta di intesa (nel senso di tolleranza) fra liberal troppo calmi di sinistra e una rabbiosa destra cultista. Siamo molto al di là della nostra peggiore immaginazione, esemplare la risposta a una domanda in Tv di uno dei dimostranti: ‘Non siamo qui per fare del male, siamo qui per rovesciare il governo’. C’è una strana divisione nell’opinione pubblica anche politica. Nel Vietnam era guerra o pace. Adesso siamo di fronte a un silenzio educato quasi di massa che i liberal di sinistra vedono come il modo giusto per fermare l’attacco dei culti. Trump ci ha offerto un piccolo repertorio della gente che trama con lo strumento delle enormi falsificazioni di tutto. E non è detto che Trump sia il capo o il peggiore o il più privo di decenza e rispetto di una nuova classe dirigente. Ma questo è lo strano miscuglio di coloro che si sono mostrati sul Campidoglio conquistato non si sa da chi, non si sa perché e seguendo quali ordini. E le conseguenze, almeno per qualcuno, sono quelle che ti sto per raccontare e che devono essere conosciute. Ti mando il ritratto di uno dei quattro funzionari che il 6 gennaio 2021 avevano la responsabilità della sicurezza di Camera e Senato. Si chiama Michael Fanone e nell’interrogatorio della Commissione d’inchiesta sugli eventi del 6 gennaio, è stato il solo a rispondere. Sì, ha detto, si è trattato di una aggressione organizzata con un numero di partecipanti molto alto, pronti e in attesa negli accessi disponibili, alcuni già aperti dall’interno. No, nessuna forza di polizia ha risposto a nostre chiamate o ammesso di averle ricevute.

Michael Fanone ha consegnato alla Commissione di Inchiesta sull’assalto del Senato del 6 gennaio notizie e dettagli utili abbastanza per portare l’inchiesta in Senato e alla stampa. Le due cose non sono accadute e dalla consegna del testo della sua relazione Michael Fanone è sotto stretta protezione giudiziaria a causa della gravità e continuità delle minacce ricevute. Tieni presente che anche gli altri tre ufficiali più prudenti sono oggetto di minacce per avere partecipato all’inchiesta. Ciò accade negli Usa. Oggi. Io non penso che questa storia sia finita.

La mia risposta – ora che dipingo – è stata un grande ritratto di Michael Fanone che ho esposto bene in vista sull’autostrada vicina a casa. Ti mando la fotografia”.

Joanie.

Da Mussolini ad Andreotti e B.: la politica che rotola col pallone

C’erano una volta il Divo Giulio e il Divino Falcao. Era l’estate del 1983, la Roma appena campione d’Italia e il suo Ottavo re, il numero 5 brasiliano, già con le valigie pronte per andarsene all’Inter. Non avevano fatto i conti con Giulio Andreotti: l’onorevole aveva un cuore, malgrado tutto, ed era giallorosso. “La grande macchina del potere si mette in azione – ricostruisce la Gazzetta dello Sport del 15 agosto 2014 –. Scende in campo Andreotti in persona, tifoso romanista doc come il fedele braccio destro, Franco Evangelisti, cui affida il dossier Falcao. L’ordine è chiaro: ‘A Fra’, risolvi il problema’”.

Evangelisti è efficiente: scopre che il punto debole di Falcao è la mamma Azise, e che il punto debole di Azise è la religione. L’intrigo lambisce il Vaticano: alla signora viene detto che Papa Wojtyla in persona sarebbe triste se il suo ragazzo se ne andasse da Roma. Lei riferisce al campione, tirandogli le orecchie (“Non vorrai mica far dispiacere il Santo Padre”?). Falcao recede: resta giallorosso ancora un anno, il tempo di non calciare quel maledetto rigore della finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool.

Calcio e politica. Nella storia d’Italia s’intrecciano da subito, non appena la palla inizia a rotolare. Già nel ventennio c’erano gli sguardi nevrastenici di Mussolini quando era in campo la nazionale: “Il cameriere personale Navarra rivelò che, durante la partita Italia-Inghilterra giocata a Roma il 13 maggio 1933, in un momento in cui le sorti della squadra italiana sembravano in pericolo, Mussolini si voltò nervosissimo e chiese una sigaretta. E il duce non fumava mai”.

Invasione di campo, il libro di Pierpaolo Lala e Rocco Luigi Nichil, è una piccola miniera di aneddoti sulle due passioni d’Italia – il pallone e la polis – che si mescolano fino a confondersi, a ibridarsi nel linguaggio. Perché considerare il calcio solo un gioco e una frivolezza del popolo sarebbe puerile e imperdonabile, come ha sempre saputo bene chi il popolo l’ha rappresentato.

Il calcio è un fenomeno della società e un rituale collettivo. Dopo qualche resistenza, lo pensavano anche i comunisti italiani. “E tu vorresti fare la rivoluzione e non sai neanche il risultato della Juventus?” è la battuta di Palmiro Togliatti a un compagno di partito (gli storici si dividono tra Pietro Secchia e Luigi Longo). Il Migliore era juventino, come pure Enrico Berlinguer, che divideva la sua passione tra i bianconeri e le squadre della sua isola, il Cagliari e la Torres di Sassari.

Proprio a Berlinguer si deve il definitivo sdoganamento del pallone a sinistra, in un’intervista a Tuttosport del 1975: “Non sono d’accordo con quegli intellettuali, diciamo pure intellettuali di sinistra, che, un po’ schizzinosi, criticavano, o criticano ancora, lo sport a livello di spettacolo, come strumento di alienazione delle masse. Non penso che l’operaio, se alla domenica va allo stadio, il lunedì sia meno preparato ad affrontare i problemi del lavoro, le battaglie sindacali”.

È con la Seconda Repubblica che l’identificazione tra politica e pallone compie un salto di qualità e il rapporto di supremazia quasi si ribalta. Succede, ovviamente, quando “scende in campo” Silvio Berlusconi, imprenditore di successo e presidente del Milan, la squadra di calcio più forte del mondo.

Il suo partito si chiama “Forza Italia” e i suoi militanti “azzurri”: l’invasione del lessico e dell’immaginario calcistico, nella nuova politica italiana bipolare, è compiuta. Il Milan è uno strumento di soft power, il Berlusconi calcistico si alterna con quello politico e a volte lo sommerge, tra le telefonate del lunedì al Processo di Biscardi, i numeri dei sondaggi che oscillano insieme alle operazioni di calciomercato (la cessione di Kakà, dice B., gli costa il 2 o il 3% di consenso elettorale) e le sortite da bar sport che fanno impazzire i suoi allenatori (“Questa mattina mi hanno passato le cronache sportive: si parla del Milan di Sacchi, di Zaccheroni e di Ancelotti e non si parla mai del Milan di Berlusconi. Eppure sono io che da 18 anni faccio le formazioni, detto le regole e compro i giocatori”). Ha fatto storia la sparata contro il ct Dino Zoff dopo Italia-Francia del 2000, la finale degli Europei persa all’ultimo minuto. Il Cavaliere era all’opposizione (ancora per poco) ma conservava un certo peso pubblico. La disse grossa: “Zoff è stato indegno, peggio di un dilettante. Doveva mettere Gattuso a uomo su Zidane”. Il giorno dopo il tecnico si disse “offeso” e diede le dimissioni. La sua carriera da allenatore si fermò lì, quella di Berlusconi non fu intaccata dall’ennesima gaffe.

Il rapporto politica-calcio cambia con lui, quelli che arrivano dopo sono pallidi imitatori. Di Matteo Renzi, che da giovane faceva l’arbitro sui campi di categoria, si ricordano le tre maglie della Fiorentina regalate a Enrico Letta poco prima del famoso “Stai sereno”: un regalo di dubbia sincerità e di pessimo auspicio.

Del “capitano” Matteo Salvini si conosce l’esibita fede milanista, nonostante le mille maglie e felpe diverse indossate in ogni città. E le intemerate assai berlusconiane contro allenatori e giocatori. Gattuso, ancora lui, fu svillaneggiato con un tweet e gli rispose ringhiando: “Pensi alla politica, ché se ha tempo di pensare al calcio siamo messi male”. Il fatto è che a volte la differenza è labile.

Fca, multa da 30 milioni per i sindacalisti corrotti

Trenta milioni di dollari (25,6 milioni di euro) di multa per l’ex Fiat Chrysler Usa, oggi filiale del gruppo Stellantis, che si è dichiarata colpevole del solo capo d’accusa di cospirazione, attuata dal 2009 al 2016, per violare la legge sulle relazioni sindacali. Si chiude così il caso delle tangenti pagate dalla ex Fiat ad alcuni dirigenti del sindacato United Auto Workers (Uaw) attraverso il centro di formazione Uaw – Chrysler, gestito congiuntamente per otto anni.

Il patteggiamento è stato approvato l’altroieri, 17 agosto, dal giudice federale Paul Bormandi di Detroit, Michigan, e prevede poi tre anni di monitoraggio indipendente per verificare il rispetto delle leggi sul lavoro e degli obblighi concordati con i giudici, la chiusura del centro di formazione Fca-Uaw, controlli interni.

Si chiude così uno scandalo di particolare rilevanza negli Stati Uniti per le ripercussioni sul maggior sindacato del settore automotive, travolto da dimissioni e condanne. Tre ex dirigenti Fca e 12 sindacalisti si sono dichiarati colpevoli e sono stati condannati a diversi anni di carcere. Le indagini hanno fatto emergere tangenti per 3,5 milioni di dollari (3 milioni di euro): secondo l’accusa, i soldi sarebbero stati destinati ad alcuni leader sindacali per offrire concessioni e vantaggi a Fiat Chrysler Automobiles durante le trattative per il rinnovo del contratto di lavoro.

Il centro di formazione, fondato negli anni ‘80, era diventato il canale delle mazzette al sindacato. L’ex capo delle relazioni sindacali di Fca Usa, Alphons Iacobelli, sta scontando una pena detentiva di cinque anni e mezzo, ridotta a quattro per la collaborazione nelle indagini. Iacobelli era il regista della corruzione che ha coinvolto i dirigenti dello Uaw. General Holiefield, vicepresidente del sindacato poi deceduto, nel 2014 estinse un mutuo per la casa da 262 mila dollari con i soldi del centro di formazione. Altri dirigenti sindacali, inclusi gli ex presidenti Gary Jones e Dennis Williams, usavano le carte di credito del centro per spese personali, oggetti di lusso, vacanze e divertimenti. L’indagine è diventata pubblica nel 2017. Il 19 luglio il giudice Borman ha però stabilito che 234 dipendenti di Chrysler che avevano fatto causa non hanno diritto ai danni.

La vicenda si inquadra nello scontro tra General Motors e l’ex Fca Usa. Il 25 settembre scorso Gm, dopo l’archiviazione a luglio di una prima denuncia da parte di Borman, ha presentato una seconda istanza accusando nuovamente Fca e alcuni suoi manager di spionaggio industriale. Accuse respinte come invenzioni da Fca. La crisi globale portò in amministrazione controllata Chrysler il 20 aprile 2009 e due mesi dopo la “vecchia” Gm. Washington le salvò tramite il fondo Tarp, creando due newco e convertendo in azioni delle nuove società tutti i crediti insoluti di quelle fallite: tra questi anche quelli che i lavoratori vantavano per i loro fondi pensione aziendali azzerati. L’allora ad di Fiat, Sergio Marchionne, morto nel luglio 2018, stava trattando con Uaw per fondere Chrysler e Fiat. A giugno 2009 Chrysler usciva dall’amministrazione controllata con Torino al 20% del capitale. Uaw, attraverso Uaw Trust, era divenuta azionista di maggioranza della nuova Chrysler col 55%.

Il 40% di quella quota fu girato da Uaw con un’opzione di acquisto a Fiat per fondersi in Fca in cambio di un bond da 4,6 miliardi di dollari, che pagava un interesse del 9%, e del diritto di nominare un consigliere di amministrazione. Nello stesso periodo, Uaw Trust era diventato primo azionista al 17,5% anche nella nuova Gm.