Reddito di base: il mondo ne discute, qui è Sussidistan

I due Matteo (Renzi e Salvini) sono tornati ieri a minacciare il reddito di cittadinanza che, assicurano, sarà prontamente smontato. Sempre ieri è cominciato a Glasgow, in Scozia, il 22° Congresso mondiale del Reddito universale, occasione per mostrare che la questione di un reddito di base non è una stravaganza grillina, ma un tema globale. E non è un caso che all’appuntamento scozzese, tutto online, abbia inviato un messaggio la premier scozzese Nicola Sturgeon, sostenitrice di un progetto di reddito.

La Scozia. Il congresso durerà fino al 21 agosto e prevede 250 speaker da tutto il mondo e circa mille partecipanti. Nei giorni scorsi era stato annunciato dal blog di Beppe Grillo che fino a ieri pomeriggio non si era però registrato. Presente invece la rete italiana Basic Income Network, presieduta da Sandro Gobetti che, raggiunto dal Fatto, spiega la novità scozzese: “Questa edizione si fa in Scozia perché è uno dei paesi con un dibattito sul reddito di base universale e incondizionato molto avanzato. Il Parlamento e la premier Sturgeon sono tra i maggiori sostenitori, tanto che hanno già investito diverse centinaia di migliaia di sterline per avviare studi di fattibilità per introdurlo in alcune contee della Scozia”.

Il segretario del governo per la Giustizia sociale, Shona Robison, è incaricata di portare avanti i lavori necessari a introdurre la misura che, secondo il governo, potrebbe fornire una garanzia economica per vivere una “vita dignitosa, sana e finanziariamente sicura”.

A tal fine è stato istituito un gruppo direttivo presieduto da Russell Gunson, direttore dell’Istituto per la ricerca sulle politiche pubbliche in Scozia. Gunson ha affermato che “la proposta fisserà un reddito di base sotto il quale nessuno dovrà scivolare.”

Sindaci Usa. Tra le sperimentazioni in corso verrà discussa quella che coinvolge ormai decine di città degli Stati Uniti dove, anche con i fondi di sostegno all’emergenza Covid, lo Stato della California ha stanziato 30 milioni di dollari. Se, come mostrato durante la pandemia, mettere soldi nelle tasche delle persone costituisce un modo per fronteggiare la povertà, un numero crescente di sindaci ha formato una coalizione, la Mayors for a Guaranteed Income, che prevede di utilizzare i dati per fare pressioni sulla Casa Bianca e sul Congresso e introdurre un reddito garantito federale. Tra i sindaci c’è quello di Los Angeles che ha approvato un programma da 24 milioni di dollari per garantire a 2.000 famiglie 1000 dollari al mese.

Canada e Germania. Se ne parla anche in Canada con l’iniziativa “Un reddito di base per Terranova e Labrador” e se ne parla in Germania dove un reddito di base e la pensione minima di solidarietà a 1200 euro sono fissati nel programma elettorale della Die Linke, la sinistra.

La Corea del Sud. Ne discute la Corea del Sud, che non è certo patria di populismi esasperati, in vista delle presidenziali. Il leader del Partito Democratico Lee Jae-myung, attualmente governatore della provincia di Gyeonggi, ha introdotto un reddito di base.

“Questa edizione è molto più ricca delle precedenti” aggiunge Gobetti che ricorda anche le sperimentazioni in India, Finlandia, Kenya e Uganda: “I progetti pilota di un reddito di base incondizionato sono moltissimi per cui ci si concentra molto sulle novità mondiali”.

Una conseguenza anche dell’emergenza Covid che, in Europa, si è tradotta nell’Iniziativa dei cittadini europei per il reddito di base, la raccolta di 1 milione di firme, prevista dalle regole comunitarie, per chiedere alla Commissione e al Parlamento europeo di discuterne.

Con le sale slot chiuse c’è il boom del Lotto: l’erario incassa di più

Rispetto a qualche mese fa sono magari diminuiti i ricoveri da Covid, ma non la febbre per il gioco degli italiani. Il bollettino dell’andamento della pandemia, visto dal lato delle entrate tributarie e contributive, registra un boom dei giochi gestiti dai Monopoli. Nel primo semestre dell’anno, informa il ministero dell’Economia, le entrate di lotto, lotterie e altre attività di gioco sono ammontate a 4,99 miliardi di euro, registrando una crescita pari a 713 milioni di euro (+16,7 per cento).

Ci si aspetterebbe di vedere tappi di champagne in volo per tutti gli operatori del settore, in un comparto che insieme alla filiera alimentare sarebbe tra i pochi a prosperare nonostante gli stop forzati anti-Covid alle attività economiche. Al netto della flessione del 36% accusata nel 2020 a causa del lockdown imposto dal 21 marzo al 4 maggio e prontamente recuperata, negli ultimi tre anni la crescita delle entrate dalle attività di gioco è stata in media a due cifre.

Se però si leggono i dati disaggregati del Mef si scopre che il risultato positivo per le entrate dello Stato è il risultato della differenza tra due andamenti molto diversi: un aumento esponenziale della raccolta del gioco del Lotto e dei Gratta e Vinci (+1,736 miliardi di euro, +69,9 per cento) e un corrispondente crollo del cosiddetto Preu (1,164 miliardi di euro, -75,3 per cento), il prelievo erariale che si applica sulle giocate agli apparecchi da divertimento e intrattenimento gestiti da privati e collegati alla rete telematica “New slot” dei Monopoli.

Che è successo? “È successo che a noi ci hanno fatto chiudere per un anno, sbarrando bar e sale da gioco, mentre la gente nonostante il Covid non ha smesso di giocare e si è riversata sui punti vendita, tabaccherie e ricevitorie, che avevano il permesso di tenere le saracinesche alzate. Poi una consistente quota rimanente è finita, come era prevedibile, nel gioco clandestino e lo dimostrano i continui sequestri di punti di gioco illegali, sia fisici che online, operati dalla Guardia di Finanza”. Lo sfogo è di Patrizio Perla, vicepresidente della Sapar, la prima associazione in Italia di gestori di apparecchi da intrattenimento che consentono piccole vincite in denaro e che rappresenta circa la metà delle 12 mila imprese che erano attive nella filiera del settore con circa centomila addetti, prima della crisi indotta dal Covid.

Oggi la grande maggioranza è in difficoltà. Il loro sospetto è che lo Stato sia portato a privilegiare i propri interessi, quando si trova contemporaneamente nella posizione di arbitro e giocatore: il Lotto e i Gratta e Vinci, infatti, sono di proprietà dello Stato via Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. Il Green pass pesa sulla ripresa dell’attività? “Per fare una partita al chiuso è obbligatorio e chiediamo agli esercenti di fare controlli seri – spiega Perla – ma molti giocatori soprattutto anziani non ne vogliono sapere e cambiano strada; ho assistito al paradosso del barista ‘no vax’ con tutti i dipendenti e non obbligato dalla normativa alla certificazione Covid, tenuto invece a controllare il Green pass a chi entra, un non senso”.

Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2018 il mercato del gioco pubblico in Italia, a prezzi costanti (2019) ha “movimentato” circa 107 miliardi di euro. In pratica, in circa 30 anni, tra il 1990 e il 2018, l’ammontare delle puntate effettuate dalla collettività dei giocatori è cresciuto di 22 volte. Cinque regioni (Lombardia, Campania, Lazio, Emilia-Romagna, Veneto) generano circa il 56% della raccolta. Se nelle regioni più ricche si gioca in assoluto di più, la quota di spesa pro capite che alimenta i giochi cresce al diminuire del reddito familiare. Secondo i dati elaborati da Agipronews, la chiusura prolungata dei punti fisici nel 2020 ha portato a un calo del 35% delle giocate e al crollo della spesa da 19,4 a 12,5 miliardi di euro. Ma come si è visto si è trattato in gran parte di un trasferimento dei giocatori da una tipologia di gioco all’altra. La propensione al gioco degli italiani è ancora un fenomeno di massa e rimane più elevata rispetto al resto d’Europa.

La chiusura delle sale gioco legali, lo smart working, quarantene e lockdown hanno spinto verso un’impennata degli accessi ai più comodi e accattivanti siti delle giocate online, ma dove è più facile imbattersi nelle truffe e nella criminalità organizzata. I piccoli gestori delle “slot machine” meccaniche sopravvissuti intanto sperano di recuperare quote di mercato, ma chiedono una riforma del settore. “Abbiamo bisogno che ci sia una normativa nazionale che riconosca una quota del Preu agli enti locali – propone Perla – ma che superi le differenze di regolamentazione regionali, in alcuni casi da Comune a Comune, sulle distanze minime da punti ‘sensibili’ (scuole, centri anziani ma qualcuno inserisce perfino cimiteri e giardinetti) e sugli orari di apertura”.

Il buio afghano tra Lenin e Allah

L

a prima volta che lessi il termine “talebani”, poteva essere il ‘97 o il ‘98, fu in una email, forse di Amnesty International, ove si raccontavano cose che oggi sono patrimonio di tutti, ma che allora apparivano inaudite e tremende: fucilazioni di massa negli stadi, abolizione della musica, cancellazione dell’identità femminile e così via.

Dell’Afghanistan avevamo sentito parlare una decina d’anni prima, quando l’Unione Sovietica aveva tentato una invasione finita nel peggiore dei modi. Gli Stati Uniti, impegnati in quello che era il culmine della Guerra Fredda, pensarono bene di armare e finanziare i mujaheddin stanziati nel nord del paese, considerati a tutti gli effetti degli eroi, novelli David che con pochi mezzi e armi rudimentali tenevano testa addirittura all’Armata Rossa.

Più avanti cominciai a rendermi conto che la situazione afghana non era chiara quasi a nessuno. I grandi corrispondenti di guerra che erano stati laggiù, parlo di Ettore Mo e Tiziano Terzani su tutti, avevano visto, vissuto e fotografato, avevano descritto la regione nei minimi particolari, ne avevano tratto un quadro fosco, complesso, a tratti non decodificabile. Noi per comodità lo chiamavamo Afghanistan, ma si trattava di un enorme territorio formatosi nel mezzo di imperi del passato, diventato campo d’azione dei peggiori pirati, predoni, banditi; decine e decine di tribù in lotta perenne per pochi ettari di rocce roventi di giorno e congelate di notte, signorotti locali alleati oggi e acerrimi nemici domani, a decine, a migliaia. 64 singole regioni dove vivono sparpagliate una trentina di popolazioni diverse che parlano venti lingue diverse.

Una lunga lotta di liberazione, un re ucciso da uno studente islamico (un talebano, nel 1933!) e poi suo figlio, che in vacanza termale a Ischia nel ‘73 fu raggiunto da un agente della Cia che gli disse che forse era meglio non tornare più in patria perché un colpo di Stato lo aveva appena destituito. Quindi un interregno, l’invasione sovietica, infine l’11 settembre. Mentre tutti apprendevamo che gli attentatori delle Torri gemelle erano arabi, che i mandanti erano parte di una grande famiglia di finanzieri arabi, il complesso militare industriale statunitense ci spiegò che in realtà bisognava fare la guerra agli afghani. Ma gli afghani chi? Quale tribù? Quale etnia? Quale signore della guerra? In quel momento c’erano i talebani sì, almeno a Kabul, ma per il resto? Potevano quei milioni di poveracci organizzare un attentato come l’11 settembre?

La colpa è dell’Afghanistan! ci dissero. Molti (Terzani!) provarono a obiettare che questo non voleva dire nulla. La colpa è dei talebani? Quali talebani? Ma i talebani sono anche mujaheddin? Una parte? Quelli di etnia Pashtun, ci dissero, erano i buoni. Gli eroi. Massoud, per esempio. Ma Massoud era uno di quelli che massacrarono gli Hazara, e poi anche il capo dei talebani era un Pashtun, un certo mullah Omar, uno che a un certo punto fuggì su una motoretta.

Occupammo l’Afghanistan. Forze armate di mezzo mondo. Poi ci dissero che in realtà era l’Iraq il problema, ma comunque meglio mantenere un certo controllo anche in Afghanistan. Eliminare i talebani, ma non troppo. Vennero le elezioni. Che spettacolo: una parte di mondo dove non c’è nessuna, leggasi nessuna ferrovia, le strade asfaltate sono l’1%, e vi si svolgono – regolari (?) – elezioni politiche. Una cosa fuori da ogni logica, e perciò fantastica e grandiosa. E dopo le elezioni ci mettemmo finalmente tutti a piantare fiori nel deserto. L’avviare una stagione minima di diritti e di conoscenza, anche se basato su premesse sbagliate, su colpe immaginarie, non può essere considerato un errore.

Poi un bel giorno abbiamo fatto un vertice a Doha. I talebani (Quali leader? Quali capi tribù? Di quali zone?) ci hanno raccontato che non avrebbero più concesso basi e logistica ad Al Qaeda, in cambio della smobilitazione occidentale, ed è sembrato l’uovo di Colombo. La ritirata è cominciata a ritmo serrato. Una delle immagini più potenti di Terzani sta in Buonanotte Signor Lenin, quando in un paese remoto delle ex-repubbliche sovietiche si abbatteva una statua di Lenin al grido di ‘Allah Akbar’. Un simulacro di sovversione si sovrapponeva a un altro, nel nome della grande catarsi degli oppressi, che dovunque si sbandiera e si dichiara, ma in nessun caso si avvera, anzi ogni volta sembra peggiorare le cose. I cinesi lo hanno capito benissimo: sono stati i primi a dichiarare chiaramente che non avrebbero interferito con gli affari interni (?) dell’Afghanistan, a patto che i nuovi emiri non interferiscano con i loro, e per la precisione con quel delicatissimo confine con lo Xinjang.

Qui è dove i cinesi tengono gli Uiguri, la minoranza islamica – in una situazione simile ai campi di concentramento nazisti. Campi di rieducazione, campi di prigionia e di lavoro forzato, campi dove il minimo diritto umano è giornalmente calpestato, campi che ovviamente, per il regime cinese, non esistono.

Finirà con i talebani che non faranno più i talebani. Ci diranno che le donne in Afghanistan potranno andare a scuola, magari non insegnare, ma imparare sì. Ci diranno che conserveranno la proprietà privata, l’inviolabile confine oltre il quale l’americano si sente in dovere di intervenire. Qualche mullah illuminato ci racconterà che il burka in qualche caso potrà essere sostituito da un velo, e noi con la coscienza lavata diremo che in fondo può andare così, la regione è pacifica, il mercato funziona, come in Arabia se rubi ti mozzano le mani, e tutto è bene quel che finisce bene. Fino al prossimo attentato.

 

Il silenzio di Tito e l’effetto divano

Tutte le voltequel vuoto. Sempre quel restare sospesi in un luogo dove aleggia un silenzio gravido di attese che ognuno riempie con quello che crede o che può. Come dite? No, non stiamo parlando della contemplazione del mondo dalla cima di una montagna o, per i più pigri, di quell’effetto dilatatorio che a volte segue l’uso di una o più delle componenti la “magica mezza dozzina” del chimico Alexander Shulgin (o almeno così dicevano certi tizi una volta in campeggio). No, quel vuoto è quello che segue le parole “sono d’accordo col principio del reddito di cittadinanza, ma non col modo con cui è stato declinato”. Ieri è stata la volta di Tito Boeri, prestigioso economista, dalle colonne de La Stampa: “Ci vuole uno strumento universale e selettivo di contrasto alla povertà. Il reddito di cittadinanza oggi ha dei difetti di progettazione che fanno sì che non raggiunga molti poveri e scoraggi dalla ricerca di lavoro chi lo riceve, soprattutto al Sud”. Ecco, che non raggiunga una buona metà della platea è vero, che scoraggi il lavoro – “specie al Sud” – ognun lo dice, che sia ver nessun lo sa. Ma ammesso e non concesso come, buon dio, come si può evitare questa tragedia? Allora, ai poveri è giusto dare un sussidio, lo dice Tito e noi con lui, ma poi come si previene il presunto effetto fancazzismo? Non si sa, non ce lo dicono, anche se c’è il fondato sospetto che Boeri lo sappia. Noi abbiamo una teoria: dire che il Rdc va riformato è un’affermazione con cui quasi chiunque può essere d’accordo; aggiungere invece che 580 euro di assegno medio sono troppi e che la gente deve avere più fame così accetterà qualunque lavoro a qualunque stipendio invece di stare sul divano marca male. È questo imbarazzo ad aver prodotto quel vuoto così polisemico, in cui a certi malfidati – non noi, per carità! – sembra di scorgere la più oscena violenza di classe. A questo proposito è curioso che ieri l’Autorità bancaria europea abbia comunicato che nel 2019, anno di partenza del sussidio divanista, in Italia i manager bancari milionari sono aumentati del 17%, passando da 206 a 241, spartendosi la bellezza di 420 milioni. Cosa? Dite che non c’entra nulla? Certo che non c’entra nulla, era per dire.

C’è il Mittelfest 2021, passato da custodire e futuro da costruire

Siamo tutti eredi. Consapevoli o ignari, fieri o riluttanti. Nessuno parte da zero, ciascuno ha un’eredità da vantare o da sopportare. “Eredi” è il tema del Mittelfest 2021, il più internazionale dei festival italiani, arrivato alla trentesima edizione. Propone dal 27 agosto al 5 settembre una riflessione sul passato da custodire e il futuro da costruire, intrecciando teatro, musica, danza, performance, fotografia, visioni. Lo fa, come da tre decenni, a Cividale del Friuli, luogo dove si incrociano tre lingue (italiano, friulano, sloveno) e il tedesco non è poi così lontano. E invitando, come di consueto, artisti dall’Italia, dall’area centroeuropea, dalle terre balcaniche.

Ha avuto stagioni gloriose e stagioni difficili, il Mittelfest, che dopo la pandemia riparte con un nuovo direttore artistico, il giovane Giacomo Pedini. Assume un’eredità ricca e pesante, una storia in cui la cultura ha sempre cercato di essere un ponte per unire linguaggi e lingue diverse, facendo incontrare le espressioni artistiche di quella che un tempo era la Mitteleuropa. Quest’anno al Mittelfest si è aggiunto Mittelyoung, una chiamata a raccolta dei giovani artisti under 30 – i veri “eredi” – che da 25 Paesi d’Europa hanno proposto e candidato 162 spettacoli (66 di teatro, 60 di musica, 32 di danza e quattro progetti multidisciplinari) da cui sono state selezionate nove proposte che andranno in scena a Cividale.

Il programma del Mittelfest è vasto e propone nomi noti come quelli di Neri Marcorè, che presenta Le divine donne di Dante (con le voci di Flavia Barbacetto e Angelica Dettori e gli arrangiamenti musicali di Stefano Cabrera). E di Lino Guanciale, che dà voce e regia a Europeana, breve storia del XX secolo (tratto dal libro dello scrittore di Praga Patrick Ourednik, accompagnato dalla fisarmonica del musicista sloveno Marko Hatlak). L’orchestra del Friuli Venezia Giulia propone Il ponte del diavolo (luogo magico di Cividale), musiche, memorie e tradizioni dei fiumi europei. Due spettacoli-evento saranno realizzati in modo irripetibile per le strade medioevali e longobarde di Cividale. Nel primo, Remote Cividale – proposto qui dal collettivo tedesco Rimini Protokoll dopo il successo internazionale della sua formula – trenta persone audioguidate attraverso cuffie saranno portate in giro per la città, alla ricerca di sensi inediti e sguardi rinnovati. Il secondo, Signal at Cividale, è una prima assoluta degli olandesi di Dutch Performing Arts con la regia di Strijbos & Van Rijswijk e la partecipazione di 24 auto-parlanti che dialogheranno con soprani dal vivo. Attori albanesi (Letra) e coreografie ungheresi (Mnémosyne), musiche dall’Olanda (I Don’t want to be an individual all on my own) e suonatrici greche (Sofia Labropoulou), donne macedoni (My Husband) e voci bosniache (Once upon a song in Balkans), violiniste moldave e pianisti turchi, fumettisti italiani (Leo Ortolani) e danzatori cechi (Viktor Cernický). Con una Cappuccetto rosso friulana (Attenti al loop, messa in scena dalla compagnia Sclapaduris). E tanto altro (il programma completo è lungo venti pagine). Sarà un intenso viaggio nell’Europa e un azzardo di scommessa sul futuro: con Six Memos (ovvero Sei proposte per il prossimo millennio), testo di Italo Calvino, voce dello scrittore Paolo di Paolo, musica del violoncellista Enrico Bronzi.

Eredi, dunque. Con la spada di Damocle di non avere più nulla da ereditare, in un mondo che è in pericolo a causa dei cambiamenti climatici provocati dagli uomini. Così il primo incontro del Mittelfest, a sipario non ancora alzato, è stato, appunto, Eredi del pianeta, con l’intervento di Irene Monasterolo, della Vienna University of Economics and Business. Cultura ed economia a consulto su un mondo da salvare. Se vorremo.

 

Clima, l’aritmia della terra possiamo ancora curarla

Incendi estremi, temperature da record, inondazioni. All’inizio di agosto, il report del Comitato intergovernativo sui cambiamenti climatici dell’Onu, approvato da 195 Paesi di tutto il mondo, ha certificato “l’inequivocabile influenza umana” sul riscaldamento del pianeta, che ha raggiunto in meno di cento anni livelli mai toccati in 125.000 anni. Ci sono tutti gli ingredienti per sentirsi sopraffatti, schiacciati dalla rabbia o dal senso di colpa, magari increduli – e quel che è peggio, impotenti di fronte a una catastrofe imminente. Il rapporto dell’Onu, che riassume 14.000 lavori scientifici sulle condizioni del nostro clima, descrive una situazione sconcertante. Ma c’è qualcosa che brilla per la sua assenza: la disperazione. È vero, la Terra non ha solo la febbre: ha l’aritmia. È capitato a tutti di aspettare che la febbre passi da sola, ma quando si è malati di cuore si è disposti a fare cambiamenti radicali – una nuova dieta, una nuova routine di esercizio fisico, la richiesta di supporto fisico e emotivo degli amici più stretti. E la scienza ci dice che, se vogliamo, siamo ancora in tempo a cambiare rotta. Il rapporto Ipcc è strutturato intorno a “scenari” – previsioni del nostro futuro climatico. Cinque futuri alternativi, una “storia a bivi” come quelle che leggevamo da bambini, dove il finale dipendeva interamente da noi. Se non limitiamo le emissioni di gas climalteranti, è virtualmente certo che la soglia di riscaldamento globale di +2°C sarà superata in questo secolo. Viceversa, se le emissioni globali di gas serra iniziano a diminuire nel 2021 e arrivano ad azzerarsi intorno al 2050, è possibile che il riscaldamento globale rimanga al di sotto di +1.5°C, la soglia psicologica – ma anche fisica – che tutti i Paesi del mondo si sono impegnati a non superare stipulando nel dicembre 2015 l’Accordo di Parigi. Ed ecco quindi la frase chiave, che indica già la soluzione, consegnandoci una speranza e il potere di agire: “se non limitiamo le emissioni”. La cifra target è sette per cento: per azzerare le emissioni al 2050 (obiettivo che si sono dati ormai molti grandi Paesi del mondo, inclusa l’Unione Europea) occorre emettere ogni anno il 7% in meno rispetto all’anno precedente. Sappiamo anche da dove cominciare: dalle fonti energetiche, che generano almeno la metà del problema. Lasciare sottoterra carbone, petrolio e pure gas naturale, dirottando tutti gli investimenti pubblici sulle fonti rinnovabili come solare ed eolico. E farlo in fretta, insieme a una diffusa elettrificazione di industrie e trasporti, al cambiamento della nostra dieta verso regimi alimentari meno impattanti e una agricoltura più sostenibile, alla progettazione di case ad alto risparmio energetico e bassa impronta materiale (riscoprendo, ad esempio, un uso sostenibile del legno). Per qualcuno, il livello a cui questi cambiamenti devono avvenire è fonte di nuova disillusione. Spesso mi viene chiesto: “cosa posso fare nel mio piccolo?” La mia risposta: nessuno di noi vive nel “piccolo”. Tutti siamo parte di qualche comunità: una famiglia, un gruppo di amici, una squadra sportiva, una città, uno Stato. La coerenza individuale è fondamentale, ma le uniche azioni efficaci sono quelle che avvengono quando è la comunità a metterle in atto. Gli ultimi due anni di politiche per il clima ci dimostrano che il cambiamento accade quando i cittadini lo chiedono a gran voce. Qualcosa è stato fatto anche in Italia: ancora troppo lentamente, in modo ancora insufficiente, ma qualcosa si è mosso. A partire dalla consapevolezza di noi cittadini. Ora è tempo di mettere in gioco le nostre migliori energie, guardarci intorno, riconoscerci parte di una comunità, e trovare una voce comune – nell’interesse di tutti noi. Per chi li vuole vedere, gli incendi e le temperature record sono anche segnali di speranza. La speranza che anima chi conosce bene con cosa ha a che fare, capisce cosa c’è in gioco (non il pianeta, ma noi stessi!) e sa che la lotta può essere ancora vinta.

 

Sull’Afghanistan Draghi parla in stile Paolo Fox

Nel giorno della prima conferenza stampa dei talebani dopo la presa del potere è passata un po’ sotto silenzio la prima intervista assoluta di Mario Draghi, rientrato da Città della Pieve a Palazzo Chigi per conferire in esclusiva col Tg1. Invidiamo chi non l’ha vista perché può vederla per la prima volta. Intervistatore: “Presidente, c’è apprensione per i nostri connazionali ancora in Afghanistan: che messaggio rivolge a loro?”. Draghi, che risponde da una scrivania completamente vuota se non fosse per un telefono bianco tipo Sirio della Sip, non ha chiaramente niente da dire ai nostri connazionali, e infatti dice compassato: “L’Italia ha perso 54 soldati e ha circa 700 feriti: alle loro famiglie voglio dire che il loro sacrificio non è stato vano (ah, no?, ndr), hanno difeso i valori per cui erano stati inviati (i famosi nostri valori: la sudditanza agli Usa e la devozione mercatista, ndr), hanno fatto del bene (bilancio di 20 anni di guerra del Bene: più di 47 mila civili afghani morti, ndr), per me loro sono eroi”. Abbiamo un titolo: il giorno dopo i giornali avranno di che scrivere, oltre al fatto che Di Maio è al mare in Salento (ma in serata è rientrato, dopo aver disposto i rimpatri dei connazionali: mannaggia. Però si può sempre alludere al fatto che il Salento è meno chic dell’Umbria). L’eloquio di Draghi, in questa specie di intervista-comunicato plastificata e con domande telefonatissime, smarmella il contenuto del discorsetto. “La prima cosa da fare è riflettere”, dice. Non è chiaro chi debba riflettere, né quando. Forse noi, a cena. Intanto Palazzo Chigi di pomeriggio, col sole d’agosto che si riversa sulla scrivania desolata, è un non-luogo: pare il reparto truciolati di un Bricofer. “Cosa deve fare la comunità internazionale per scongiurare una nuova escalation terroristica?”, chiede l’inviato con deferenza; e qui si spera che il presidente risponda che la peggiore escalation terroristica l’abbiamo avuta a guerra in corso, e che quindi prima toglievamo le tende e meglio era, fermo restando che non siamo stati nemmeno capaci di farlo in modo strategico e dignitoso; invece: “A fine mese ci sarà un G20 dedicato alle donne a Santa Margherita Ligure”. Accipicchia, l’artiglieria pesante. Le domande si fanno sfidanti: “L’Europa sarà all’altezza?”. Risposta di Draghi, inaudita e dirompente: “Sì, lo sarà”. Capite? Non “no”, non “speriamo”, e nemmeno “così e così”: “Sì, lo sarà”. Aggiunge: “Abbiamo parlato con la cancelliera Merkel… Siamo d’accordo che la cooperazione è assolutamente necessaria”. Non “necessaria”: assolutamente necessaria. Come bere molta acqua con questa calura. Poi “accoglienza, sicurezza”, ma soprattutto “diritti delle donne”. (Gliel’hanno detto che nel suo esecutivo c’è uno che prende soldi da un fondo collegato alla famiglia reale saudita, il cui delfino è accusato dalla Cia di aver fatto ammazzare un giornalista? E che costui prendendo soldi è arrivato a definire la sistematica distruzione dei diritti sociali, civili e delle donne in Arabia Saudita un nuovo Rinascimento? A proposito: Matteo Renzi, che ogni giorno cerca di sopravviversi come può, dopo aver mobilitato le truppe socialare contro Di Maio che era in spiaggia, ci ha tenuto a informare il popolo di quanto segue: “Sono rientrato in ufficio, al #Senato, a Roma per sottolineare la gravità di questo momento”. In effetti, la sua presenza aggrava il momento. Chissà lo spavento dei leader talebani. A ogni modo un bel gesto, da parte di uno che in Senato ha normalmente il 41% di presenze. Postato il video, il tempo di risolvere il problema dei diritti delle donne afghane, si è teletrasportato in Versilia a presentare il suo libro).

Purtroppo l’intervista (ripetiamo: la prima di Draghi di sempre) nel finale assume toni escatologici, tipo previsioni di Paolo Fox: “È un piano complesso, che richiede una cooperazione tra i Paesi; dovremo prevenire infiltrazioni terroristiche”, e rivela che Draghi è certamente persona perbene (non è scontato: ci sono state al suo posto anche persone non perbene), ma oltre a ciò, in generale, tenendo conto anche degli altri fondamentali interventi sul tema (Carfagna e Zanda su Repubblica: mancano solo Tajani e Lollobrigida), non è detto che tacere non sia più onorevole. In certe congiunture storiche è chiarissimo come gli uomini e le donne di potere, gli apparati, le truppe, le diplomazie e gli osservatori non siano per niente all’altezza della situazione. La realtà è spesso tragica, violenta, complessa; chi comanda, e nel disbrigo degli affari correnti è moderatamente inadeguato, in questi momenti può apparire ridicolo, pomposo o inetto. Davanti ai fatti dell’Afghanistan che in grandissima parte l’Occidente ha storicamente contribuito a determinare, i nostri leader si mostrano fermi, circonfusi di democrazia, risoluti: sono o non sono i rappresentanti di una delle più belle colonie vacanziere e militari dell’Impero del Bene?

 

Fine vita ai familiari col Green Pass sia garantita la visita ai malati terminali

Gentile redazione, grazie al Green Pass, che concretamente consente di accedere a molte attività anche di svago in presenza di numerose persone, forse sarebbe finalmente possibile consentire la vicinanza dei propri cari anche ai pazienti ricoverati in fine vita in ogni setting di cura. In questi tempi pandemici è stato spesso davvero straziante il vissuto di fine vita in solitudine del malato, senza la presenza confortante dei propri congiunti, analogamente è stato per i familiari che hanno subito la lontananza inevitabile dal proprio caro morente, situazione foriera di successivi lutti patologici che poi possono perdurare negli anni. La terminalità di un paziente non è solo del singolo, ma è la terminalità di un vissuto familiare, di una modalità di affetti che mai più saranno uguali, ma che in ogni caso si dovranno reinventare, rimodulare durante e dopo l’inevitabile periodo del lutto, rielaborazione–accettazione della perdita di un caro che è perdita anche di parte di sé; processo fisiologico, ma che, se mal vissuto, può divenire gravemente patologico, foriero a sua volta di altre morbilità durature.

Le cure palliative possono essere in questi casi vera e propria medicina preventiva, come è chiaramente sancito anche dall’Oms, per la quale sono un approccio in grado di migliorare “la qualità della vita dei malati e delle loro famiglie che si trovano ad affrontare le problematiche associate a malattie inguaribili, attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza per mezzo di una identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e delle altre problematiche di natura fisica, psicosociale e spirituale”. Verosimilmente non si ravvisano più, grazie al Green Pass, strumento di libertà consentito dalla diffusione vaccinale, i gravi motivi che hanno imposto la morte in solitudine. In presenza di familiari e di pazienti in fase terminale dotati di Green Pass, non dovrebbe esservi alcun rischio effettivo, né per i congiunti, né tanto meno per il paziente, già in fine vita, che può solo avvantaggiarsi dalla vicinanza protratta dei propri cari. Il rischio per il malato (morente) è certo nullo e per i familiari non è maggiore di quello di mangiare in un ristorante al chiuso. Occorrerebbe una disposizione univoca nazionale, che prenda atto, anche in questi casi, dei vantaggi consentiti dal Green Pass; infatti non si sa veramente più cosa dire a quei malati ricoverati, che si trovano, nonostante la camera singola e le doppie vaccinazioni di tutti, a non poter più godere della piena vicinanza dei propri congiunti proprio nel momento in cui ne avrebbero più bisogno.

Marco Cerasa, Medico di terapia del dolore

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Renzi e l’ipocrisia del suo femminismo

La sagra dell’ipocrisia. Renzi dixit: “Sono rientrato in ufficio, al Senato, per sottolineare la gravità di questo momento. Ciò che sta accadendo in Afghanistan è drammatico. La politica estera richiede serietà. E il destino delle donne di Kabul riguarda tutte e tutti noi”. Anche la condizione femminile in Arabia Saudita è in cima ai pensieri dell’ex premier, tant’è vero che quel Paese, che si è distinto per l’emancipazione femminile, viene da lui definito “rinascimento arabo”.

Maurizio Burattini

 

Caso Durigon: in Italia è in buona compagnia

Sono stato in vacanza a Sabaudia: bella città, molto verde, ma con i portici del centro tappezzati da decine di manifesti che, con la scusa di rievocare le origini della città, esaltano in modo pesante le gesta di Mussolini. Nel tornare ho avuto la fortuna di passare per i meravigliosi giardini di Ninfa e di rifocillarmi in un ristorante di Norma: mentre mangiavo ho notato che la scuola elementare di fronte portava scolpito il nome di Rosa Maltoni Mussolini, madre di Mussolini. Online ho letto che era una maestra, ma non credo fosse una luminare della pedagogia da meritare posto sulla facciata della scuola. Evidentemente Durigon è in buona compagnia e nuota in uno stagno (o meglio, in questo caso, una palude), in cui si sente al sicuro. Ma in Germania, cose simili su Hitler le permetterebbero?

Enzo Rossetti

 

Il premier si è preso i meriti del Recovery

Mi sento in dovere di rivolgermi a Draghi. Un presidente del Consiglio deve avere punti fermi e conoscere la nostra Costituzione. Presidente, alcuni giornali le attribuiscono il merito dei 209 miliardi del Recovery Fund ma non ho mai letto una sua smentita! Sono le stesse testate che lei ha voluto rifinanziare con milioni di euro di soldi pubblici. Il caso Durigon (ma anche il caso Salvini con i saluti nazisti ai suoi raduni di piazza), con il suo imbarazzante silenzio, ha offeso milioni di italiani antifascisti. Infine, con la riforma Cartabia, signor Presidente non si è preoccupato di aver causato un profondo dolore alle famiglie delle donne morte per femminicidio, dei morti sul ponte Morandi, dei morti sul lavoro, ecc. Gli italiani vogliono più Stato: le autostrade, gli ospedali, le scuole… e anche qui, potrei continuare all’infinito! Lei non mi sembra proprio affezionato a questa Italia e se vuole il modesto parere di una Signora di 72 anni, non è adatto a fare il presidente del Consiglio di questo bel Paese! Ringrazio la redazione e sempre grazie di esistere.

Lia Ruggeri

 

Incendi: i processi in fumo come i boschi?

Gemono i boschi, piangono le montagne. Ulivi millenari uccisi. Atroci morti di animali, abitazioni distrutte. Attività economiche andate in fumo con il fuoco degli incendi. Un simile disastro ambientale con il rischio di vittime umane non è equiparabile al reato di strage? Per i delitti nei confronti dell’ambiente sono previste eccezioni alla improcedibilità?

Questi reati comportano complesse indagini e lunghi tempi procedurali: andranno dunque in fumo insieme ai boschi?

Enza Scalisi

 

Per leggere i giornali serve il senso critico

Ogni mattina il direttore aggiorna i lettori del Fatto sulle scempiaggini scritte da giornalisti dalla lingua bavosa, sempre pronta a “slurpare” il potente di turno (oggi è Draghi, prima era Salvini e via dicendo; mai Conte, va detto a suo onore). Tuttavia gli italiani continuano a bersi tutte le panzane di Rep, Libero, Stampa, il Foglio eccetera, le leggono e ci credono. Non è possibile limitare questi danni, in quanto la politica e le associazioni di categoria che dovrebbero controllare l’indipendenza dell’informazione, nonché la sua correttezza, si servono di loro come di un altoparlante. Unica soluzione sarebbe il senso critico dei lettori che però presuppone un minimo di interesse, di conoscenza, di responsabilità e pluralismo. Tutte cose che spesso latitano negli italiani. Questo è il vero guaio: non i giornaloni, ma i loro lettori.

Umberto Alfieri

 

Tamponi: falsi annunci sui prezzi calmierati

Gentile redazione, quanti annunci fasulli vengono pubblicati sui giornali pur di compiacere il governo dei “migliori”. Titoli a tutta pagina, come quelli sui tamponi che si possono fare in farmacia a prezzo calmierato. Nel nel mio paese ci sono 4 farmacie e nessuna di loro fa il tampone, figuriamoci. Adesso sono quindi costretto a farlo in un ambulatorio privato, alla modica cifra di 25 euro. Meno male che c’è il governo dei “migliori”. Grazie a tutti voi.

Antonio P.

 

In merito alla storia della disabile di Bari raccontato su “Lo dico al Fatto” del 17 agosto, l’Azienda sanitaria ha provveduto a contattare la lettrice del Fatto per analizzare il caso insieme al Dipartimento di prevenzione e risolvere il problema da lei sollevato.

Asl Bari

La favola della guerra che ristabilisce la pace è la regina delle frottole

Quella che ho visto in molti Paesi non c’entra niente con la favola che ho sentito raccontare da giornali e televisioni: la guerra che ristabilisce diritti umani, la guerra che porta la pace, la guerra che libera le donne. Non ci sono, non esistono. Non c’è guerra umanitaria, non può esserci uccisione degli uomini in nome dell’uomo. (Gino Strada, Micromega, Kabul, 16 febbraio 2003)

Il Vietnam afghano (per la cui ricostruzione storico-satirica rimando ai Ncdc del giugno scorso: bit.ly/3CSBXL8) non impedisce ai frottoli nostrani di continuare a frottolare. Sono figure di punta dei giornaloni e della politicona, ma a sputtanarli basta ormai un tweet di cittadini informati. Ai giornaloni e ai politiconi il compito di rimuovere i frottoli che danno loro la reputazione pessima di cui godono, per sostituirli con quei cittadini più informati. I loro nomi li trovate su Twitter. Ieri ne abbiamo visti alcuni. Eccone altri.

Roberto Saviano: I talebani vanno chiamati per ciò che sono: narcotrafficanfi. Sul Corriere cerco le radici del conflitto in Afghanistan, dove viene prodotta oltre il 90% dell’eroina mondiale. Questo fa dei talebani i narcotrafficanti più potenti del mondo (Afra Giada Tresoldi: Nel 2001 il leader talebano Mullah Omar lanciò una fatwa contro la coltivazione del papavero da oppio, considerata immorale. Dopo l’invasione dell’Afghanistan, lo stesso anno, ci fu un incremento del 90% rispetto al 2000. Fonti: l’Espresso e le Nazioni Unite. Eider Elman: Fai veramente ridere sei una pedina per manipolare l’opinione pubblica…. E sai bene che i talebani sono quelli che hanno sempre bruciato i campi del “khashkhash” eroina … e ieri hanno annunciato che il traffico di eroina è illegale a partire da ieri. Marco Villa: Siamo al limite della disonestà intellettuale la produzione è aumentata durante gli ultimi 20 anni, tollerata dall’Occidente).Emma Bonino: Sono settimane che mi spendo dicendo che la fine della missione in Afghanistan avrebbe determinato un ritorno dei talebani al potere: un disastro politico ed umanitario, previsto e prevedibile (Redditodicittadinanza: Sei falsa. “Oggi l’Afghanistan ha un Presidente, un Parlamento e 34 Consigli provinciali eletti direttamente. Il processo di transizione istituzionale e democratica è concluso”. Emma Bonino, a capo della missione di osservazione elettorale dell’Unione Europea, 29 settembre 2005).Gianni Riotta: “La democrazia non si esporta con la guerra!”, ricordatelo, ma non ditelo per favore a Germania, Italia e Giappone 1945, se no ci restano male ok? (Aldo Forbes: La guerra non fu fatta per restituire o esportare la democrazia – la Spagna fu lasciata stare infatti – ma perché Germania Italia e Giappone attaccarono altri paesi. Carlo Scuri: Notoriamente gli USA intervengono militarmente perché sono buoni e vogliono la democrazia per tutti, tipo in Cile nel 1973).Pierluigi Battista: La catastrofe. La fuga disperata degli afghani, le donne terrorizzate per l’arrivo dei talebani, il trionfo dell’oscurantismo più feroce, l’Europa che non esiste e noi lì a parlare di Durigon. Passo e chiudo (ilnanoassassino: Certo il fascismo non è un problema, lasciamolo crescere. Chi ha voluto la guerra per 20 anni è oggi colpevole di quello che sta succedendo in Afghanistan, non è il fato cattivo che ha portato a quella situazione. Piero Massi: Possiamo parlare invece delle baggianate che lei sosteneva 20 anni fa? Che lei chiamava “amici di terroristi” quelli che denunciavano la malafede e l’ipocrisia di quella guerra? Che non ha visto il fallimento per 20 anni e lo vede solo ora che i talebani sono a Kabul?). (2. Continua)