“L’efficacia è in calo”: in America partono le terze dosi di Pfizer

Il governo degli Stati Uniti ha annunciato che a partire dal 20 settembre inizierà a somministrare la terza dose del vaccino anti Covid. Il “booster” verrà iniettato dopo 8 mesi dalla seconda dose, ha fatto sapere l’amministrazione Biden, spiegando che la terza iniezione si è resa necessaria a causa della particolare contagiosità della variante Delta e dei nuovi dati sull’efficacia dei vaccini. “Sulla base delle nostre ultime valutazioni, l’attuale protezione contro malattie gravi, ospedalizzazioni e morti potrebbe diminuire nei prossimi mesi, specialmente tra coloro che sono a rischio più elevato o sono stati vaccinati durante le prime fasi del lancio della vaccinazione”, si legge in un comunicato firmato dal dipartimento della Salute americano insieme a vari esperti che seguono l’emergenza Covid negli Usa. I nuovi dati a cui si riferisce il governo statunitense sono quelli pubblicati ieri stesso dal Centers for Disease Control and Prevention: indicano che l’efficacia dei vaccini sta “calando in modo significativo” tra i residenti delle Rsa, una delle prime categorie a essere vaccinata negli Usa. I prodotti che verranno utilizzati fin da subito saranno Pfizer-Biontech e Moderna, ha fatto sapere Washington, e i primi a essere vaccinati saranno i cittadini più anziani, i lavoratori del settore sanitario e quelli delle case di riposo.

La terza dose è già una realtà da due settimane in Israele. Il governo Bennett ha iniziato a somministrare il “booster” alle persone con oltre 50 anni di età: finora è stata iniettato a oltre 1 milione di persone. In Europa i governi vanno invece in ordine sparso, anche se i Paesi più grandi sembrano seguire la stessa linea. Nelle scorse settimane il presidente francese, Emmanuel Macron, e il ministro della Salute tedesco, Jens Spahn, hanno detto chiaramente di voler procedere con la terza dose a partire da settembre, dando priorità alle fasce più a rischio della popolazione: anziani, malati e personale sanitario. Nessuna indicazione sulle tempistiche, per ora, da parte del governo italiano. “Siamo pronti, abbiamo dosi a sufficienza per fare la terza dose e aspettiamo le indicazioni delle autorità scientifica per dirci il tempo giusto per somministrare la terza dose, le prime indicazioni ci lasciano presupporre che si inizierà dai più fragili”, sono state le ultime parole pronunciate sul tema, lo scorso 5 agosto, dal ministro della Salute, Roberto Speranza. Il dibattito nella comunità medica nostrana sulla necessità di procedere subito con la terza dose è in effetti aperto.

Da una parte c’è chi, come Massimo Galli, dice che “ci vuole qualcosa di un po’ più robusto per dire che la terza dose serve davvero, in che misura, quando e per chi”, dall’altra c’è chi concorda con Fabrizio Pregliasco, secondo cui la terza dose “è una protezione aggiuntiva e concreta alla luce di una situazione che ormai degenera (quella della variante Delta, ndr)”. Di certo c’è il parere della Organizzazione mondiale della Sanità, contrario alla terza dose per un altro motivo: “Capisco la preoccupazione di tutti i governi di proteggere la propria popolazione dalla variante Delta, ma non possiamo accettare che Paesi che hanno già utilizzato la maggior parte della fornitura globale di vaccini ne utilizzino ancora di più”, ha detto il direttore, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus. Dietro il dibattito sulla terza dose resta infatti un punto irrisolto. Con i brevetti nelle mani delle compagnie farmaceutiche, le forniture continuano a essere insufficienti per coprire l’intera popolazione mondiale. Il risultato, dicono i numeri dell’Onu aggiornati all’11 agosto, è che nei Paesi ricchi una persona su due è stata vaccinata con almeno una dose, mentre nei Paesi poveri la proporzione è di una persona ogni 61. La ragionevole certezza è che, andando avanti così, il virus continuerà a svilupparsi e a mutare dove i vaccini scarseggiano. Per poi tornare a colpire nel mondo ricco, rendendo così necessarie altre punture.

Più morti e contagi: ecco perché l’estate 2021 va peggio del 2020

Estate 2020, un’illusoria stagione Covid free, con pochi contagi, pochi morti e – soprattutto – zero vaccini. Estate 2021, contagi più che decuplicati rispetto a 12 mesi fa, morti triplicati e – soprattutto – due terzi della popolazione completamente vaccinata. Dunque, verrebbe da dire: a che serve vaccinarsi (e per di più munirsi di green pass pena limitazioni varie della libertà) se poi le cose vanno peggio di quando il vaccino non c’era? Non è una contraddizione? No. Non lo è, anche se a prima vista potrebbe sembrarlo.

I dati parlano chiaro. Nel periodo 1 luglio-18 agosto 2020 si sono avuti in media circa 278 nuovi contagi al giorno e circa dieci vittime ogni 24 ore. Nello stesso periodo del 2021, invece, si sono registrati in media 30 morti al giorno con una media di contagi giornaliera di poco inferiore ai quattromila casi. Dunque i morti sono sì triplicati, ma in una situazione di contagi moltiplicati per quattordici. Per di più nell’estate 2020 i tamponi erano in media un quarto di quelli che si fanno mediamente in questi giorni. E al Sud, come si ricorderà, il virus prima dell’estate praticamente non c’era.

Va bene, diranno gli scettici, tamponi o non tamponi, Nord o Sud, ci si infetta comunque 14 volte in più rispetto a quando non c’erano vaccini, allora a che serve? La risposta a questo interrogativo l’abbiamo chiesta al virologo Fabrizio Pregliasco, docente dell’Università Statale di Milano: “È molto semplice – sostiene – la variante Delta con cui abbiamo a che fare quest’anno ha un livello di contagiosità sette volte superiore rispetto al virus del 2020. Quindi sì, è vero, siamo messi peggio in quanto a diffusione del contagio – prosegue – ma se analizziamo i dati dell’Istituto superiore di Sanità osserviamo che la variante Delta ‘buca’ i vaccini al 12%, e dunque il vaccino protegge all’88%, ma soprattutto ha una percentuale di protezione dalla malattia grave e dalla morte prossima al 100%. Dal febbraio 2021 il 99% per cento delle vittime erano persone non completamente vaccinate. E non dimentichiamo che il 33% degli italiani oltre i 12 anni è ancora privo di protezione. Come si può – conclude Pregliasco – dire ‘Altro che vaccini’…”?

Va altresì ricordato che l’estate 2020 seguiva di poco un lockdown totale mai più sperimentato, mentre quella del 2021 è stata preceduta dal famoso “rischio ragionato”, come disse il premier Draghi il 16 aprile. Che sarò pure stato ragionato bene, ma sempre di rischio si è trattato. Non solo, è assai probabile che il numero dei contagiati sia altamente sottostimato. Che il dato reale dei positivi non sia mai stato pari a quello dei casi ufficialmente individuati è storia risalente, ma in queste settimane la forbice potrebbe essere più larga del solito: “I contagi sono sottostimati – ancora Pregliasco – è possibile che nel caso in cui la Delta ‘buchi’ il vaccino l’infezione sia asintomatica e dunque non rilevata, senza contare chi non intende rovinarsi le feste a causa di un tampone positivo”. E c’è poi il fenomeno del test fai-da-te: basta acquistare un kit e avere un amico farmacista o medico disposto a farlo. In quel caso l’esito sfugge, ovviamente, a ogni tracciamento, già di per sé saltato da tempo. Come da tempo sembrano essere saltate molte precauzioni: mascherine e distanziamento sociale sono spesso un ricordo, ma con la Delta non si scherza e le buone abitudini vanno mantenute anche tra vaccinati.

Una condizione problematica, quella dell’aggressività di questa variante che l’Italia condivide con la quasi totalità dell’Occidente. Anzi, si può dire – ragionando sui freddi numeri – che altrove va pure peggio. Negli Stati Uniti – dove in alcuni stati del Sud i non vaccinati sono la metà della popolazione – ieri si sono superati i mille morti (non accadeva da aprile) con una media nell’ultima settimana di 769 vittime. Il 17 agosto il Regno Unito ha registrato 170 vittime (ieri 111) con una media settimanale superiore a 90. In Francia, il 16 agosto, i morti sono stati 96 (media settimanale 69 vittime), in Spagna (il 17) 144 morti (media 73). In Italia, considerando i 54 morti del 17 agosto, la media dell’ultima settimana è stata di 34 morti. Numeri inferiori ai nostri solo in Germania: 22 morti e 15 di media a 7 giorni il 17 agosto.

Purtroppo, al di là dei freddi numeri, i morti sono tanti anche se “pochi” in confronto al numero dei contagi. Ieri il bollettino italiano segnalava 69 vittime (come a metà giugno) e 7.162 nuovi contagi, con un tasso di positività sul totale dei tamponi molecolari e antigenici (226.423) al 3,2%. Cresce ancora la pressione sul sistema sanitario: +87 ricoverati nei reparti Covid, per un totale di 3.559 persone; saldo ingressi/uscite in terapia intensiva a +19 per un totale di 442 malati gravi. Numeri – fatta eccezione per Sicilia e Sardegna – ancora ampiamente sotto la soglia critica. Ma l’estate 2021 insegna che con la Delta purtroppo non si scherza. Dunque la priorità non può che essere completare il prima possibile – e per quanto possibile – la campagna vaccinale. Ieri anche il Papa ha voluto dire la sua: “Vaccinarci è un modo semplice di promuovere il bene comune – ha scritto Francesco – e di prenderci cura gli uni degli altri, specialmente dei più vulnerabili”.

“Sarò sindaco per amore (e per i fondi del Pnrr)”

Rieccolo, Gianni Pittella. Già deputato, senatore, europarlamentare per quattro legislature, vicepresidente vicario del Parlamento europeo per 5 anni, presidente del gruppo socialista (e democratico) nell’ultimo mandato a Bruxelles. Nel 2018 è rientrato in Patria per un altro giro a Palazzo Madama e adesso riprende la strada di casa: è il candidato sindaco del Pd a Lauria, 12 mila anime, il Comune potentino che gli ha dato i natali. “La mia comunità mi ha chiamato e io ho risposto”, dice.

Così torna a casa.

Io a casa ci sono sempre tornato: anche quando stavo al Parlamento europeo almeno ogni 15 giorni tornavo nel fine settimana. Qui ci sono i miei affetti, i miei amici, la mia famiglia. Non è mica un’improvvisata.

Non aveva deciso di fermarsi dopo l’ultima elezione al Senato?

Sì, avevo stabilito di chiudere il mio ciclo politico-istituzionale con questa legislatura. Poi però il centrosinistra lauriota ha rischiato di spaccarsi e ha chiesto aiuto a una personalità pacificatrice, con l’autorevolezza, la competenza e le opportunità che può offrire.

Cioè lei.

Il mio partito mi ha chiesto un atto d’amore. Penso di essere un elemento di pacificazione di fronte a un pericolo concreto di sconfitta elettorale. Posso mettere a disposizione della mia terra un patrimonio di capacità, relazioni e visione europea. Abbiamo bisogno di un nuovo modello di sviluppo dopo la crisi del Covid.

Qual è il suo programma di governo?

Non è la solita lista di interventi, in cui si elencano tutte le strade da rifare e le piccole opere pubbliche. Tutte cose giuste, per carità, ma io voglio avere ambizioni grandi. Parliamo di transizione ecologica, risanamento del territorio, digitalizzazione dei servizi pubblici, cultura.

Ci saranno soprattutto un sacco di soldini europei da spendere.

Ecco, sì, a un comune del Mezzogiorno serve una visione. Questa è la mia scommessa. Pnrr, fondi strutturali, contributi europei: vediamo di intercettarli per bene.

Come intende fare?

Bisogna attrezzarsi. Voglio costituire a Lauria un laboratorio di europrogettazione che sia a servizio del territorio, a cui possano attingere anche i comuni vicini più piccoli.

In pratica vuole trasformare Lauria in una specie di “hub” di fruizione dei fondi pubblici?

Un centro di eccellenza nella spesa dei fondi europei.

Chi la sostiene?

Le forze che mi hanno chiesto di candidarmi sono il Pd, i Socialisti e +Europa. Italia Viva a Lauria non esiste.

E i Cinque Stelle?

Ho avuto un confronto con l’esponente più autorevole del Movimento, Pierluigi Scaldaferri: ha una visione molto riformista, nel senso contiano del termine. Gli ho detto che sarei molto felice di collaborare sul programma e di poter contare sulla sua presenza nel futuro governo della città.

Resterà senatore?

Il ruolo è compatibile, basta organizzare bene la settimana: 2 giorni e mezzo al Senato e il resto al Comune.

Suo fratello Marcello è già stato sindaco qui.

Sì, ma tanti anni fa. Ha lasciato un buon ricordo, credo. Si è dedicato molto al Comune, è stato un trampolino per i suoi incarichi successivi.

Lauria uguale Pittella: ha la vittoria in tasca.

No, no, nooo! Il mio valore è l’umiltà, rispetto gli avversari e il valore della sfida.

È scaramantico.

Nooo! In politica non c’è nulla di scontato. Ci rivolgeremo ai cittadini con una squadra qualificata e con un programma ambizioso.

A Gemonio, tra targhe e D-day: la trincea del Bossi antifascista

La villa gialla ha le persiane chiuse, vai a sapere se per il troppo sole o per riservatezza. “Cerchiamo il Senatore Bossi, ci farebbe piacere parlargli”. Sì, ci farebbe piacere chiedergli che ne pensa di questa Lega che ammicca all’estrema destra, che difende un sottosegretario nostalgico, che confonde il fratello di Benito Mussolini per un eroe popolare, lui, Bossi, che fin dagli anni 90 aveva fatto dell’antifascismo un vanto padano. “Noi della Lega siamo quelli che continuano la lotta di liberazione dei partigiani – gridò una volta il Senatùr, sempre fedele alle esagerazioni – Mai coi fascisti! Mai!”.

Oggi però la ragion di Stato – meglio: di partito – suggerisce riserbo. Impossibile che il fondatore della Lega abbia cambiato idea, ma basterebbe una parola sul caso Durigon per creare un caso nazionale e spaccare quella creatura che, sebbene in altre mani, sente sua. E allora Bossi non aggiunge altro alla storia e chi gli sta intorno lo protegge. “Non credo abbia voglia di parlare”, ci dice al cancello della villa Giambattista, uno dei suoi storici assistenti.

Sulle alture di Varese la famiglia Bossi ha il suo buen retiro. A Gemonio, 2 mila anime, ci si arrampica per i vicoli fino a trovare la villa del Senatùr. Accanto al portone d’ingresso è rimasto un crocifisso d’oro a eredità della Seconda Repubblica: “È un portafortuna – pare fu la giustificazione data anni fa ai cronisti – lo tocco ogni volta prima di uscire”. Dietro l’angolo, ecco la chiesa del paese con a fianco un monumento alla lotta partigiana: “Gemonio ricorda i caduti nella Resistenza per la libertà d’Italia”. Bossi ne sa qualcosa. Sua nonna Celeste, sindacalista, rimase vittima di una soffiata e i tedeschi vennero a sapere che in casa nascondeva una foto di Giacomo Matteotti dietro a un quadro della Madonna. La torturarono fino a distruggerle le gambe. Anche per questo Bossi mantiene la tradizione di una nota stampa ogni 6 di giugno, commemorazione del D-Day: “Invio agli americani i miei personali ringraziamenti in occasione dell’anniversario dello sbarco in Normandia che ci liberò da Hitler, dal nazismo e dal fascismo”. Di questi tempi, quanti leghisti sottoscriverebbero pubblicamente?

L’enigma rimane irrisolto, mentre il fresco della montagna tiene lontane le beghe politiche di tutti i giorni. In paese dicono che Bossi si veda ormai poco in giro e allora per saperne di più tocca spostarsi due chilometri di curve più in là, a Brenta. Una bella salita, un po’ di strada sterrata e sulla destra c’è un altro pezzo della Family, o per lo meno della sua nostalgica decadenza.

È l’azienda agricola dei Bossi: formaggi, salami, mirtilli, tante bestie. Un tizio accosta la Panda e fa per aprire il cancello: suona strano, ma dieci anni fa era consigliere regionale e conosciuto in mezza Italia per una laurea esotica e un soprannome bizzarro che il padre gli cucì addosso. Oggi Renzo Bossi, per tutti il Trota, passa qui le sue giornate: “Papà sta bene”, assicura in t-shirt, pantaloncini corti e ciuffo all’insù. Ma guai a tirar fuori partiti, sottosegretari e Lega, ché lui fa subito un passo indietro e scuote le braccia: “Ah, io sto con gli animali 365 giorni all’anno, son talmente di corsa dietro all’azienda che non so altro”. Pare vada forte il commercio online, con consegne proseguite “fino al 14 agosto”. Renzo ci dice che passate le ferie troveremo il padre in ufficio a Roma o a Milano – magari le acque leghiste si saranno calmate – poi salta in macchina: “Scusate, faccio tardi col fornitore”. Chissà se era questa la Padania che sognavano in famiglia.

Altro che sparito: Durigon sta facendo le liste a Roma

Matteo Salvini gli aveva imposto le “ferie forzate”. “Non rispondere al telefono, non parlare con nessuno, non farti vedere in giro”: questo era il “consiglio” arrivato dai vertici del Carroccio dopo l’uscita “infelice” (eufemismo) di Latina su Parco Mussolini. Ma è tutta scena: Claudio Durigon è tutto tranne che in vacanza. Non risponde al telefono (almeno ai giornalisti), non partecipa agli eventi pubblici, ma la sua attività politica non si è mai fermata un minuto. Il sottosegretario all’Economia del Governo guidato da Mario Draghi è anche (e soprattutto) il coordinatore della Lega nel Lazio. E, in quanto tale, è al lavoro (incessante) ormai da giorni per chiudere la lista del Carroccio da presentare alle prossime elezioni capitoline. Formalmente, a Roma c’è già un coordinatore: si chiama Alfredo Becchetti, di lavoro fa il notaio, ma – come raccontano molti aspiranti consiglieri leghisti – è un leader locale quantomeno “debole”. Tradotto: a decidere i candidati (e a risolvere i problemi) è direttamente Durigon, che già da settimane ha messo i suoi all’interno dello staff elettorale del candidato comune, Enrico Michetti. E lui, “Claudione”, non vuole mollare di un centimetro, anche nella Capitale perché c’è già chi vorrebbe fargli le scarpe.

La Legaa Roma, infatti, parte già con un doppio handicap: Michetti non è il favorito nella corsa al Campidoglio – è primo nei sondaggi al primo turno, ma dato perdente al ballottaggio contro tutti i candidati di centrosinistra, Virginia Raggi compresa – e, nella corsa interna al centrodestra, il Carroccio difficilmente avrà la meglio su Fratelli d’Italia, ben più radicato nella Capitale e non solo per il traino emotivo di Giorgia Meloni. Così, in Aula Giulio Cesare, a meno di exploit inattesi, entreranno “sicuri” al massimo 2 o 3 consiglieri. Cosa che sta creando parecchie frizioni interne fra i candidati, i quali corrono a lamentarsi dal loro coordinatore. Così il telefono di “Claudione” in queste ore è bollente. Il suo vecchio amico, il dirigente Ugl Stefano Andrini, tra l’altro, pare lo abbia messo un po’ in difficoltà. Sua, infatti, l’idea – giunta per interposta persona a Salvini, il quale ha mostrato gradimento avallandola – di far correre per l’Assemblea capitolina anche Simonetta Matone, la “pro-sindaca” designata, che probabilmente toglierà il posto in Campidoglio a qualcuno dei durigoniani di ferro. Andrini, vecchio “cuore nero” reduce dall’epopea alemanniana, da qualche anno nel sindacato Ugl e – anche se lui smentisce fermamente (“so’ tutte str… io non conto niente”) – ideologo dell’approdo della Lega a Roma, è molto amico del figliastro di Matone, Francesco Albertario, che avrebbe voluto sostenere per l’Assemblea capitolina. Quando Durigon gli ha detto che sarebbe stato “inopportuno” avere entrambi in corsa per il Campidoglio, è arrivata l’idea di schierare Matone in coppia con Fabrizio Santori, storico militante romano di destra – è stato anche con Storace – e possibile campione di voti nel Carroccio. Anche lui, neanche a dirlo, sostenuto da Andrini. “Ma quale fascista, Claudio è un democristiano, solo che parla male”, dice di lui “affettuosamente” Andrini, quando gli chiediamo conto del suo rapporto con Durigon.

Dietro Matone e Santori c’è spazio, così, al massimo per un altro nome. In lista, “Claudione” ha messo il capogruppo uscente della Lega, Maurizio Politi, ultracattolico vicino ai movimenti pro-vita, in coppia con l’ex Azione Giovani, Flavia Cerquoni. In corsa Davide Bordoni, per anni forzista di culto tajaneo e Dario Rossin, che ai tempi di Alemanno sindaco faceva il delegato alla Sicurezza. Proverà a farcela anche Barbara Saltamartini, deputata di lungo corso, ex An, che vorrebbe togliere lo scettro romano proprio a Durigon, ma che fin qui non è riuscita trovare un candidato con cui fare coppia più quotato di Mario Brozzi, ex medico sociale dell’As Roma. In corsa per la presidenza del 15° municipio c’è infine Andrea Signorini. L’ex esponente di Fratelli d’Italia nel 2016, quando era consigliere al 2° Municipio, pubblicò su Facebook una foto di Renato Zero con la mano destra alzata e la commentò scrivendo “Renato uno di noi”, beccandosi il rimbrotto della Comunità ebraica e una richiesta di dimissioni. La cosa venne lasciata cadere. Ora, comunque vada la sua corsa alla guida del municipio di Roma Nord, lo ritroviamo alla corte di chi di “gaffe” sul fascismo se ne intende. E non poco.

“Addestrare i locali per i nostri interessi non serve a niente”

L’esercito addestrato anche dagli italiani che si sfalda, i talebani che prendono Kabul, la gente aggrappata agli aerei in decollo per fuggire. L’Italia ha missioni di addestramento anche in altri Paesi. Fabrizio Coticchia insegna Foreign policy analysis e Security studies nella facoltà di Scienza politica dell’Università di Genova.

Si rischia anche altrove quello che è successo a Kabul?

Noi abbiamo due impegni molto gravosi. Il principale in Iraq, dove dobbiamo gestire un’operazione che è l’eredità di quella avviata nel 2014 contro l’allora Isil e da quest’anno, su richiesta degli Usa, assumiamo il comando della missione Nato di addestramento delle forze locali. Il crollo dell’esercito afghano è molto simile a quello avvenuto negli anni passati alle forze irachene che, nonostante fiumi di denaro e anni di formazione, si erano sciolte come ghiaccio al sole di fronte ai jihadisti di Isil.

L’altro impegno?

Avviato il ritiro da Kabul, in questi anni l’Italia si è concentrata sul cosiddetto “Mediterraneo allargato”, che va dal Golfo di Guinea al Corno d’Africa e che comprende anche la Libia e il Sahel. Quest’ultimo caso è emblematico: lì noi cerchiamo di addestrare le forze locali per contrastare minacce per noi vitali, come l’immigrazione clandestina e il terrorismo. Anni di studi e di insuccessi sul terreno, dimostrano che formare le forze locali in contesti non democratici per metterle in condizione di affrontare le minacce al posto nostro non funziona.

Perché?

Perché rappresentano governi che non sono percepiti come legittimi. Guardi le forze afghane: erano numerose e ben equipaggiate, ma non rappresentano nessuno a livello sociale e politico. Per chi avrebbero dovuto combattere? Infatti alla prima occasione si sono dissolte. Questo è un approccio che va ripensato.

In che modo?

Per raggiungere risultati in quei contesti servono strategie complesse che comprendono una maggiore inclusione di forze politiche e il coinvolgimento della società dal basso. Cose molto più complicate rispetto a istruire un po’ di soldati.

Come è evoluto l’approccio italiano alla questione delle missioni?

Dopo la fine della Guerra fredda, l’Italia le ha usate per aumentare il suo prestigio internazionale fornendo appoggio a un alleato maggiore come la Nato o l’Ue: Desert Storm nel Golfo nel 1990, poi l’impegno nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq, in Libano, fino alla Libia nel 2011. Lì avviene un cambiamento: dopo le difficoltà sul campo, quelle economiche e la visione ormai condivisa che intervenire in operazioni di nation building non portava benefici, dal 2015 l’Italia ha ridotto le unità all’estero e le ha concentrate nel Mediterraneo allargato. Ora però serve un passo in più.

Quale?

Da anni gli Usa e molti altri Paesi hanno avviato una fase di valutazione dei risultati raggiunti in Afghanistan. Noi invece non abbiamo fatto alcuna valutazione degli obiettivi e dei loro costi. Servirebbero analisi scientifiche rigorose, e noi non le abbiamo.

Il Parlamento ha votato il rifinanziamento della missione in Afghanistan quando Guerini aveva già celebrato l’ammaina-bandiera a Herat.

Invece di discutere e approvare le missioni a gennaio come previsto dalla legge 145, noi lo facciamo a metà anno con effetti paradossali. In Germania c’è una discussione continua sul tema e il Parlamento esercita un forte controllo sul governo. In Italia, invece, per anni l’esecutivo ha avuto larghissima autonomia. Dal 2016, con il documento che ha sostituito il dl Missioni, le Camere avrebbero la possibilità di valutare le voci di spesa. Ma una sola volta, a inizio 2018, il Parlamento ha rispettato i tempi. Le Camere erano già sciolte, perché si sarebbe votato a marzo.

Missioni militari, in 17 anni spesi 20 miliardi

Una volta bisognava “esportare la democrazia”. Da qualche anno, invece, la parola d’ordine è “Mediterraneo allargato”. Un concetto geografico che va ben oltre la tradizionale immagine della cartografia degli Stati bagnati dal Mare Nostrum. Un’area che va dal golfo di Guinea al Corno d’Africa e comprende Sahel e Libia. Un’area vasta, di “nostro prioritario interesse” dove “concentrare forze e risorse”, ha spiegato il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, durante la riunione delle commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato, lo scorso 7 luglio. L’obiettivo principale, almeno dal 2014 a oggi, oltre alla storica necessità di garantirsi gli approvvigionamenti di energia è diventato il monitoraggio dei flussi migratori, il rispetto degli embarghi, il controllo e il contrasto dei gruppi terroristici. Un cambio di paradigma che non ha comportato una diminuzione dell’impegno militare all’estero da un punto di vista economico, ma una ricollocazione delle risorse nelle aree di maggiore interesse.

Pochi giorni dopo l’audizione in commissione di Guerini, il Parlamento ha approvato il rifinanziamento delle missioni militari all’estero. Ben 1,2 miliardi di euro per il 2021, quasi 100 milioni in più rispetto al 2020. Il provvedimento di luglio, in generale, porta fino a quota 20 miliardi e 500 milioni la somma dei soldi spesi per le forze armate italiane nel mondo dal 2004 a oggi. Un trend annuale in crescita a partire dal 2014 (quando non si arrivava al miliardo). Per l’anno 2021, le missioni finanziate sono 40, due in più rispetto all’anno precedente. Oltre 9 mila i soldati dispiegati in tre continenti (Europa, Asia e Africa). Un record per numero di missioni, mentre per unità impegnate il dato è inferiore solo al 2005, quando l’escalation del conflitto in Afghanistan aveva portato a 10 mila i militari schierati.

Iraq e Golfo Persico

La più importante tra le nuove missioni autorizzate dal Parlamento è Emasoh (European Maritime Awareness in the Strait of Hormuz), nello Stretto di Hormuz, una lingua di mare larga appena 30 km che divide l’Iran dall’Oman e gli altri ricchi emirati della penisola araba. A Hormuz, su iniziativa lanciata dalla Francia a margine del Consiglio Ue di gennaio 2020, siamo presenti con una nave da guerra, due aerei e 193 soldati, che costano in tutto 9 miliardi di euro.

Ma nel gigantesco risiko mondiale, la pedina messa dall’Italia a Hormuz è solo l’ultima in un’area, quella che va dall’Iraq alla Siria fino al Golfo Persico, teatro dell’impegno più sostanzioso di truppe e fondi. La “guerra in Iraq”, quella voluta nel 2003 dagli Stati Uniti guidati da George W. Bush, è finita da un pezzo, almeno 10 anni. Ma dopo la nascita e lo sviluppo dal 2014 dell’Isis, la guerra civile ha impedito l’uscita militare dal Paese. Da quell’anno l’Italia è impegnata nella cosiddetta Coalition of the willing, la coalizione internazionale per la lotta contro il Daesh, su iniziativa degli Stati Uniti. Un impegno corposissimo, con 900 unità e, solo per il 2021, oltre 230 milioni di euro finanziati. In questo contesto la “Mission in Iraq” promossa dalla Nato (NM-I) è ancora in corso e al suo interno l’Italia svolge un ruolo da protagonista. Una “missione non-combat” che ha “l’obiettivo di offrire ulteriore sostegno al governo iracheno nei suoi sforzi per stabilizzare il paese e combattere il terrorismo”, si legge nel “mandato internazionale” allegato agli atti parlamentari. L’Italia ne assumerà il comando nella primavera del 2022, motivo per il quale il nostro contingente arriverà a contare fino a 280 uomini al costo di 15,5 milioni l’anno. Non solo. La situazione in Iraq per molti versi ricorda quella dell’Afghanistan. Lo Stato islamico, fiaccato dai bombardamenti internazionali e dall’impiego dei Peshmerga sul terreno, è nominalmente sconfitto ma i suoi militanti si sono riciclati nelle miriadi di gruppuscoli di combattenti che compongono la galassia jihadista in Iraq e in Siria. In totale, secondo i dati aggiornati forniti dall’osservatorio Milx, dal 2003 a oggi l’Italia ha investito nell’antica Mezzaluna fertile la bellezza di 3 miliardi e 275 milioni di euro cui andrebbero aggiunti, spiega il coordinatore del progetto Francesco Vignarca, “costi extra indiretti proporzionali al peso delle singole missioni”, in tutto 418 milioni.

Somalia e Corno d’Africa

La quarantesima missione italiana all’estero è quasi simbolica. Un solo militare, appena 156 mila euro per partecipare a Unsom, operazione Onu in Somalia e Gibuti. Simbolica, ma significativa. Perché da diversi anni si è fatto importante anche l’impegno dell’Italia nel Corno d’Africa. In quell’area spendiamo 26 milioni l’anno nell’operazione Atalanta, con due navi da guerra, quattro aerei e 388 soldati per “contrastare gli atti di pirateria” e lottare “contro il traffico di stupefacenti”. Altri 12 milioni di euro e 154 unità sono impiegati nell’operazione Eutm Somalia a Mogadiscio per il “rafforzamento delle forze armate somale che rispondono al governo nazionale somalo”. Tutte missioni che possono contare sull’ausilio logistico della base militare italiana a Gibuti, finanziata con 11 milioni di euro l’anno, cui si aggiungono 2,3 milioni per l’addestramento della polizia somala e dei funzionari yemeniti. Restando in Africa, l’Italia sostiene le Nazioni unite anche nel Sahel, la cinta subsahariana che parte da Marocco e Mali e arriva, appunto, in Sudan. Gli impegni più importanti sono in Niger, al seguito di Stati uniti e Francia, per la “sorveglianza delle frontiere” e la formazione e “l’addestramento delle forze nigerine”, con un incremento del contingente (ben 295 unità) e dei fondi impiegati, 44,5 milioni di euro; e in Mali, nella Task Force Takuba, missione “di contrasto alla minaccia terroristica nel Sahel”, con 250 unità e 49 milioni spesi. La “coalizione del Sahel” è nata durante il vertice di Pau, il 13 gennaio 2020, su pressione del presidente francese Emmanuel Macron e il via libera dell’Onu.

Libano fra “cedri” e Unifil

Quest’anno, con grande ritardo, il Parlamento ha anche finanziato la missione Emergenza Cedri, il sostegno dell’Esercito italiano al Libano dopo la devastante esplosione al porto di Beirut il 4 agosto 2020. Impegno ormai concluso a novembre scorso. I nostri soldati sono andati, materialmente, a raccogliere le macerie e organizzare i soccorsi. Resta il fatto che le forze armate italiane sono impegnate in Libano quasi ininterrottamente dal 1978 nella missione Unifil. Riconfigurata nel 2006 e prorogata nel 2020, a oggi nello stato mediorientale ci sono 1.301 soldati, 1 nave e 7 aerei al costo complessivo di 181 milioni di euro, cui si aggiungono i 20 milioni circa per l’operazione Mibil, l’addestramento delle forze armate libanesi.

Rientrano 2 mila afghani Rebus profughi, oggi G7

La lista dei collaboratori da riportare in Italia si allunga di ora in ora arrivando a quota 2.000 persone rispetto ai 650 iniziali. La priorità, stabilita da ministero della Difesa e degli Esteri, è quella di accogliere in Italia personale afghano, attivisti, donne e chi è più esposto al pericolo del regime talebano. D’altronde, dopo il caos di lunedì in aeroporto, da martedì sera il ponte aereo Kabul-Roma è diventato pienamente operativo. Le operazioni partono dalla base principale di Al Salem, in Kuwait, da cui decollano i 12 aerei C-130 della Difesa da 100 posti ciascuno. Così ieri alle 16 a Fiumicino sono arrivate 86 persone tra cui una quarantina di collaboratori della Difesa e della nostra ambasciata, con i rispettivi familiari, altrettanti collaboratori dell’Ue e una decina di funzionari italiani e della Nato. Oggi invece ne arriveranno altri 300 a bordo di un Boeing Kc 767. Tra i dissidenti che torneranno in Italia ci sarà anche Zahara Ahmadi, imprenditrice 32enne e sorella del veneziano Hamed Ahmadi, fondatore del ristorante Orient Experience: l’attivista per i diritti delle donne si è imbarcata con i suoi familiari e arriverà questa mattina a Fiumicino.

Le partenze sono gestite dall’unità di crisi della Farnesina, la Difesa e i Servizi Segreti italiani: sul campo, come ha spiegato ieri il colonnello Diego Giarrizzo, ci sono 1.500 militari italiani e le operazioni di rimpatrio sono supervisionate dal console Tommaso Claudi della Farnesina e dal generale Luciano Portolano, a capo del Comando operativo interforze. Chi arriva invece viene sottoposto a quarantena nel centro di Roccaraso (Abruzzo) e del Celio (Roma), mentre l’accoglienza spetta al ministero dell’Interno.

Una volta rimpatriati i 2.000 collaboratori afghani e le persone a rischio, toccherà ai profughi. Dall’inizio dell’anno gli sfollati afghani sono oltre 500 mila e la crisi farà crescere il flusso a dismisura. Su questo servirà un approccio europeo e se ne parlerà oggi al G7 dei ministri degli Esteri. La tendenza sarà quella di cooperare in prima battuta con i Paesi confinanti (Pakistan, Iran e Turchia) per gestire l’accoglienza e poi servirà una strategia di redistribuzione. Che dovrà tenere conto anche del muro di alcuni Paesi come la Turchia e delle opposizioni politiche interne. In Italia è Matteo Salvini a dire sì ai corridoi umanitari “per donne e bambini in pericolo” ma non per “migliaia di uomini”. Uno snodo fondamentale saranno le elezioni tedesche di fine settembre.

Proprio a proposito di profughi e di allerta terrorismo ha parlato ieri Elisabetta Belloni, direttore del Dis, in una audizione di due ore davanti al Copasir. Belloni ha “assicurato la prosecuzione del supporto operativo e informativo” dell’intelligence sull’evacuazione dei collaboratori dell’Italia mentre, sul fronte del terrorismo, è stato attivato il Comitato analisi strategica per monitorare le frontiere italiane: particolare attenzione sulla rotta balcanica. Venerdì il Copasir ascolterà il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, anticipando l’audizione in commissione del 24, e la prossima settimana il direttore dell’Aise Giovanni Caravelli.

I talebani senza soldi: 9 mld bloccati in Usa, pagheranno i poveri

È raro avere una cronaca in diretta da una fonte primaria sui retroscena di un conflitto, ma è proprio quel che è avvenuto ieri quando Ajmal Ahmady – governatore della Banca centrale dell’Afghanistan (Dab) e consigliere economico dell’ex presidente Ashraf Ghani – ha deciso di spiegare la situazione finanziaria del suo Paese in un lungo thread su Twitter: “Scrivo perché mi è stato detto che i Talebani stanno chiedendo al personale dove si trovano gli asset della banca centrale (oro, titoli di Stato, eccetera, ndr): è chiaro che hanno bisogno di aggiungere un economista alla loro squadra”. La sostanza è questa: le riserve della Dab ammontano attualmente a 9 miliardi di dollari e sono tutte all’estero, specialmente negli Stati Uniti, dove resteranno congelate. I nuovi padroni di Kabul hanno effettivamente a disposizione solo lo 0,1-0,2% di quella cifra (10-18 milioni), cioè spiccioli.

Ahmady ci tiene a chiarire che “in nessun modo le riserve internazionali dell’Afghanistan sono state mai compromesse”, tutto “è facilmente verificabile” e “neanche un dollaro è stato rubato da alcun conto di riserva”: utile promemoria diretto alla fazione vincente dopo che l’Ambasciata russa a Kabul aveva diffuso la notizia della fuga all’estero di Ghani con quattro auto e un elicottero carichi di soldi. Insomma, il denaro non c’è, ma non è colpa di nessuno: “Un risultato prevedibile: loro hanno vinto militarmente, ma ora devono governare e non è facile”. Specie senza liquidità: i Talebani sono ancora nella blacklist internazionale e il Tesoro Usa non potrà che congelare i fondi; alla stessa maniera il Fondo monetario internazionale dovrà bloccare l’assegno da 350 milioni di dollari che avrebbe dovuto consegnare a Kabul lunedì come parte di una emissione di “Diritti speciali di prelievo” lanciata per reagire alla crisi pandemica. Anche gli aiuti umanitari – che con 20 miliardi di dollari nel 2020 raggiungevano il 43% del Pil – sono destinati a crollere: “È improbabile che i donatori vogliano supportare il governo talebano”, annota Ahmadi (facile profeta: Berlino, ad esempio, lo ha già annunciato).

Insomma, la situazione per il nuovo governo e soprattutto per gli afghani eufemizzando non è buona. Le fosche previsioni dell’ex governatore della banca centrale si limitano a fotografare il campo da gioco: “Il Tesoro Usa congelerà gli asset della Dab. I Talebani dovranno imporre controlli sui capitali e limitazioni all’accesso ai dollari. La moneta afghana si deprezzerà causando un forte aumento dell’inflazione. Questo danneggerà i poveri attraverso l’aumento dei prezzi del cibo”. Intanto le banche hanno già spiegato ai clienti che non possono prelevare i loro soldi. La rivolta di ieri a Jalalabad per difendere le bandiere nazionali potrebbe essere solo l’inizio dell’ennesimo periodo turbolento per l’Afghanistan.

Il lungo thread di Ajmal Ahmady – nato e cresciuto a Ghazni, ma con studi ad Harvard e alla University of California – è notevole anche per un altro dettaglio: una stilettata agli Stati Uniti, che hanno taciuto ai loro alleati informazioni vitali. Si parte sempre dai soldi: “Dato l’ampio deficit di partite correnti dell’Afghanistan, Dab faceva affidamento su spedizioni fisiche di contanti ogni poche settimane. L’importo di tale contante residuo è oggi prossimo allo zero a causa di un’interruzione delle spedizioni negli ultimi giorni”. In sostanza, già prima dello showdown gli Usa avevano smesso di consegnare i dollari con cui funzionava il malandato sistema finanziario afghano: “Venerdì mattina ho ricevuto una chiamata che mi informava che non ci sarebbero state altre spedizioni” e “ho dovuto imporre un limite ai prelievi”; “sabato a mezzogiorno ho visto il presidente Ghani per spiegargli che la consegna dei dollari era sospesa; lui nel pomeriggio ha parlato col segretario di Stato Blinken per chiedergli di riprendere le spedizioni. In via di principio ci disse di sì”. Ora, “può sembrare ridicolo, ma sabato sera non ci aspettavamo che Kabul sarebbe caduta il giorno dopo”.

E qui una conclusione che è un’accusa: “Come che sia, la successiva spedizione di dollari non è mai arrivata. Sembra che i nostri alleati avessero buone informazioni su quel che stava per succedere…”.

Ecco le “nomine” dei mullah: “Il governo sarà la Sharia”

“Non ci sarà alcun sistema democratico perché non ha alcuna base nel nostro Paese. Non discuteremo quale tipo di sistema politico dovremmo applicare in Afghanistan perché è chiaro. È la legge della sharia e basta”. Così Waheedullah Hashimi, alto esponente dei talebani, spazza via il campo da fraintendimenti, rilasciando una intervista alla Reuters. La formula per governare il Paese, Hashimi la descrive così: un consiglio di governo con il leader Haibatullah Akhundzada in qualità di “grande saggio”. La struttura così descritta somiglia a quella con cui i talebani guidarono l’Afghanistan dal 1996 al 2001 quando il leader supremo mullah Omar (fondatore del movimento) stava nelle retrovie, mentre la gestione quotidiana del Paese era demandata ad un consiglio di governo. Akhundzada, nel nuovo schema, avrebbe un ruolo al di sopra del capo del consiglio, che sarebbe simile al presidente.

Tra i capi talebani che potrebbero comporre il direttivo ci sono Mawlavi Yaqoob, figlio del mullah Omar, Sirajuddin Haqqani, leader della rete Haqqani, e Abdul Ghani Baradar, uno dei membri fondatori del gruppo che dirigeva l’ufficio politico dei talebani a Doha, appena tornato a Kabul dopo anni trascorsi in Qatar. In attesa di vedere se questa prospettiva prenderà corpo, ieri ci sono stati momenti drammatici a Jalalabad, città a 150 chilometri dalla capitale: tre manifestanti uccisi dai talebani (per altre fonti 35 i decessi). Il motivo dello scontro è nell’iniziativa dei miliziani di sostituire la bandiera nazionale con quella bianca del movimento. Manifestazioni di dissenso a questo cambiamento anche a Khost, Kunar e Asadabad.

Tornando alla formazione del governo, Hamid Karzai, presidente fino al 2014, ieri ha incontrato Anas Haqqani per ottenere un incontro con il leader politico Baradar nella prospettiva di giungere a una soluzione condivisa. Sul fronte della gestione dell’aeroporto di Kabul, 17 persone sono morte, secondo i dati forniti ieri dalla Nato, per imbarcarsi sugli aerei. Il caos non è scemato e i militari spesso aprono il fuoco per evitare che la folla si riversi sulla pista. Raffiche di kalashnikov continuano a sentirle anche i medici di Emergency in città che ricevono e curano feriti senza sosta. Nella provincia di Bamiyan la statua di un leader della minoranza hazara, etnia perseguitata dai sunniti, ha condiviso lo stesso destino dei Budda fatti esplodere dal movimento nel 2001. I miliziani continuano a mettersi in posa mentre scherzano o mangiano il gelato, per fotografie che diventano presto virali sui social. Il Regno Unito con il premier Boris Johnson conferma che il dialogo è in corso e i mullah stanno mantenendo un comportamento che aiuta a collaborare in una situazione difficile. Diversa la posizione del presidente americano Biden: la sua traiettoria politica è stata spezzata dall’avanzata dei talebani: flagellato dalle accuse, è ai minimi storici di gradimento dall’inizio del mandato.

Resta aperta la questione della massa di profughi che potrebbe inondare i confini. Mea culpa del Bundestag: Berlino si dichiara “corresponsabile della tragedia umanitaria”, ma non aprirà confini ai rifugiati come durante l’esodo del 2015. Londra accetterà 20 mila afghani, ma negli anni a venire: Boris Johnson ha dichiarato che il nuovo regime di Kabul “verrà giudicato dalle azioni e non dalle parole” e che non va riconosciuto se non in maniera unita. Solo Kosovo, Albania e Macedonia si fanno avanti, su richiesta Usa, per accogliere profughi. Nasce una resistenza? Ahmad, figlio del comandante Massoud – leader che si oppose prima ai russi e poi ai Talib – annuncia dalle pagine del Washington Post: “Sono in Panjshir, con combattenti pronti di nuovo a imbracciare le armi contro i Talebani. Abbiamo tante armi, che abbiamo immagazzinato negli anni sapendo che questo giorno poteva arrivare”.