È stato Di Maio

Non fai in tempo ad attaccare Di Maio che subito l’“informazione” all’italiana ti costringe a difenderlo. L’avevamo appena preso in giro paragonandolo al draghetto Grisù per le professioni di fede governista e draghiana, decisamente eccessive visto l’impegno con cui i Migliori stanno smantellando tutte le riforme targate M5S. Infatti i giornaloni, che fino al giorno prima sghignazzavano sul “bibitaro” (anche se non ha mai venduto una bibita: faceva lo steward allo stadio, da ragazzo del Sud che doveva sbarcare il lunario, non essendo figlio di papà), l’avevano subito eletto a statista e “stabilizzatore” in antitesi a Conte, noto brigatista rosso. Come ministro degli Esteri, però, c’è poco da ridire: chi lo vede all’opera sa che Di Maio non è Talleyrand né De Gasperi, ma nemmeno il baluba che si vorrebbe far credere. È un secchione che studia e lavora molto e impara presto: tutti, nell’ambiente, ne parlano bene. Il 13 agosto, alle prime avvisaglie del disastro afghano, s’è attaccato al telefono per tre giorni coordinando l’evacuazione dell’ambasciata e la sera di Ferragosto l’aereo italiano è decollato da Kabul. Poi però Di Maio è stato beccato su una spiaggia pugliese a chiacchierare con Emiliano e Boccia fra centinaia di bagnanti. Apriti cielo! Ma come, il ministro degli Esteri se ne sta coi piedi a mollo e addirittura sorride mentre cade Kabul? Pareva quasi che la disfatta dell’Occidente dopo 20 anni di “guerra al terrorismo” e di “esportazione della democrazia” fosse colpa sua e bastasse il suo rientro a Roma o almeno in albergo per ribaltare le sorti del conflitto con la sola forza del pensiero.

Raramente si è vista una polemica più ridicola. Nell’agosto 2008 il ministro Frattini Dry commentò la crisi in Ossezia da un atollo alle Maldive e disertò il Consiglio Ue a Bruxelles: perciò fu attaccato. Ma stavolta non c’erano appuntamenti istituzionali a Roma, tuttora deserta (il dibattito parlamentare su Kabul è fissato per il 24 agosto), né in Europa. I capi di governo e i ministri degli Esteri e della Difesa si vedono e si sentono in call perlopiù dai luoghi di vacanza. E per dirsi cose ovvie e scontate, visto che nessuno può fare o dire nulla che influisca sulla catastrofe afghana. Infatti ora che Di Maio è rientrato a Roma da tre giorni, nulla è cambiato. Guerini resta in ferie, anche se nessuno lo riconosce. E Draghi, dopo l’intervista al Tg1, è tornato giustamente a Città della Pieve. Lì si trovava già mentre tutti urlavano contro Di Maio sul bagnasciuga e lodavano “il premier che, come un cittadino qualunque, va in macelleria sulla sua Bmw e chiede consigli sulla carne”. Evento sensazionale tipico dei Migliori: un altro, al posto suo, avrebbe chiesto al macellaio di fargli il pieno di benzina.

Il Menestrello accusato di molestie. Il manager: “No, era con Joan Baez”

L’ha citato in giudizio a poche ore dalla scadenza dei termini, più di mezzo secolo dopo i fatti. La signora J.C. punta il dito contro Bob Dylan per presunte violenze fisiche e psicologiche, favorite da droghe e alcol, subite quando lei era appena dodicenne, nel 1965. Sfruttando il “New York Child Victims Act”, legge varata dal governatore Cuomo (proprio lui…) per incastrare i pedofili anche decenni dopo il reato, J.C. chiede un risarcimento per i danni emotivi e fisici che le avrebbero compromesso la vita. La donna sostiene che la frequentazione da incubo con Dylan si sarebbe materializzata in sei settimane tra aprile e maggio ‘65, nella stanza del cantautore al Chelsea Hotel. I legali dell’artista rigettano l’accusa come “falsa” e si ripromettono di “combatterla vigorosamente”. E – a meno di una prova inoppugnabile nelle mani di J.C. – potrebbero segnare punti a vantaggio di Bob semplicemente portandone in aula la vecchia agenda. Perché in quel periodo Dylan era ben lontano da New York, sui palchi tra la West Coast e il Canada. Il 26 si imbarcò per Londra in vista dello storico tour inglese insieme alla fidata The Band, documentato da D.A. Pennebaker nel film Don’t Look Back. Tornò negli Stati Uniti solo il 2 giugno ‘65, fuori tempo massimo per le accuse che J.C. gli ha mosso. Per giunta, in quei mesi Dylan era inseparabile da Joan Baez, sul palco e a letto. Il che non esclude che Bob fosse un predatore: quando alloggiava al Chelsea aveva fatto impazzire la modella Edie Sedgwick, musa di Warhol, portandola sull’orlo del suicidio dopo la velenosa dedica di Like a Rolling Stone. Certo, a scoperchiare il vaso di Pandora degli scandali sessuali del rock sulla scia del #MeToo se ne scoprirebbero di orrendi. Fondata pare la recente crociata di alcune ex amanti di Marilyn Manson, traumatizzate dalle sue violenze; nell’80 fece rumore l’arresto del leader degli Eagles Don Henley, nella cui casa era morta di overdose una prostituta sedicenne; sui festini di Elvis si favoleggia da sempre, e chissà quante orge potrebbero raccontare i Rolling Stones o i Led Zeppelin. L’accusa di pedofilia nel 2003 quasi tirò nell’abisso il capitano degli Who, Pete Townshend, nel cui pc furono scoperte foto di minori (gli servivano per una ricerca, dichiarò) e ha tumulato in cella l’ex stella del glam Gary Glitter. Ora tocca all’ottuagenario Dylan difendersi dall’infamia, prima che la sua statua rotoli giù.

Sesso, bugie e morte: il “giglio” sulla spalla è una condanna a vita

Anne a sedici anni era “bella come lo è l’amore stesso”: bionda, alta, con brillanti occhi azzurri orlati da ciglia nere e una voce di velluto. Olivier aveva occhi penetranti, il naso diritto, il mento ben disegnato come quello di Bruto, un’indefinibile impronta di grandezza e di grazia, il timbro della voce forte e melodioso a un tempo; il portamento signorile traspariva, quasi a sua insaputa, dai suoi più piccoli atti. Olivier de Bragelonne de La Fère era anche il signore assoluto delle terre dove la fanciulla si era trasferita con il fratello curato: inutile dire che appena aveva visto quel viso d’angelo, il giovane conte era capitolato senza combattere. Siccome era nobile nell’animo e non solo per titolo, non l’aveva rapita e sedotta. L’aveva sposata, rispettata, adorata. Un giorno il giovane innamorato aveva portato l’amata moglie a caccia nelle sue terre. Lei cadde da cavallo e perse i sensi. Per permetterle di respirare meglio, Olivier le stracciò l’abito da amazzone con una foga mai usata nell’alcova. È così che in un attimo il mondo si capovolge, la felicità si fa disperazione, l’amore si tramuta in rancore, il futuro diventa oscurità: Olivier scopre sulla spalla di lei un segreto fino ad allora sapientemente nascosto, il marchio dell’infamia che ha le sembianze di un giglio. Che cosa ha fatto la dolce, stupenda, Anne per meritarlo? Olivier lo ignora, è stato raggirato, ma sa che certamente il passato di sua moglie nasconde qualcosa di grave e misterioso: il tatuaggio è il segno di riconoscimento dei criminali. Siccome il conte ha il diritto di vita e di morte sulle sue terre, preda di una rabbia folle impicca la moglie e scappa al galoppo. Da allora e per tutta la vita Olivier correrà per dimenticare l’amore di Anne, affogando nel vino i ricordi quando si affacciano troppo vivi alla finestra del cuore.

Così l’uomo che era stato De Bragelonne de La Fère scompare. Perché, come dice un altro personaggio di questa grande storia, monsieur de Tréville, “Eva ci ha perduti tutti”. È per mano di Eva che Olivier muore e nasce Athos (“non è il nome di un uomo, ma di una montagna”), il più coraggioso dei moschettieri. Athos come Olivier conserva i tratti della grandezza, anche se la sua “parte luminosa si spegneva in quelle tristi, ed erano frequenti: il suo lato brillante spariva come in una profonda notte. Allora, svanito il semidio, restava appena un uomo. Con la testa bassa, l’occhio spento, la parola pesante e faticosa, Athos guardava per lunghe ore sia la bottiglia e il bicchiere. Se i quattro amici si riunivano in uno di questi momenti, una parola, pronunciata con qualche sforzo, era tutto il contributo di Athos alla conversazione. In compenso beveva da solo più di tutti gli altri insieme, e senza che di questo apparisse altro segno che un più marcato aggrottar di sopracciglia e una più profonda cupezza”. La tristezza di un cuore mortalmente compromesso che non riesce a trovare ragione né perdono.

Anne però non è morta per davvero. Quando la incontriamo ha 25 anni ed è la giovane vedova di un nobile inglese, lord de Winter, morto in oscure circostanze subito dopo averla nominata erede. Per mantenersi è diventata una spia al soldo del Cardinale di Richelieu: è lei che riesce a strappare i due puntali di diamanti che quasi fanno perdere il trono alla Regina Anna, sospettata di essere l’amante del duca di Buckingham. La malvagità non affiora nei begli occhi celesti: quando per caso D’Artagnan incontra Milady, il giovane cuore – per quanto impegnato con la coraggiosa Costanza Bonacieux – resta impigliato in quella rete senza scampo che si chiama bellezza. Lei è infatuata di un altro e per averla il focoso guascone, veloce con la spada e non meno svelto d’ingegno, ricorre a un sotterfugio. Dopo l’amore però il giovane scorge il giglio sulla spalla e si ricorda delle strane confidenze che il suo amico Athos gli aveva fatto in una notte più alcolica delle altre. Milady è Anne de La Fère, ma con nove anni di più, e sono anni forgiati da perfidia e ambizione. È la vendetta a segnare il destino fatale della bella dama. In Inghilterra viene incarcerata dal cognato, lord de Winter, avvisato dai moschettieri, che già la sospettava di avere avvelenato il fratello. A custodire la sua detenzione c’è l’incorruttibile puritano John Felton. Le armi dell’incanto di Milady sono così affilate che perfino il rigoroso John soccombe: “Volle sedurlo e lo fece, avrebbe sedotto un santo”. La recita è tanto convincente da indurre il carceriere a uccidere il duca di Buckingham. Ed è solo la prima vittima della bionda furia: una volta tornata in Francia la vendetta di Milady si abbatte su Costanza, che uccide dopo averne conquistato l’amicizia. L’odio raccoglie tempesta: come un fulmine arriva il castigo, per mano dei moschettieri, lungo la Lys, in un notte senza luna e senza scampo.

“Vi perdono il male che mi avete fatto, vi perdono il mio avvenire spezzato, l’onore perduto, il nome contaminato e la salvezza della mia anima compromessa per sempre dalla disperazione in cui mi avete gettato. Morite in pace”, sono le ultime parole di Athos a Milady. Del resto in quella notte alcolica aveva sussurrato a D’Artagnan: “L’amore è una lotteria in cui chi vince guadagna la morte”.

“I due stendardi” di Rebatet il gioiello di un mascalzone

All’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso in Francia, quando impantanato tra nouveau roman ed école du regard da un lato ed esistenzialismo e strutturalismo dall’altro il romanzo era dato per spacciato, esce un’opera destinata a passare alla Storia: Les deux étendards, un capitale romanzo-mondo. Tale non tanto per la mole (più di mille pagine) quanto piuttosto per l’immensità dei sentimenti che lo attraversano, il cui caleidoscopio si muove in perfetto bilico tra la melanconia per la vita passata di Proust e la pietà per l’uomo di Tolstoj.

Tuttavia, ancor prima di riferire sulla trama val la pena soffermarsi sul suo autore: Lucien Rebatet (1903-1972), in una parola, un mascalzone. Perfino George Steiner, sulle colonne del New York Times, si chiese come “questo assassino, questo cacciatore di ebrei, di combattenti della Resistenza” abbia potuto scrivere “uno dei capolavori nascosti del nostro tempo, un libro di inesauribile umanità, traboccante di musica, d’amore, di comprensione profonda del dolore”. E che sia nascosto non c’è dubbio, se pensiamo che solo oggi grazie al piccolo editore Settecolori possiamo leggere in italiano I due stendardi (traduzione di Marco Settimini, 2 voll., pp. 1300, euro 48), un libro dentro cui, come nota ottimamente nella prefazione Stenio Solinas, “c’è il romanzo sentimentale e quello psicologico, il feuilleton d’avventura e lo stream of consciousness, il narratore onnisciente e la terza persona, il diario intimo e lo scambio epistolare, la purezza della lingua, l’esplosione dell’argot”.

Il silenzio sull’opera si spiega col silenzio imposto sul suo scomodo autore. Rebatet è stato un giornalista attivo tra l’Action Française e il settimanale di estrema destra Je suis partout. Uomo coltissimo, ammiratore dei padri della letteratura, oltre che notista politico era critico musicale e insieme figlio degli “ismi” del Novecento: futurismo, dadaismo, surrealismo. Tra questi, pure l’antisemitismo. Già. Soltanto dieci anni prima rispetto all’uscita del libro I due stendardi, nel 1942 – mentre gli Usa sono già in guerra e la Germania si è impantanata in Russia – Rebatet pubblica un torrenziale pamphlet destinato a diventare un best-seller dell’Occupazione nazista, Les Décombres (le macerie), al pari di Bagatelle per un massacro di Céline e Kaputt di Malaparte. Un libro sulle macerie, appunto, in cui si è ridotta la Francia; settecento pagine di odio feroce contro Vichy, contro la Chiesa, soprattutto contro gli ebrei a cui augura – ritenendo il loro fanatismo responsabile del conflitto – “una punizione collettiva”. Proprio nei giorni dell’uscita, più di 22 mila ebrei venivano reclusi nel Velodromo d’Inverno fuori Parigi, destinazione Auschwitz.

Quando la guerra si mette male, Lucien fugge a Sigmaringen nel ‘44 con l’amico Céline, viene arrestato dagli americani in Austria nel maggio dell’anno dopo, incarcerato a Fresnes, processato e condannato a morte in 160 giorni. Con la catena ai piedi, sul muro della cella scrive le parole di Mathilde de la Mole ne Il rosso e il nero di Stendhal: “Non c’è altro che la condanna a morte che possa distinguere un uomo. È la sola cosa che non si comperi”. Intanto, lavora con il materiale a sua disposizione (fogli raccattati e penne di fortuna) alla stesura de I due stendardi, pur non sapendo se mai arriverà alla fine di un progetto tanto esteso. Nel ‘47 la pena viene commutata nei lavori forzati a vita finché, dopo l’amnistia dal governo Auriol, nel ‘52 è libero sulla parola, quando il suo capolavoro è già uscito.

Del suo furore nazista, Rebatet non si è mai pentito, tanto che circa la grazia ricevuta il generale De Gaulle disse: “Non meritava questo onore”. Chi dice, dunque, il vero: la colpevole canaglia d’uomo o l’autore sublime e innocente? Un dualismo arduo da districare, come narra già il titolo de I due stendardi, che è insieme romanzo di formazione, romanzo storico sull’entre-deux-guerres e digressione coltissima. Anche i suoi tre protagonisti – è la storia di un infelice triangolo amoroso – sono scissi: il provinciale Régis, che ama la bella Anne-Marie ma che aspira a diventare prete; Anne-Marie, che vuol farsi suora per amore di Régis ma si lascia lusingare dal fascino carnale dell’amico di lui, Michel; infine il parigino Michel, che desidera la ragazza ma per rispetto dell’amico tiene segreti i suoi sentimenti e si limita a masturbarsi. Annegati come sono in questo dilemma cornéilliano – meglio una vita eroica o una sensuale –, non è certo Rebatet a dare soluzioni. Al limite, lui rincara le domande: “Di che metallo sono fatto io per pensare di giudicare gli altri?”. Di una cosa, però, è certo in questo viaggio al termine dei sentimenti: “La sola risposta onorevole è ripudiare il mito ignobile dell’innocenza e della colpa”.

Caporalato, Grafica Veneta non assumerà gli sfruttati

Neanche Papa Francesco è riuscito a smuovere la proprietà di Grafica Veneta: niente assunzione per i pakistani che, ha svelato un’inchiesta, erano vittime di caporalato di un’azienda fornitrice della società di Trebaseleghe, in provincia di Padova. La ditta del patron Fabio Franceschi lo ha chiarito ai sindacati lunedì, in un incontro in prefettura, tramite un suo avvocato. Grafica Veneta, d’altra parte, ha sempre sostenuto di non avere nulla a che fare con lo sfruttamento dei 24 operai e di aver sempre pagato il lavoro 22 euro all’ora al suo subappaltatore, mentre la Finanza ha accertato che ai dipendenti ne arrivavano in media 4,5: ora la società ha deciso di non avvalersi più di ditte esterne, ma di automatizzare il servizio, quindi niente assunzioni (forse qualche interinale). Che c’entra Bergoglio? Il Papa era intervenuto dopo un articolo che lo chiamava in causa dello scrittore Maurizio Maggiani (su La Stampa): “L’idea che a stampare il mio libro siano degli schiavi mi fa schifo”. Francesco aveva risposto: “Abbiamo bisogno di una denuncia che non attacchi le persone, ma porti alla luce le manovre oscure che in nome del dio denaro soffocano la dignità dell’essere umano” attraverso “i perversi meccanismi dello sfruttamento”. Nonostante il Papa, però, niente lieto fine.

Il debutto della nuova “Ita” è al buio: giallo sui biglietti

Non sarà oggi il B-day per Ita, dove “b” sta per biglietti aerei e “Ita” per la nuova compagnia pubblica, controllata dal ministero dell’Economia che dal 15 ottobre dovrebbe prendere il posto di Alitalia. Ieri l’Enac (l’Ente nazionale per l’aviazione civile) non ha rilasciato il Certificato di operatore aereo (Coa) a Ita e, probabilmente, non lo farà neanche oggi. Come spiegano dall’Enac, “si sta ancora lavorando” e i tempi tecnici potrebbero far slittare ancora il rilascio del Coa.

Problema: senza licenza, Ita non può iniziare a vendere i biglietti che, nel frattempo, continuano a essere emessi da Alitalia. Ma questo della biglietteria è solo uno dei tanti intoppi che caratterizzano il dossier Alitalia: mancano ancora i bandi di gara, a partire da quello per il marchio, oltre alla formalizzazione da parte della Commissione Ue del via libera all’operatività di Ita, tanto che ormai più di qualche tecnico ipotizza che la nuova Alitalia non partirà il 15 ottobre. Tante le problematiche, troppi i nodi irrisolti. Riavvolgiamo il nastro.

Lunedì Ita ha effettuato il volo di prova per ottenere la certificazione dell’Enac con un aereo noleggiato appositamente da Alitalia. Senza il cosiddetto “Coa” il percorso per arrivare alla piena operatività non può nemmeno cominciare. La dimostrazione è l’avvio della vendita dei biglietti: è stata la stessa Ita lo scorso 15 luglio, in occasione dell’approvazione delle linee del Piano industriale 2021-2025, a prevedere di poter avviare la commercializzazione dei biglietti entro un mese. I 30 giorni sono passati e Ita, che tecnicamente non è ancora una compagnia aerea, non ha messo online neanche il sito.

La nuova compagnia ammette che qualche problema organizzativo c’è, che insomma è difficile far allineare tutti i pianeti. Intanto chi non vive di sole dichiarazioni si è già mosso. Già l’altro ieri, uno dei general service più importanti d’Europa nella gestione dei sistemi di prenotazione dei biglietti aerei ha comunicato in una nota interna che i voli Ita sarebbero stati venduti da oggi “con il codice AZ e piastrina per la numerazione dei ticket 055”, vale a dire quelli di Alitalia. Col risultato che ad appena due mesi dalla cessazione di attività, Alitalia continua a staccare biglietti creando disagi non solo per i passeggeri ma anche per agenzie di viaggio e tour operator. “Non ci è dato sapere nulla sulle tempistiche dei rimborsi”, dice Fiavet-Confcommercio: “Sono almeno 255.000 gli utenti in attesa di sapere la loro sorte dopo il 14 ottobre. Per i rimborsi il governo Draghi sembra abbia stanziato 100 milioni. Saranno sufficienti?”.

Domanda lecita, manca una risposta ufficiale. Tecnicamente Alitalia, dal giorno in cui Ita comincerà a vendere i biglietti, dovrebbe comunicare ai clienti la cancellazione dei voli e spiegare le modalità di rimborso. Ma tutto è reso ancora più difficile dall’impossibilità di “riprotezione” sui voli della nuova compagnia: la Ue ha preteso che non ci sia alcuna continuità tra le due sigle. In altre parole, i passeggeri non possono essere spostati da un volo all’altro anche se poi gli aerei saranno gli stessi. Il 15 ottobre, infatti, quando (e se) Ita decollerà per la prima volta lo farà con una mini-flotta di 52 aerei Alitalia. Pochi saranno anche gli slot (il 57% in meno su Fiumicino, il 15% a Linate) e senza le divisioni manutenzione e servizi di terra.

Drammatico è il fronte occupazione con un drastico taglio al personale: da 11 mila a 3 mila addetti nel 2021 (dovrebbero salire a 5.500 in tre anni). I sindacati si appellano al governo perché avvii al più presto un tavolo di confronto. Intanto la vecchia Alitalia si prepara a gestire un altro anno di cassa integrazione. L’ennesima proroga ha allargato la platea dei lavoratori interessati: oltre 7 mila dipendenti.

A Venezia sono tornati i turisti. Ma i suoi musei restano chiusi

Anche questa mattina lunghe code si formeranno all’ingresso di Palazzo Ducale, in Piazza San Marco a Venezia, mentre un nugolo di visitatori ne affolla le sale. Possiamo dirlo con certezza, perché è esattamente quello che sta accadendo da giorni a questa parte. Ma non è, purtroppo, merito di un’improvvisa fame di cultura esplosa tra veneziani e turisti. Non è neppure a causa del Green pass, che pure allunga i tempi di attesa, ma sembra non aver inciso affatto sul flusso di visitatori nel caso veneziano. E non è neppure merito della crescita dei numeri turistici, che pure hanno visto un rimbalzo notevole in questo agosto, pur restando lontani dai numeri del 2019: in assenza di dati ufficiali, si nota che da due settimane a questa parte la città pullula di turisti, con scenari che certo non pareggiano gli agosti pre-pandemia, ma che, considerata anche la mancanza dei turisti asiatici, si assestano su numeri che danno fiducia, ben oltre il 50% dell’occupazione alberghiera (solo in luglio era il 25% negli infrasettimanali).

No, il merito di quell’affollamento è della Fondazione Musei Civici di Venezia, che gestisce Palazzo Ducale così come altri 10 istituti cittadini, e che, dal lunedì al mercoledì, ne tiene chiusi nove, costringendo i tanti turisti tornati in città ad affollarsi nell’area marciana, con Palazzo Ducale e il Museo Correr (quest’ultimo aperto solo per metà). In sette casi sono invece aperti solo dal giovedì alla domenica, per sei o addirittura quattro ore al giorno: sono musei diversi, ma di rilevanza internazionale, come il Museo del Vetro a Murano; il Museo del Merletto a Burano; e ancora il Museo del Settecento Veneziano a Ca’ Rezzonico; il Museo di Storia Naturale; la Galleria internazionale d’Arte Moderna a Ca’ Pesaro. E poi c’è la Torre dell’Orologio, che apre un’ora al giorno su prenotazione dal giovedì alla domenica, e infine Palazzo Fortuny, che ospitava mostre, chiuso dal 2019.

Era la fine di dicembre quando il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro annunciava che i musei civici (la Fondazione è partecipata al 100% dal Comune) sarebbero rimasti chiusi fino a quando non fossero “tornati i turisti”. Non era vero, ora i turisti ci sono, sono molti, ma gli orari di apertura, rispetto all’estate 2019, sono più che dimezzati. I musei restano chiusi per risanare i conti della Fondazione, o meglio, per rimpinguarli, dato che grazie a quasi 8 milioni di sussidi pubblici ottenuti, e grazie all’utilizzo della cassa integrazione, nonostante il collasso del turismo nel 2020 la Fondazione ha chiuso il bilancio in utile.

Da mesi la situazione si fa ogni giorno più paradossale. Dopo la chiusura totale dei musei fino alla fine di febbraio, col 100% del personale in cassa integrazione, e una parzialissima apertura dei poli principali per far tacere le proteste, il 13 giugno si è tenuta una cerimonia di “riapertura” che in realtà portava alla riapertura solo di tre musei su 11, e solo nel weekend. Poi, da luglio, questa nuova riapertura definitiva, dimezzata. Il tutto per continuare a tenere buona parte del personale in cassa integrazione garantendo così, grazie al sussidio statale, i conti della Fondazione comunale.

Oggi è in cassa integrazione il 40% dei dipendenti diretti, che si occupano di attività interne (uffici, manutenzione, conservazione, catalogazione): era il 50% fino a luglio, mentre sarà il 20% da lunedì fino a dicembre, secondo un nuovo accordo sindacale. Tutte le centinaia di lavoratori “esternalizzati” dei musei veneziani, invece, lavorano solo per una parte delle ore previste dal contratto, e il resto lo passano anche loro in Cig.

Probabilmente nessuno a Venezia, tranne gli albergatori, prevedeva il picco turistico che da circa quindici giorni si è registrato. Ma la Fondazione a gennaio ragionava su una riapertura a Carnevale proprio perché “da quello che ci hanno detto gli albergatori, ci saranno diverse persone che arriveranno in città”. Strano che per questo agosto non fosse giunta notizia.

Le conseguenze non riguardano solo i tanti visitatori che trovano chiusa la porta del museo che avrebbero voluto visitare o sono costretti a una lunga coda per entrare nei pochi aperti. La sospensione di tante attività di manutenzione ordinaria o catalogazione potrebbe lasciare danni di lungo termine; le chiusure potrebbero allontanare ancor più la cittadinanza da luoghi che, è bene sottolinearlo, sono di proprietà comunale; gli archivi e le biblioteche interni ai musei, piccoli ma spesso di grande rilevanza per gli studiosi, sono quasi inaccessibili da un anno e mezzo, aprendo un giorno alla settimana e permettendo l’accesso a pochi utenti al giorno.

I sindacati Cgil e Uil lamentano che, mentre si tagliano i servizi e le ore di lavoro, “il Consiglio di amministrazione mette a disposizione importanti risorse per attività esterne” come il Salone Nautico, anche se “era stato detto che le condizioni di crisi avrebbero indotto a valorizzare il patrimonio esistente evitando consulenze”, mentre il governo si prepara a offrire altri 4 milioni di aiuti. Milioni che ci si augura saranno forniti solo a condizione che la Fondazione si impegni a fornire quei “servizi pubblici essenziali” che il ministro della Cultura Dario Franceschini si affrettò a definire tali per decreto dopo un’assemblea sindacale di due ore al Colosseo: finora, non è stato così. Con buona pace di cittadini e turisti.

La coscienza sporca dell’Occidente

“Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti.” Fabrizio De André

Le vicende del repentino collasso del governo di Ashraf Ghani ricordano da vicino quanto accadde durante “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”.

Anche allora lo Zar non faceva che mandare truppe su truppe contro gli insorti, un pugno di uomini guidati da Trotsky e da Anton Ovseenko (Lenin se ne stava prudentemente nascosto, sotto una parrucca bionda, alla stazione di Finlandia). Ma le truppe dello Zar non arrivavano mai sul posto, si squagliavano prima. Così i 350.000 soldati dell’esercito di Ghani si sono arresi senza combattere, mentre i loro comandanti fuggivano. Era prevedibile che senza l’aiuto dei bombardieri americani l’esercito governativo non avrebbe retto all’urto dei Talebani, ma una presa così fulminea di Kabul è stata possibile perché i soldati arruolati dal governo non avevano alcuna voglia né motivazione per battersi.

Adesso le “anime belle” e democratiche occidentali paventano, o piuttosto si augurano per salvare la propria coscienza avendo sempre descritto i Talebani come ‘brutti, sporchi e cattivi’, chissà quali sfracelli e vendette in Afghanistan. In linea di massima non ci saranno né gli uni né le altre. I Talebani non infieriranno certamente sui soldati governativi perché sanno benissimo che si tratta di loro coetanei e che, in un Afghanistan devastato economicamente e socialmente dall’occupazione occidentale, arruolarsi era uno dei pochi modi per avere un salario. Peraltro l’‘Emirato islamico d’Afghanistan’ (così lo stato afghano è tornato ad avere il nome che gli aveva dato il Mullah Omar) ha già preannunciato un’amnistia generale, come aveva fatto nel 1996 Omar dopo aver sconfitto i “signori della guerra” che avevano fatto dell’Afghanistan terra di ogni genere di soprusi sulla povera gente. Nulla hanno da temere i civili sul cui sostegno i Talebani hanno potuto contare nella loro ventennale guerra di indipendenza. Nulla da temere, checché si strepiti, hanno le donne, almeno dal punto di vista di abusi fisici. I Talebani, proprio a causa della loro indubbia sessuofobia, non hanno mai toccato le donne come dimostra il trattamento più che corretto che hanno loro riservato quando le hanno avute prigioniere. I Talebani hanno assicurato che alle donne verranno garantiti il diritto allo studio e al lavoro, diritto che per la verità esisteva anche prima in linea di principio, ma non di fatto a causa delle convulsioni cui è stato sottoposto l’Afghanistan negli ultimi quarant’anni.

Resta la questione dei ‘collaborazionisti’, di coloro che, tradendo il proprio Paese, hanno lavorato per gli occupanti occidentali. Credo che i collaborazionisti di piccolo cabotaggio, interpreti e simili, verranno lasciati in pace. Per la corrottissima cricca di Ashraf Ghani, governo, governatori provinciali, alti gradi della Magistratura, l’unica soluzione possibile sia che l’Onu, se vuole avere ancora un ruolo positivo nella ‘questione afghana’ di cui si è sempre, colpevolmente disinteressata, fornisca un salvacondotto a costoro perché riparino negli Stati Uniti o in Iran che è sempre stato ostile alla rivoluzione talebana.
Ci sono poi due questioni particolari. È stato Massud, il leader dei Tagiki, ad aprire l’Afghanistan agli americani offrendo la collaborazione dei suoi uomini sul terreno. Gli americani non avrebbero mai potuto conquistare l’Afghanistan talebano solo con i bombardieri. Avevano assolutamente bisogno di un appoggio sul terreno e Massud, che non tollerava di essere stato sconfitto dai giovani e allora militarmente inesperti “studenti del Corano”, gliel’ha offerto. Ora sarà bene che i Tagiki non si oppongano ancora una volta alla vittoria talebana, come sembra emergere da una dichiarazione del figlio di Massud da poco tornato dalla Gran Bretagna. Se così dovesse essere sarà di nuovo guerra civile. In quanto a Dostum, che fino a qualche tempo fa aveva il ruolo di vicepresidente nel governo dell’Afghanistan, è stato protagonista di due tra i più efferati misfatti di una guerra pur crudelissima. “A Mazar fece rinchiudere in dei container e portare nel deserto, sotto il sole, 1250 talebani. ‘Quando scaricavamo i corpi dai container erano diventati neri per il calore e la mancanza di ossigeno’, racconterà uno dei carnefici”. (Il Mullah Omar, p. 44). Quando gli americani occuparono l’Afghanistan Dostum, allora loro alleato, fece parecchi prigionieri talebani, costretti a vivere in una situazione talmente disumana che decisero di ribellarsi. Questa è la scena: “Dopo una quindicina di giorni i prigionieri decisero che tanto valeva morire e si ribellarono. Più che una rivolta fu un suicidio collettivo. I talebani, insieme a ceceni e turchi che li avevano raggiunti quando era iniziata l’invasione, si precipitavano a mani nude, urlando, sugli uzbeki di Dostum che gli svuotavano addosso le cartucciere dei Kalashnikov. Ma la furia dei prigionieri era tale che gli uzbeki non facevano in tempo a ricaricarli prima che quelli che venivano da dietro, scavalcando i morti, gli fossero sopra… Dei prigionieri ne rimasero in vita una ventina. Amnesty International chiese ufficialmente un’inchiesta, anche perché quando si poté fare un sopralluogo molti cadaveri vennero trovati con i polsi e i piedi legati. Erano prigionieri che non avevano partecipato alla rivolta. Altri erano stati mutilati. ‘Li abbiamo trattati in modo fraterno’ dirà, ghignando, Dostum”. (Il Mullah Omar, p. 64). Bene, i Talebani non sono usi a torturare i prigionieri, alla moda di Guantanamo, ma non vorrei essere nei panni di Dostum se gli mettono le mani addosso prima che riesca a fuggire, come al solito, in Uzbekistan.

Ma una mano sulla coscienza dovrebbero mettersela anche gli Stati, i governi occidentali e i loro media e giornalisti che hanno seguito la ventennale vicenda afghana senza mai sollevare non dico un flatus di protesta ma di dubbio su ciò che stavamo facendo. E poiché siamo in Italia, purtroppo per dirla con Gaber, tre anni fa, alla Versiliana chiesi a Luigi Di Maio in procinto di diventare ministro degli Esteri che cosa mai ci facessero 800 nostri militari in Afghanistan. Di Maio promise pubblicamente di impegnarsi. Lo abbiamo visto. Adesso preferisce strusciarsi al peggiore establishment. In quanto al ministro della Difesa Lorenzo Guerini, disse che noi italiani non potevamo disimpegnarci dall’Afghanistan in quanto alleati Nato. È una menzogna. Gli olandesi, che fanno anch’essi parte della Nato e che in Afghanistan, a differenza nostra, si eran battuti bene, perdendo anche il figlio del loro comandante, lasciarono l’Afghanistan nell’agosto del 2010. E l’Emirato Islamico d’Afghanistan ringraziò il governo e il popolo olandese per quella decisione.

Ma una mano sulla coscienza dovrebbero mettersela tutti gli italiani (oltre al Papa che non ha mai speso una parola su Afghanistan) che non hanno mai alzato una voce né fatto una qualsivoglia manifestazione, a differenza di quanto avvenne per il Vietnam, per i misfatti che, noi complici, sono stati compiuti in Afghanistan. Una mano sulla coscienza dovrebbero mettersela anche i lettori del Fatto, perché per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti.

Facce d’agosto nel circo che brucia

Le immagini di Kabul sono una pietra sul cuore e si cerca di scovare barlumi di umanità sotto le barbe incolte dei talebani, le stesse di un secolo fa, nelle pose appagate intorno al tavolo del palazzo desertificato, come di sguatteri diventati di colpo padroni. Nelle promesse di perdono ai vinti sottomessi si vorrebbe intravedere un barlume di misericordia, una parola di tolleranza, una scintilla d’amore. Soprattutto per le donne dell’Afghanistan il cui destino peserà sulla coscienza di noi tutti, ottusamente indifferenti fino a un’ora fa. Poi il tg (qualunque tg) volta pagina e si torna a sguazzare nell’Italia ferragostana con le “reazioni dei partiti”, inevitabili come una tassa priva di causale, insensate come la sfilata delle maschere nel circo che brucia. No, non è la solita, facile invettiva contro la politica delle anime morte perché, al contrario, ci si chiede se esista ancora una politica delle anime vive. Che di fronte alla catastrofe occidentale dell’ignavia abbia il pudore di respingere gentilmente la profferta televisiva: scusi, ma oggi preferirei non dichiarare nulla anche perché non saprei cosa dire. E invece, niente, leader di partito e comprimari non si resiste alla tentazione di balbettare qualcosa pur di tirare l’acqua al mulino che macina il nulla. Da destra accusando la viltà di Biden (omettendo che il ritiro fu deciso da Trump), e da sinistra accusando la protervia di Trump (non un cenno al disastroso disimpegno di Biden). Poi, c’è sempre quello che non sapendo che cavolo farfugliare (magari con la grigliata che preme) chiede “al ministro degli Esteri Di Maio di riferire alle Camere quanto prima” (purché non tanto prima da rovinargli le ferie). Ministro Di Maio che sorpreso in braghette sulla spiaggia desta il finto scandalo nell’imbecille collettivo desideroso di saperlo, ugualmente impotente, però murato alla Farnesina. Semmai gli si dovrebbe chiedere conto della promessa “non lasceremo soli gli afghani”, perché con le persone in fuga che cadono dagli aerei, davvero non si capisce come. Una prece, infine, per la tristissima sfilata di figurine di terza e quarta fila, videotessere imbambolate dalla calura che recitano (male) il messaggino dell’ufficio stampa del partito. Ma non hanno una famiglia, una casa?

Il Commentatore Unico Occidentale si soffia il naso

Terminato di scrivere i suoi 999 articoli in commossa memoria dell’Afghanistan che abbiamo bombardato, invaso e malamente amministrato per vent’anni, 400 mila morti, all’ingrosso, il Commentatore Unico Occidentale dovrebbe darsi un tempo per soffiarsi il naso, respirare e riflettere su quante volte ha scritto “gli afghani e i talebani”, oppure “l’assedio dei talebani alle città afghane”, oppure ancora “i talebani entrano a Kabul, panico tra gli afghani”. Senza mai considerare la verità dei fatti. E neppure sospettarla, infervorato com’era prima a favore della guerra umanitaria, oggi deluso dalla disonorevole disfatta. E cioè che i talebani sono

afghani. E persino viceversa, visto che un gran numero di afghani sono diventati

talebani, grazie ai vent’anni di dominio coloniale, e dunque disposti ad aprire le porte delle città senza opporre la minima resistenza. Scoprirebbe, il Commentatore Unico dell’Occidente umanitario, che gli stranieri laggiù siamo noi, non i talebani, titolari per nascita dei feroci destini della loro patria insanguinata dagli imperi britannico, sovietico, americano in meno di due secoli. Siamo noi, non loro, i marziani atterrati con truppe corazzate tra le valli dell’Hindu Kush a distribuire giocattoli e democrazia, dopo avere raso al suolo interi villaggi con la stessa noncurante crudeltà servita ai tagliagole di Al Qaeda per radere al suolo le Torri a New York.

Ma è difficile che il Commentatore Unico possa maneggiare un qualunque principio di realtà che si discosti dagli infiniti interessi che hanno mosso gli stati maggiori occidentali dopo l’11 settembre 2001. Interessi economici, geopolitici e di martellante propaganda planetaria, buona per sfamare le rispettive opinioni pubbliche, che non chiedevano diritti umani per tutti, ma vendetta whatever it takes.