L’allarme è scattato alle prime luci dell’alba. Poco dopo le 6 qualcuno ha gettato inneschi accesi oltre il muro di cinta della tenuta di Castelporziano, residenza estiva del presidente della Repubblica. In quel tratto, che affaccia su via Pratica di Mare, alcuni alberi e arbusti hanno subito preso fuoco. Alcuni cittadini hanno avvisato i Vigili del fuoco e sul posto sono arrivate anche le squadre dei Carabinieri forestali e dei vigili del fuoco in forza nella tenuta, che si trova nella frazione del comune di Roma a 40 km dalla Capitale. L’intervento è stato tempestivo e i danni sono stati limitati a una ventina di metri quadri di terreno bruciato. Il capo dello Stato Sergio Mattarella in una nota ha ribadito la sua condanna per atti di criminalità che colpiscono la comunità civile e ha ringraziato i cittadini che hanno segnalato l’incendio e le squadre di soccorso dei vigili del fuoco: “Grazie al loro intervento tempestivo sono state evitate gravissime conseguenze”. Ora alla Procura di Roma è attesa una prima informativa dei Carabinieri sull’accaduto. Una volta arrivata, i pm capitolini apriranno un fascicolo d’inchiesta.
Lombardia, in crash la piattaforma. Hacker? No, ‘Aria’ condizionata
Dopo quasi tre giorni di blocco, il sito di Regione Lombardia attraverso cui i cittadini possono accedere al proprio fascicolo sanitario è tornato a funzionare. È successo nel tardo pomeriggio, al termine di un’altra giornata di disagi per i 10 milioni di lombardi. “A causa di un intervento di manutenzione straordinaria, il servizio non è al momento disponibile”: questa la scritta che dalla mattina di Ferragosto compariva sul sito gestito da Aria, la società controllata dal Pirellone e già finita al centro delle polemiche la scorsa primavera per i ritardi nelle prenotazioni dei vaccini (tanto che alla fine la gestione è stata affidata a Poste). L’intervento di manutenzione straordinaria che ha mandato in tilt il sito www.fascicolosanitario.regione.lombardia.it – fanno sapere dall’ufficio della Moratti – è dipeso dal fatto che “uno dei data center gestito esternamente ha avuto un malfunzionamento dell’impianto di condizionamento, che ha provocato l’indisponibilità di alcuni servizi tra cui il portale del Fascicolo Sanitario Elettronico”. Insomma nessun attacco hacker, come qualcuno aveva ipotizzato sulla scorta di quanto avvenuto nel Lazio: la spiegazione del Pirellone è che l’impianto dell’aria condizionata si è bloccato, facendo surriscaldare il server su cui sono custoditi i fascicoli sanitari. Da qui il fermo del sito, con i cittadini impossibilitati ad accedere ai referti di visite, esami, prescrizioni mediche, esenzioni ed elenco delle vaccinazioni fatte. Il disservizio ha creato problemi anche alle farmacie e ai laboratori che devono scambiarsi dati con la Regione per i tamponi necessari al rilascio dei green pass. Lo staff della Moratti ieri sera ha fatto sapere che “per farmacie e laboratori il problema è stato risolto già lunedì sera”. Dal fascicolo sanitario di Regione Lombardia non è ancora possibile scaricare il certificato verde per il Covid-19.
Green pass bucato: rissa su discoteche e mense aziendali
Non poter accedere al refettorio e doversi accontentare di un “cestino” da consumare in disparte, magari dopo aver lavorato per ore fianco a fianco con gli stessi colleghi con cui si vorrebbe condividere il pasto. L’ingresso alle mense aziendali con green pass obbligatorio sta creando un vespaio di polemiche in tutte le categorie. A iniziare dai sindacati dei militari e delle forze dell’ordine, letteralmente sul piede di guerra e pronti ad adire alle vie legali.
La questione è nota. Fino a pochi giorni prima di Ferragosto l’interpretazione diffusa delle disposizioni governative sulla certificazione verde prevedeva che le mense aziendali non fossero equiparate ai cosiddetti “servizi di ristorazione”. Alcuni enti, come la Marina militare italiana e il Ministero dell’Interno, erano addirittura arrivati a inoltrare, ai primi di agosto, circolari chiarificatrici in questo senso: la mensa – è la sintesi delle comunicazioni interne – non è un ristorante. Dal 14 agosto, però, è cambiato tutto.
Palazzo Chigisabato pubblica sul suo sito, alla pagina “faq” (domande frequenti sulle misure adottate dal governo) una nota in cui ribalta l’interpretazione precedente, spiegando che per entrare a mensa il lavoratore dovrà esibire il green pass, certificato invece non obbligatorio per l’accesso in azienda. Gli unici esentati, coloro che non hanno potuto fare il vaccino per disposizione medica. E lunedì mattina, sul tavolo delle parti sociali, arriva la stessa circolare di pochi giorni prima con delle integrazioni in rosso ad “aggiornare” le indicazioni dello staff di Mario Draghi.
Apriti cielo. I primi ad arrabbiarsi sono i sindacati, appunto, delle forze dell’ordine. “Siamo pronti a denunciare chiunque calpesterà i diritti e la dignità dei nostri iscritti”, afferma Luca Marco Comellini, segretario del sindacato dei militari. I vaccinati fra le forze dell’ordine sono il 90%, ma la questione è di principio. “La mensa è luogo di lavoro a tutti gli effetti e il vitto un diritto inalienabile, non uno sfizio come una serata al ristorante”, incalza Domenico Pianese, segretario generale del Coisp, che ha annunciato “ogni azione utile a tutelare le forze di polizia”. Limitate ai possessori di green pass anche le mense delle aziende private e quelle delle carceri riservate alla polizia penitenziaria. Una “sciocchezza irrazionale” anche per l’ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, che pure si dice “favorevole alla vaccinazione obbligatorio”. Il punto, per Damiano, è un altro: “Se i protocolli dell’aprile 2020 stipulati dalle parti sociali, che hanno assunto la forza di legge, valgono per l’intero perimetro aziendale, compresi uffici, officine, spogliatoi, bagni, aree relax e mense, perché equiparare queste ultime ai ristoranti aperti al pubblico?”.
E a proposito di pubblico, mentre i lavoratori senza green pass non potranno sedersi a mensa insieme ai colleghi, sulle spiagge di tutta Italia impazzano concerti e discoteche “abusive” dove giovani (e non più tali) ballano e si accalcano sotto i palchi come ai bei tempi pre-Covid. Lunedì sera all’Etruria Eco Festival di Cerveteri – cittadina sul litorale a nord di Roma – la folla non ha resistito alla world-music danzereccia di Manu Chao, costringendo il sindaco Alessio Pascucci a salire sul palco strappando letteralmente di mano la chitarra al cantautore francese. Episodio destinato a far discutere dopo il concerto “a sorpresa” di venerdì scorso del rapper Salmo a Olbia – con alcuni esponenti della giunta comunale di centrodestra pizzicati nel backstage – finito con un maxi-assembramento e tante polemiche fra cantautori di diverse generazioni (anche Francesco De Gregori ha invitato a una “riflessione” sul tema). Per ora l’effetto è che, sempre ad Olbia, è stata rinviata la tradizionale sagra del mirto. Chissà se il braccio di ferro finirà come in provincia di Viterbo, con il rave infinito dove il Covid sembra essere l’ultimo dei problemi, o con iniziative come quella messa in cantiere dal cantante Cosmo, che l’1 e 2 ottobre a Bologna accetterà al suo evento live solo con certificazione verde e tamponi negativi recenti.
Ad agosto in ferie anche i vaccini: dodici milioni ancora a zero dosi
La campagna vaccinale è andata in vacanza, come la maggior parte degli italiani. Nel mese di agosto “quota 500 mila al giorno” non è stata mai raggiunta e negli ultimi sette la media giornaliera è stata inferiore alle 300 mila dosi. I motivi sono vari: innanzitutto ha pesato il weekend di Ferragosto (124 mila somministrazioni il 14, 51 mila domenica 15, 230 mila lunedì 16) ma soprattutto – in attesa del decollo della fascia 12-19, per oltre il 50% ancora totalmente scoperta – per l’assottigliarsi della platea. Alle 17 di ieri risultavano somministrate 74.137.720 dosi e 35.743.278 di italiani completamente vaccinati, poco più del 66% della popolazione al di sopra dei 12 anni.
Analizzando nel dettaglio le fasce di età, si nota come nella fascia over 50 le persone che non hanno ricevuto nemmeno una dose sono ancora 3.721.625, a cui vanno aggiunte altre 1.126.630 in attesa di seconda dose. In totale, dunque, gli italiani over 50 non ancora totalmente vaccinati sono quasi 5 milioni. È probabile che tra questi ci sia una buona parte dei 4 milioni e 200 mila circa guariti dal Covid, che per questo motivo potrebbero non essersi ancora vaccinati, ma è anche possibile – come ormai chiaro da tempo – che un’altra parte non si vaccinerà forse mai.
Lo stesso discorso si può fare per gli italiani tra i 12 e i 50 anni: poco meno di nove milioni a zero dosi, poco più di quattro in attesa della seconda, per un totale di 12.824.875 parzialmente o totalmente scoperti. A conti fatti le persone non completamente vaccinate sono quasi 18 milioni, all’incirca un terzo della platea vaccinabile. A questo ritmo, dicono i numeri, l’obiettivo dell’immunità all’80% entro settembre – come programmato dal governo – è ancora raggiungibile, ma solo poche settimane fa le stesse proiezioni indicavano la fine di agosto come traguardo possibile. Insomma, la nuova frenata, per quanto forse inevitabile, è evidente e a settembre servirà una nuova accelerazione, soprattutto per garantire il regolare svolgimento in presenza dell’anno scolastico.
La quarta ondata, intanto, prosegue per il momento senza eccessivi strappi, tanto che Massimo Ciccozzi, direttore dell’Unità di Statistica medica ed epidemiologia molecolare del Campus Bio-medico di Roma, si spinge ad affermare che “il plateau è stato raggiunto intorno a Ferragosto”: ieri 5.273 nuovi casi e 54 morti. I contagi, rispetto alla settimana scorsa, diminuiscono del 6,4%, mentre i decessi, purtroppo, aumentano del 74,2% poiché la curva delle vittime, com’è noto, segue di alcune settimane quella dei contagi.
Il tasso di positività scende al 2,21 contro il 2,33 di sette giorni fa. Aumentano ancora i ricoveri in ospedale: 138 in area medica (3.472 in totale, +20,6% rispetto alla settimana precedente) e +19 (saldo tra nuovi ingressi e uscite) in terapia intensiva (423 in totale, aumento del 31,4%).
Il tasso di occupazione dei posti letto a livello nazionale, secondo i dati Agenas, si attesta al 6% in area medica e al 5% in terapia intensiva, dunque ancora ben al di sotto delle soglie limite. Preoccupa soltanto la situazione di Sicilia e Sardegna, entrambe (più la Sicilia che la Sardegna) in predicato di tornare gialle da lunedì prossimo. Secondo Agenas nelle ultime 24 ore la situazione nelle Isole è ulteriormente peggiorata. In Sardegna salgono non solo le terapie intensive all’11% (+1%, soglia critica al 10) ma anche i ricoveri al 9% (+1%, soglia critica al 15); stabili in Sicilia i pazienti in intensiva al 9% (0%) e ricoveri al 16% (+1%). Staccata, ma sotto osservazione, la Toscana con terapie intensive al 6% (0%) e ricoveri al 6% (0%).
I dati della Sardegna, tuttavia, sono contestati dall’assessore regionale alla Sanità Mario Nieddu: “I dati che stanno girando – sostiene – non sono aggiornati. Le terapie intensive in Sardegna sono piene all’8%: i ricoveri sono calati e quindi siamo tornati al di sotto della soglia limite per il passaggio in zona gialla”.
La parola passa ora alla Cabina di regia, che come di consueto dovrebbe riunirsi dopodomani.
Roma, farsa suppletive: Palamara può sognare
Ora come ora sono le elezioni più assurde che ci si potesse immaginare. Il 3 e 4 ottobre a Roma si vota anche per le suppletive, cioè per assegnare il seggio di Primavalle lasciato vacante alla Camera dalla grillina Emanuela Del Re, nominata rappresentante speciale dell’Ue per il Sahel.
In campo al momento ci sono solo due candidati. Entrambi, a modo loro, piuttosto eccentrici: sono Elisabetta Trenta e Luca Palamara. La prima è stata ministra della Difesa nel primo governo Conte, è andata via dal Movimento Cinque Stelle sbattendo la porta ed è approdata nell’Italia dei Valori, l’ex partito di Di Pietro diventato nel frattempo una piccola piattaforma di esuli grillini (ci sono anche Elio Lannutti e Piera Aiello). Il secondo è il grande e imbarazzante protagonista dello scandalo Csm, l’ex magistrato tradito da un trojan e diventato il feticcio di Matteo Salvini (e dei giornalisti amici) nella sua campagna contro la magistratura.
L’operazione Palamara, come si vedrà, resta complicata, ma al momento è anche l’unica vera ipotesi in campo: a sinistra tutto tace.
A un mese e mezzo dal voto, Pd e Cinque Stelle non hanno nemmeno un candidato. Solo una cosa è chiara: ognuno andrà per conto suo. Le suppletive cadono in contemporanea con le comunali romane, dove gialli e rossi – Virginia Raggi e Roberto Gualtieri – portano avanti una campagna elettorale feroce gli uni contro gli altri. Contendersi il Campidoglio e accordarsi per il Parlamento non sembra una soluzione praticabile, e lo stesso discorso vale per improbabili aperture all’area moderata occupata da Carlo Calenda.
Non c’è molto tempo, nei prossimi giorni dem e 5Stelle dovranno decidere chi intendono gettare in una partita elettorale che – divisi – rischia di diventare proibitiva. Nel Pd è stato sondato anche Goffredo Bettini, che non sembra avere nessuna intenzione di prestarsi. Tra i grillini è stata evocata (specie sui giornali di destra) la figura di Alessandro Di Battista, che però non è stato contattato e continua a non avere alcuna intenzione di rimettere piede nel Movimento finché continuerà ad appoggiare il governo Draghi.
Così, alle condizioni attuali, Luca Palamara rischia davvero di finire in Parlamento, non fosse altro per mancanza di avversari. Gli unici che si sono palesati sono tutti interni al suo schieramento. L’ex magistrato è stato scelto dai Radicali e incoraggiato da Salvini e dalla Lega, ma gli alleati non sono affatto persuasi.
“Palamara ha zero possibilità di finire alla Camera”, dice il coordinatore romano di Forza Italia, Maurizio Gasparri. “Racconta cose interessanti sulla magistratura, ma è pur sempre un pentito. È come se candidassimo Buscetta. Per carità, in Parlamento c’è stata anche Cicciolina, ma la politica non può diventare la discarica dei fallimenti di altri settori”. Nel centrodestra non c’è stata ancora una riunione sulla candidatura a Roma, Palamara si è fatto avanti da solo, ma non è difficile rinvenire la manina di Salvini alle sue spalle. Gasparri non ne vuole sapere: “Io non lo sosterrò e in caso dirò pubblicamente di non votarlo”. Gli fa eco, più sobriamente, Antonio Tajani: “Non sosterremo Palamara, ma rivendico che la scelta del candidato spetta a Forza Italia e il nome migliore è quello di Pasquale Calzetta, che nel 2018 ha perso per pochi voti”.
Poi ci sarà da fare i conti pure con Giorgia Meloni e le ambizioni romane di Fratelli d’Italia: nemmeno loro hanno intenzione di appoggiare Palamara. Ogni occasione per sfidare Salvini è buona.
“Draghi cacci Durigon se vuole onorare il sacrificio di Paolo”
Il problema è la dichiarazione di Claudio Durigon, certo. Ma poi c’è anche la questione di Matteo Salvini che a ogni piè sospinto celebra la lotta antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e li erge a suoi paladini con tanto di mascherina griffata. E allora Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992, lo dice chiaramente: “Finché Salvini non farà dimettere Durigon dopo la sua proposta di intitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini invece che a Falcone e Borsellino, gli chiedo di non parlare più di mio fratello e di non partecipare più a cerimonie in via d’Amelio”.
Cosa ha provato quando ha letto la proposta di Durigon?
Se non fosse una cosa reale, sembrerebbe una barzelletta. È uno sfregio alle vittime di mafia e a noi familiari che ogni giorno proviamo a tenerne viva la memoria. Mi ricorda la proposta di Gianfranco Miccichè che voleva cambiare il nome dell’aeroporto “Falcone e Borsellino” di Palermo perché altrimenti i turisti che arrivavano sull’isola pensavano subito alla mafia. Una vergogna.
Il sottosegretario della Lega sostiene che bisogna recuperare le “radici” di Latina.
Durigon vuole togliere il nome di Falcone e Borsellino per intitolare il parco ad Arnaldo Mussolini che faceva il lavoro sporco per il fratello: una proposta incompatibile con la sua permanenza al governo.
Dovrebbe dimettersi?
Sì, certo. In primo luogo dovrebbe essere Salvini ad allontanarlo dal suo partito, altrimenti dovrebbe essere Draghi a cacciarlo: se il sacrificio di Falcone e Borsellino ha un significato è così che si dimostra.
Ma Draghi per ora tace.
Da un governo che relega all’ultimo posto la lotta alla criminalità organizzata non ci si può aspettare niente di diverso.
Salvini invece spesso si erge a paladino della lotta alla mafia e celebra Falcone e Borsellino. Oggi difende Durigon.
Sì, purtroppo, Salvini usa Falcone e Borsellino come quando sventola il rosario: è solo un modo per accaparrarsi dei voti. A gennaio ha fatto anche una sceneggiata a via d’Amelio con tanto di mascherina per l’occasione. Se Salvini non allontana Durigon, non dovrebbe più fare il nome di mio fratello Paolo né presentarsi alle cerimonie per ricordarlo. Perché sarebbe solo ipocrisia. Non solo, la Lega sta imbarcando di tutto al Sud…
Ovvero?
Mentre Salvini ricorda il sacrificio di mio fratello e di Falcone, in Calabria la Lega imbarca esponenti che sono stati inquisiti anche per legami con la ‘ndrangheta. La Calabria oggi è la Sicilia degli anni Ottanta e l’unico obiettivo della Lega è ramazzare chiunque solo per qualche voto in più. Così non si fa la lotta alla mafia.
Però Salvini dice che lui, da ministro dell’Interno, ha fatto una dura guerra alle cosche. È così?
Purtroppo questo slogan è stato usato anche da Berlusconi. Peccato che l’arresto dei latitanti e le inchieste non siano successi della politica ma della magistratura e delle forze dell’ordine.
Salvini e Meloni dicono spesso che Borsellino aveva idee di destra e votava Msi. E quindi, se ne deduce, oggi voterebbe per loro o condividerebbe le loro battaglie. Che ne pensa?
Mio fratello sicuramente aveva delle idee di destra ma era una destra che non aveva niente a che fare con quella di oggi. Oggi la vera destra non esiste più: mio fratello si è fermato ad Almirante. Dopo, la destra che piaceva a lui è sparita: da Fini a Berlusconi a Salvini, c’è stata una lunga involuzione. Un esempio: la retorica anti-immigrazione di Salvini e Meloni non piacerebbe mai a Paolo.
Salvini difende “parco Mussolini”. Ma la targa di Latina era abusiva
“Quel parco a Latina è stato per decenni intitolato al fratello di Mussolini, quindi non è nulla di nuovo”. Matteo Salvini tenta di smorzare la polemica che dal 4 agosto rischia di costare il posto da sottosegretario a Claudio Durigon, fulcro del suo partito nel Lazio e nel Centro-sud. Ma i “decenni” di cui ha parlato ieri il leader della Lega al programma Ma cos’è quest’estate su Radio24 non esistono: il parco è stato intitolato ad Arnaldo Mussolini soltanto tra il 1938 e il 1943 e non lo è più ufficialmente dal 1951.“Andiamo ai giardinetti”, dicono i latinensi quando si danno appuntamento sotto i lecci e i pini che ombreggiano i suoi viali.
Fino al 19 luglio 2017, giorno in cui – per il 25° anniversario della strage di via d’Amelio – il sindaco civico Damiano Coletta li intitolò a Falcone e Borsellino, la denominazione ufficiale era stata “Parco comunale”. A imporla era stato il podestà Alfredo Scalfati che nel luglio 1943 aveva capito che l’aria era cambiata e che il giorno 31, neanche una settimana dopo la deposizione del duce, aveva annullato l’intitolazione a suo fratello “mentre in città si attuava il nuovo piano regolatore”, spiega Francesco Moriconi, archeologo dell’edilizia storica. La delibera del ‘43 cancella dalla cartina della città anche piazza Predappio, piazza Littorio, Largo 28 ottobre e via delle Camicie Nere. Ma il periodo è troppo confuso per pensare alla toponomastica: “Il 16 settembre 1943, otto giorni dopo l’armistizio – prosegue Moriconi – nasce la Federazione dei Fasci Repubblicani della Provincia di Littoria e ottenere il via libera del Prefetto al cambio di nome diventa impossibile”. La città viene liberata il 25 maggio 1944 e il 7 settembre il Consiglio comunale vota una delibera “che ribadisce la necessità di cancellare i nomi ‘che non hanno più motivo di esistere in quanto costituiscono l’espressione di un regime che per un ventennio ha oppresso la nostra terra sopprimendo i sentimenti di libertà’. Compreso quello di Arnaldo Mussolini”, continua l’archeologo, che a giugno ha presentato uno studio voluto dal Comune sul luogo esatto in cui il 30 giugno ‘32 venne posta la prima pietra della città. Ma le giunte che seguono hanno altro a cui pensare e l’iter burocratico finisce solo nel 1951, con la delibera n. 10 del 25 gennaio, approvata ad aprile dal Prefetto: la piazza torna a essere ufficialmente “Parco Comunale”.
Passano i decenni. Nel 1993 a Latina trionfa il Msi dopo quasi 50 anni di Dc, Ajmone Finestra diventa sindaco e sulla città comincia a spirare un’aria di nostalgia. Nel 1997 l’ex repubblichino fa mettere una nuova targa nel parco: “Città di Latina – Parco A. Mussolini”, recita la scritta. E il nome di Arnaldo ricompare nell’allegato della delibera n. 2308/1996 con cui la giunta propone nuovi nomi per una trentina di strade e piazze: al punto 11 si parla di una nuova denominazione delle “traverse interne Parco Arnaldo Mussolini”. “Ma non ci sono documenti che intitolino ufficialmente la piazza al fratello del Duce – spiega ancora Moriconi –. E soprattutto non c’è mai stato il via libera della Prefettura”. Tanto che nelle due delibere successive in tema di toponomastica – la 1302/1998 e la 680/2001 – i giardinetti vengono chiamati “Parco cittadino” e “Parco comunale”.
È “un complesso di inferiorità che vive lo stesso Finestra e gli stessi fasci – lo definì Antonio Pennacchi nel documentario Latina/Littoria firmato da Gianfranco Pannone e vincitore del Festival di Torino nel 2001 –. Dicono di essere fasci, ma lo fanno come una sorta di fantasia masturbatoria. In effetti non lo sono, perché in 7 anni non hanno avuto il coraggio di fare un monumento al fondatore”. “Mi sarei aspettato che avreste ripreso almeno il nome di Littoria”, diceva lo scrittore da poco scomparso al sindaco. “Non lo puoi fare – si scaldava Finestra – perché il governo può intervenire e dire no. Tu lo sai come la penso io!”. Di certo “quella che il Parco fosse intitolato a Mussolini è una vulgata che non ha fondamento – conclude Moriconi –. Durigon è stato informato male”. E, di conseguenza, anche Salvini.
Biden fa il Trump e spiazza l’Europa. Draghi lo sostiene
Joe Biden ha fatto un discorso à la Trump per giustificare il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan. Attenzione agli Stati Uniti, ai “suoi” militari, alla sua gente e a Kabul accada quel che deve accadere. Il risultato è la rivolta della stampa “amica”, lo spiazzamento dell’Unione europea, qualche lutto tra gli amici progressisti. Tranne il filo-atlantico Mario Draghi che, volendo dimostrare la sua attenzione al dossier, ha rilasciato un’intervista abbastanza generica, ma che sembra in sintonia con il presidente Usa: “Ricordiamoci – ha detto al Tg1 – che la guerra in Afghanistan è la prima risposta degli Stati Uniti all’attentato alle Torri Gemelle. Quindi il bilancio che noi traiamo non è un bilancio solo sulla guerra in Afghanistan, è il bilancio di questi ultimi venti anni”.
“In Afghanistan ci siamo andati per sconfiggere il terrorismo”, ha detto Biden nella conferenza stampa di lunedì, mica per edificare un nuovo Stato. E quindi ora ce ne andiamo. A scagliarsi duramente contro il successore di Donald Trump sono stati i principali quotidiani statunitensi. Il New York Times parla di un discorso “caotico e poco competente”, il Washington Post di una posizione “deludente” mentre il Wall Street Journal, più feroce, scrive che “la dichiarazione del presidente Biden di lavarsi le mani dell’Afghanistan merita di essere considerata una delle più vergognose della storia da un comandante in capo”.
Biden in effetti ha dismesso la retorica “internazionalista” nata con la cultura neocons che alimentò l’amministrazione Bush ma poi ripresa e sposata anche dai Democratici, Biden compreso. Nel 2011 parlando della strategia americana a Newsweek, l’allora vice di Barack Obama diceva che la strategia in Afghanistan oltre a “smantellare e sconfiggere Al Qaeda” era quella di “contribuire alla stabilizzazione del paese”. La collega di governo, Hillary Clinton, un anno dopo, alla conferenza di Tokyo, diceva che “la transizione deve essere un processo irreversibile e la strategia possibile poggia sull’Afghanistan e la sua gente”.
Anche l’Europa ci ha creduto. La Ue siglava dichiarazioni di sostegno al processo elettorale afghano in nome dell’impegno “del popolo afghano di promuovere il processo democratico”. Scrivevano comunicati del medesimo tenore i leader di destra e sinistra. Ieri invece si registrava lo smarrimento ben sintetizzato dal segretario della Nato, Jens Stoltenberg, secondo cui “abbiamo perso, ora impariamo la lezione”. Atteggiamento condiviso dal presidente della Repubblica tedesca, Frank-Walter Steinmeier che parla di “tragedia umana”. Oppure dalla posizione eccentrica di Boris Johnson che non esclude un possibile riconoscimento del governo talebano.
Smarrimento anche in Italia, nel Pd innanzitutto, con Enrico Letta che dopo venti anni giunge alla conclusione che “non si esporta la democrazia con le armi” e dichiara di non “aver gradito per nulla” il discorso di Biden. Nel frattempo il Pd ha fatto delle missioni all’estero un punto fermo della propria identità mentre la dichiarazione di Biden potrebbe rimetterle in discussione: chi può dire cosa succederà in Iraq o in Mali? E quanto tempo ancora, dopo 15 anni, l’Italia dovrà essere schierata in Libano?
Gli adoratori progressisti degli Usa sono in lutto. Matteo Renzi, sfiorando il ridicolo, dichiara di essere “tornato in ufficio al Senato” per comunicare il suo dissenso da Biden. Arturo Parisi, ministro della Difesa nel secondo governo Prodi, dice al Foglio che “l’America è un Polifemo accecato” e rilancia la difesa comune europea.
Chi sorride, al momento, sornione sotto la barba è il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid che si atteggia a moderato e offre l’immagine vincente dei talebani. Al cui confronto la conferenza stampa di Biden sembra il viale del tramonto.
I nuovi volti senza ferocia dei signori della Sharia
Gli uomini in tunica e kalashnikov che hanno conquistato l’Afghanistan e assediato Kabul più a colpi di Twitter che di pallottole possiedono una rigida gerarchia militare, una struttura capace di controllo capillare del territorio, analisti politici che ai tavoli dei negoziati sanno ottenere ciò che serve al nuovo emirato . I patrioti del jihad che ora promettono amnistia a quanti hanno collaborato con le truppe straniere e tutta la libertà che consente la sharia alle donne, hanno a capo leader che sembrano aver fretta di dimostrare di non essere più quelli che “ammazzano gli americani come maiali”, come ripeteva il Mullah Omar, emiro dell’Afghanistan fino al 2001.
Mullah Mohammad Yaqoob
Figlio di quella frase e dell’uomo che l’ha detta, Mohammad Yaqoob, a differenza degli altri capi talebani, non ha mai lasciato l’Afghanistan. Idolatrato per la sua discendenza più che per il valore dimostrato sul campo, è stato più volte proposto per la carica di guida suprema del movimento da quanti vedono brillare in lui le capacità di suo padre. I detrattori del movimento – che non è un monolite ma un magma etnico e religioso –, ricordano che ha solo 30 anni e quasi nessuna esperienza in guerra. Dal 2020 fa parte però della potente commissione militare che traccia le linee strategiche da seguire contro il nemico che fino a ieri era la Kabul sostenuta dall’Ovest e il suo esercito.
Abdul Ghani Baradar
Il leader politico è in cima alla piramide islamista sin dalla nascita del gruppo, ha fondato il movimento insieme al Mullah Omar, la cui morte ha saputo tenere segreta per oltre due anni. Combatte, non tra le montagne, ma ai tavoli dei negoziati, a Doha, per una tregua duratura. Prima delle trattative in Qatar, in biografia, ha battaglie sanguinose, celle di prigione e un lungo esilio. Nato nel 1968 a Kandahar, culla dell’etnia pashtun, gruppo etnico maggioritario tra i talebani, negli anni 80 ha combattuto contro i sovietici divenendo uno dei più venerati mujaheddin e vice ministro della Difesa dell’emirato del Mullah Omar. Nel 2010, per ordine di Washington, è stato catturato dall’esercito di Islamabad in Pakistan, a Karachi. La prigione pachistana gli insegna l’arte di stringere patti. È stata l’amministrazione Trump nel 2018 a volerlo libero per iniziare le trattative di Doha tra i talebani e l’esercito Usa nel 2020, dove strappa l’accordo del ritiro delle forze americane entro 14 mesi. Nonostante l’esilio e la lontananza dal nido islamista, ha saputo mantenere il controllo sul gruppo composto da violente e opposte correnti.
Hibatullah Akhundzada
L’ultimo battesimo, il terzo comandante capo dei talebani, l’ha ricevuto dal capo di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri, che lo chiama “l’emiro dei credenti”. Il sapere religioso dell’erudito si fonde con il suo potere: è specialista dell’interpretazione della legge sacra, quanto di strategie militari. Prima di divenire un ricercato internazionale, si dedicava a predicare in Pakistan alla moschea di Kuchlak. Figlio di un teologo, nato a Kandahar come Baradar, ha circa 60 anni ed è noto per i suoi assalti rapidi. Proprio uno di questi lo ha portato a occupare una delle poltrone dei vertici talebani nel maggio 2016, il periodo in cui cominciò a seminare colla, e non sangue, per riunire il movimento che si stava sfaldando per le lotte scoppiate alla morte di Akhtar Mansour, leader fino al 2016, anno in cui fu ucciso da un drone americano. Come Mansour, era stato dichiarato morto: molti report ancora consultabili dichiarano sia stato ucciso nel 2020 in un’esplosione in Pakistan, nella provincia del Balochistan, insieme al capo dell’intelligence talebana, Mullah Matiullah. Il suo decesso è stato smentito via Twitter dagli “studenti di religione”: la fake news è stata “diffusa dai servizi segreti occidentali” per destabilizzare i combattenti. Di uno degli uomini che adesso governa il Paese dove prima i soldati sovietici, poi quelli americani hanno perso la vita, si ha una sola foto disponibile. Non appare in pubblico da maggio 2016.
Sirajuddin Haqqani
Se si conosce qualche lineamento del suo volto è solo grazie alla segnaletica dei servizi segreti americani. Nato intorno agli anni ‘80, è l’uomo ponte che collega i talebani con i jihadisti di Al Qaeda. Il terrorista è ricercato per gli attentati in cui hanno perso la vita civili e soldati americani nel 2008, anno in cui ha anche provato a uccidere l’allora presidente Hamid Karzai. Come il figlio del Mullah Omar, ha sulle spalle il peso della leggenda funesta di suo padre, Jalaluddin Haqqani, comandante che costrinse al ritorno in patria nelle bare molti soldati partiti da Mosca. Più che un combattente, è espressione di una stirpe divenuta clan di potere: gli Haqqani sono una rete che gestisce operazioni militari, che supervisiona finanze e assetti economici, che organizza rapimenti di politici o civili occidentali per ottenere riscatti milionari. Nelle liste americane dei terroristi compaiono molti affiliati di questi signori dell’est dell’Afghanistan, temuti per la loro abilità nel combattimento.
Abdul Hakim Haqqani
Dopo aver trascorso molti anni a Quetta, in Pakistan, è stato scelto nel settembre 2020 come capo dei negoziati perché è la voce della linea dura del clero islamico che esige il rispetto della sharia e impone punizioni brutali o mortali a chi non le rispetta.
Sher Mohammad Abbas Stanikzai
Rimane a capo dell’ufficio politico a Doha da quasi un decennio, alterna le veci di rappresentante diplomatico e di un ministro degli Esteri de facto del gruppo.
Donne e sorrisi: il marketing dell’offensiva mediatica
Sembra iniziata una nuova battaglia nell’emirato afghano: non si usano bombe, ma colpi di marketing, per ripulire l’immagine di un movimento che, in nome di Allah, ha seminato morte e terrore sin dalla sua fondazione. Le parole “serenità” e “perdono” sono le più ripetute nei messaggi della nuova propaganda talebana.
L’uomo che gestisce l’account social del gruppo fino a ieri temuto per la sua brutalità e arretratezza si chiama Zabihullah Mujahid e, nella prima conferenza stampa tenuta dal gruppo, tra microfoni, bottiglie d’acqua e riflettori delle telecamere, ha ribadito che i media afghani rimarranno indipendenti “se rispetteranno i valori” che, fino a qualche giorno fa, erano condivisi solo dagli studenti islamici, ma che da ieri sono diventati ufficialmente “nazionali”. Da quando l’avanzata dei miliziani è cominciata qualche settimana fa a nord del Paese, fino al loro arrivo nella capitale, i volti femminili erano scomparsi da tutti i telegiornali afghani: per timore di ripercussioni e caos, le giornaliste erano state sostituite dai loro colleghi uomini. Alcuni di loro sono tornati a leggere le notizie in tv, ma con alle spalle la bandiera bianca dei nuovi signori di Kabul. Gli islamisti hanno però voluto dare ulteriore conferma del loro nuovo corso acconsentendo all’intervista di una conduttrice di uno dei canali più visti dai cittadini afghani, Tolo news. Alle domande di Beheshta Arghand ha risposto un esponente del team medico del movimento che predica il rispetto della sharia, la legge islamica che depriva le donne dei diritti fondamentali.