“La sfida dei giovani ai mujaheddin sarà pacifica e culturale”

L’Afghanistan si prepara a vivere uno “choc culturale enorme”, secondo Olivier Roy: “I talebani – analizza il politologo – dovranno fare i conti con una nuova realtà, moderna e liberale. Loro non sono cambiati, Kabul invece non è più la città del 2001. La popolazione è raddoppiata. È emersa una classe media. Le ragazze studiano. Tutti posseggono uno smartphone connesso a internet e usano Facebook. La mentalità è cambiata. Chi ha meno di trent’anni non ha alcun ricordo dei talebani. Non penso che emergerà una resistenza armata in città, dal momento che gli abitanti non si sono mai battuti, ma delle forme di resistenza passiva e culturale tra i giovani mi sembrano più che probabili. Come reagiranno i talebani: lasceranno fare o sceglieranno la via della repressione?”

Professore, come spiega la loro avanzata così rapida?

I talebani non hanno solo approfittato del ritiro degli americani. Preparavano da tempo il loro ritorno e hanno dimostrato di avere una strategia. In tutti questi anni hanno saputo trarre vantaggio dall’incompetenza del governo afghano, corrotto e incapace di ristabilire l’ordine nelle campagne, dove erano i talebani a gestire la giustizia quotidiana. Hanno saputo negoziare con le milizie locali. Ma hanno anche potuto contare sul ‘santuario pakistano’. La Shura di Quetta, la camera di consiglio presieduta dai signori di guerra talebani in Pakistan, si è sempre riunita in tutta impunità. Non sarei sorpreso se il Pakistan avesse fornito loro sostegno logistico e tecnologico, come nel 1994.

L’esercito afghano ha ceduto quasi senza combattere…

Era un esercito corrotto, che esisteva solo su carta. Battaglioni che dovevano essere composti da ottocento uomini, nei fatti ne contavano non più di venti. E poi in Afghanistan non esiste un sentimento di unità nazionale. Si è leali al clan, alla tribù.

Come spiega la fuga del presidente Ghani?

Non aveva altra scelta. Lo conobbi vent’anni fa. Era una delle rare persone integre in Afghanistan. Si illudeva di essere al timone del paese, in realtà non comandava nulla.

Come sarà il nuovo Emirato islamico?

I talebani sono gli stessi di vent’anni fa. Ai vertici ritroviamo figure che all’epoca erano già presenti, come Abdul Ghani Baradar. Anche la base è la stessa: giovani non troppo educati, originari delle campagne. Quindi faranno quello che hanno detto e ripristineranno la sharia. Ma un totale ritorno indietro non sarà possibile perché la società afghana è cambiata e perché i talebani hanno imparato la lezione del 2001. Hanno capito che devono fornire garanzie alla comunità internazionale. Non potranno più dare asilo ad Al Qaeda. Il gruppo terrorista però ha legami forti con la rete Haqqani, un altro gruppo islamista, vicino ai talebani, attivo tra Pakistan e Afghanistan. Quindi Al Qaeda saprà posizionarsi a margine dello spazio talebano.

Che reazione aspettarsi dai paesi occidentali?

Grandi dichiarazioni e nulla di concreto. Il popolo afghano dovrà sbrigarsela da solo. Del resto, cosa può fare l’Occidente? Boicottare il nuovo regime? A che pro? I talebani se ne infischiano. Potranno contare su ambasciate in Arabia Saudita, negli Emirati, in Malesia, Pakistan, Iran. Russi e cinesi li riconosceranno. Non hanno bisogno di noi, hanno potere, sostegni e redditi da droga e contrabbando. Finora tutti gli interventi occidentali in Afghanistan sono stati catastrofici. Come in Iraq e in Mali, si è creduto di poter ristabilire lo Stato di diritto con le armi, dimenticando che ogni radicalismo ha le sue basi sociali. Gli Stati Uniti poi hanno alimentato il paradosso, combattendo i talebani come terroristi, ma negoziando con loro a Doha. Oggi l’Occidente ha una sola richiesta: il rispetto delle frontiere. E i talebani assicurano di non avere rivendicazioni internazionali. Sono in una logica conservatrice, non rivoluzionaria.

Accoglienza rifugiati: Berlino è cauta, la Turchia alza il muro

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni stima che da quando le truppe Nato hanno iniziato a ritirarsi dall’Afghanistan lo scorso maggio, almeno 30.000 persone sono fuggite dal paese ogni settimana nel confinante Pakistan e, soprattutto, in Iran. Ed è proprio lungo il confine tra Iran e Turchia che le autorità di Ankara hanno avviato la costruzione di una barriera di cemento dopo aver già allestito una rete di filo spinato lunga alcuni chilometri. L’agenzia Afp riporta che per ora è in costruzione un tratto di cinque chilometri, ma l’obiettivo di Ankara è edificare un vero e proprio muro di 295 chilometri complessivi. Difficilmente i trafficanti di esseri umani si fermeranno tuttavia davanti a questa piccola porzione di muro ed è prevedibile che, una volta arrivati in Turchia, molti profughi cercheranno di salire sui barconi per raggiungere l’Europa approdando inizialmente in Grecia. Il governo di centro destra greco per questa ragione non intende allentare il giro di vite in atto dalla sua entrata in carica contro i richiedenti asilo.

La caduta di Kabul ha riaperto forti divisioni sull’immigrazione nei paesi europei. “Siamo consapevoli che si incrementerà la domanda di accoglienza di rifugiati e migranti dall’Afghanistan. È perciò necessario che l’Ue metta a punto una risposta comune, anche in questo caso in stretto raccordo con i partner della regione, a cui andrà contestualmente assicurato il necessario sostegno”, ha affermato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio intervenendo al Consiglio Esteri della Ue. Il presidente francese Emmanuel Macron nel frattempo ha dichiarato di voler portare avanti un’iniziativa europea volta ad “anticipare” e “proteggere da significativi flussi migratori irregolari” che “alimentano traffici di ogni tipo”, durante un discorso televisivo sulla situazione in Afghanistan. “Proporremo quindi, in linea con la Germania e altri paesi europei, un’iniziativa per costruire senza aspettare una risposta coordinata e unita”, ha proseguito, chiedendo “solidarietà nello sforzo, armonizzazione dei criteri di protezione e l’instaurazione di una cooperazione con i paesi di transito”. La Francia intanto ha sospeso le espulsioni dei richiedenti asilo afghani che non si sono visti riconoscere l’asilo. Il paese europeo che ha deciso di mantenere invariata la decisione di espellere gli afghani è l’Austria con la giustificazione di proteggere la pace sociale. Un sondaggio del quotidiano Osterreich ha mostrato che il 90% degli austriaci sostiene la posizione intransigente del governo. Nella vicina Germania, Angela Merkel ha ribadito che prima di parlare di quote di ripartizione, dobbiamo parlare di opzioni sicure per i rifugiati nei paesi vicini all’Afghanistan. “Una posizione comune europea non sarà tanto facile in questo caso. Un punto debole della nostra Ue è che fino a oggi non abbiamo potuto mettere a punto una politica di asilo comune. Dobbiamo lavorarci con assiduità”. La Germania fino alla scorsa settimana era tra i 6 paesi europei che insistevano sul mantenimento del diritto di espellere i richiedenti asilo afghani a cui è stata rigettata la richiesta di asilo. Assieme a Danimarca e Paesi Bassi però ha cambiato parzialmente rotta. Gli unici ad aprire le porte in modo incondizionato sono i leader di Albania e Kosovo, su invito degli Stati Uniti.

Terrorismo: l’intelligence si mobilita in via preventiva

Torna elevata l’allerta terrorismo in Italia. Il ministero dell’Interno ha alzato il livello di attenzione su porti e aeroporti italiani, chiedendo ai servizi di intelligence e alle polizie di frontiera di monitorare gli ingressi e il transito di passeggeri e migranti all’indomani della “presa” di Kabul da parte delle truppe talebane.

La scorsa settimana, alla luce di ciò che sarebbe accaduto nel weekend di Ferragosto, si era già riunito al Viminale il Casa (Comitato analisi strategica antiterrorismo). Fanno parte del comitato i delegati dei servizi segreti (Aisi, Aise e Dis), dei reparti immigrazione della polizia di Stato e delle polizie di frontiera. È seguita la trasmissione di due circolari classificate, una datata 14 agosto e l’altra 16 agosto. All’interno delle comunicazioni ministeriali ci sarebbero i nomi, gli identikit e i possibili pseudonimi di una decina di profili legati alla Rete Haqqani, il gruppo terroristico vicino ai talebani, specializzato soprattutto in attacchi suicidi. Fra questi, anche Abdul Rauf Zakir, super ricercato su cui gli Stati Uniti hanno messo una taglia di 5 milioni di dollari. Il Viminale è convinto che l’Italia possa rappresentare un Paese quantomeno di transito per i filo-terroristi e, in attesa di capire quali obiettivi si daranno i talebani nelle prossime settimane, ha invitato le forze di polizia interna a continuare a monitorare anche le comunità locali e le moschee. Le informative prodotte nei prossimi giorni dall’intelligence italiana serviranno anche per istruire le riunioni che seguiranno con le altre forze dell’ordine europee. Intanto, questa mattina alle 11 la direttrice del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza) Elisabetta Belloni sarà di nuovo ascoltata al Copasir – l’audizione resterà secretata – per aggiornare i parlamentari sulla crisi afghana e sugli eventuali riflessi sulla sicurezza in Italia.

Talebani soft: “Diritti per tutti, ma secondo la legge coranica”

Italebani si presentano al mondo concilianti, pacifici, inclusivi, rispettosi dei diritti e delle donne: in conferenza stampa, il loro portavoce Zabihullah Mujahid manifesta l’orgoglio della vittoria (“Dopo vent’anni di lotta, abbiamo liberato il nostro Paese ed espulso gli stranieri”) e assicura che l’Afghanistan “non sarà più un campo di battaglia” né di vendette. “Abbiamo perdonato quanti ci hanno combattuto… Non vogliamo nemici esterni o interni”, dice; e annuncia l’amnistia generale.

Parole che attendono la verifica dei fatti, in una Kabul dove la tensione resta altissima e da cui decine di migliaia di afghani vogliono andarsene, temendo per la propria vita. Pechino e Mosca, anche Ankara, colgono “segnali positivi” nelle prime mosse dei nuovi padroni dell’Afghanistan, che sono, una generazione dopo, gli stessi di vent’anni fa. I messaggi che filtrano – no all’obbligo di burqa per le donne e sì alla loro istruzione e alla presenza nel governo, “nel rispetto della sharia”, rispetto della libertà di stampa – mirano al riconoscimento della “legittimità” di un loro governo che gli Usa non escludono e che tutto l’Occidente subordina “al rispetto degli standard internazionalmente concordati sui diritti umani e dell’inclusione” – parole di Boris Johnson al capo del governo pakistano Imran Khan –. Cina e Russia non vogliono che l’Afghanistan ridiventi un hub del terrorismo internazionale. Mujahid assicura che il Paese non diventerà santuario per i ‘foreign fighters’ dell’Isis o per i miliziani di Al Qaeda. E si spinge oltre: “L’Afghanistan – dice – non sarà più un centro della coltivazione del papavero da oppio o del business della droga”, chiedendo sostegno internazionale per promuovere un’alternativa alla coltivazione del papavero. I talebani sarebbero stati indotti a entrare in Kabul nel fine settimana “per garantire la sicurezza”: “Contavamo di fermarci alle porte della città perché il processo di transizione potesse completarsi senza intoppi. Ma il governo precedente era del tutto incompetente e le forze dell’ordine non riuscivano a mantenere la sicurezza. Dovevamo agire”. C’è ’impegno a evitare rappresaglie, anche se dalle province vengono notizie di rastrellamenti e uccisioni. Washington e i Paesi della Nato sono impegnati a evacuare quante più persone possibile: 6.000, forse 9.000 al giorno. Un ponte aereo è in atto, dopo il caos di lunedì: 640 afghani in fuga stipati dentro un C-17 decollato a stento, un morto nel vano carrello di un altro.

Parlando alla Nazione lunedì sera, Biden ha difeso il ritiro delle truppe, pur riconoscendo che esso poteva essere condotto meglio: “Preferisco le critiche, piuttosto che tergiversare”. L’intelligence fa sapere che da settimane aveva avvertito che il regime e l’esercito afghani si sarebbero sbriciolati e che i talebani si sarebbero impadroniti del Paese molto rapidamente. Le immagini dall’aeroporto di Kabul e la notizia che i talebani si sono impadroniti quasi senza colpo ferire di armi ed equipaggiamenti forniti dagli Usa agli afghani fanno precipitare il sostegno al ritiro nell’opinione pubblica, bruscamente sceso dal 69% al 49%. Biden è sotto attacco da destra (anche se l’accordo di ritiro con i talebani fu fatto da Donald Trump) e da sinistra. George W. Bush esprime “profonda tristezza”. La Cina nota: “Dove vanno, gli Usa distruggono, non costruiscono”. Abdul Ghani Baradar, il leader dei talebani che negoziò il ritiro, rientra a Kandahar – era a Doha –. Il vice del presidente fuggitivo Ashraf Ghani, Amrullah Saleh, si proclama “legittimo presidente ad interim”. E ricompare Ahmid Karzai, primo presidente dell’Afghanistan ‘post talebani’.

Tale&bano Show

L’unica reazione decente alla catastrofe afghana è quella di Angela Merkel: “Abbiamo sbagliato tutto”. Infatti viene da Berlino. Poi c’è l’Italia, culla del paraculismo, che si declina in varie nuances, una più comica dell’altra.

Tendenza Fonzie. Arthur Fonzarelli ci provava: “Ho sba … ho sbagl…”. Ma s’inceppava. Così gli atlantisti de noantri, sempre pronti a giustificare qualunque guerra purché made in Usa (che dal ‘46 le han perse tutte). Nel 2001 si scoprirono tutti neocon (ma alla francese: neocoglioni). Ora, per non sputarsi in faccia, danno la colpa a Trump e/o Biden, come se fossero zulu e non avessero fatto l’unica cosa giusta: ritirarsi.

Tendenza Nando Mericoni. Un americano a Roma era pronto a tutto, anche a rendersi ridicolo, pur di dare sempre ragione agli ameregani. Ora c’è Rep di Sambuca Molinari, che ribadisce la genialata di aggredire Afghanistan e Irak dopo gli attacchi sauditi-pakistani di Al Qaeda alle Due Torri, poi insiste a resuscitare i morti (per giunta sbagliati): “I talebani proteggono Al Qaeda”. Per non parlare della Yakuza e del Clan dei Marsigliesi.

Tendenza Supercazzola. Dopo averci coperti di guerre, di debiti, di morti e di ridicolo, B. definisce “un grave errore” non l’attacco del 2001, ma il ritiro del 2021. E “invoca la Nato” (nessuno l’ha avvertito che la Nato è appena fuggita da Kabul con tutto il cucuzzaro). Invece Draghi è “al lavoro coi partner Ue”. Per far che, non è dato sapere. Il sottosegretario boniniano Benedetto Della Vedova di Più Europa dichiara che “occorre più Europa, non meno”. Giuro, l’ha detto veramente.

Tendenza intellò. Galli della Loggia è inconsolabile: “fallimento di tutto l’Occidente”, “ritirata dei nostri valori e ideali”. Nessuno gli domanda: scusi, di grazia, quali valori e quali ideali? Sennò gli viene un’ernia al cervello. La sua versione francese, Bernard-Henri Lévi, dopo aver appoggiato tutte le guerre, non si dà pace: “Trionfa una barbarie che avevamo sconfitto senza difficoltà vent’anni fa”. Ah sì? E perché siamo rimasti lì fino all’altroieri? “Se venisse l’idea a un Putin, a un Erdogan, o a uno Xi Jinping, di riempire anche solo una piccola parte del vuoto creato dal ritiro americano, non ci sarebbe nessuno a opporsi”. Quindi gli Usa possono fare quel che gli pare: gli altri no.

Tendenza ovvio dei popoli. Siccome anche le mosche hanno la tosse, parla pure l’Innominabile, seminando il panico fra i talebani: “coi talebani non si tratta” (dopo le guerre, si sa, non si negozia coi nemici, ma con gli alleati). Intanto i giornaloni sparano raffiche di titoloni per spiegarci che i talebani sono cattivi (sai che novità). Ma solo perché disperano di convincerci che i buoni siamo noi.

Bagheria, la Villa del ‘700 e i corpi sinuosi di Guttuso

“Una grande villa dalle scalinate eleganti, le finestre come occhiaie vuote, senza infissi, pezzi di muri sbrecciati, uno spolverio di mattoni sbriciolati. Un giardino incolto con le pale dei fichi d’India coperti di polvere…”. Respirava tutta la decadenza della Sicilia la settecentesca Villa Cattolica di Bagheria, appena oltre la ferrovia, nel ricordo di una Dacia Maraini ancora bambina, reduce dal Giappone nel ‘47. E invece ora da pochi giorni, fresca di restauro e di riapertura post-Covid, Villa Cattolica è tornata fiammante a ospitare alcune tra le opere più commoventi del cospicuo lascito di Renato Guttuso, enfant du pays, in particolare le enormi tele di donne perdute o annoiate, e i formidabili disegni e abbozzi che nel mezzanino inseguono le forme sinuose di splendidi corpi femminili. Un’esplosione di sensualità ai margini del paesone dove Pasolini (Comizi d’amore) poneva domande sul sesso raccogliendo i balbettii imbarazzati dei locali (ma in Piazza Madrice parlava un memorabile Ignazio Buttitta). Tutto qui ha una direzione: dal piano nobile della Villa si contemplano i danni del sacco edilizio post-bellico di Bagheria (se n’era occupato Rocco Chinnici, prima di finire ammazzato), il mastodontico cementificio arruzzunito a pochi metri (abbatterlo o recuperarlo per farne un sito di archeologia industriale?), si intuiscono le strade diritte e oblique che portano a Villa Palagonia e ai suoi mostri, “aborti artistici in volgarissimo tufo” (Goethe), oppure forieri di “un brivido di inquietudine, incrinatura di spavento” (Sciascia) – Villa Palagonia, essa sì ancora scalcinata e délabrée in un trionfo di specchi e di fantasmagorie curvilinee, sinuose follie rococò di un principe, “delirio ultimo dell’anarchia feudale”. C’è un po’ di scirocco, in questo angolo di Bab-el-Gherib (“porta del vento”, se è vera l’etimologia), e il refrigerio si trova al piano terra di Villa Cattolica nel piccolo Museo dei carretti siciliani con le tavole dei Saraceni e di Garibaldi (quanti ricordano che il primo documentario del bagheriese Giuseppe Tornatore, anno 1977, parlava proprio dei carretti, e strabiliò un incredulo Guttuso?). Ma prima di andar via, nell’ultima sala, tra i tanti quadri affastellati di altri pittori della cerchia guttusiana (da Cagli a Schifano), non dimenticate di riverire la potenza ctonia delle tele di Salvatore Provino: è questa la terra che sa di sale e fichi d’India, gli stessi che spuntano copiosi dal balcone di un rudere pochi passi più in là lungo la Statale 113. Un trionfo degno dell’obiettivo di Ferdinando Scianna.

Quel Davide che è in noi. Come nella vita si batte Golia

Il vincitore della sfida più celebre di tutti i tempi, Davide, l’“Eletto del Signore”, era l’ultimogenito di otto fratelli. In famiglia si sospettava fosse nato dalla relazione del padre Isai con una schiava e per questo venne relegato in solitudine a fare il pastore. Nell’accudimento del suo gregge di pecore il piccolo Davide apprese la gentilezza e il coraggio che ne avrebbero fatto un grande re. Imparò nel deserto a suonare l’arpa e a comporre versi. Sperimentò la sua forza fisica uccidendo a mani nude quattro leoni e tre orsi.

Fu il profeta Samuele a indicare l’umile pastorello quale unto dal Signore. Le gocce d’olio santo che versò su di lui si trasformarono in diamanti e perle, secondo uno dei tanti racconti fantastici fioriti nei secoli sul suo conto. Da sempre agli ebrei piace pensare che il loro primo vero re, colui che avrebbe posto in Gerusalemme la loro capitale, non fosse un nobile altolocato, non un guerriero, bensì un semplice figlio del popolo. Nella sua trasformazione da pastore in re intravidero la concreta possibilità della redenzione; e difatti ancor oggi usano definire il Messia, di cui attendono speranzosi l’avvento, come il Figlio di Davide.

È nel Primo Libro di Samuele, sul finire del 1000 a.C., che viene narrata la più impari delle sfide fra il pastore Davide, fornito di sola fionda, e il terribile guerriero Golia, alto sei cubiti e un palmo (quasi tre metri), rivestito di solida armatura e gambali di bronzo, armato di lancia, spada e giavellotto.

Golia era il soldato più forte dell’esercito di Gath, re dei filistei che avevano catturato l’Arca dell’Alleanza in cui venivano custodite le Tavole della Legge consegnate a Mosè sul Sinai. Invano le truppe di Saul, re degli israeliti del Nord, avevano cercato di recuperarle. Per quaranta giorni Golia si era fatto avanti, nella valle del Terebinto: “Lancio una sfida alle schiere d’Israele: datemi un uomo contro il quale combattere!”. L’esito di quel duello avrebbe deciso la sorte dei due popoli, israeliti e filistei. Gli sconfitti sarebbero stati sottomessi in schiavitù.

Davide era stato inviato dal padre all’accampamento degli israeliti solo per rifornirli di dieci pezzi di formaggio. Quando si offrì di affrontare il gigante, Eliab, suo fratello maggiore, ne irrise la pretesa. Ma Davide riuscì a parlare con re Saul e per convincerlo a prenderlo sul serio gli raccontò dei leoni e degli orsi che aveva abbattuto, sottraendo le pecore dalle loro fauci: “Quest’incirconciso di filisteo farà la stessa fine, poiché ha osato lanciare una sfida alle schiere del Dio vivente”.

Saul fornì a Davide corazza, elmo e spada. Ma il pastore, dopo aver indossato l’armatura, se ne liberò: “Non potrò mai camminare con tutta questa roba addosso poiché non sono abituato”. Scelse con cura cinque pietre ben levigate, le mise nella bisaccia e impugnò la sua fionda.

Il resto è storia nota. Il gigante Golia scoppiò a ridere di fronte a quel ragazzetto “rosso e di aspetto gentile”. Tuonò che avrebbe dato il suo corpo in pasto agli uccelli e alle bestie selvatiche, dopo averlo ucciso. Ma fu allora che, impugnata la fionda, Davide scagliò contro Golia una pietra andata a conficcarsi tra gli occhi del gigante, che crollò nello stupore generale. Gettatosi su Golia tramortito, Davide ne estrasse dal fodero la spada e gli tagliò la testa. A quel punto i filistei se la diedero a gambe.

Nei secoli gli ebrei si sono sbizzarriti per spiegare l’incredibile esito del duello. Fu narrato che allorquando Golia minacciò di lasciare agli uccelli rapaci il cadavere di Davide, istintivamente avesse sollevato per un istante la visiera del suo elmo e rivolto lo sguardo al cielo. Proprio in quel momento il sasso lanciato da Davide lo colpì nell’unico punto esposto. Dopo di che un angelo fece cadere Golia faccia a terra, cosicché la bocca che aveva bestemmiato il Signore si riempisse di terra.

Quante volte abbiamo sognato da bambini questa scena, e quanti pittori hanno raffigurato il piccolo Davide nell’atto di sollevare la testa mozzata del gigante. Da sempre la vittoria di Davide su Golia rappresenta, nell’immaginario dei deboli, degli umili, dei fragili, la speranza di riscossa sui più forti.

Davide diventerà il sovrano unificatore delle tribù d’Israele, anche se le umane sue imperfezioni vieteranno a lui – anima sensibile e tormentata – di erigere il Tempio di Gerusalemme. Un compito che spetterà a suo figlio Salomone.

In tempi recenti abbiamo ritrovato nelle mani dei giovani palestinesi quello strumento rudimentale, la fionda, con cui Davide ebbe la meglio su Golia. I sassi vengono scagliati addosso alle truppe d’occupazione israeliane sulla cui divisa compare la stella di Davide. Per uno scherzo del destino, il nome stesso dei palestinesi deriva proprio dai filistei; anche se essi preferiscono rivendicare un’origine cananea per sancire una presenza nella terra contesa antecedente quella ebraica.

Così Davide, eroe degli ebrei, è diventato il simbolo di una speranza di riscossa degli ultimi che appartiene a tutti i popoli. Anche ai discendenti di Golia.

Britney, Michael e Marvin: quando il padre è padrone

“Non farlo, Britney! Domani te ne pentirai!”. Ma è un attimo. Esther, l’hair stylist della Spears, riceve una telefonata e si allontana. La popstar afferra il rasoio elettrico e si taglia via i capelli. “Sono stufa che tutti vogliano accarezzarmeli! Che la gente mi tocchi!”. In fuga da se stessa, l’ex enfant prodige del Club di Topolino esce dal salone di bellezza e si infila in un negozio di tatuaggi. Ne vuole uno sull’anca e un altro sulla pancia. Basta, urla. In questa sera del 16 febbraio 2007 ha dato il colpo di grazia all’immagine di bambina perfetta che tempo addietro, solo con i due primi album, aveva fruttato 50 milioni di copie. Per farsi lo scalpo è volata da Miami a LA, ultima fila in classe economica. Ha resistito 24 ore in un rehab ad Antigua ed è tornata in California per completare l’opera di autoannientamento, dopo aver sconvolto i non più piccoli fan con trovate sexy in compagnia dell’amica Paris Hilton, seratine allegre senza slip, baci saffici con Madonna e Christina Aguilera agli Mtv Awards, una copertina nuda su Rolling Stone, un matrimonio a Las Vegas subito dichiarato nullo “perché non in grado di comprendere le sue azioni” con Jason Alexander. A contorno di tanto caos, i video con tigri, pitoni, gabbie, pistole. Elementi simbolici? Mica tanto. Nell’impossibilità di far piazza pulita del mondo che la giudica, la cantante di Toxic può solo chiamarsi fuori.

Le sentinelle del gossip sentono l’odore del sangue, la assediano: dopo la rasatura a zero, a una pompa di benzina Britney prende a ombrellate l’auto del paparazzo Daniel Ramos, poi va sotto casa dell’ex marito Kevin Federline, in lite con lei per la custodia dei figli, e si accanisce contro un Suv. Ci vuole sua madre per sottrarla alla mattanza mediatica: la accompagna in un altro rehab losangeleno, il Promises. Lì la stella di Baby one more time tenta per la prima volta il suicidio, annodando un lenzuolo mentre urla “Sono l’Anticristo!”. La sua ostia satanica? La metamfetamina. Di nuovo, resta in clinica neanche un giorno prima di intraprendere l’esasperante salita verso il purgatorio. All’inferno era scesa un anno prima, 7 febbraio 2006, guidando sulla Pacific Coast Highway dietro casa, dalle parti di Malibu. Si fa beccare da una pattuglia: tiene il primogenito Sean, un frugoletto di un anno e mezzo, sulle ginocchia. “Perché non è legato al seggiolino?”, le chiedono gli agenti. Sul bordo della strada, Britney sa che sprofonderà. L’America ha tentato di perdonarle qualcosa, la boccia come madre. Ma come avrebbe potuto diventare adulta, l’eterna ragazzina dello show biz? L’hanno adorata e bullizzata a ogni passo, fan e media. Sei una diva. Un’irresponsabile, una pazza, una drogata marcia. Una prostituta. I tuoi ex si vantano di “essersi scopati la piccola Spears”. Insomma, ora qualcuno dovrà prendersi cura di te. Il padre Jamie? Sì, ma quando nel 2008 la obbligano al Tso per “disturbi mentali”, Mr. Spears si comporta come un manager senza scrupoli, più che come un tutore destinato a gestire amorosamente la controversa disposizione della “conservatorship”. A Britney viene tolto tutto, persino il telefonino, ma c’è la pentola piena di monete d’oro da riempire ancora. Una residency live a Las Vegas? Degli incassi le restano pochi spiccioli. Un album con la sua “vera” voce, più scura di quella adolescenziale? Bloccato dai discografici. Tredici anni così, l’esistenza in freeze-frame. La morte in vita, ballando e cantando a comando. Ci vuole il movimento #FreeBritney, il sostegno di Cher, Miley Cyrus, dell’ex fidanzato Justin Timberlake per tenere acceso il faro sulla sua prigionia legale. Finché Brit trova il coraggio di inchiodare papà in un paio di deposizioni in tribunale, e un nuovo avvocato spinge Jamie lontano da lei e da un tesoretto artistico di 60 milioni di dollari. La non ancora quarantenne musa festeggia su Instagram con un balletto in body trasparente. Sapendo che non è l’unica, nello star-system, ad aver pagato pegno a un padre-padrone. Adesso Britney potrà riflettere su quella sera del 10 settembre 2001, poche ore prima che l’orrore della Storia si abbattesse su New York: duettava al Madison Square Garden con Michael Jackson, The way you make me feel per celebrare i 30 anni di carriera di Jacko, altro eterno bambino costretto a suon di botte dal tirannico genitore Joe a restare bloccato nei labirinti di un’infanzia psichica che sfornava miliardi.

O di quando, e c’entrano ancora le Torri Gemelle, Britney contribuì al rifacimento di What’s Going On, il capolavoro inquieto di Marvin Gaye. Uno che il padre, Marvin sr., non se l’era ritrovato tra i piedi per motivi d’affari, bensì per un ingombro edipico. Quando i due uomini si affrontarono dopo un litigio per la moglie/madre, fu il genitore ad aprire il fuoco e a uccidere il re del soul. Con la pistola che gli aveva regalato suo figlio.

Noto, bellezza&monnezza. Ma se lo denunci t’insultano

È tempo di fare chiarezza, di metterci la faccia”. Il discorso che annuncia la sua candidatura a sindaco di Rosolini è lì, sul mobile della villa da sogno che ho affittato in Sicilia, a ridosso dell’oasi di Vendicari, per le vacanze. Scopro dunque che il mio locatore, Tino Di Rosolini, medico del 118, ex consigliere comunale, è un politico locale di discreta fama. La sua proprietà viene venduta dall’agenzia che fa da intermediaria come una specie di sogno (costa quanto Ronaldo). Inizia così, con le migliori premesse e una carabina trovata sotto un divano (giuro), la peggior vacanza della vita. Intendiamoci, la casa è all’apparenza molto bella. Anche Noto, che vediamo subito in una mattina assolata di fine luglio, ci sembra stupenda. Poi, al calar del sole, quella villa diventa la perfetta metafora di una regione che sembra illuminata da luci a intermittenza: splendente o nera come la pece, nel tempo di un attimo. Giorno dopo giorno, la bellezza sfolgorante del primo sguardo viene inquinata da una serie infinita di problemi della villa che si rivelano poco a poco. Poi iniziano i guasti Enel, quotidiani. Il turismo è massiccio, la rete elettrica è vecchia. Si inizia a rimanere al buio in tanti, in Sicilia. “Accade ogni anno ormai”, mi spiegano in un hotel accanto. “Per questo abbiamo un generatore, i clienti non se ne accorgono”. Noi invece ce ne accorgiamo perché oltre alla luce va via anche l’acqua. La villa dei sogni non ha un allaccio alla rete idrica, ma una trivella. Il giorno dei 49 gradi nella vicina Floridia, a mezzanotte, come sfollati, ci presentiamo nell’hotel disponibile più vicino, a Siracusa, per dormire al fresco. È un lockdown al contrario: vorremmo solo stare in una casa, non ci riusciamo. Allargando lo sguardo succede che notiamo quello che c’era sfuggito, come nella villa dei sogni: c’è immondizia ovunque. Sulle strade, a ridosso delle spiagge, nell’oasi faunistica, sulla strada per Marina di Noto, a Noto, patrimonio dell’Unesco. Biliardini abbandonati, pannolini, materiale edile, frigoriferi, tv, randagi, sporcizia all’ingresso dei relais di lusso, nel fiume Tellaro, buste che seppelliscono il centro raccolta differenziata “I love Noto”, sacchi dell’immondizia in mezzo alle carreggiate che costringono spesso gli automobilisti a passare nella corsia opposta. Non è la Noto delle guide, dei libri d’arte, del matrimonio dei Ferragnez (prima del quale sono state pulite in fretta tutte le strade, mi dicono). Mi chiedo come sia possibile. Scopriamo che, paradossalmente, è colpa della raccolta differenziata. Obbligatoria. Si paga la Tari, il Comune fornisce 5 mastelli, si ritira porta a porta. I cassonetti non esistono più. Solo che molti evadono la Tari (il 60%) perché non vogliono pagare, perché sono in case abusive, perché vuoi mettere il lancio del sacco dal finestrino? E poi, perché il Comune di Noto è terzo per estensione, l’azienda adibita al ritiro non ritira l’indifferenziata per strada e fatica anche con la differenziata. “Sono stati sospesi i bike tour per gli stranieri, i resort si vergognavano”, mi racconta una guida del posto. Il proprietario di un’azienda agricola mi spiega “Noi facciamo il biologico nell’immondizia, come lo spiego ai compratori?”. Mi raccontano anche che un gruppo di cittadini ha raccolto delle firme per protesta e, strano, il giorno dopo si sono ritrovati tutti con controlli fiscali. Vedo il quartiere dei “caminanti” (rom) in cui esiste una grande discarica bruciata da poco. “Sono 1200 voti, qui nessuno li tocca”. E torniamo alla villa da sogno. Quando sono arrivata nessuno mi ha spiegato il sistema di immondizia a Noto. “Butti tutto in un sacco, lasci davanti alla porta, poi ci pensa il giardiniere”, mi è stato detto dall’agenzia. Dunque, uno di quei sacchi per strada potrebbe essere mio. Chiedo perché non ci siano i mastelli in casa. Se si paga la Tari per quell’immobile. Interrogo il giardiniere, che sorprendo a buttare gli avanzi di una mia cena con plastica e vetro. “Lascio tutto fuori poi ritirano. Anzi no, prima separo io tutto poi ritirano. Anzi no, porto tutto in discarica”. Telefono all’ufficio d’igiene che mi passa l’ufficio tributi. “Non risultano utenze Tari presso il vostro civico”. Sarà vero? Telefono al sindaco di Noto Corrado Bonfanti. Gli dico che che non ho mastelli, che ho chiamato l’ufficio preposto. “Ho incaricato di fare verifiche”. Da quel momento, non mi chiama più nessuno. Tranne che un ristorante di lusso di Noto: “Il sindaco le offre una cena il giorno di Ferragosto”. I mastelli non arriveranno mai, il proprietario di casa mi dirà “Non devo dimostrarle di pagare la Tari perché lei non è nessuno!”. Mentre vado via però tira fuori dei secchi creativi di cui uno di alluminio dicendo che la differenziata a Noto si fa con quelli. Io allora gli mostro la piccola discarica che c’è nel giardino piena di immondizia. “Io sono Tino Di Rosolini, lei chi è? Si faccia curare, sono un medico, lo vedo dall’espressione che ne ha bisogno”. Forse si riferisce a qualcosa tipo isteria femminile, chissà. Racconto tutto sui social. Il sindaco di Noto mi risponde su Fb che mostrando l’immondizia di Noto “offendo la città”. Che un problema tra locatore e me non può diventare un caso. E poi “mica glieli devo fornire io i mastelli!”. (quindi tocca a Musumeci, prendo nota) Già. Peccato che i rifiuti che seppelliscono Noto siano figli di una cattiva politica, di cattivi cittadini e di molto altro, e che nella mia storia ci sia dentro tutto, in una specie di sunto emblematico: io nel ruolo del turista sfinito non messo nelle condizioni di fare la differenziata, il medico facoltoso che ambisce al ruolo di sindaco e LUI non ha i mastelli per la differenziata (paga la Tari per quell’immobile sì o no, sindaco Bonfanti? Gli elettori lo devono sapere), la politica che se la prende con chi denuncia perché osa dire che il re è nudo. Anzi, perché, come si dice in Sicilia: “Sei nemico ra cuntintizza”. “Sei nemico della felicità”. Insomma. All’indifferenziata dovevo rispondere con una beota indifferenza. Chiedo venia, sindaco.

Eutanasia, raccolte le prime 500 mila firme: il referendum si fa. Scontro Chiesa-Radicali

Dove non è arrivata la politica, intervengono i cittadini. Trentasette anni dopo la prima proposta di legge sull’eutanasia, il referendum per la sua legalizzazione raggiunge le 500 mila sottoscrizioni – quota minima per indire il referendum abrogativo – e lo fa con un mese e mezzo di anticipo rispetto la scadenza. Lo ha annunciato l’Associazione Luca Coscioni promotrice della campagna, secondo cui sono già 430 mila le firme raccolte nelle piazze, alle quali si aggiungono oltre 70.000 firme registrate online in questi giorni e un numero ancora imprecisato di firme raccolte negli uffici comunali. Un risultato che dimostra quanto la tematica sul fine vita sia centrale per gli italiani. “Siamo in mezzo a ostacoli burocratici di ogni tipo, ma già possiamo dire che una grande impresa è stata realizzata”, commenta Marco Cappato dell’associazione Luca Coscioni. Di tutt’altro avviso il Vaticano, che attraverso le parole dell’arcivescovo Vincenzo Paglia, esprime preoccupazione: “C’è la tentazione di una nuova forma di eugenetica: chi non nasce sano non deve nascere. Insieme a questo, una concezione salutistica per la quale chi non è nato sano, deve morire. È l’eutanasia. È una pericolosa insinuazione che avvelena la cultura”. La replica, senza mezzi termini, dell’associazione è immediata: “Nessuno sarà obbligato a scegliere l’eutanasia, anzi sarà possibile prevenire ciò che già accade: l’eutanasia clandestina, praticata nelle condizioni più terribili, anche per la criminalizzazione voluta da una legge del 1930 e sostenuta dal Vaticano”. Il quesito referendario, sul modello di Olanda, Belgio, Lussemburgo, Spagna (e seguendo i principi stabiliti anche dalla Corte costituzionale tedesca), chiede l’abrogazione parziale della legge 579 c.p. che punisce “l’omicidio del consenziente”, lasciando intatte le tutele per minori, persone vulnerabili e non in grado di intendere e volere. Una battaglia che però è solo all’inizio: “Il prossimo obiettivo – dichiara Marco Cappato – è il raggiungimento delle 750 mila firme entro il 30 settembre, per sicurezza. Un risultato che dimostra che sulla libertà le persone sono avanti rispetto buona parte del ceto dirigente, perché hanno vissuto direttamente, stando accanto a una persona che soffre, l’importanza della libertà di scelta sulla propria vita, fino alla fine”.