“Il leghista è incivile, Draghi è suo complice visto che ancora tace”

Paolo Flores d’Arcais, su MicroMega lei ha scritto che il sottosegretario leghista Claudio Durigon è “fuori dall’Italia civile” e deve essere cacciato. Basta una battuta su parco “Mussolini” per essere incompatibili con un incarico di governo?

Mi sembra un fatto di un’evidenza incontestabile. Il nostro essere concittadini si basa su un legame comune dato dalla Costituzione. La Costituzione della Repubblica italiana è notoriamente ed esplicitamente antifascista. I ministri e i sottosegretari di governo giurano fedeltà sulla Costituzione. Dunque il sottosegretario Durigon è uno spergiuro.

Se non fosse sufficiente la nostalgia delle radici fasciste di Latina, con una sola frase Durigon ha offeso la memoria di due eroi dell’antimafia.

Con la proposta di cancellare i loro nomi dal parco comunale di Latina, simbolicamente ha fatto morire di nuovo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mi pare davvero che ce ne sia più che a sufficienza per dire che Durigon non appartiene all’Italia civile.

Il leghista ha specificato che parlava del fratello di Mussolini, non del Duce in persona. E che bisogna rispettare le radici storiche della città. Altrimenti – è il ragionamento – cosa si fa, si cancella ogni traccia del ventennio?

Guardi, l’argomento è risibile. Credo che la famiglia Durigon, come molte altre dell’Agro pontino, sia di origine veneta. Dovrebbero essere a conoscenza di questo modo di dire: “Pezo el tacòn del buso”. La toppa è peggio del buco.

Si aspetta che intervenga il presidente del Consiglio?

Mi sorprende moltissimo il suo reiterato silenzio, visto che Draghi viene descritto – e sembra ben felice di essere descritto – come un fulmine di guerra in tutte le sue decisioni. In questo caso invece la sua pronta e doverosa reazione latita. Per questo motivo, il suo comportamento diventa più vergognoso di minuto in minuto. Finché non interverrà, è da considerare, per omissione, complice di Durigon.

Crede che la mossa di presentare una mozione parlamentare di sfiducia sia giusta o rischia di trasformarsi in un boomerang, se non dovessero esserci i numeri in aula?

Alla fine penso che non sarà necessaria, perché credo che la parte meno ottusa dell’establishment presto costringerà Durigon ad andarsene. Se invece non dovesse succedere, la mozione diventerà doverosa.

Pare che i renziani di Italia Viva non la vogliano votare, le probabilità di fallimento sarebbero alte.

A quel punto, se tra i partiti non si dovesse trovare una maggioranza determinata a far decadere il sottosegretario del “parco Mussolini”, vorrà dire che questo Parlamento è già espressione plastica dell’Italia incivile.

Il fatto che un politico del profilo di Durigon avesse già trovato spazio nel primo governo Conte cosa dice della qualità della classe dirigente italiana?

Per quanto mi riguarda, il primo governo Conte faceva schifo nel modo più assoluto. Il secondo invece mi faceva schifo “semplicemente”. E significa che è ormai da parecchio tempo che la nostra scelta è tra il peggio, il più peggio e il peggissimo.

Leggendo i sondaggi, al peggio non pare ci sia limite… nei popolarissimi Fratelli d’Italia hanno trovato casa nostalgici ben più radicali di Durigon.

La nostra democrazia si fonda sull’antifascismo: chi non è antifascista è fuori dalla nostra democrazia, questo è il dettato costituzionale. Eppure tra meno di due anni avremo un governo Meloni-Salvini, dunque una maggioranza parlamentare tecnicamente proto-fascista. Credo che questo sia il dramma che incombe. I mass media sembrano ignorarlo e nessun settore dell’establishment lo vuole affrontare. Tra meno di due anni, noi avremo un governo Orban-Le Pen. Oltre che per l’Italia, sarà una tragedia per tutta l’Europa.

Sgarbi, Siri &C.: gli altri impresentabili silurati

Quando è servito è stato il presidente del Consiglio a “dimissionare” un sottosegretario. In due modi: con la moral suasion chiedendo un passo indietro o revocandogli le deleghe. È stato così da Carlo Azeglio Ciampi a Giuseppe Conte, da Romano Prodi a Silvio Berlusconi. Sono stati gli inquilini di Palazzo Chigi a decidere sul futuro politico di un proprio sottosegretario. Perché questo prevede la legge del 1988: un sottosegretario non ha un rapporto fiduciario nei confronti del Parlamento bensì dell’esecutivo perché è il presidente della Repubblica a nominarlo su proposta del premier, sentiti il ministro interessato e il Consiglio dei ministri. E quindi anche il potere di revoca spetta a loro. Se sarà anche così con il leghista Claudio Durigon è tutto da vedere ma è per questo motivo che i partiti sperano che sia Mario Draghi a far dimettere il sottosegretario al Tesoro prima della “mozione di censura”. Così è successo in passato.

Il primo caso risale al 22 maggio 1993 quando il governo Ciampi revocò le deleghe da sottosegretario alle Finanze al generale Antonio Pappalardo, oggi tornato alla ribalta come leader dei “gilet arancioni”. Pappalardo, eletto nelle file del Psdi, fu condannato in primo grado a otto mesi per aver diffamato l’allora generale dell’Arma (poi è stato assolto definitivamente nel 1997) e così il premier Ciampi gli telefonò: “Per la sua condanna, tragga le conseguenze”. Risposta: “Io non devo trarre un bel niente”. Così, in 24 ore, il Cdm votò per la revoca e il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro firmò l’atto. Pappalardo la prese così male che iniziò a fare i nomi di tutti i componenti del governo che avevano indagini e condanne e denunciò legami tra politici e “logge massoniche”, a cominciare da Giulio Andreotti. Due vicende simili hanno portato negli anni successivi alla revoca di Angelo Giorgianni, sottosegretario all’Interno del governo Prodi per le sue “cattive frequentazioni” con la criminalità organizzata segnalate dalla commissione Antimafia (poi dimostrate infondate), e di Nuccio Cusumano, sottosegretario al Mef dell’Udr con D’Alema e arrestato nell’ambito di un’inchiesta sugli appalti truccati per l’ospedale di Catania (poi assolto). In entrambi i casi la decisione è stata di Prodi e D’Alema.

Non legato a indagini giudiziarie è il caso di Vittorio Sgarbi: nel 2002, governo Berlusconi-2, fu cacciato da sottosegretario alla Cultura dopo un braccio di ferro contro il proprio ministro, Giuliano Urbani, e la sua proposta di vendere al privato beni del Demanio anche se di rilevanza artistica. Urbani gli revocò le deleghe e il governo confermò la decisione. Nel 2010 Berlusconi si trovò a decidere anche su Nicola Cosentino, di sede al Mef e indagato nell’inchiesta sulla P3. Fu costretto a dimettersi per disinnescare una mozione di sfiducia dopo la decisione del presidente della Camera Gianfranco Fini di calendarizzarla. I finiani avrebbero votato la sfiducia. Anche Giuseppe Conte, nel maggio 2019, ha dovuto allontanare due sottosegretari della Lega: prima Armando Siri (Economia), indagato a Roma per corruzione, e poi Edoardo Rixi (Infrastrutture), condannato in primo grado a 3 anni e 5 mesi per le spese pazze (poi assolto). Rixi si dimise dopo la moral suasion del premier, mentre per Siri fu più difficile. Il 2 maggio Conte disse: “Si deve dimettere”. Il sottosegretario però, appoggiato da Salvini, si rifiutò e così il premier gli revocò le deleghe. Fu uno dei motivi scatenanti della caduta del governo. Proprio quello che oggi Draghi vorrebbe evitare con Durigon.

Giorgetti “molla” Durigon. Ma il premier aspetta l’Aula

Sarà un po’ il Ferragosto e sarà un po’ che le priorità a Palazzo Chigi sono altre, a cominciare dall’Afghanistan. Fatto sta che Mario Draghi continua a tacere sul caso Durigon. Sono passati 12 giorni da quando il sottosegretario leghista all’Economia ha proposto di re-intitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini invece che ai giudici antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma il premier tace, nonostante Pd, M5S e LeU abbiano chiesto le dimissioni di Durigon o, in alternativa, l’intervento di Draghi per revocargli le deleghe. Per mettere pressione al premier, i giallorosa hanno anche annunciato per settembre una mozione contro il fedelissimo di Salvini, ma sperano che Draghi o il ministro dell’Economia Daniele Franco intervengano prima. Si rimpallano la patata bollente: Pd e M5S chiedono a Draghi di rimuovere Durigon prima della mozione perché, dice un ministro, “l’attenzione rischia di abbassarsi”; il premier invece non vuole rompere con Salvini – che per tutta risposta attacca lui e la ministra Luciana Lamorgese sui migranti – lasciando che sia il Parlamento, a settembre, a decidere. Se sfiducia parlamentare sarà, Draghi non potrà che prenderne atto. Di fatto, scaricando sulle Camere la responsabilità di una decisione tutta politica. E quindi, per il momento, resta il silenzio. Da Palazzo Chigi avevano spiegato che Draghi avrebbe deciso dopo Ferragosto, ma ora che la festa è passata, la risposta non arriva.

In questo gioco tattico, però si inserisce la variabile Lega. Perché se Salvini ormai ne ha fatto una questione di principio – anche se in privato ha criticato il suo sottosegretario: “Ha detto una c…” – lo stesso non vale per molti dentro il Carroccio. In particolare per il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti e per il governatore del Veneto Luca Zaia. Entrambi in silenzio pubblicamente, ma molto attivi dietro le quinte. Giorgetti, dal suo buen ritiro nel varesotto, non ha rinunciato a sentire i suoi fedelissimi, ma ha anche parlato con Draghi e Franco. Il primo obiettivo del vicesegretario della Lega, considerato ormai un ministro in quota Draghi, è quello di “lasciare lavorare” il governo senza provocare rotture: quindi su Durigon “deciderà il premier”, ha detto Giorgetti ai suoi prendendo le distanze dalla linea di Salvini.

Ma poi da questi colloqui è uscito un nome: quello di Massimo Bitonci, padovano e già sottosegretario al Tesoro del Conte-1. Un profilo perfetto per sostituire Durigon, già estromesso a febbraio. Giorgetti proverà a convincere Salvini a giocare d’anticipo e sostituire Durigon con Bitonci. Ed è su quest’ultimo che punta anche Luca Zaia, che in Durigon non ha mai trovato un orecchio attento al Mef. Tra il governatore e l’ex sindaco di Padova non corre buon sangue ma, è il ragionamento degli “zaiani”, quando il presidente del Veneto tornerà a battere sul federalismo sarà meglio avere una sponda al Tesoro. Bitonci inoltre ha un’altra caratteristica: è tra i leghisti del nord che hanno sposato da subito il nuovo corso di Salvini. Anche Matteo, quindi, potrebbe mandarlo giù.

L’Italia e gli 840 mln per istruire i soldati ora arresi ai talebani

Venti anni, 50 mila soldati, 53 caduti, 723 feriti. Due decenni in cui l’Italia ha speso in tutto 8,7 miliardi di euro, di cui 840 milioni investiti solo dal 2015 nell’addestramento dell’esercito afghano. Quelle stesse truppe che in dieci giorni si sono liquefatte dinanzi all’avanzata talebana.

Terminato il 9 giugno con la cerimonia dell’ammaina-bandiera e le foto di rito del ministro della Difesa Lorenzo Guerini a Herat, l’impegno militare più corposo per l’Italia dopo la Seconda guerra mondiale è iniziato nel 2001, nell’ambito della missione Isaf (International Security Assistance Force), con l’invio dei primi 350 militari e i primi 82 milioni spesi, tra uno stanziamento previsto di 71,6 milioni e “costi extra” per altri 10, secondo i dati contenuti nei vecchi dl Missioni ed elaborati da Milx – Osservatorio delle spese militari italiane. Un impegno proseguito negli anni successivi con un aumento costante ma regolare delle risorse, che dai 286,1 milioni del 2002 arrivano ai 389,8 del 2008. Da quel momento, la curva dei costi si impenna: la pressione dei talebani sale e crescono anche il numero di attacchi e delle vittime civili. Così la Nato cambia strategia: nel summit di Strasburgo-Kehl del 3 e 4 aprile 2009 il premier Silvio Berlusconi e il ministro degli Esteri Franco Frattini partecipano all’enunciazione del principio del comprehensive approach che guiderà l’Alleanza nel teatro afghano: maggiore impegno degli alleati e rafforzamento delle istituzioni locali con ulteriore invio di personale militare e civile in una nuova missione, la Nato – Training Mission in Afghanistan, che ha lo scopo di addestrare l’Esercito, l’Aviazione e la Polizia afghani. Il 2009 segna anche un’altra svolta: il 1° dicembre, davanti ai cadetti di West Point, Barack Obama annuncia l’invio di altri 30 mila soldati ma anche l’inizio di un graduale ritiro delle truppe a partire dal luglio 2011. Nel novembre 2010, poi, a Lisbona la Nato decide che la responsabilità della sicurezza nel Paese passi alle Forze nazionali afghane.

È la svolta, gli alleati sono chiamati a incrementare il loro contributo in nome del principio del burden sharing e anche per l’Italia lievitano i costi: se nel 2009 la spesa sale a 638,1 milioni e i soldati in loco arrivano a 3.207, nel 2010 i milioni sono 811,4 e gli effettivi 4.200, per poi toccare i 914,7 milioni e i 4.250 militari nel 2011. Sono gli anni in cui la crisi finanziaria globale miete milioni di posti di lavoro, stritolando anche l’economia italiana e il Berlusconi IV. “L’andamento degli stanziamenti segue in modo abbastanza lineare il numero delle truppe inviate, che sono il costo maggiore delle missioni” spiega Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo, tra i curatori del rapporto Milx. Tanto che dal 2012, con i tagli avviati dal governo Monti, inizia la discesa: dagli 865 milioni e 4.000 soldati del 2012 si arriva ai 176,9 e 800 effettivi del 2018, a partire dal quale le cifre si stabilizzano.

Nel 2015, tuttavia, anno in cui la missione Isaf viene sostituita dalla Resolute Support Mission, si apre un nuovo capitolo di spesa: 120 milioni l’anno fino al 2021 da versare per l’addestramento diretto delle Forze afghane. “Un costo extra di 840 milioni investiti per un esercito che in 10 giorni si è arreso ai talebani – è la critica di Vignarca – È evidente che qualcosa è andato storto: abbiamo addestrato un sistema di forze armate corrotto e inadeguato. Lo dimostra il numero di fucili e mitragliatori definiti ‘persi’ ma in realtà venduti: 150 mila solo tra quelli forniti da Usa e Uk”. L’ultima particolarità è tutta italiana: “Il documento che ha sostituito il dl Missioni viene votato in ritardo da 4 anni – conclude Vignarca – Il caso dell’Afghanistan è di scuola. Quest’anno farlo per tempo sarebbe stato cruciale, data l’imminenza del ritiro delle truppe previsto per giugno. Se la deliberazione fosse arrivata a fine dicembre come previsto dalla legge, il Parlamento avrebbe potuto dare delle indicazioni. Invece è stato votato a luglio: la cerimonia di fine missione a Herat era già stata bella che fatta”.

La folle guerra delle lacrime di coccodrillo

Se la guerra in Afghanistan avesse avuto davvero l’obiettivo di colpire i responsabili dell’attentato dell’11 settembre 2001, sarebbe potuta finire il 1 maggio del 2011. Quando Osama bin Ladin, a Islamabad, fu liquidato dalle truppe speciali Usa sotto lo sguardo rapito, immortalato da una celebre foto, di Barack Obama.

Dopo dieci anni, la guerra contro i talebani non aveva fatto nessun passo avanti significativo eppure si andrà avanti dieci anni ancora senza che i responsabili abbiano presentato una scusa o un ripensamento.

I Neocons all’attaccoDopo il crollo delle Torri gemelle lo stato maggiore statunitense a partire dal suo commander in chief hanno in testa un solo obiettivo, Bin Laden. Ma soprattutto hanno in testa la guerra in Afghanistan che con l’eliminazione di Al Qaeda non c’entra nulla. Già il 13 settembre, secondo il Washingont Post, sul tavolo di George Bush jr. e del suo manovratore Dick Cheney, ci sono “ben sei piani per colpire l’Afghanistan”.

Gli Usa vanno in Afghanistan per motivi geopolitici: c’è da presidiare l’area del mondo che potrebbe essere preda dell’espansione cinese. C’è da accerchiare l’Iran e preparare la prossima guerra, il chiodo fisso di Dick Cheney, quella in Iraq. L’Afghanistan è invaso di uomini, 775 mila in tutto, di soldi, circa mille miliardi di dollari, di aiuti distribuiti a caso, senza molto senso. Eppure Bush annuncia agli americani una nuova guerra – compostamente dichiarata solo dopo “aver detto molte preghiere” – che sarà vinta “con la paziente accumulazione di successi”. Le preghiere con l’islamismo dei talebani non devono aver funzionato molto e i successi non si sono visti.

Il fido Blair Accanto agli Stati Uniti si erge la sponda convinta e decisa della Gran Bretagna guidata dal “progressista” Tony Blair. Che fa di tutto per intestarsi la guerra. Prima, lanciando l’ultimatum a Kabul al grido “o ci consegnate Bin Laden o lasciate il potere” e poi mettendo a disposizione tutto il potenziale bellico necessario dato che le forze armate britanniche “sono tra le migliori al mondo”. Blair è un riferimento obbligato della sinistra riformista e con lui ci sono praticamente tutti: Lionel Jospin in Francia, Gerhard Schröder in Germania, Luis Zapatero in Spagna e la sgangherata formazione ulivista in Italia capeggiata in quel momento da Piero Fassino e Francesco Rutelli. Ma prima occorre fermarsi sulla terza “B” di quella guerra, dopo Bush e Blair: Silvio Berlusconi.

Il signor “B” L’allora leader del centrodestra sa bene, e lo dice pubblicamente, che “l’operazione militare in corso è stata preparata da tempo”. L’Italia, diceva l’allora Cavaliere, “non ha mai messo alcun limite alle richieste che, eventualmente, venissero fatte dagli Usa. Ci siamo mantenuti a disposizione e siamo ancora a disposizione”. Con lui tutto il centrodestra, Lega e An comprese, fieramente asserviti ai desideri Usa, come da copione atlantico. E con la guerra si schiera anche l’allora Ulivo anche se con diversi mal di pancia interni.

Fassino con l’elmetto Scontata la contrarietà di Rifondazione comunista – che solo al governo, nel 2006, darà l’avallo alle missioni militari –, tra i protagonisti del tempo troviamo anche l’attuale segretario del Pd, Enrico Letta, privo di alcun dubbio: “La guerra di oggi ha motivazioni più solide e sarebbe un incomprensibile errore per la sinistra italiana tirarsi indietro”. La sinistra italiana non si tira indietro pur con dei distinguo: la sinistra interna ai Ds, l’Unità diretta da Furio Colombo, una parte del cattolicesimo democratico nella Margherita, il “no” del Prc e dei Verdi. Francesco Rutelli, capo della coalizione se ne duole lamentando la “mancanza di una cultura di governo”.

Sarà quella cultura che porterà il secondo governo Prodi a isolare i dissensi sotto l’occhio vigile dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che vincola quel governo alla compattezza sulle missioni, pena “un grave problema politico”. Del resto, il progressista numero Uno, Barack Obama, non farà nulla per fermare la catastrofe e il suo vice si chiama Joe Biden.

I Papers delle bugiePer capire che la guerra fosse un errore basta leggere gli Afghanistan Papers pubblicati dal Washington Post. Duemila pagine di note, appunti e interviste a generali e diplomatici per evidenziare la catena costante di errori e bugie: “Eravamo privi di una comprensione fondamentale dell’Afghanistan, non sapevamo cosa stavamo facendo” spiegava Douglas Lute, generale a tre stelle. John Sopko, il capo dell’agenzia federale che ha condotto le interviste, conferma che “al popolo americano è stato costantemente mentito”. Quanto alla preparazione dell’esercito, gli addestratori militari Usa hanno descritto le forze di sicurezza afghane come “incompetenti, immotivate e piene di disertori” con i comandanti afghani intenti a “intascare gli stipendi per decine di migliaia di “soldati fantasma”. Nel frattempo l’Afghanistan è diventato il produttore dell’82% dell’oppio mondiale.

Il Merlo gné-gné Eppure Emma Bonino, nel 2005, si felicitava per un “processo di transizione istituzionale e democratica” ormai concluso. E su queste posizioni tutta la stampa democratica. Allo scoppio della guerra Gianni Riotta scriveva che l’obiettivo sarebbe stato “un Afghanistan retto da un governo di coalizione, che metta fuorilegge i Taliban e Al Qaeda e ripristini almeno livelli minimi di diritti civili per le donne e i profughi”. Altro editorialista, Antonio Polito, dal 2006 al 2008 senatore della Margherita, si complimentava con Prodi perché sull’Afghanistan aveva “marcato chiaramente la differenza da Bertinotti” manifestando la sua vera preoccupazione. Le voci dissonanti, come Gino Strada, venivano bastonate allegramente. Francesco Merlo nel febbraio 2003 sul Corriere della Sera lo chiamava il “signor Né-Né” che fa tanto rima con gné-gné. “Il signor Né-Né non è un pacifista, è piuttosto una scoria del pacifismo, è la serpe che fa la sua tana nel pacifismo più ingenuo, lupo tra le colombe, volpe nel pollaio”. A uno stupito Gino Strada che chiedeva conto di tali insulti, egli rispondeva: “In guerra (…) non si può scegliere di non scegliere, non si può stare né di qua né di là (…) La retorica delle buone intenzioni ha sempre dei profittatori, degli astuti signori Né-Né. Dove vuole che vadano i lupi e le volpi se non tra le colombe del coraggioso Gino Strada, e nei pollai?”. Oltre a rivelare il giudizio su Gino Strada un certo riformismo “colto”, in quelle parole (nonostante fossero riferite all’Iraq) c’è tutta la supponenza con cui sono state affrontate le guerre globali. Con relative voragini.

“Giornaliste, attiviste e donne sole: è finita, ci cercano ovunque”

“Stanno bussando a ogni porta per cercare le donne che hanno collaborato con le truppe straniere, con il governo e quelle che vivono da sole. Io sono chiusa in casa dei miei genitori e ho paura che arrivino qui a cercarmi. Non sono al sicuro”. Da Kabul, a voce bassa, arriva la testimonianza della giornalista Zahra Joya, fondatrice di Rukhshana, giornale spesso citato dal britannico Guardian. “Oggi è il giorno più orribile per me, mi obbligano al silenzio”.

Zahra, vediamo immagini di fughe disperate, gli assalti all’aeroporto per lasciare il Paese ora controllato completamente dagli islamici.

A Kabul ci sono migliaia di rifugiati, specialmente donne e bambini, manca tutto, soprattutto la speranza. Non c’è posto dove nascondersi. Il cuore delle donne afghane si è spezzato quando i talebani sono entrati nel palazzo presidenziale e Ghani è scappato.

Sembra che nessuno si sia opposto alla loro avanzata.

Noi afghani siamo distrutti. Siamo tutti sotto shock. Io non ho futuro, esattamente come non ce l’ha il mio Paese. Anche la comunità internazionale è fuggita e ci sentiamo traditi. Davvero pensavano che potessimo risolvere da soli questa tragedia? Io credo di no. Hanno investito soldi e risorse qui per 20 anni, oggi ci chiediamo perché lasciano che vengano distrutti così due decenni di progressi. Non lo so io, non lo sanno gli afghani. Un altro enigma riguarda gli Usa, che sono dietro le quinte dei negoziati di pace a Doha con i talebani e che di punto in bianco si lavano le mani di questa tragedia.

Per la prima volta, oggi, proprio come le sue colleghe, non è potuta andare nel suo ufficio: una redazione di sole giornaliste, i cui articoli vengono spesso ospitati sulle pagine del Guardian. Il vostro giornale ha un nome che ricorda una ragazza lapidata.

Si chiama Rukhshana, come la ragazza uccisa nel 2015 nella provincia di Ghor perché tentava di scappare da un matrimonio forzato. L’ho fondato perché ho sempre lavorato nei media, ma ero sempre l’unica donna nella stanza: noi afghane abbiamo sempre dovuto lottare tanto per avere voce. Quella afghana è una società patriarcale, quella talebana è un’ideologia che si basa sulla limitazione dei diritti delle donne. È scritto nella loro legge e ora loro sono al governo.

Lei si è già opposta al regime talebano quando aveva solo sei anni, vestendosi da maschio per frequentare la scuola, vietata alle bambine. Oggi ne ha 28 e ha visto negli ultimi anni le porte di aule scolastiche e universitarie aprirsi per tutte.

Adesso verranno chiuse, elimineranno la nostra partecipazione in ogni aspetto della vita. Più di tutti a rischio sono le donne separate o abbandonate dai mariti. Verranno abusate. A Kabul ci sono donne che vanno a lavoro e si sostengono economicamente da sole: come potranno continuare a vivere, nessuno lo sa. I talebani imporranno la loro legge, basata sull’assenza di tutti i nostri diritti.

Per il conflitto sono aumentati i prezzi del cibo, ma, come avete scritto in uno dei vostri ultimi articoli, anche quelli dei burqa comprati per paura degli islamisti, ora al potere, dalle donne di Kabul.

Per tante donne come me non sarà accettabile indossarlo: io voglio vedere il mondo, voglio che il mondo mi veda.

I talebani hanno promesso amnistia a chi ha collaborato con eserciti e organizzazioni straniere.

Mi chiedo chi possa mai credere ai talebani. Sono dei bugiardi ed è chiaro lo scopo delle loro azioni, non finirà solo la nostra, di libertà, ma quella di parola e azione di tutti.

Lei continuerà a vivere a Kabul?

Non abbandonerei mai la mia patria: qui c’è la mia vita, la mia famiglia, i miei amici, la mia speranza. Ma sono una giornalista, un’attivista per i diritti delle donne e presto forse dovrò scegliere se essere uccisa o rimanere nel mio Paese. Se non troverò modo di sopravvivere, abbandonerò l’Afghanistan.

“È il più grosso fallimento della Nato”. Firmato Berlino

Di fronte al disastro afgano, Armin Laschet, il leader del partito cristiano conservatore di Angela Merkel, candidato cancelliere alle elezioni di settembre, ha dichiarato che “il ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan è la più grande debacle della Nato dalla sua creazione”. Sorvolando sul fatto che la Germania aveva deciso fin dallo scorso anno, in linea con l’agenda dell’amministrazione Trump quindi Biden, di non inviare nuovi soldati, il segretario della Cdu ha aggiunto che “si tratta di un cambiamento epocale con cui dobbiamo confrontarci”. Per Laschet il confronto non significa però un allentamento circa la concessione dei visti umanitari per i profughi del paese asiatico. La Germania da tempo sta respingendo la richiesta di asilo umanitario da parte dei tanti afgani che cercano rifugio specialmente nei land più ricchi, come il Nordreno-Vestfalia, di cui Laschet è il governatore.

Il fedelissimo di Angela Merkel, ha infatti sollecitato una collaborazione transatlantica ed europea allo scopo non di aprire le porte a chi fugge dai talebani, bensì “di sostenere i Paesi attorno all’Afghanistan, in modo che i profughi trovino protezione nelle vicinanze”, avvertendo che questa volta l’Europa deve agire tempestivamente di fronte al possibile arrivo di molti profughi. Merkel ha poi dovuto tenere una conferenza stampa, anche relativamente all’evacuazione degli afgani che avevano collaborato con le truppe tedesche in ambito Nato. “Dobbiamo cercare di portare fuori quante più persone possibile”. La cancelliera, in un sussulto di sincerità ha concluso ammettendo: “Volevamo costruire un Paese dotato di una struttura democratica, non ci siamo riusciti. Per molti che credevano nella democrazia e nella libertà, soprattutto per le donne, questi sono eventi molto amari, anche per la Germania”. A proposito di errori compiuti dai leader occidentali, il presidente Joe Biden è sotto il fuoco dei media. “Joe Biden, famoso per la sua empatia, si scopre freddo e distaccato per difendere a tutti costi, anche di fronte al collasso la decisione del ritiro”, denuncia il Washington Post commentando il fatto che Biden nella dichiarazione di sabato avesse solo brevemente espresso la propria solidarietà “ai coraggiosi uomini e donne afgane che ora sono in pericolo”. Una linea di difesa cinica che trova il conforto del sostegno popolare, stando ai sondaggi. E che riecheggia in modo distinto l’agenda “America First” di Donald Trump. “Le dichiarazioni con cui il presidente Biden si è lavato le mani sull’Afghanistan meritano di passare alla storia come uno dei momenti più vergognosi per un comandante in capo”, ha scritto il Wall Street Journal in un durissimo editoriale contro il presidente. Per il giornale conservatore il modo in cui il presidente, nella dichiarazione diffusa sabato notte da Camp David, ha ricordato che è stato Donald Trump a “lasciare i talebani nella posizione militare più forte sin dal 2001 e avere imposto la scadenza del ritiro delle forze Usa al maggio 2021”, “mostra una vera disonestà”. “È una patetica negazione della propria azione, è come se Winston Churchill, con le truppe circondate a Dunkirk, avesse detto che era stato Neville Chamberlain a trascinarlo in quel disastro e che i britannici avevano combattuto troppe guerre sul continente”.

Kabul, inferno all’aeroporto. Fughe suicide, spari e morti

Il carrello di un cargo come ultima speranza, sulla pista dell’aeroporto di Kabul. Avvinghiati con tutte le loro forze a quel componente di acciaio e gomma immaginando che sia un passaporto per la salvezza. Ma quando il Boeing C-17 prende quota il sogno si infrange, le dita mollano la presa, il corpo cade nel vuoto. 16 agosto 2021; quel “puntino” che dall’alto a piombo impatta sul selciato è l’istantanea che raffigura la disperazione di chi ha tentato con ogni mezzo di lasciare la capitale afgana in mano ai Talebani.

Il nastro si riavvolge, è l’11 settembre 2001. Le Torri Gemelle di New York ardono, colpite dai dirottatori islamici di Al Qaeda, e dagli ultimi piani saltano verso la morte certa coloro che preferiscono schiantarsi al suolo piuttosto che perire soffocati tra le fiamme. Kabul, ultimo atto. Almeno per l’Occidente. Lo scenario è quello dell’aeroporto: aerei presi d’assalto, gli elicotteri americani che volano a bassa quota per dissuadere la folla, ma quando è in pericolo la vita non ci sono mitraglie che tengono, si tenta l’impossibile. La situazione diventa insostenibile: bloccati tutti i voli civili, il Pentagono decide di sospendere le operazioni per sgombrare la pista ed evitare altre tragedie. I soldati uccidono due persone armate che si erano avvicinate troppo. Alla fine della giornata si contano 10 morti. I tedeschi rinunciano; avevano spedito due aerei da trasporto per imbarcare i connazionali, ma atterrare in quella bolgia è troppo pericoloso. In città intanto i mullah scattano la foto di rito. Nel palazzo di governo ora si siedono loro e già domenica hanno proclamato l’Emirato islamico. Lo stesso che avevano perduto venti anni fa dopo la “guerra al terrore” avviata da Washington come risposta all’attacco dell’11/9. La parola d’ordine è non indulgere in violenze. Il portavoce Zabihullah Mujahid afferma che “la situazione a Kabul è quasi sotto pieno controllo”, e che sono stati effettuati molti arresti tra coloro che si sono resi responsabili di aggressioni: “A nessuno è permesso di andare nelle case degli ex funzionari, impossessarsi dei loro mezzi o minacciarli”. Stessa atmosfera negli studi di Tolo News, l’emittente che in questi anni ha raccontato l’Afghanistan. I miliziani hanno disarmato il personale di sicurezza che dipendeva dall’ex governo ma, in apparenza, alla struttura è consentito continuare a lavorare. “Assicuriamo a tutti i diplomatici, ambasciate, consolati e operatori caritatevoli, siano essi internazionali o nazionali che non verrà creato alcun problema” afferma un altro portavoce. Ma ci sono testimonianze di tenore opposto: “I talebani hanno iniziato a perquisire casa per casa”, puntano a “esecuzioni mirate, la gente a Kabul è terrorizzata”.

Così dice al Consiglio di sicurezza dell’Onu l’ambasciatore Ghulam Isaczai: gli estremisti islamici hanno liste di persone da rastrellare. Per quel che riguarda il futuro governo, l’assetto e gli incarichi, la discussione è in corso a Doha, in Qatar. Per il vice leader politico, mullah Abdul Ghani Baradar “in questo momento affrontiamo un test perché ora siamo responsabili della sicurezza delle persone”. Chi pensa al futuro, e chi non lo ha. Il presidente Ghani è fuggito; voci lo davano in Tagikistan, ma il Paese ha smentito. Alcune fonti russe raccontano che l’ex capo di Stato è scappato via come un dittatorello dello “Stato di Bananas”: ha caricato “quattro auto piene di soldi e poi ha provato a mettere tutto dentro un elicottero, ma non c’è riuscito e una parte di quattrini è rimasta sulla pista”. La notizia è dell’agenzia Ria Novosti, che cita Nikita Ishchenko, un portavoce dell’ambasciata russa a Kabul. L’agenzia iraniana Mehr afferma che Ghani è andato in Oman e da lì raggiungerà gli Stati Uniti. Dagli Usa il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan gonfia il petto: “Riterremo responsabili i talebani se tornerà Al Qaeda”. Ma è fuori tempo massimo.

Imbecillistan

Su Kabul, l’unica cosa che stupisce è lo stupore. Possibile – si domanda il Giornalista Unico sul Giornalone Unico dall’alto del suo ventennale “atlantismo” e “riformismo” – che l’Afghanistan, dopo vent’anni di esportazione della democrazia e di lotta al terrorismo a suon di bombe, di morti e di torture, si riconsegni ai Talebani? Possibile che il popolo non dia il sangue per difendere tal Ghani, il presidente-fantoccio che gli abbiamo regalato noi e che fra l’altro se l’è già data a gambe? Possibile che l’invincibile armata mercenaria di 300 mila soldati reclutata, equipaggiata e addestrata dagl’invasori (anch’essi fuggiti) si sia squagliata come neve al sole anziché combattere per conto loro, senza neppure quei “tre mesi di resistenza” che i nostri “esperti” prevedevano fino all’altroieri dando per certo l’accordo per un “governo di transizione” gradito all’Occidente? Da vent’anni le meglio firme del bigoncio che se la tirano da “competenti”, embedded al seguito della destra berlusfascia e della “sinistra” blairiana sbavavano per la “guerra al terrorismo” senza mai azzeccarne una. Più i nostri eroi prendevano legnate moltiplicando in tutto il mondo il terrorismo che dicevano di combattere, più raccontavano che stavamo vincendo noi. E ora, tomi tomi cacchi cacchi, scoprono quello che chi ha occhi per vedere sa dal 2001: i Talebani, che 20 anni fa stavano sulle palle ai 3/4 degli afghani, tornano al potere da trionfatori, con l’aureola degli eroi della resistenza. E ancora una volta ci hanno sconfitti con le nostre armi (da noi fornite al cosiddetto “esercito regolare”, subito arresosi nelle loro mani).

Eppure il direttore di Repubblica Maurizio Molinari spiega come la guerra di Bush-Blair-Berlusconi, tre leader che a stento sapevano dov’era Kabul, fosse giusta. Cioè che dietro l’attacco alle Torri Gemelle non ci fossero le satrapie petrolifere del Golfo, in testa l’Arabia Saudita (quella del Nuovo Rinascimento renziano), ma i Talebani (che non sono neppure arabi). “Al-Zawahiri e Bin Laden – scrive Sambuca restando serio – trovarono questo santuario jihadista nell’Afghanistan dei talebani del Mullah Omar – che li ospitò, sostenne e finanziò fino a consentirgli di organizzare l’attacco agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001 – ma dopo l’intervento americano la base territoriale svanì”. Una tesi che nemmeno i suoi amici del Pentagono osano più sostenere. Quando i Talebani del mullah Omar&C. e il califfo saudita Bin Laden combattevano i sovietici, agli Usa piacevano un sacco: le armi gliele passavano loro. L’incontro fra i due capi avvenne allora: Osama foraggiò i mujaheddin contro l’Urss, d’intesa con gli Usa e con tutto l’Occidente. E poi finanziò la ricostruzione dell’Afghanistan: strade, scuole, ospedali. Perciò era amato dagli afghani e quando Omar entrò in Kabul nel ‘96 lo lasciò lì. Ma nel ‘98 Bin Laden fu sospettato per gli attentati alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania. E Bill Clinton prese a bombardare la zona di Khost, pensando che si nascondesse lì: invece morirono centinaia di civili. Partì una trattativa fra talebani e Casa Bianca: Wakij Ahmed, braccio destro del mullah, incontrò Clinton il 28.11 e il 18.12 ’98. Offrì di indicare il nascondiglio di Bin Laden in cambio della fine dei bombardamenti. Ma Clinton rifiutò. I Talebani poi rifiutarono di far costruire il mega-gasdotto dal Turkmenistan al Pakistan alla compagnia americana Unocal, in cui erano impicciati due fedelissimi del neopresidente Bush jr., Cheney e Rice, oltre al futuro Quisling afghano Karzai. Nel suo bel libro sul mullah, Massimo Fini racconta anche la trattativa sull’oppio: nel 2000 il mullah bloccò la coltivazione di papavero, facendo schizzare il prezzo dell’oppio e rovinando gli affari del narcotraffico mondiale. Meno di un anno dopo partì l’attacco e la produzione dell’oppio ricominciò.
L’attacco alle Twin Towers fu un puro pretesto. Non c’era un solo afghano fra gli attentatori né nelle cellule di Al Qaeda. Solo sauditi, egiziani, giordani, tunisini, algerini, marocchini, yemeniti. Non afghani o iracheni. Infatti furono attaccati Afghanistan e Irak (nel 2003, con la scusa delle armi di distruzione di massa, mai viste, e di un inesistente patto fra Saddam Hussein e Bin Laden, che si erano condannati a morte a vicenda: poi Osama fu ucciso in Pakistan, che nessuno si sognò d’invadere). A Kabul la guerra al terrorismo, costata 3mila miliardi $ solo agli Usa, ha riabilitato i Talebani. A Baghdad ha prodotto l’Isis. Nel febbraio 2003 Gino Strada predisse come sarebbe finita e fu accusato di filo-terrorismo. Francesco Merlo, non ancora passato a deliziare i lettori di Rep, lo additò sul Corriere come un “Signor Né Né”. Gino rispose così: “Signor Merlo, ho l’impressione che il partito della guerra del petrolio non passi un gran momento… Gli amici dell’‘amico George’ imbavagliano l’informazione in modo da renderla indistinguibile dalla propaganda – ne sa qualcosa, Signor Merlo? – eppure la gente non li ascolta. Rendono i telegiornali molto simili al Carosello, eppure le persone continuano a pensare, a porsi domande… Ho la sensazione che non filerà via liscia, che i cittadini si siano stancati di fare da telespettatori, che i padroni delle testate debbano rassegnarsi a non essere anche padroni delle teste…”. Oggi l’Afghanistan torna a vent’anni fa. Invece la stampa italiana non s’è mai mossa.

Addio Piera, “maschiaccio” fuoriclasse dal piglio ribelle

“Ho bisogno di sentirmi accettata, di avere un rifugio, di sapermi compresa”. Piera Degli Esposti lo aveva confessato nel 2014 in una lunga e appassionata intervista rilasciata al Fatto. L’attrice bolognese, malata da tempo, è morta ieri a 83 anni nell’ospedale Santo Spirito di Roma per complicazioni respiratorie. La sua vita densa di storie e tragedie (i polmoni sin da giovane si erano mostrati fragili e compromessi) l’aveva raccontata già nell’80 alla sua amica Dacia Maraini in Storia di Piera. Di aneddoti per percorrere la straordinaria carriera ce ne sono tanti. Era partita dai teatri d’avanguardia romani come il Centouno diretto all’epoca da Antonio Calenda (al fianco di Virginio Gazzolo e Gigi Proietti). Eduardo De Filippo andò a vederla in scena a Napoli in Molly cara (una riduzione teatrale del ‘79). Lei apprese della sua presenza e tenne a bada il rossore: recitò per lui uno dei brani più celebri dell’Ulisse di James Joyce. Quando se lo ritrovò in camerino e si sentì dire “issa è ‘o verbo nuovo” rimase “senza fiato” e sentì ripagati i rifiuti accumulati, uno su tutti quello dell’Accademia di arte drammatica. Classe 1938, ribelle, trasformista, sperimentatrice, testarda, capace di farsi “maschiacchio” perché come donna “non la prendevano sul serio”. Eppure così profondamente radicata al genere femminile. La Maraini l’aveva conosciuta proprio alla Casa delle donne. Il femminismo, il pugno alzato e la sua tenacia: “La mia fisicità magra e angolosa turbava i più”. E allora perché non farsi uomo? Le era riuscito così bene in A dieci minuti da Buffalo di Günter Grass, che De Chirico le disse: “Bravo, sei stato molto bravo”. Allora rispose: “Maestro, ma io sono una femmina”. E lui: “Bravo lo stesso”. È stata così brava da abbracciare tutto: teatro, cinema, televisione e letteratura. Pasolini l’aveva scelta in Medea, come una delle ancelle della Callas, “perché – le disse – non hai un volto da attrice”. Il suo era “un profilo autentico”. Una lunga carriera con Ronconi, Cobelli, Tavani, Moretti, Bellocchio e Sorrentino (con loro due ha vinto il David di Donatello rispettivamente per L’ora di religione e Il divo) e una lunga fatica per emergere. Lei cercava la felicità. Di Carmelo Bene ad esempio diceva: “Lui la felicità la bandiva da contratto”. E allora – quando riusciva – si defilava. Proprio come “una fuoriclasse della recitazione e della vita”, come l’ha ricordata Paolo Sorrentino.