“I consigli della Carrà, i perenni scherzi di Bonco e quelle ore con Proietti”

A 19 anni, dentro un supermercato, dove cogliere l’occasione della vita: “Una mattina incontro Gianni Boncompagni davanti al banco della frutta: ci salutiamo e mi invita a sostenere un provino. Spiazzata. Incosciente. Accetto”. E? “Vado a studio da lui, due brevi convenevoli, poi non mi dà neanche il tempo di assorbire l’emozione che mi piazza davanti a una telecamera e inizia a intervistarmi; (silenzio, ride) poco dopo, con una scusa, si alza e se ne va: inizia una telefonata di mezz’ora; nel frattempo passava, mi guardava, quasi si scusava e se ne riandava. Io ferma, sempre seduta, con la testa che viaggiava verso i più terribili interrogativi e senza sapere come comportarmi: ero nel panico; (prende fiato) si deve essere divertito come un pazzo, perché sicuramente aveva lasciato la telecamera accesa per poi sbirciare le mie reazioni”.

Da quel giorno Benedicta Boccoli è entrata nel pantheon della televisione da milioni di spettatori, quando bastava apparire per essere, quindi copertine di settimanali (“Per un topless è scoppiato un putiferio”), una partecipazione a Sanremo (“Non memorabile, ma il brano è diventato un cult”), l’incontro con tutti i grandi del tempo, da Raffaella Carrà a Lino Banfi e Pippo Baudo; fino a quando ha deciso di puntare prima sull’essere e poi sull’apparire e ha scoperto il teatro con Maurizio Micheli (“Ha rivoluzionato la mia vita”). Oggi è anche regista di un corto cinematografico, pluripremiato, oltre a una firma del Fatto, con la sua rubrica presente da anni ogni lunedì.

Insomma, bell’esordio.

Gianni era micidiale: una volta gli proponiamo una nostra amica e il provino consisteva nell’interpretare un brano; prima di iniziare va dal maestro e all’orecchio gli dà l’indicazione: “Suona con un’intonazione altissima…” La poverina ha stonato come una pazza, sgolata, disperata e consapevole dell’inganno, ma senza via d’uscita.

Goliardia.

Mi mandava in diretta con me totalmente inconsapevole di quello che sarebbe avvenuto: “Improvvisa”; all’epoca l’ho odiato, ma oggi ancora attingo a quell’esperienza: davanti a una telecamera non ho mai paura, so per certo che qualcosa saprò dire o fare; stessa cosa con il teatro: dopo Boncompagni è ancora tutto facilissimo.

Quindi non ha mai provato lo stress da palco.

Quasi nulla. Forse un po’ solo alle prime: mi mancava la salivazione; (pausa) mi correggo: in un caso, al Sistina, l’ansia l’ho avvertita.

Come mai?

Lo spettacolo era Can Can, Gino Landi alla regia, e il fonico era un incapace: davanti a me una platea di iene, di serpenti con la lingua pronta a colpire.

La prima è sempre dei serpenti.

E certo; comunque quella volta c’era anche il Tg1 e il fonico incapace sbagliò la sincronizzazione della mia voce con la pista dei cori e quella della musica: in sostanza era inevitabile cadere nella figuraccia.

Soluzione?

Ho toccato la “blasfemia” dello spettacolo: ho fermato tutto, spiegato il problema e chiamato il sipario.

Ci crede ai complimenti post spettacolo?

No. Paola Borboni era meravigliosa, di una cattiveria rara: andava nei camerini apriva tutte le porte degli attori e sistematicamente si complimentava, poi arrivava davanti alla toilette e ripeteva la medesima scena pure alla tazza del gabinetto.

Anche a lei è capitato di mentire?

Tantissime volte; uno deve stare attento a chi ti dice: “A me è piaciuto”, sottintende sempre “agli altri ha fatto schifo”.

Quando ha capito la sua anima artistica?

Da piccola con mia nonna ungherese: è stata l’ispirazione.

Come?

Lei appena quindicenne legge sul giornale di Budapest la possibilità di un’audizione per entrare in una compagnia e girare l’Europa: si presenta e trova altre quattromila ragazze.

Bella concorrenza.

L’audizione consisteva nel salire sul palco quattro alla volta, alzare la gonna e mostrare le cosce: la bocciano perché magra. Lei scioccata resta immobile, nel frattempo arrivano altre pretendenti, solo tre, e come un automa mostra nuovamente le gambe. Passa il provino. E diventa ballerina.

E nonna cosa le diceva della carriera?

Quando stavo a Domenica In mi scriveva delle lettere stupende, alcune corredate da consigli e preoccupazioni: “Già sei ballerina, già sei derubricata a puttana, quindi non mostrare mai il culo”; (cambia tono) quando avevo sette anni mi ballava il tip tap in cucina mentre tentava di preparare dei piatti improbabili. Ridevo. Provavo a imitarla. E lì ho deciso il mio futuro.

Con Domenica In è diventata nazional-popolare…

Già prima con Pronto chi gioca? nell’edizione condotta dalla Bonaccorti: ero ballerina di fila e apparivo sempre; (pausa) sempre Gianni mi spiegò l’importanza dell’iterazione: “Se ogni giorni ti metti un dito nel naso davanti la telecamera, e senza dire nulla, diventerai molto popolare”.

Quindi?

La sola presenza dietro la Bonaccorti è bastata per venir riconosciuta per strada.

Le piaceva?

Moltissimo. Un giorno mio padre decide: “Andiamo al luna park”. “Papà non è il caso”. “E perché”. “Non riusciremo a camminare”. “Chi ti credi di essere?”.

E invece…

Appena entriamo vengo assalita: dopo venti minuti mi giro e trovo papà e mio fratello seduti in mia attesa. (Ci pensa e sorride) A quel tempo andavo appositamente a via del Corso (Roma) e camminavo da cima a fondo per misurare il mio grado di celebrità.

Si era montata la testa?

Mai, ho sempre preferito vivere il mio lavoro con serenità; l’unico problema è che ero un po’ ossessiva: volevo imparare a tutti i costi, quindi studiavo in continuazione, ripetevo senza tregua, pure otto ore al giorno di sala prove; per questo gli altri ballerini mi detestavano.

Visto il rapporto con Boncompagni, frequentava anche la Carrà?

Avevo il camerino accanto a lei quando la domenica ero nel programma Gelato al limone: spesso mi regalava dei consigli su come interagire al telefono con il pubblico, con la famosa casalinga di Voghera: “Devi far parlare le persone, capire chi c’è dall’altra parte. Empatizza”. “Va bene”. La settimana successiva ho tenuto una signora venti minuti al telefono, mi ha raccontato tutta la sua vita, con gli autori che mi imploravano di chiudere. Il giorno successivo di nuovo Raffaella: “Forse sei andata un po’ lunga”. (Sorride)

A cosa pensa?

Mi è tornata in mente un’immagine di Gianni: in una delle sue feste, a un certo punto, ci ha mostrato un vestito da prete.

Recitava messa?

No, spesso il pomeriggio andava nei dintorni del Vaticano, mirava i negozi religiosi, entrava e chiedeva gli articoli più improbabili: “Vorrei un Cristo sulla croce ma allegro”. Una delle sue vittime preferite era un povero commesso filippino che non lo riconosceva.

Boncompagni si scandalizzava mai?

Finita Domenica In, con mia sorella andiamo a Positano, ci mettiamo in topless e finiamo sulla copertina di Novella 2000. Questa storia Gianni non l’ha sopportata: “Non devi permetterti: ti sei sputtanata”.

Le è preso un colpo?

Non ci pensavo, all’epoca il topless era normale e lui: “Siete licenziate da Domenica In”. Non avevamo rispettato lo stile di Rai1.

Capitolo Sanremo.

Ricordo Jovanotti seduto a terra con Claudio Cecchetto alle sue spalle, mentre scrive il pezzo per noi; l’ho incontrato poco tempo fa: “Ammettiamolo non era un granché”. E lui: “Non è vero, lo riscriverei”. Comunque è un cult: per vent’anni ha vinto la classifica dei brani più trash (Si intitola “Stella”).

Insomma, il Festival.

Mi sono divertita come una pazza, per me era una vacanza, peccato che siamo state eliminate subito; dietro le quinte è come un ring, con gli artisti che aspettano il proprio turno. Ricordo Anna Oxa e Fausto Leali che prima di esibirsi erano talmente terrorizzati da restare perennemente immobili e in silenzio. Guardavano il vuoto. Noi li abbiamo salutati e loro non hanno neanche risposto.

Un suo errore di questi anni.

Di non essere stata abbastanza spietata, forse avrei avuto più occasioni. Ma va bene così.

Il teatro l’ha un po’ emarginata da quel mondo?

Sono due realtà in teoria lontane e nel teatro c’è uno snobismo tremendo, ma guarda alla televisione e al cinema con una certa invidia: ci sono personaggi della tv negati per la recitazione e protagonisti di spettacoli orrendi che riescono a riempire grandi sale.

Come si trovava in tournée?

Non mi piace tantissimo: partivo a novembre e tornavo a maggio e sistematicamente sbagliavo la valigia: mi trovavo in primavera, in Sicilia, con il montone; (ride) dopo mesi di viaggi, alberghi e ristoranti all’una di notte, ingrassi, ti vengono le borse e una serie infinita di piccole rogne. Però il teatro ti insegna l’umiltà, e ricominciare sempre da capo.

Esempio.

Una sera ero sul palco del Sistina, incasso record, credo 61 milioni di lire; il giorno dopo in uno sperduto teatro del sud con al primo piano un gruppo di emigranti che cucinava piatti molto speziati. Li abbiamo invitati a vedere lo spettacolo.

Un suo maestro di teatro.

Maurizio Micheli: mi ha aperto la testa, è stato fondamentale; se non lo avessi incontrato forse mi piacerei di meno.

Come sarebbe stata?

Mi immagino come una donna imprigionata nelle logiche borghesi, chiusa in un piccolo mondo, magari con dei figli biondi e il suv parcheggiato in seconda fila; (cambia tono) Maurizio oltre ad avere una preparazione alta che ama celare, è uno dei pochi comici non geloso delle risate ottenute dai colleghi.

Dopo Micheli.

Giorgio Albertazzi. Un giorno incontro la Ferilli: “Devi cambiare genere, cerca Albertazzi”. E come? “Chiamalo”. Va bene. E da lì ho provato a contattarlo tutti i giorni, inutilmente, fino a quando prendo il treno, vado a Firenze e citofono alla stanza del suo residence.

Audace.

Mi presento, la sua assistente allucinata, piazzo un copione sul tavolo e gli parlo dello spettacolo. “Le faccio sapere”, la sua unica reazione. Solo che sparisce di nuovo, allora chiamo di nuovo la Ferilli, e lei “Devi insistere”. Un giorno l’ho cercato 10 volte. Alla fine risponde e mi pone la domanda chiave: “Chi è il produttore?”. Bluffo. “Sabrina Ferilli”. “Allora va bene”.

E lì?

Contatto Sabrina, le racconto dell’ok di Albertazzi e magicamente è lei a proporsi: “Lo produco io”.

Sul palco con il maestro.

Abbiamo provato per un mese, tutti i giorni, e ogni volta mi chiedeva di mutare l’intonazione e i tempi: “Oggi prova la parte in chiave comica”. “Oggi tragica”. “Oggi più alta”. Fino a quando è arrivato a pretendere un’interpretazione “barocca”. E mi sono ribellata: “Che è?”

Che era?

(Ride) Il giorno prima del debutto gli manifesto i miei dubbi: “Giorgio, mi sento disorientata. Come mi vuoi?”. “Non sono un regista, sono un attore: ora hai tutte le intonazioni, decidi come meglio credi”.

Bello…

Poi lo spettacolo iniziava con me nuda, coperta solo da una mutandina color carne: a Palermo, la domenica pomeriggio, le signore si alzavano e se ne andavano.

Lei era amica di Gigi Proietti.

Amica è una definizione troppo grande: di lui avevo il mito, quindi ero sempre in imbarazzo; (Cambia tono) a settembre scorso siamo stati un pomeriggio a chiacchierare, qualcosa di magico, se chiudo gli occhi sento la sua voce che mi racconta di tutto, compresa la storia del povero Toto. Io felice. Poi il mio cane sta per uccidere una delle sue galline e lui ridendo lo rincorre vestito con i pantaloni con sopra la bandiera americana e in testa un cappello di paglia.

Ora lei è regista. Cosa ha capito?

Che ho la necessità di lavorare sugli attori, sulla storia, sui dettagli; che amo immaginare un percorso e realizzarlo. Che non sento il bisogno di stare io davanti la telecamera, ma preferisco trasmettere tutto quello che ho imparato.

Chi è lei?

Una donna di 54 anni che sogna di essere una trentenne.

Arrivi e partenze: le gag tra la Pepsi, il mais e Paperino

Pisello e vagina sono come Coca e Pepsi. Io preferisco di gran lunga una delle due, ma per mio padre hanno lo stesso sapore. (Bo Burnham)

LA TRADUZIONE INTERLINGUISTICA DELLE GAG

La traduzione di una gag verbale in un’altra lingua mira all’equivalenza pragmatica (Nida, 1964) fra gag di partenza (GP) e gag di arrivo (GA); due gag sono equivalenti se condividono la marcatezza divertente, cioè se la gag di arrivo (GA) sta alla sua sociocultura come la GP sta alla propria (Qc #11). Per una traduzione interlinguistica efficace delle gag non bastano bilinguismo, biculturalismo, buona cultura generale, teoria e pratica di traduzione: è indispensabile l’esperienza della comicità e del teatro. Il palcoscenico addestra l’artista a quelle sfumature pragmatiche che decidono l’effetto divertente, per esempio il peso delle parole, della sintassi e del ritmo. La scena, inoltre, può essere usata per verificare l’efficacia delle scelte traduttive in modo empirico, valutando la reazione del pubblico alle variazioni ipotizzate. Non si tratta di una verifica scientifica, ma di una strategia induttiva che ha una sua importanza professionale, essendo il modo con cui un comico, abitualmente, saggia il proprio materiale, per decidere cosa tenere o modificare, e per ordinarne la sequenza definitiva. “Il governo paga certi agricoltori per non coltivare il mais. Wow! Dov’è il mio assegno? Che meraviglia. ‘Cosa fai per vivere?’ ‘Non coltivo il mais. Mi sveglio a mezzogiorno e mi accerto che nel campo non cresca il mais. Un tempo non coltivavo i pomodori, ma non coltivare il mais rende di più.'” (Brian Regan)

IL PROGETTO TRADUTTIVO

La coerenza della traduzione interlinguistica di un testo dipende dal progetto traduttivo, cioè dall’insieme dei parametri che rendono non arbitrarie le strategie e le tattiche del traduttore, per le quali utilizza le quattro operazioni metaboliche (sottrazione, aggiunzione, sostituzione, permutazione). I testi comici complicano la situazione, però, al punto che, non di rado, le traduzioni italiane di testi comici deludono. Il motivo è questo: quei traduttori, di solito, non sono dei comici professionisti. L’equivalente pragmatico di un testo comico dev’essere un altro testo comico, che abbia i crismi sonori, strutturali e ritmici dei testi di un comico professionista, altrimenti le battute tradotte hanno lo stesso effetto di un petardo bagnato. Come abbiamo visto nella 67 puntate precedenti, ci sono tanti aspetti da considerare per far funzionare un testo comico: le stesse servono per ricreare l’effetto comico che scateni la risata. E’ esattamente come per la poesia: le traduzioni di Saffo fatte da Quasimodo sono formidabili perché Quasimodo sapeva come creare l’effetto poetico. Le poesie in italiano di Saffo sono in realtà poesie di Quasimodo su temi di Saffo. Ai docenti di traduttologia non piace il concetto, espresso da Leopardi nell’introduzione alla sua traduzione del secondo libro dell’Eneide (1817), secondo cui “senza essere poeta non si può tradurre un vero poeta”; e contro-argomentano negando la possibilità di definire cosa sia un poeta. Eppure si può. Un poeta (un comico, un artista) è un traduttore, specializzato in atti non neutri, i quali, grazie a certe caratteristiche formali e pragmatiche, inducono nel pubblico certi effetti psicologici e cognitivi. La storia di un genere artistico compendia quelle caratteristiche e quegli effetti, che sono studiati e catalogati. “Odio quando i gruppi hip hop mettono strani effetti sonori nelle canzoni, tipo la sirena della polizia o dell’ambulanza. Ascolto il cd in auto 50 mila volte, e ogni volta ci casco.” (Doug Benson)

Strategie traduttive

I parametri delle strategie traduttive riguardano la distanza temporale e culturale fra testo di partenza (TP) e di arrivo (TA).

La distanza temporale

Se il TP appartiene a un altro periodo storico (30 anni di differenza già bastano a marcare un’epoca con specifici tratti linguistici, stilistici e culturali), il traduttore deve innanzitutto decidere se attualizzare o storicizzare il TA. L’attualizzazione elimina la distanza temporale: cerca di ricreare, fra TA e lettore, il rapporto che c’era fra il TP e il lettore di allora in quella sociocultura. La storicizzazione, invece, marca la distanza temporale: cerca di ricreare fra TA e lettore il rapporto che c’è fra il TP e il lettore di oggi in quella sociocultura. Se il TP contiene stilemi storicizzati dall’autore come espediente narrativo, ovviamente vanno mantenuti nel TA.

La distanza culturale

Ogni TP contiene elementi culturali estranei alla cultura d’arrivo. Il traduttore può scegliere fra tre strategie: omologazione, straniamento, estraniamento (Salmon, 2018). L’omologazione (in inglese domestication) è la commutazione dei termini stranieri nei termini della lingua d’arrivo (Donald Duck = Paperino). L’omologazione completa, geografica e culturale, è un adattamento: New York = Milano, Shea Stadium = San Siro; the Post = Oggi. L’adattamento tenta di rendere familiare ciò che non lo è, ma crea falsificazioni e incongruenze, come quelle che abbondano nelle traduzioni italiane dei primi tre libri di Woody Allen scritte negli anni ’70, come vedremo. Lo straniamento (defamiliarization) è la conservazione dei termini stranieri, cui s’aggiungono informazioni che esplicitino di cosa si tratti (They met at JFK = Si incontrarono all’aeroporto Kennedy). L’esplicitazione può riguardare luoghi, oggetti, concetti, gesti. I termini che indicano referenti tipici di una cultura sono detti realia. L’estraniamento (foreignization) è la conservazione dei termini stranieri senza dare informazioni che permettano di disambiguarli (“In una piekarnia, comprai dei rogaliki”). C’è chi teorizza e pratica l’estraniamento per opporsi all’invisibilità del traduttore, alla svalutazione scontata della sua attività, e alla colonizzazione culturale anglofona (Venuti, 1995). Il risultato è una traduzione polemica, “scandalosa” (Venuti, 1998), che altera l’equivalenza pragmatica del TA aggiungendovi, di fatto, informazioni assenti nel TP, dato che il TP non è affatto estraniante per i suoi lettori.

Per ricreare nel TA la marcatezza del TP, il traduttore professionista ibrida le strategie traduttive (attualizzazione, storicizzazione, omologazione e straniamento): ne usa una come principale, di solito l’attualizzazione, e dosa le altre secondo le caratteristiche del TP (Salmon, 2018). “Qual è la differenza fra mia moglie e un terrorista? Con un terrorista puoi negoziare.” (Frank Carson) (68. Continua)

Mi manda il mullah Omar: Yaqoob, il figlio di un mito

Dal 2020 a capo della commissione militare talebana, il trentenne Mohammed Yaqoob, come il padre, il defunto mullah Omar fondatore e leader del movimento jihadista, evita di esprimersi pubblicamente. In un recente messaggio audio, il secondo da quando nel 2016 è diventato il vice del nuovo leader dei talib mullah Hibatullah Akhundzada, ha esortato i miliziani a “rispettare le case e le proprietà nelle città conquistate”, a concentrarsi sulla “linea del fronte e combattere”. Un invito alla moderazione che oggi suona come un tentativo di mostrare che il movimento jihadista è cambiato, diventando moderato. Ossia un inganno per guadagnare tempo al tavolo dei negoziati di Doha e illudere gli Stati Uniti che il loro ritiro non avrebbe scatenato una riconquista brutale.

Lo sfuggente, per ragioni di sicurezza, figlio primogenito del mullah Omar, si è formato studiando presso alcune scuole religiose in Pakistan, a Karachi dove le figure di spicco del movimento risiedono e da dove mettono a punto le strategie. L’ascesa di Yaqoob tuttavia non è stata immediata dopo la morte del padre nel 2013, ammessa dai talib solo due anni dopo. Quando otto anni fa si intensificarono le voci secondo cui Omar era stato assassinato dal rivale Akhtar Mansour, Yaqoob ha negato che suo padre fosse stato ucciso, insistendo sul fatto che fosse morto per cause naturali. Ma secondo quanto rivelato da numerosi esperti, il mullah Yaqoob si rifiutò di sostenere la leadership di Mansour quando venne eletto capo dell’organizzazione nel 2015. Gli osservatori sostengono che in quel momento i talebani rischiarono di spaccarsi ma l’eliminazione di Mansour a causa di un attacco via drone statunitense ne rinsaldò le fila e diede il via all’ascesa del rampollo islamista. Molti sospettano che a dare la posizione di Mansour siano stati gli stessi talebani in collaborazione con il Pakistan. Ad aiutare Yaqoob ad arrivare in vetta alla piramide militare talebana pare abbia contribuito anche la pandemia. Il leader dei talib, il mullah Hibatullah Akhundzada, assieme ad altri membri di alto rango, è stato colpito pesantemente dal Covid tanto da essere stato dato per spacciato dai suoi stessi assistenti. A sostituirlo nella sua funzione politica e militare è stato il figlio del suo predecessore. La scelta è ricaduta su di lui per evitare nuovamente scontri fratricidi e rese dei conti tra gruppi di potere all’interno del Consiglio Supremo talebano, la shura di Quetta. Il 29 maggio 2020, l’influente comandante senior dei talebani Mualana Muhammad Ali Jan Ahmed ha dichiarato a Foreign Policy che il mullah Yaqoob è diventato il leader in carica dell’intero corpo talebano dopo che Akhundzada è stato infettato dal Covid-19, affermando: “Il nostro eroe, il figlio del nostro grande leader, il mullah Yaqoob, sta gestendo l’intera operazione talebana in assenza di Haibatullah”. Da allora sui media ufficiali dei talebani Yaqoob è stato inserito nel mawlawì, ossia il massimo livello religioso lo stesso di Hibatullah Akundzada.

L’intelligence afghana afferma che il mullah Yaqoob è stato addestrato alla guerriglia dal gruppo militante con sede in Pakistan Jaish-e Muhammad, che è stato accusato di attacchi mortali contro obiettivi indiani in Afghanistan.

“Kabul è un campo profughi che aspetta la sentenza finale”

“Kabul è paura, tristezza e panico. Qui i talebani ormai controllano tutte le strade di collegamento che conducono alla città, gli islamisti sono alle porte, a 40 miglia dal centro”. Kim Sengupta, corrispondente dell’Independent , dice che la città “è ormai un enorme campo profughi: i civili arrivano ogni giorno non solo dalle province, ma dall’ovest e dal nord. Dormono nei parchi, nelle strade, nelle moschee: i talebani hanno chiuso le vie non ai civili, ma alle scorte di cibo, e il prezzo dei beni primari è aumentato alle stelle. La crisi umanitaria è insostenibile e se ci dovesse essere un attacco alla città, in termini di perdite di vittime, la situazione sarebbe orribile”.

I report dell’intelligence Usa stimavano la caduta di Kabul prima in 90, poi 30 giorni.

Kabul è circondata, se i talebani vogliono attaccare, possono farlo. Dipende da quanta forza il governo vorrà dispiegare per fargli fronte: finora abbiamo visto furiosi combattimenti in altre città, poi improvvisamente l’esercito regolare si è dichiarato sconfitto e ha smesso di combattere.

Lei ha assistito agli scontri tra le file delle milizie del “leone di Herat”, Ismail Khan, che aveva combattuto i sovietici.

Per giorni hanno coraggiosamente resistito, hanno respinto i talebani per due chilometri, ma poi i miliziani hanno preso la città. Qui nella capitale andrà diversamente: è difesa, ma soprattutto stanno arrivando oltre tremila soldati americani e forze armate spedite da Londra per evacuare i cittadini. I talib rischieranno di attaccare Kabul con tanti militari stranieri, sapendo che ci saranno serie ripercussioni se una vita americana o britannica sarà perduta? Tra due settimane però le truppe saranno andate via.

E i talebani potranno sferrare l’attacco finale.

Sempre più voci di corridoio però riferiscono di un accordo di pace, con sei mesi di cessate il fuoco, ma il prezzo da pagare sono le dimissioni del presidente Ghani. Ci sono consultazioni a Doha, la delegazione afghana è arrivata ieri. Si parla di un governo di coalizione guidato dai talebani e membri del governo. Qui sul terreno preparano la difesa della capitale, ma in Qatar negoziano.

Lei ha passato la vita al fronte. Si aspettava questo collasso afghano con il ritiro delle truppe straniere?

No, e credo che in molti non lo prevedessero. Sembra che si stia ripetendo la storia all’epoca del ritiro sovietico: il governo di Mohammad Najibullah cadde quando Mosca smise di finanziarlo con soldi e petrolio. Ora sembra accada lo stesso con gli occidentali che se ne vanno: il vuoto che lasciano lo stanno già riempiendo altri sponsor stranieri. I talebani colloquiano con i russi da un decennio, sono alleati contro gli islamisti dell’Asia centrale. Ci sono i cinesi: il ministro degli Esteri Wang Yi ha accolto una delegazione talebana a Pechino pochi giorni fa. Hanno aiuto da pachistani e iraniani. Poi c’è Isis, Al Qaeda. Se gli Stati Uniti smettono di finanziare Kabul, ci sono altre potenze pronte a farlo.

I mullah hanno promesso amnistia e perdono a quanti hanno collaborato con eserciti stranieri.

In alcune zone si riporta l’uccisione di 800 persone, mentre in altre accade l’opposto. Ho parlato con addetti del governo di Kunduz, sono stati contattati telefonicamente dai talebani che gli hanno detto: “Abbiamo bisogno di voi, tornate a lavoro”, ma le persone non si fidano e vanno via, perché i talebani non sono un monolite, sono divisi in fazioni.

Ci sarà una lotta interna per il potere tra queste correnti?

Possiamo solo guardare al passato: quando i russi se ne andarono, ci furono anni di guerra civile tra quei mujahideen che avevano combattuto Mosca insieme. Diverse bande venivano finanziate da altrettante potenze straniere. Tutti gli ingredienti perché ciò avvenga ci sono di nuovo.

L’Italia fa partire l’evacuazione. Così Biden spiazza pure gli alleati

L’Italia ha avviato le procedure dell’Ambasciata italiana a Kabul. Rimarrà un presidio in aeroporto, dove si stanno trasferendo la maggior parte delle altre ambasciate presenti in Afghanistan. Dopo giornate di contatti continui tra Palazzo Chigi, ministero degli Esteri e ministero della Difesa, la decisione è presa.

Il pericolo di aggressioni ai danni dei nostri connazionali è concreto, la situazione è fuori controllo. Ma ciò non toglie che non si tratta di un dettaglio per la politica estera italiana: tradizionalmente il nostro paese ha sempre lasciato aperte le sedi diplomatiche, chiudendole per ultimo.

Tecnicamente, un presidio rimane. Ma in questo caso, come filtra anche da Palazzo Chigi, tutto è stato organizzato con gli Stati Uniti, tradizionalmente un bersaglio molto maggiore dell’Italia. Che infatti hanno annunciato l’evacuazione della loro Ambasciata. Come, sulla scia, molti paesi europei. Anche in questo caso, l’Italia si accoda alle decisioni degli Usa.

Le scelte di Joe Biden confermano anche nella crisi afghana una linea di fondo: quanto accade nel quadrante mediterraneo per lui ricade sull’Europa. Con buona pace dei rapporti pur privilegiatissimi tra l’Italia di Mario Draghi e gli States.

Intanto, vista l’evoluzione del quadro, è prevista un’audizione in Parlamento dei ministri di Esteri e Difesa, Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini. Avverrà nei prossimi giorni, comunque entro la fine del mese di agosto e prima della ripresa dei lavori parlamentari.

Gli Usa al trasloco forzato: in sottofondo c’è la Sharia

Un gruppo di mujaheddin si concede un attimo di riposo per scrollarsi di dosso il peso dei lanciarazzi Rpg e degli Ak vecchio modello ma sempre affidabili. Alcuni guardano verso l’orizzonte e sorridono. Kabul è vicina e Allah, pensano – in questo momento nessuno può dargli torto – è con loro perché, come recita il Corano “quelli che seguono la guida del loro Signore, quelli sono coloro che prospereranno…”. Gli altri, i traditori, i miscredenti, ora faranno i conti con gli “studenti” delle madrasse che hanno atteso questo momento, pazienti, per anni. La Cia aveva previsto tre mesi di resistenza per Kabul, ma è l’ennesima valutazione errata di Washington.

L’amministrazione Biden si sta preparando alla caduta della capitale e al ritiro di ogni presenza diplomatica in Afghanistan, scrive il sito Axios, secondo cui si tratta di uno “straordinario capovolgimento delle previsioni”. I talebani sono appena a 11 chilometri a sud di Kabul, come ha confermato Hoda Ahmadi, rappresentante provinciale del governo, al network Al Jazeera. Più della metà dei 34 capoluoghi sono stati presi dai miliziani, ieri sono cadute anche Sherana, Asadabad, Gardez, Mazar-i Sharif; il tempo stringe e agli americani non resta che fare in fretta. I 3.000 soldati sono dislocati nella zona dell’aeroporto per permettere l’evacuazione del personale, lo stesso stanno facendo i 600 delle truppe speciali inglesi, e i canadesi. I tedeschi si preparano a partire verso l’Afghanistan per lo stesso motivo. La Divisione forze rapide (Dsk) potrebbe essere pronta in pochi giorni, ci sono più di 100 tedeschi da recuperare tra diplomatici, staff dell’ambasciata a Kabul ed esperti di altri ministeri e organizzazioni. Che fine farà il presidente Ghani? Lui, dice, di andare via non ci pensa, anche se è la sua testa – per il momento solo in modo figurativo, ma non si sa mai – che vogliono i mullah. A Doha in tre giorni di colloqui i capi talebani lo hanno ribadito: Ghani si deve dimettere. Lui invece ha parlato alla nazione: “Non lascerò che la guerra imposta al popolo causi la morte di altre persone innocenti, la scomparsa delle conquiste degli ultimi 20 anni, la distruzione di strutture pubbliche e la continuazione dell’instabilità”. Il presidente nel suo messaggio rilanciato da Tolo News ha ringraziato “le forze afghane per il loro coraggio nel difendere il Paese” e ha promesso una nuova mobilitazione. Ma se l’abito fa il monaco, fra i suoi generali imbolsiti e dagli occhi sonnolenti e i volti affilati e famelici dei capi dei mujaheddin, non c’è dubbio su chi uscirà vincitore. Forse in cuor suo lo sa anche il presidente, tanto che dopo le frasi di incitamento alla battaglia poi ammette di aver “avviato consultazioni che procedono rapidamente” per trovare “una soluzione politica che garantisca pace e stabilità al popolo afghano”. Insomma, Kabul non è Gerusalemme e lui non è un crociato che pensa al sacrificio estremo. Intanto Ghani viene smentito, il “suo” Afghanistan è già cambiato. Da Kandahar – dove secondo testimonianze della Bbc c’è stato un raid aereo Usa che ha colpito i combattenti islamici – risuona in tutto il Paese Voice of Sharia, nuova trasmissione monotematica diramata dalla stazione presa assieme al resto della città. I miliziani hanno tenuto a far sapere che tutti i dipendenti sono presenti e sono stati istruiti per divulgare notizie, analisi politiche e recitazioni del Corano. I talebani non controllavano una stazione radio di una grande città da quando governavano il paese tra il 1996 e il 2001. Da Herat arrivano testimonianze di donne che lavoravano all’università: i talebani le hanno rispedite a casa. Lo stesso è accaduto ad alcune impiegate di uffici, i miliziani le hanno avvisate che saranno sostituite da personale maschile.

Loach espulso dal Labour: “C’è una caccia alle streghe”

Il regista britannico Ken Loach, 85 anni, è stato espulso dal Partito laburista di cui era una delle figure di riferimento. Loach è uno dei maggiori, più coerenti e impegnati cineasti britannici, autore di film crudi e realistici sulle condizioni dei poveri e degli oppressi della società britannica e vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2006. Lo ha annunciato con un messaggio rovente su Twitter: “Lo stato maggiore laburista ha infine deciso che non sono adatto a far parte del loro partito, poiché non rinnegherò quelli che sono stati già espulsi. Bene. Sono orgoglioso di restare leale ai buoni amici e compagni vittime della purga. Non c’è dubbio che sia in corso una caccia alle streghe. Starmer e la sua cricca non guideranno mai un partito del popolo. Noi siamo tanti, loro sono pochi. Solidarietà”. Loach, che si è sempre definito socialista, aveva lasciato volontariamente il partito negli Anni 90 in polemica con il corso centrista di Tony Blair, per poi rientrare nel Labour quando ne era diventato segretario l’amico Jeremy Corbyn, poi spodestato dall’attuale segretario Keir Starmer e sospeso dal partito, dopo 55 anni di iscrizione, per aver liquidato come esagerazioni strumentalizzate politicamente e mediaticamente alcuni episodi di antisemitismo interno avvenuti durante la sua segreteria. Loach è stato colpito da una misura simile per aver difeso Corbyn. Il Labour non ha rilasciato commenti, ma la lettura politica è che, con l’espulsione clamorosa del regista, la leadership voglia mandare un segnale di guerra totale all’ala più a sinistra del partito, orfana di Corbyn. Lo scopo? Avere mani libere nell’abbracciare una posizione più centrista e più vicina alla strategia politica proprio di Tony Blair, che starebbe valutando un ritorno alla politica attiva e nel frattempo non cessa di dare la linea a Starmer. Il disegno è riconquistare gli ex elettori delle regioni più povere del paese, quelle raccontate proprio da Loach, storicamente laburiste ma passate ai Conservatori alle ultime elezioni.

Haiti, terremoto di magnitudo 7,2: decine di morti sotto gli edifici crollati

Un terremoto di magnitudo 7,2 della scala Richter ha colpito Haiti, uno dei Paesi più poveri al mondo, che già nel 2010 venne devastato da un sisma meno forte ma che provocò la morte di oltre 220 mila persone. La lunga scossa, seguita da un’altra di magnitudo 5,2, è stata percepita in tutto il Paese provocando gravi danni: interi edifici in macerie, con le persone riversate nelle strade in preda al panico. La Protezione civile ha registrato 29 vittime (ma si teme possano essere molte di più), tra cui diversi bambini. Il Servizio geologico degli Stati Uniti subito dopo la scossa aveva emesso un’allerta tsunami, poi rientrata. Il premier Ariel Henry ha annunciato che il governo mobiliterà tutte le risorse a disposizione per assistere la popolazione colpita, mentre il presidente Usa Joe Biden ha annunciato aiuti immediati al Paese, ormai in ginocchio tra crisi politica, povertà, violenza e pandemia. Haiti si trova già in una profondissima crisi politica, dopo l’uccisione, il 7 luglio scorso, del presidente Juvenal Moise, assassinato nella sua casa da un commando di uomini armati.

Anche da giovane Strada preferiva la realtà della vita all’ideologia

Gino Strada è stato il mio primo direttore. Non c’era ancora Emergency, Gino era un giovane militante del Movimento studentesco di Milano. Erano anni in cui la voglia di cambiare il mondo si nutriva di robuste dosi di ideologia e i progetti di cambiamento radicale (allora si diceva “rivoluzione”) potevano essere detti solo con le parole delle Grandi Narrazioni del Novecento. Il Movimento studentesco milanese, divenuto Movimento lavoratori per il socialismo, aveva inventato un giornale che si chiamava Fronte popolare, che per un breve periodo fu diretto proprio da Gino Strada. Gino era il meno ideologico dei direttori che potessero capitare in quegli anni in quel contesto. La “linea politica” era sacra, nei turbinosi anni Settanta, ma Gino era saldamente ancorato alla realtà, mentre molti erano “fedeli alla linea” più che alla realtà, e anche contro la realtà. “La sanità al servizio delle masse popolari” per lui non restò uno slogan. Aveva deciso di essere un medico preparato e di alta professionalità; e di diventare un chirurgo di guerra. Lasciò il giornale per fare il suo mestiere, per farlo bene. Fece importanti esperienze all’estero. E poi s’inventò un’organizzazione che è anche una comunità di persone, Emergency. E la strutturò, con l’aiuto di Teresa Sarti, come una rete d’eccellenza, per salvare vite nei Paesi in guerra, ma poi per offrire un servizio anche nella Milano in cui crescono le disuguaglianze. Altro che buonismo: utopia contro la guerra, successo e concretezza manageriale. Sì, davvero (come ha scritto Gad Lerner) Gino Strada è “il Sessantotto migliore”, “la Milano migliore”.

L’addio di Messi non vale Iniesta

Lionel Messi ha lasciato il Barcellona per andare a giocare al Paris Saint-Germain. Chi si è allontanato dal mondo del calcio, giustamente perché è ormai diventato un groviglio economico e tecnologico insopportabile, ha criticato Messi perché avrebbe lasciato il Barça, dove era dall’età di 14 anni, per brama di denaro.

Le cose non stanno così. Messi ha lasciato il Barça, dove ha percorso tutta la sua carriera e dove avrebbe voluto rimanere fino all’ultimo giorno, per una ragione che con il calcio giocato non ha nulla a che vedere e che si chiama “fair play economico”. Secondo il quale in nome del pareggio di bilancio la società catalana non avrebbe potuto permettersi Messi. La politica del Barcellona in questi anni è stata disastrosa. Ha acquistato per cifre enormi, totalmente fuori mercato, mezzi campioni tipo Neymar (poi fortunatamente riciclato proprio al Paris Saint-Germain dov’è altrettanto inutile come lo era al Barça). Ma anche quando era al massimo non riuscì ad accaparrarsi nell’unico ruolo in cui non era forte, quello di terzino destro, un giocatore all’altezza, dovendo così adattare in quella posizione Sergi Roberto che è un centrocampista. Sarebbe bastato un onesto Danilo D’Ambrosio, terzino dell’Inter. La stessa squadra nerazzurra è incappata nel fair play economico e ha dovuto cedere Lukaku al Chelsea. Lukaku era un peso per la nazionale belga perché accentrava troppo su di sé il gioco in una squadra che con Kevin De Bruyne e gli altri che gli giravano attorno aveva bisogno di un respiro diverso, nell’Inter era invece importante avendo trovato un’ottima intesa con Lautaro Martinez. Ma la proprietà cinese della società nerazzurra ha deciso che Lukaku era di troppo.

Spiace per Lionel Messi un fine carriera così mesto (a 34 anni non credo che nella squadra francese, di cui è proprietario un emiro del Qatar, zeppa di mezzi campioni sopravvalutati e boriosi, tant’è che spendendo una valanga di soldi il Paris non è riuscito mai a vincere la Champions, Messi possa combinare molto).

Lionel Messi non è solo un grandissimo campione è, secondo la definizione di Fabio Capello, il mister di tutti i mister, la cui parola nel calcio fa Cassazione, un “genio” insieme a Maradona e Pelé. Meritava quindi un “addio alle armi” diverso.

Ma se andiamo a ben guardare Messi è stato grande soprattutto col Barcellona, avendo alle spalle Iniesta e Xavi. Col Barcellona ha vinto tutto, con l’Argentina pur potendo contare su un altro grande campione, Angel Di Maria, “El Fideo”, si è dovuto accontentare di un secondo posto ai Campionati del mondo del 2014.

Del tutto diversa, anche se in parallelo, è la storia di Andrés Iniesta, “don Andrés”. Iniesta è stato un campione in campo e fuori. Quando era all’apice della carriera e tutti i più grandi club europei lo volevano, uscendo da un incontro con i dirigenti del Barça per il rinnovo del suo contratto disse: “Non devo essere molto bravo a trattare perché gli ho detto che, comunque vadano le cose, voglio finire la mia carriera al Barça”. Iniesta è un tipo molto strano, modesto, che ha l’aspetto di un impiegatuccio anche un poco sofferente. I giocatori del Barça quando volevano prendersi in giro dicevano: “Sei pallido come Iniesta”. Ma in campo senza mai darsi arie da fenomeno lo era. Era chiamato “l’illusionista” perché quando aveva la palla fra i piedi la faceva sparire. Ma non era questa la sua dote principale, è che era capace di trovare nel groviglio dei difensori avversari quei trenta centimetri di spazio che mettevano il compagno solo davanti alla porta.

Ho assistito alla partita d’addio di Iniesta il 20 maggio 2018 contro il Villareal. Mi trovavo per caso a Barcellona, il Camp Nou era zeppo all’inverosimile, non perché la partita col Villareal contasse qualcosa ma perché era l’ultima partita di don Andrés. Ho trovato due posti per miracolo grazie a mio figlio che nella città catalana è di casa. L’allenatore del Barça, Valverde, fece uscire Iniesta a quindici minuti dalla fine per concedergli la standing ovation che durò per tutto il tempo in cui Iniesta, lentamente, lasciò il campo di gioco. Tempo che l’arbitro non pensò nemmeno di dover recuperare perché non era la partita che contava ma l’addio di Iniesta. La folla cantava “infinit Iniesta”. Fu un momento di grande commozione. Le telecamere dello stadio inquadravano Iniesta seduto in panchina. Era pallido come al solito, più del solito. Si capiva chiaramente che stava pensando ai 22 anni in cui era stato al Barça dove era entrato, come Messi, a 14 anni.

A proposito di addii mi piace ricordare quello di Ruud van Nistelrooy al Madrid. “Tutti i calciatori del Real, comprese le riserve, erano schierati a centrocampo in tenuta da gioco. Van Nistelrooy entrò in campo in abiti civili, si diresse verso quelli che erano diventati i suoi ex compagni. Tutti lo salutarono. Anche Cristiano Ronaldo, dimenticati gli antichi dissapori, alzò i pollici come per dire ‘good luck’. Ruud uscì senza tenere discorsi, non era il tipo. Ma alla fine della partita il pubblico del Bernabeu lo richiamò a gran voce. Non era ancora sazio. Voleva tributargli un’ultima standing ovation”.

Passi d’addio per grandi campioni che lasciano in modo definitivo la carriera sono stati organizzati molte volte (mi pare per Baggio e Del Piero, fra gli altri) ma non era questo il caso di Van Nistelrooy che passava all’Amburgo e quindi a una potenziale avversaria in Champions. Oggi Van Nistelrooy, la mia passione di tutte le passioni dopo il Mullah Omar, è piuttosto dimenticato. Ma non si può dimenticare che Ruud è quarto in Champions per media fra partite giocate e gol segnati con lo 0,74, dopo Messi, Ronaldo e Robert Lewandowski che lo ha appena raggiunto. Ed è in Champions che si misura il vero valore di un attaccante. Motivo per cui tipi come Higuain, “il Pipita”, ma è solo un esempio, molto sopravvalutati hanno chiuso in modo assai modesto la loro carriera e la Juventus se n’è volentieri liberata. Mi piacerebbe anche che Capello si ricordasse ogni tanto di Van Nistelrooy che gli ha fatto vincere un campionato spagnolo col peggior Madrid di tutti i tempi, dove c’erano appena tre grandi giocatori, Ruud appunto, Sergio Ramos e il portiere Iker Casillas, non a caso soprannominato “san Iker”. Come centrocampista c’era Gago, figuriamoci. Oggi il centravanti che più somiglia a Van Nistelrooy è Robert Lewandowski, non solo perché è un grande cannoniere, 553 reti in 822 partite, media 0,67, ma perché, come Ruud, apre il gioco agli altri e ha la generosità di servire il compagno meglio piazzato (in antiquo Cristiano Ronaldo) anche quando potrebbe tirar lui.

Comunque, tornando all’addio di Van Nistelrooy, ci piace ricordare ciò che scrisse il corrispondente da Madrid della Gazzetta dello Sport Filippo Maria Ricci: “Gli ultras hanno inneggiato a lungo Van Nistelrooy che aveva salutato il Bernabeu prima dell’inizio e che torna fuori alla fine per rispondere alla chiamata dei tifosi. Per i nuovi eroi ci sarà tempo”.