Mail box

 

Strada, il medico che “riparava”gli uomini

Negli ospedali di Emergency nessuno chiedeva a un ferito da che parte era o se aveva i soldi per un intervento al cuore. Entrava in sala operatoria e veniva “riparato” con la massima cura. Strada ha fatto della chirurgia di emergenza la sua risposta contro le guerre. Con il suo libro Pappagalli verdi, ci ha portato nell’orrore delle amputazioni infantili e nei crimini di guerra verso gli ultimi che non hanno voce, ma solo una bara fatta di un cencio insanguinato e poche pietre per tomba. Strada denunciava, polemizzava, curava. Se c’è un paradiso non lo vedranno mai, perché scapperà all’inferno a dare una mano. Come ha sempre fatto.

Massimo Marnetto

 

Caso Durigon: Draghi smetta di tergiversare

È mai possibile che Draghi, a fronte di un movimento di opinione così forte, prenda ancora tempo per cacciare Durigon? Crediamo ancora che salirà al Quirinale? Se ciò avvenisse l’Italia diventerebbe la repubblica delle banane, ammesso non lo sia già.

Alberto Alvino

 

L’Italia è in fiamme e il governo è in ferie

Abbiamo un governo, un esercito regolare, un’aviazione con piloti addestrati, telefoni, satelliti che potrebbero svelare il minimo incendio, generali e colonnelli lautamente pagati e non si interviene in aiuto alla popolazione colpita dalle fiamme. Basterebbe ridurre di una unità gli F35 per avere una flotta capace di aiutare la gente che muore. Ma il governo dei migliori va in vacanza.

Biagio Stante

 

Il ritorno della Fornero sarebbe un serio errore

Sono stato il primo licenziato per “giusta causa” (vertenza vinta su tutti i gradi di giudizio), dopo l’avvento della sciagurata riforma concepita dalla Fornero. Rabbrividisco quando leggo che il capo di questi migliori si vuole avvalere ancora delle sue prestazioni. Alla luce di ciò mi sorge spontanea una domanda; ma secondo lei è il nostro paese che non è mai in grado di emanciparsi dai propri errori (vedi il migliore Durigon) o sono io che non vedo il meglio in queste azioni?

Catalano Piero

 

DIRITTO DI REPLICA

Mai come in queste settimane è facile vaccinarsi in Veneto, anche il giorno stesso della richiesta, grazie all’ampia disponibilità di vaccini e all’accesso libero garantito dalla Regione del Veneto per i giovani di età compresa tra i 12 ed i 25 anni e per tutti gli over 60. E nemmeno la lettera da voi pubblicata il 13 agosto (“Il Veneto di Zaia: Macché eccellenza. Per il vaccino servono mesi di attesa”), nonostante il titolo, può minimamente mettere in discussione l’efficacia della campagna vaccinale. Il percorso complesso raccontato dalla vostra lettrice, infatti, nasce dalla richiesta di una visita specialistica per la collaboratrice familiare che accudisce un parente stretto, con il fine di rassicurare alla stessa il rispetto della somministrazione del vaccino, già prenotato. A fronte del primo sollecito, l’Azienda sanitaria ha contattato la vostra lettrice e, stando a quanto riferito, ha appurato che l’interessata non presentava fattori di rischio. Fissata comunque la visita specialistica, anticipata poi alla fine di agosto, l’Azienda sanitaria non ha mai potuto parlare direttamente con la collaboratrice. Se fosse stato loro consentito, i sanitari avrebbero spiegato alla diretta interessata che ogni valutazione viene fatta durante la visita prevaccinale, che consente di evidenziare eventuali controindicazioni; e l’avrebbe ulteriormente rassicurata confermando che le era destinato un vaccino a mRNA, privo di profili di rischio tra quelli probabilmente paventati dalla collaboratrice. È evidente che l’iter descritto è stato condizionato dalle difficoltà di comunicazione con la collaboratrice e ha ben poco a che fare con la campagna vaccinale in corso in Veneto, dove a oggi 5.910.825 cittadini hanno già ricevuto almeno una dose e 2.844.186 sono i cicli vaccinali completati.

Ussl 3 Serenissima

 

Con riferimento all’articolo pubblicato il 14 agosto in relazione al Notiziario del Cnel sulla situazione della contrattazione collettiva scaduta, osserviamo come il report sia redatto sulla base del numero dei contratti collettivi censiti – includendo per il comparto del credito anche quelli ulteriori rispetto ai circa 280.000 destinatari del contratto collettivo nazionale di lavoro Abi, ad esempio autorità e altri – e non tenga conto del numero dei dipendenti di riferimento. ABI insieme a FABI, First-Cisl, Fisac-Cgil, Uilca e Unisin ha sottoscritto il 19 dicembre 2019 il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro dei bancari tuttora vigente e relativo a larghissima parte dei dipendenti delle banche. Si tratta di un rinnovo contrattuale che ha confermato la positività delle relazioni sindacali nel nostro settore e la capacità delle Parti sociali di costruire importanti e innovativi strumenti per consentire a lavoratori e imprese di affrontare i cambiamenti di un mercato altamente competitivo.

Giovanni Sabatini, Direttore Generale Abi

 

Grazie per la precisazione, sebbene né l’articolo né il citato bollettino del Cnel contengano alcun riferimento al contratto dell’Abi.

Rob. Rot.

Il centrodestra e l’elettorato nero

 

“Io non distinguo le persone tra fascisti e antifascisti, contro questo o contro quell’altro. Le persone non le distinguo se non per uomo, donna e persona per bene”.

Luca Bernardo, candidato del centrodestra a sindaco di Milano

 

Anche se il suo exploit oratorio lascerebbe pensare il contrario, Claudio Durigon non è un cretino. Anzi, la sua diciamo così biografia politica sembra raccontare l’ascesa di un furbacchione senza arte né parte, piuttosto abile nel salire sul carro giusto, quello di Matteo Salvini, e al momento giusto. Perciò, il suo clamoroso autogol in quel di Latina si può spiegare soltanto come un consapevole e ben meditato appello ai voti fascisti dell’Agro pontino, che però gli è riuscito malissimo. Forse perché eccitato dai clap clap dei cripto camerati leghisti, nella foga apologetica per il fratello tangentista di Benito Mussolini (e relativo parco comunale) non ha ben calcolato che andava a sbattere contro due simboli universali come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sia come sia, una volta che Durigon toglierà il disturbo, volente o nolente, dal governo dei Migliori, la corsa del centrodestra all’elettorato nero in vista delle Amministrative di ottobre proseguirà con immutato slancio. Per accaparrarsi quel margine elettorale che può essere decisivo a Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna (più 1.162 comuni, 12 milioni di elettori in tutto), Lega, Fratelli d’Italia, e anche quei gigli immacolati di Forza Italia non faranno certo gli schizzinosi per raccattare, come capita, il consenso di vecchi nostalgici e giovani squadristi, perché non si butta niente. Non sarà facile convincere i mazzieri di CasaPound e Forza Nuova, già inquadrati e buoni tuttalpiù per fare numero nei cortei No-Vax di Borghi e di governo. Mentre gli estimatori del quando c’era lui caro lei sono ancora numerosi e nel segreto dell’urna possono fare la differenza. In fondo, i Durigon appartengono a quella fulgida tradizione che faceva dire al Silvio Berlusconi elettorale che il Duce aveva fatto anche cose buone e che il confino per gli oppositori del regime era una villeggiatura. Indotto a una comprensibile prudenza dopo i fatti di Latina, Luca Bernardo (gemello meneghino, anche come stazza, del Michetti di via dell’Impero, ma dove li trovano?) non “distingue” tra fascisti e antifascisti, e chi doveva capire ha capito. Diciamolo, con l’aria che tira, il leghista di Colleferro che vorrebbe lo stesso intitolare ad Adolf Hitler il Piazzale dei Partigiani, non è forse un nazista che sbaglia?

Antonio Padellaro

La rimonta dell’afa e dell’anticiclone: Nord Italia ostaggio

In Italia – L’ennesima rimonta dell’anticiclone nordafricano è stata molto intensa ed estesa anche al Nord Italia, che finora ne era rimasto al margine. Ha destato scalpore la temperatura di 48,8 °C registrata mercoledì 11 agosto nell’entroterra di Siracusa da una stazione del Servizio informativo agrometeorologico siciliano, professionale e correttamente collocata a 1,5 metri di altezza sul suolo erboso come da normativa internazionale. Se l’accurata verifica dell’Organizzazione meteorologica mondiale ne confermerà l’affidabilità, il valore sarà considerato il nuovo record storico di caldo per l’Italia e l’Europa intera, aggiungendosi così alla lista di incalzanti estremi di calore recenti. Polvere sahariana nell’aria, e temperature inconsuete anche al Centro-Nord, 40,4 °C a Firenze e 39 °C a quota 250 m nella valle del Reno (Bologna). Quanto meno, al prezzo di un gran caldo afoso, dopo un mese e mezzo di nubifragi il Settentrione ha vissuto una pausa tranquilla: gli ultimi episodi si sono verificati con alcuni dissesti tra sera e notte di sabato 7 agosto in Valle Cannobina (Verbania) e in Val Ridanna (Bolzano), mentre un’insolita acqua alta estiva (+98 cm) allagava una piccola parte di Venezia. Incendi dalla Sicilia all’Aspromonte (qui 4 vittime) al Salento, e su fino all’Aquila e alla Riserva naturale di Monte Catillo presso Tivoli, d’altronde l’osservatorio siccità del Cnr-Istituto per la bioeconomia definisce “estrema” la carenza idrica del trimestre maggio–luglio dalla Romagna al Meridione. Il Cnr-Isac indica inoltre che luglio 2021 è stato l’ottavo più caldo dal 1800 con 1,2 °C sopra media a scala nazionale, e terzo al Sud (+1,6 °C) dove le alte pressioni hanno insistito di più.

Nel mondo – La soffocante canicola mediterranea ha preso le mosse dal Nord Africa: la Tunisia ha stabilito un nuovo primato nazionale di ben 50,3 °C, e l’Algeria settentrionale lotta contro imponenti roghi dolosi responsabili di oltre 70 vittime. Rara temperatura di 47 °C in Andalusia, ancora in fiamme pure la Grecia, dove secondo il servizio di osservazione satellitare della Terra Eu-Copernicus dal 29 luglio al 12 agosto sono bruciati centomila ettari di territorio, e i fumi degli incendi ormai fuori controllo in Siberia hanno viaggiato per 3000 km dalla Yakuzia al Polo Nord come forse mai era accaduto prima, afferma la Nasa. Sfiorati i 51 °C negli Emirati Arabi, nuova ondata di calore anche nell’Ovest americano, dove il “Dixie Fire” è divenuto il più vasto incendio della storia californiana (2188 km2 bruciati, area pari alla provincia di Padova), e la Noaa – agenzia meteorologica Usa – segnala che luglio 2021 è stato il più caldo nella serie dal 1880 nel mondo (anomalia +0,93 °C) superando seppure di un soffio il record del 2016. Invece il Giappone si è rinfrescato dopo la calura straordinaria delle scorse settimane, e alluvioni hanno colpito l’isola di Kyushu per piogge record fino a 724 mm in 48 ore. La tempesta tropicale “Fred” si avvicina all’Alabama, in Turchia sono almeno 27 i morti per le alluvioni nella regione del Mar Nero, in contrasto con gli incendi sulla costa mediterranea, ma come sempre è lungo l’elenco dei Paesi colpiti da inondazioni, Nigeria, Sudan, Etiopia, India, Cina, Nebraska. Il sesto rapporto Ipcc sulle basi fisiche dei cambiamenti climatici, definiti almeno in parte irreversibili, accentua le preoccupazioni delle edizioni precedenti e avverte che questi estremi di caldo, pioggia, siccità e tempeste, già oggi intensificati dalle attività umane, non potranno che aumentare ulteriormente in futuro. Ogni grado sottratto al terribile scenario a elevate emissioni da +5 °C a fine secolo ci darà qualche speranza in più di poterci adattare, ma il tempo degli indugi deve terminare, subito.

 

Spirito Maria ed Elisabetta: l’incontro è un momento divino da celebrare

Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa. Così l’evangelista Luca ci presenta la donna che darà alla luce Gesù (Lc 1,39-56). In due verbi c’è il ritratto di una persona che ha muscoli pronti: al cammino come al parto. Maria non indugia in preparativi, anche se il cammino da fare sarebbe stato di circa quattro giorni, e lei sarebbe rimasta fuori casa per tre mesi, come sapremo dopo. Dove va? A casa della cugina Elisabetta, moglie di Zaccaria. Entra, saluta e subito ecco la reazione immediata: Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. La cugina è incinta. Attende il figlio che sarà Giovanni il Battista. Appena il feto sente la voce di Maria, sussulta. Lo sguardo di Luca ci ha guidati dal particolare del letto nella stanza di Maria al grandangolo arioso delle montagne, alla visione endoscopica del grembo di Elisabetta. E tutto questo con un ritmo incalzante. Maria si alza, il bambino sussulta. È a questo punto che Elisabetta, rivolta a Maria, alzò la voce con un grande grido: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!”. Maria aveva salutato, Elisabetta ha esclamato. C’è qui un gioco di immagini e suoni, di corrispondenze amplificate. Elisabetta si rende conto che sta accadendo qualcosa, e che la visita della cugina non è una semplice espressione di cortesia, ma un momento divino. E si chiede: a che cosa devo tutto questo? Non c’è risposta. Non c’è spiegazione: solo lode, amplificazione del sentimento, intuizione profetica. Ed è tutta nelle parole di Maria che proclama il suo inno, il Magnificat: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore”. Il feto aveva sussultato, lo spirito di Maria ora esulta, “salta” di gioia. Siamo disabituati alla lode. Che cosa ci fa alzare e correre? Che cosa ci fa esclamare, sussultare, esaltare, esultare, magnificare? Qual è l’esperienza che ci permette di essere noi stessi (e non allucinati, drogati) allargando il cuore, gli occhi, la mente, l’anima? Il verbo «magnificare» significa anche zoomare su un oggetto molto piccolo e farlo vedere grande. Questo significa rompere l’appiattimento, la proporzione fatta sistema di vita e di osservazione. L’animo di Maria e di Elisabetta “magnificano” il loro semplice incontro tra parenti e vedono che dentro c’è Dio. Lo vedono fisicamente nel loro corpo di donne. Lo sguardo di Luca durante l’incontro era puntato sui gesti di Elisabetta e Maria. L’ottica era focalizzata inesorabilmente sui loro sguardi, i loro gesti che facevano eco tra loro. Ma appena Maria parla, ecco che si apre una visione lunga e larga. L’esperienza spirituale e personale diventa percezione profetica della storia, teologia politica, appello per un mondo diverso.

Maria esalta il Signore che, chiamandola a essere madre di Dio, fa della sua semplice esperienza di donna irrilevante e periferica uno snodo che chiama in causa tutte le generazioni e di generazione in generazione. Lo sguardo veramente spirituale non è mai astratto, dunque, ma storico, concreto: si gioca nel tempo. Esso riconosce la potenza del braccio di Dio che ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni, ha rimandato i ricchi a mani vuote. E, d’altra parte, ha innalzato gli umili e ha ricolmato di beni gli affamati. A causa di due maternità, il mondo salta in un terremoto che capovolge e scombussola il sistema, l’ordine costituito tra chi sta in alto e chi in basso. Non appena si coglie che il dito di Dio sfiora l’anima, si capisce pure come Dio stenda il braccio sulla storia del mondo.

 

Immigrazione, c’è l’obolo pagato a Salvini e Meloni

Il giorno 10 agosto la Repubblica italiana ha offerto due nuovi oboli alla chiesa leghista (una sorta di protestantesimo anomalo che rinnega continuamente se stesso da secessionista a italiano ai sacri confini, alla militanza patriottica) a ogni stagione.

Il primo dono, di cui non si conoscono motivazioni al non ministro Salvini, è che la brigata Garibaldi ha ricevuto con rigorosi onori militari, il detto Salvini in visita apparentemente ufficiale (per conto di chi?) alla caserma Ferrari Orsi di Caserta. Il titolo che il corpo militare onorato dalla visita ha dato all’evento risulta essere “la difesa della patria è un sacro dovere del cittadino”, introducendo arbitrariamente un argomento politico di parte (il violento attacco di Salvini alla ministra dell’Interno Lamorgese) in luogo del saluto militare.

Ma saluto militare a chi? Si sa che la patria di Salvini prima è stata la Lombardia, poi le quote latte. Segue una raccolta non rigorosamente legale di capitali e, contemporaneamente, un fermo e conveniente rapporto con i russi. Infine una adeguata dotazione militare ai libici purché sparassero su profughi del mare e pescatori italiani. Durante tutto questo tempo, che sono circa venti anni di vita italiana continuamente alterata dall’attivismo incontrastato dalla ricerca di avventura di un solo partito, e prima ancora che dalla costola di Salvini venisse generata una destra sempre più ansiosa di potere, la costola femminile della Meloni, il danno recato all’Italia è stato grave, continuo e vivo. Continua anche nel presente. L’uomo ricevuto con gli onori militari dalla brigata Garibaldi di Caserta aveva nel frattempo dato vita a uno squilibrato rapporto con gli uomini di Putin, a una frantumazione della Libia, sostenuta da armi e danaro italiano, a un ingresso delle forze armate turche nella zona ritenuta fino a quel momento “sotto l’influenza italiana”, l’arrivo e lo stabilirsi dei mercenari russi (la brigata Wagner) e il libero allargamento del potere militare del generale libico Haftar e delle sue forze armate tutt’altro che filo-italiane, ma libere di tentare avventure spericolate in terra mentre Salvini si dedicava senza interruzione alle sue avventure di mare. In quel modo ha recato un danno gravissimo all’immagine, alla politica e al controllo di un mare che l’Europa aveva sempre considerato affidato all’Italia. Dichiarare Lampedusa “sacro confine della patria” al punto da fermare decine di barche cariche di profughi in mare, è un fatto che danneggerebbe la reputazione di qualunque Paese. Chi ha buona memoria ricorda che la banda Salvini rovesciava continuamente sull’Italia cifre false. C’erano sempre, dichiarate dalle agenzie e ripetute da ogni forma di notizie, 500 mila emigranti, maschi, giovani, sani e in cerca di lavoro italiano, già in attesa sulle coste libiche. La cifra falsa e inventata era sempre la stessa e annunciava una invasione che non è mai avvenuta. Controprova: ora che un ministro psichicamente normale sta solo cercando degli espedienti di organizzazione e rallentamento ma non respinge in mare, ora che, secondo Salvini, i confini sono assediati e l’Italia è in pericolo, l’aumento della immigrazione e dei tentativi di immigrazione appare ridicolmente piccolo rispetto a tutte le informazioni che ci hanno dato e continuano a darci.

Sarebbe ingiusto pensare che Salvini e la “patriota” Meloni hanno fatto tutto da soli. Ci voleva un paese succube che lasciasse credere alla storia della invasioni e dei confini, della patria e dell’assedio come se l’Italia (che è tuttora in cerca disperata di raccoglitori di pomodori e li fa morire di lavoro sui campi) fosse una terra strapiena, pur mancando decine di migliaia di nuovi nati. Ricorderete che alle spalle di questa storia ci sono altre storie, diffuse e fatte credere nel silenzio degli altri partiti dalla Salvini-Meloni come se fossero vere, secondo cui c’è un grande business alle spalle dell’emigrazione, favorita da certa grande finanza, che comprende la sostituzione dei popoli bianchi con i popoli neri (trionfo dei neri) o la schiavitù come nuovo rapporto di lavoro (trionfo dei bianchi). Tutte le verità alternative di origine sovranista americana stanno scomparendo ovunque con la fine di Trump (vedi la rivolta dei polacchi psichicamente normali contro i polacchi della religiosità folle e padronale del presidente Kaczynski). E la questione della legge Zan in Italia è la prova di quanto a lungo il resto del Paese, della sua cultura, dei suoi partiti politici, dei suoi personaggi rappresentativi, siano rimasti intimiditi dall’uomo che fermava le navi quando voleva e come voleva. E ancora adesso i giudici non si fidano a condannare l’ovvio comportamento criminale del tenere in ostaggio in mare, in onore di una legge assurda, donne e bambini.

 

Il re Stefano, la 17enne Brigitta e il processo con i chicchi di uva

Dai racconti apocrifi di Ferenc Kazinczy. Quando re Stefano raggiunse la maggior età, nessuna ragazza ungherese in età da marito avrebbe osato negarglisi, benché non fosse un adone; e lui ne approfittava per portarsi a letto tutte quelle che gli piacevano. La più bella di tutte, però, continuava a respingere le sue avances. Si chiamava Brigitta, aveva 17 anni, due occhi vellutati, e chiome accese come le nuvole estive al tramonto.

Gli ostinati dinieghi della ragazza, che era la figlia della sua nutrice, lo offendevano, ma volle capirne il perché. Seppe così che la ragazza era innamorata di un ardimentoso cavaliere dagli occhi glauchi, un certo Gabor. La notizia gli diede un senso di stizza, poiché non gli piaceva essere secondo a nessuno. Dunque nominò Gabor comandante e lo spedì in Dalmazia a fare la guerra ai veneziani. Contava, con l’assenza di quello, di fiaccare la resistenza della giovane, ma Brigitta si dimostrò ostinata, finché, all’ennesimo rifiuto, il re perse la pazienza: “Ragazza insolente! Subirai la giustizia di Bacco!” Questa giustizia era un processo inventato da lui. Poneva in un calice d’argento due chicchi d’uva, uno bianco e uno nero. Poi l’imputato, bendato, doveva estrarne uno: se l’acino era bianco, l’imputato era salvo; se nero, veniva gettato in pasto ai leoni che erano tenuti in gabbia dietro al castello per le occorrenze festose. L’annuncio del processo angosciò Brigitta: i chicchi d’uva, le diceva ogni volta sua madre, obbediscono alla volontà del re. E siccome le era nota la passione di re Stefano per i giochi di prestigio, Brigitta tremava di paura, poiché non era stupida.

Il giorno del processo, di fronte alla corte e a un pubblico ammutolito, il re sollevò il calice d’argento, esibì fra le dita i due chicchi, bianco e nero, e poi, con un movimento rapido, li gettò nella coppa. Brigitta, che teneva lo sguardo fisso sulla mano del re, si accorse di un fugace lampo scuro su entrambi gli acini che finivano nel calice. A questo punto, in cuor suo esultò: avrebbe sconfitto il re. Fu bendata. “Estrai un chicco!”, le ordinò il monarca. Mentre tutti trattenevano il respiro, Brigitta infilò una mano nel calice. Poi, con un movimento rapido, prese un acino e se lo mise in bocca, ingoiandolo. Nessuno dei nobili presenti, benché prossimi alla scena, fu in grado di discernere il colore di quel chicco d’uva. Quindi Brigitta, con calma, si tolse la benda dagli occhi: “Dal sapore che aveva, il chicco che ho ingoiato era di certo bianco. Guardate nel calice,” disse, indicando la coppa con un cenno del mento armonioso “e vedrete che il chicco restante è nero.” Re Stefano ammirò l’astuzia della ragazza; ma non sapeva perdere, e si prese all’istante la rivincita. Si avvicinò al calice con precise intenzioni nocive, e con un rapido movimento della mano estrasse il chicco rimasto. Era bianco! Brigitta sgranò gli occhi al prodigio funesto, e un istante dopo si inginocchiava ai piedi del re, chiedendo pietà. Qualche mese più tardi, mentre la sua effimera speranza nel ritorno dell’amato si stava già diluendo nel torbido presentimento che fosse morto in battaglia, Brigitta fu abbracciata dalla madre in lacrime: un araldo aveva recato la notizia peggiore. Passò il tempo, questo farmaco per tutti i mali. Un bel pomeriggio, nel giardino del castello, Brigitta finalmente ricambiava con un sorriso pudico il saluto del re, e il lussurioso re Stefano provò la medesima soddisfazione che inonda il cuore di un missionario, dicono, quando versa l’acqua lustrale sul capo del selvaggio che ha convertito alla propria fede.

 

Conte stanziò 4,6 miliardi, Draghi rinvia l’attuazione

Il fondo di perequazione territoriale previsto dalla legge Calderoli sul federalismo fiscale del 2009, che avrebbe dovuto colmare il gap tra la capacità fiscale e il fabbisogno degli enti locali consentendo ogni anno ai comuni del Sud e delle Isole di ricevere contributi per centinaia di milioni, non è mai stato attuato. Come rivelato da Report

il 4 novembre 2019, nell’audizione alla Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale della direttrice generale del dipartimento delle Finanze del Mef, Fabrizia Lapecorella, il 30 aprile 2015 l’allora presidente Giancarlo Giorgetti (Lega Nord) chiese quale sarebbe l’effetto di una perequazione piena e suggerì che “i dati probabilmente sarebbero scioccanti, magari ce li fate avere in modo riservato o facciamo una seduta segreta”. Di quelle cifre non s’è mai saputo più nulla.

Per risolvere l’impasse decennale del recupero del deficit infrastrutturale tra le diverse aree del Paese, il governo Conte 2 nella legge di bilancio per il 2021 ha riformato la legge Calderoli del 2009 e istituito finalmente il “Fondo perequativo infrastrutturale”, con una dotazione complessiva di 4,6 miliardi per gli anni dal 2022 al 2033. Per distribuirli, il presidente del Consiglio con uno o più Dpcm avrebbe dovuto “entro e non oltre il 30 giugno 2021” effettuare una ricognizione delle dotazioni infrastrutturali esistenti e definire gli standard di riferimento per la perequazione, i servizi minimi, le infrastrutture necessarie a colmare il deficit di servizi e i criteri di priorità per l’assegnazione dei finanziamenti. Ma il governo Draghi, con il decreto Governance e semplificazioni, convertito il 23 luglio, ha rinviato al prossimo 31 dicembre il termine per la ricognizione delle dotazioni infrastrutturali. La mappa manca, ma il Pnrr corre e i fondi Ue stanno già arrivando.

Il ministro Giovannini e il “cambiamento culturale” su viadotti e tunnel spiegato bene

C’è stato un cambiamento di cultura. Da quando il viadotto sul Polcevera è venuto giù, ormai tre anni fa, la cultura è proprio cambiata e giustamente il ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini ce lo ha ricordato ieri sia a mezzo Stampa

che di persona nel capoluogo ligure: “Il dramma del ponte di Genova ha determinato un cambiamento culturale a favore della sicurezza”. Bene, ne abbiamo piacere, tanto più che – ci ricorda il nostro – “in Italia ci sono molti altri ponti, viadotti, gallerie e opere infrastrutturali da mettere in sicurezza, manutenere, in alcuni casi da smantellare e ricostruire” e quindi “la nuova stagione di investimenti che si sta aprendo grazie al Next generation Eu sarà diretta anche all’adeguamento del patrimonio infrastrutturale esistente per metterlo in sicurezza”.

Certo, qualche incertezza c’è ancora. Come dite? I concessionari che non vogliono perdere profitti? Ma quando mai. Colpa dei partiti: “Sappiamo che talvolta per qualcuno avviare una nuova opera è elettoralmente più interessante che investire in sicurezza”. Dev’essere per combattere questo malcostume che Giovannini ha riavviato la giostra ridicola del Ponte sullo Stretto di Messina che non si farà mai: perché non cede a tentazioni elettoralistiche o clientelari. E per la stessa battaglia ideale ha messo 10 miliardi sulla largamente inutile alta velocità Salerno-Reggio Calabria, che del Ponte caro a Berlusconi e Renzi è il pre-requisito: mica come quei cialtroni dei partiti che “non sempre privilegiano operazioni di manutenzione rispetto a un’opera nuova”, la quale “elettoralmente paga di più”.

La cultura è cambiata, si sente pure nell’aria: è tanto vero che dei 25,4 miliardi del Pnrr dedicati alle infrastrutture ben nessuno è dedicato alla manutenzione stradale, affidata invece a due riforme a costo zero. Stanziamento che sale alla sibaritica cifra di 1,4 miliardi contando il “monitoraggio dinamico” di ponti, viadotti e tunnel inserito nel fondone da 30 miliardi di extra-deficit (e comunque il monitoraggio non è manutenzione, né ricostruzione).

Ovviamente, dato il cambiamento culturale avvenuto, confidiamo negli investimenti privati, tipo quelli di Autostrade quando passerà a Cdp e sarà approvato il nuovo Piano finanziario: “L’accordo in discussione prevede un impegno della società ad investire notevoli risorse sia a favore della collettività, sia per investimenti sul futuro”, dice Giovannini, che solo per brevità si dimentica di dire che a pagarli saranno i pedaggi, che secondo quel Piano aumenteranno in media dell’1,75% l’anno, il doppio di quanto stimato dall’Autorità dei Trasporti.

Progetto da rifare, ma Fontana vuole pagarlo 25 milioni

Avent’anni dalla sua ideazione, l’autostrada Cremona-Mantova non solo ancora non c’è, non solo è già costata 25 milioni per il mero progetto – come Il Fatto ha svelato il 13 giugno –, ma ora si scopre che il suo ipotetico tracciato è inconciliabile con il raddoppio della parallela linea ferroviaria. È l’ennesimo pasticciaccio brutto sul fronte delle infrastrutture autostradali – dopo l’inutile e insensata BreBeMi e la mai finita Pedemontana – per la Regione a presidenza forzista (Formigoni) e poi leghista (Maroni e Fontana). Un piano fortemente voluto lungo quattro lustri che non ha ancora prodotto nulla ma che rischia ora, paradossalmente, di creare problemi a un’area già in difficoltà sul fronte dei collegamenti con Milano.

Ad ammettere l’impasse è la stessa direzione generale Infrastrutture, trasporti e mobilità della giunta regionale, in una risposta inviata il 4 agosto alle interrogazioni presentate dai consiglieri regionali M5S Marco Degli Angeli e Andrea Fiasconaro. “La Regione Lombardia ammette che da inizio 2020 è nota una situazione di inconciliabilità tra il progetto autostradale e quello di raddoppio ferroviario. Il coordinamento tra i due progetti è risultato critico per i nuovi spazi dovuti al raddoppio e, in particolare, per quanto riguarda la progettazione delle opere che assicurano la continuità viabilistica di attraversamento nord-sud rispetto al corridoio infrastrutturale est-ovest della ferrovia e dell’autostrada”, spiega Degli Angeli. “La Regione ha chiesto ormai da più di un anno ai soggetti cui competono la progettazione dell’autostrada e del raddoppio della linea ferroviaria di coordinarsi ulteriormente. I tavoli tecnici di coordinamento dell’intervento ferroviario con il progetto dell’autostrada sono ancora in corso di svolgimento. Si corrono due rischi: il primo è che l’autostrada fantasma col buco di 8 km in mezzo blocchi il raddoppio ferroviario, il secondo è che Regione Lombardia il 31 ottobre compri con soldi pubblici per la modica cifra di 25 milioni un progetto irrealizzabile e già da modificare ancor prima di iniziare l’opera”, conclude Degli Angeli.

A inizio giugno il presidente lombardo Attilio Fontana aveva annunciato l’intenzione della Regione di revocare l’affidamento dell’autostrada alla concessionaria Stradivaria “compensandola per le spese sostenute”. La società mista, incaricata il 3 dicembre 2007 con un contratto di 46 anni, dovrebbe completare l’opera nel 2026 ma sinora non ha realizzato un solo metro. Le stime sul traffico sono state presentate solo a luglio 2019, il progetto con il piano finanziario appena il 28 agosto scorso. Il presidente della concessionaria Carlo Vezzini ha affermato che i costi sostenuti sono pari a 25 milioni. La Cremona-Mantova è giudicata “prioritaria” da Aria, l’Azienda regionale per l’innovazione.

Così la giunta lombarda, che ha già stanziato 109,8 milioni, potrebbe accollarsi tutti gli oneri di realizzazione stimati in 883 milioni per un tracciato di 66,3 chilometri nel quale però c’è un “buco” centrale di 8 km, quelli che dovrebbero essere realizzati da Tibre, il collegamento Tirreno-Brennero tra Parma e Verona che però il ministero dei Trasporti non ha inserito nell’elenco delle opere fondamentali. Nel bilancio 2019 di Stradivaria, a fronte di 20 milioni di capitale e di perdite per 3,5 milioni, le immobilizzazioni valevano 15,2 milioni, quattro dei quali per i terreni e il “campo base” dell’autostrada e altri 9,5 milioni di valutazione del progetto e dei piani finanziari dell’opera. Nell’azionariato di Stradivaria, insieme ad Autostrade Centro Padane (che ha oltre il 59%) e a CoopSette, finita in liquidazione nell’ottobre 2015, con il 12% c’è Profacta, spa del gruppo bresciano Faustini attivo nelle cave, discariche e costruzioni stradali. Se otterranno una “buonuscita” di 25 milioni, i soci dell’ex concessionaria potrebbero uscire dall’opera senza danni.

Infrastrutture il maxiscippo “federalista” contro il Sud

Il ritardo infrastrutturale del Mezzogiorno, con gli effetti di freno alla crescita economica e di desertificazione sociale che ne sono derivati, non è frutto del caso: è stato scientemente perseguito a livello politico e amministrativo attraverso una serie di decisioni, ma soprattutto di omissioni, che negli anni hanno impoverito il Sud e le Isole. Non a caso, nell’ultimo decennio la media pro-capite degli investimenti nelle infrastrutture per ogni abitante del Mezzogiorno è stata di circa 780 euro, il 17% in meno degli oltre 940 ricevuti invece dai residenti delle regioni centrosettentrionali. Per ridurre il divario, al Sud e alle Isole dovrebbe ora essere destinata una quota di spesa almeno pari al 45% del totale nazionale e “in ogni caso sensibilmente più elevata rispetto alla quota della popolazione residente”: invece, nell’ultimo decennio al Sud è andato appena il 30%, una fetta addirittura inferiore al 34,4% che avrebbe dovuto essere calcolato in base alla popolazione residente sul totale di quella nazionale.

A metterlo nero su bianco non è qualche nostalgico neoborbonico e nemmeno un consesso di statalisti fautori della rifondazione della Cassa per il Mezziogiono, ma un gruppo di ricercatori della Banca d’Italia. I dati sono contenuti nello studio I divari infrastrutturali in Italia: una misurazione caso per caso, pubblicato a luglio dagli economisti Mauro Bucci, Elena Gennari, Giorgio Ivaldi, Giovanna Messina e Luca Moller che lavorano per Palazzo Koch. Gli specialisti hanno misurato la dotazione delle infrastrutture nelle diverse regioni: dalle reti viarie e ferroviarie a quelle di telecomunicazione, dalla qualità dei servizi energetico e idrico alle caratteristiche di servizi pubblici essenziali come la sanità e la gestione dei rifiuti. Ne emerge una fotografia aggiornata che documenta gli enormi squilibri nella dotazione delle principali infrastrutture economiche e sociali tra le diverse aree del Paese.

Per i trasporti stradali e ferroviari, in termini di velocità e di accesso ai principali scali aeroportuali e portuali per il traffico merci le aree migliori sono Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Toscana. Sud e e Isole sono in svantaggio tranne che per i porti passeggeri della fascia tirrenica. Sul fronte delle tlc, la dicotomia Nord-Sud è meno marcata se si guarda alla disponibilità di rete mobile ad alta velocità, ma l’accesso effettivo riflette i divari economici e di cultura digitale delle famiglie.

Il gap infrastrutturale è invece molto profondo nella qualità della distribuzione di elettricità e acqua. Al Sud e nelle Isole la frequenza delle interruzioni senza preavviso del servizio elettrico è più che doppia rispetto al Centronord e oltre un terzo degli utenti riceve un servizio inferiore agli standard nazionali, mentre gli acquedotti disperdono acqua 1,4 volte in più rispetto al resto d’Italia. Sul fronte sanitario, chi vive in una regione meridionale o insulare ha il 40% di posti letto ospedalieri in meno rispetto alle regioni centrosettentrionali. La differenza si accentua se si guarda alle specializzazioni e alla qualità delle cure. Al Sud poi mancano impianti di trattamento dei rifiuti, il che aumenta i costi per l’utenza e ostacola l’adozione di tariffe puntuali che inducano le famiglie a privilegiare la raccolta differenziata.

La prima causa di questa situazione, secondo lo studio di Banca d’Italia, sta nei tagli alla spesa pubblica per gli investimenti, che fra il 2009 e il 2019 in Italia sono stati molto pesanti, con una riduzione di quasi un terzo, dal 4,6 al 2,9% del Pil. Si è così allargata non solo la forbice quali-quantitativa tra l’Italia e gli altri Stati europei, ma soprattutto tra le diverse macroregioni del Paese. Il divario tra Centronord e Mezzogiorno però è legato non solo alla diversa quota delle risorse distribuite sul territorio, ma anche alla differente capacità delle amministrazioni locali di selezionare i progetti e di concludere i lavori nei tempi previsti. Un fronte sul quale gli elettori del Sud e delle Isole non possono che recitare il mea culpa per aver continuato a eleggere dirigenti locali inefficienti. L’effetto finale di questi fenomeni è l’accentuazione dei divari, con un’Italia sempre più a due velocità non solo per quanto riguarda autostrade e ferrovie.

Se le infrastrutture sono collegate soprattutto alla finanza pubblica, che regola l’entità degli investimenti, non vanno dimenticate però le decisioni politiche che hanno disegnato la distribuzione territoriale della spesa pubblica. Mentre la componente ordinaria degli investimenti infrastrutturali da parte dello Stato è rappresentata da programmi ai quali, in base alla legge, accedono tutte le aree del Paese in proporzione alla popolazione residente, la componente aggiuntiva è invece costituita da programmi di spesa speciali volti a “promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale”, prevalentemente indirizzati alle regioni del Sud e alle Isole. Il tutto è frutto della legge delega sul federalismo fiscale numero 42 del 5 maggio 2009, proposta da Roberto Calderoli, senatore della Lega Nord e ministro per la Semplificazione normativa nel governo Berlusconi IV. La legge prevedeva interventi di riequilibrio della dotazione infrastrutturale dei territori e forniva un elenco delle reti da misurare (stradali, autostradali, ferroviarie, portuali e aeroportuali, sanitarie, assistenziali, scolastiche, fognarie, idriche, elettriche, del gas), oltre ai criteri locali. Anche il decreto del 26 novembre 2010 ha stabilito che per valutare l’effettivo fabbisogno si confrontassero i livelli di servizio delle singole infrastrutture in base a standard nazionali e comunitari. Come ricorda Banca d’Italia, però, la “perequazione infrastrutturale” non è mai stata realizzata.

Intanto venerdì 13 agosto all’Italia è arrivata la prima tranche del Recovery Fund: 24,9 miliardi, il 13% del totale, che prefigurano una nuova stagione di investimenti infrastrutturali e dovranno essere spesi in base al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Per poterli mettere a frutto, ammonisce lo studio di Bankitalia, prima di distribuirli andrebbero mappate le infrastrutture presenti area per area, in modo da indirizzare le risorse dove davvero servono. Lo prevedeva la riforma Calderoli del 2009, lo ha ribadito la legge di bilancio 2021 varata dal governo Conte. Ma Draghi ha rinviato i termini. Mentre l’analisi ancora manca, gli appetiti delle lobbies e della criminalità organizzata sono invece già al lavoro e puntano sul ponte sullo Stretto e sull’alta velocità ferroviaria Salerno – Reggio Calabria. Non ciò che davvero servirebbe ai cittadini del Mezzogiorno, ma maxi-opere da esibire come bandiere e dalle quali lucrare mega-appalti.