Roma, il centrodestra pensa di sostenere Palamara alle suppletive. E il Pd va in crisi

Nessuno vuole correre per le elezioni suppletive alla Camera nel collegio di Primavalle, a Roma, tra gli ex giallorosa: i Cinque Stelle non hanno un candidato e il Pd brancola nel buio. Venerdì sera, alla vigilia di Ferragosto, è partito un giro di telefonate tra i vertici del Nazareno e Goffredo Bettini e alcuni dirigenti e parlamentari romani per cercare di capire come risolvere la questione. Un ennesimo rompicapo: il seggio lasciato libero da Emanuela Del Re, eletta nelle liste dei Cinque Stelle, ora rappresentante permanente dell’Ue per il Sahel, è considerato perdente già in partenza. Dunque, i dem non pensano di bruciare un big, ma di trovare una figura di secondo piano. Questo sempre che le cose non si complichino ulteriormente. E la complicazione ha già un nome e un cognome: il candidato Luca Palamara, ex presidente dell’Anm, radiato dalla magistratura, dopo che le sue chat hanno rivelato il sistema di relazioni, oltre che di favori e scambi con il mondo politico-istituzionale, da lui gestito. Perché in questi giorni sono in corso sondaggi e contatti da parte di esponenti del sottobosco del mondo politico del centrodestra che fanno capire che Palamara sarà con ogni probabilità appoggiato dal centrodestra stesso. Creando a quel punto un’altra battaglia elettorale con una temperatura politica piuttosto accesa. A quel punto, il Pd potrebbe essere costretto a cercare un nome più riconoscibile. Per ora, la decisione è stata rimandata a dopo Ferragosto. Ma il tempo stringe: il nome va presentato a fine mese, le liste ai primi di settembre.

Sempre per restare in tema di elezioni, in particolare quella per il sindaco della Capitale, c’è un grande lavorio nel Pd. L’assunto di partenza è che, essendo Roberto Gualtieri fermo al 24% circa, bisogna costruirgli attorno una serie di liste d’appoggio, che coprano da destra a sinistra. Dunque, la lista della Sinistra civica ecologista sponsorizzata da Roberto Speranza, Massimiliano Smeriglio, Nicola Fratoianni, Loredana De Petris, che può arrivare a un 4% posizionandosi come seconda forza della coalizione. Slogan di riferimento a Roma “Facciamo la Rivoluzione di ottobre”, composta soprattutto da attivisti sociali provenienti da esperienze di autogestione e vertenze (tra cui, la Strada, Spartaco, Spin time). Poi la civica moderata, che può portare dal 2 al 3%, incardinata sugli ex uomini di Alfio Marchini. E ancora Demos, Sant’Egidio e i Verdi che possono prendere tra l’1 e il 2%. Poi, Roma Futura di Caudo e i Socialisti (dallo 0,3 all’1%). Liste che rischiano anche di non eleggere nessuno (serve l’1,6% per un consigliere comunale e quasi il 3% per uno municipale) ma che servono a portare voti e consensi per mandare Gualtieri al ballottaggio.

In corsa c’è il giallorosa massone: i 5Stelle si ritirano a Benevento

“Decisione sofferta”, così Giuseppe Conte spiega la sua scelta di resettare il M5s di Benevento e di non schierare la lista pentastellata alle amministrative, comunicata nella tarda serata di venerdì a rotative chiuse. Motivata da un nodo mai sciolto: l’appartenenza massone del candidato sindaco giallorosa, Luigi Diego Perifano, il frutto proibito di un’intesa tra i Cinque Stelle e il Pd elaborata con la regia del parlamentare Umberto Del Basso De Caro (massone anche lui) in chiave anti Clemente Mastella, sindaco in cerca di riconferma dopo cinque anni, per l’appunto, alla Mastella. Ovvero trascorsi saltando di nuovo da una parte all’altra, stavolta dal centrodestra al centrosinistra, fino all’appoggio a De Luca in Regione e a Manfredi a Napoli.

Perifano dal 2014 al 2016 è stato Maestro Venerabile della Loggia “Federico Torre” e ora è in sonno. Anche i sassi sanno che il Movimento non candida massoni e li espelle appena scopre di averne in seno uno – nel 2018 il parlamentare Catello Vitiello fu rinnegato prima ancora di essere eletto – e anche se il nuovo Statuto fresco di approvazione non fa cenno alla questione massoneria, il regolamento M5S per le amministrative 2021 all’articolo 1 comma F precisa che possono candidarsi nel Movimento quelli che “non siano iscritti ad associazioni massoniche”.

Un prerequisito. Sul punto Mastella aveva combattuto una campagna a suon di dichiarazioni del tipo: “I M5S mi odiano a tal punto da violare i loro principi e candidare contro di me un massone”. Proprio la presenza di Mastella rende la competizione altamente simbolica e la decisione di Conte non è passata inosservata. “Il Movimento 5 Stelle non parteciperà alle elezioni comunali di Benevento – il virgolettato del leader M5S – una decisione sicuramente sofferta, nata a seguito di un confronto costante e diretto con gli eletti del territorio e gli attivisti”. Chiosa: “I territori devono essere l’anima del nuovo Movimento. Ma per far questo è necessario dare loro gli strumenti utili a definire i processi politici e ad elaborare percorsi virtuosi nella definizione della nostra rappresentanza nelle Istituzioni”.

Appallottolata e gettata nel cestino un’altra nota risalente al 17 luglio, con la quale sei esponenti M5S di Benevento – i deputati Pasquale Maglione e Angela Ianaro, le senatrici Sabina Ricciardi e Danila De Lucia e i consiglieri comunali Marianna Farese e Annamaria Mollica – avevano dato il via libera alla candidatura di Perifano condivisa col Pd. Cosa è cambiato rispetto ad allora? Conte solo ad agosto è stato investito ufficialmente del ruolo di leader politico del Movimento. Ha letto il dossier Benevento ed è intervenuto.

Perifano e i dem sono rimasti sorpresi e spiazzati. Alle prime avvisaglie, tre giorni fa, il candidato sindaco aveva scritto questo: “Leggo di dubbi e incertezze del M5S, che sinceramente non so se legate alla decisione di schierare non dappertutto il simbolo o piuttosto al riemergere di questioni che ritenevo abbondantemente chiarite e superate. Che devo dire? Vado avanti come un treno per liberare la città dalla cappa di potere che la opprime. Questo impegno, evidentemente, non dipende da una sigla o da una lista. Sono certo che centinaia di elettori dei Cinque Stelle la pensano come me”.

Conte, la missione in salita nel Sud che si sente tradito

Il Messaggero la definisce “la svolta nordista”. Il Mattino parla di “un abbaglio di Conte che fa male al Sud”. Il Corriere del Mezzogiorno racconta l’indignazione con un virgolettato: “Sconcertanti le parole di Conte”. Non che i giornali siano tradizionalmente affettuosi con il Movimento, ma i titoli di ieri riguardo alla lettera di Giuseppe Conte al Corriere – con richiesta di una “legge speciale per Milano” e promesse di una maggiore attenzione “al tessuto imprenditoriale del Nord” – restituiscono bene l’idea di un Sud amareggiato, talvolta infuriato nei confronti di quel M5S che nel 2018 fece cappotto.

L’enorme granaio di voti è in gran parte scomparso e molti attivisti sono fuggiti. Conte, che da settembre ha promesso di girare l’Italia, avrà il compito di dipanare faide irrisolte da anni e di restituire credibilità al Movimento agli occhi dei delusi.

Campania. I Meet Up di Napoli e dintorni sono la storia del M5S. Intorno a Luigi Di Maio e Roberto Fico si è formata una classe dirigente sparsa tra Parlamento, ministeri e aziende pubbliche. Ma i due leader rappresentano anche due diverse concezioni del Movimento: Di Maio pare ormai governista a prescindere da quale sia il governo, Fico si augurava da tempo una virata definitiva verso sinistra. Ognuno qui ha i suoi fedelissimi. Valeria Ciarambino e Luigi Iovino, per esempio, seguono convinti il ministro degli Esteri; Luigi Gallo e Gilda Sportiello, vecchia guardia del M5S, sono vicini al presidente della Camera. E sui territori i riferimenti non mancano: Michele Cammarano e Angelo Tofalo a Salerno, Carlo Sibilia ad Avellino insieme a Michele Gubitosa, fedelissimo di Conte. Il problema sono semmai i malumori per l’indirizzo politico, rimasti a lungo latenti e poi esplosi col sostegno al governo Draghi e al dem Gaetano Manfredi alle amministrative di Napoli.

Negli ultimi giorni la consigliera regionale Maria Muscarà e il portavoce napoletano Matteo Brambilla se ne sono andati dal M5S, chiedendo “l’esorcista” per Fico e accusando Conte di aver reso il M5S “un partito del Nord”. Posizioni che un certo seguito ce l’hanno, non foss’altro perché fanno rete con quelle espresse a Roma da Francesca De Vito e in Puglia da altri “dissidenti”.

Puglia. Una settimana fa 29 consiglieri comunali pugliesi del M5S hanno scritto una lettera a Conte per protestare contro la reintroduzione del tfr – con tanto di pagamento degli arretrati – per gli eletti in Regione. Una norma votata anche dal Movimento e che a tanti è sembrata un tradimento. Il fatto che i consiglieri abbiano scritto all’ex premier testimonia uno scollamento che ha radici profonde, nella terra costretta a ingoiare il Sì al Tap e l’eterna crisi dell’Ilva. E poi ci sono state le Regionali 2020, quando parecchi grillini hanno votato Michele Emiliano per scongiurare la vittoria di Raffaele Fitto, scontrandosi con la “ortodossa” Antonella Laricchia. Le perdite nel M5S non si contano più. In Parlamento ha lasciato Barbara Lezzi, a Bruxelles Rosa D’amato. Più che altrove, qui il M5S ha pagato gli anni di governo e le mediazioni al ribasso con gli alleati.

Sicilia. In Sicilia il Movimento 5 Stelle resiste. Il problema è capire quale sia il M5S. Forse quello di Giancarlo Cancelleri, viceministro ai Trasporti favorevole al Ponte sullo Stretto e all’accordo con Pd e Forza Italia alle regionali. O forse quello di Dino Giarrusso, eurodeputato tra i più televisivi e con un buon seguito nella base. Senza dimenticare Lucia Azzolina, la più vicina a Conte. Le cronache raccontano ogni settimana uno scontro interno. L’anno scorso 5 deputati regionali hanno mollato il gruppo nello stesso giorno, rimpiangendo “il Movimento delle origini”. Ignazio Corrao, uno degli eurodeputati più noti, se ne è andato coi Verdi. Quando Cancelleri ha annunciato l’apertura a dem e FI, gli eletti lo hanno massacrato. Tra i più in vista c’è Luigi Sunseri, classe 1985, militante dal 2010. Lui e gli altri 5S siciliani però sono usciti a pezzi dalla fine del Conte II, lamentando che l’Isola non abbia avuto neanche un ministero nel nuovo esecutivo.

Calabria. In Calabria il plebiscito del 2018 sembra lontano secoli. Gli attivisti raccontano che la presidenza di Conte può frenare l’emorragia, ma che il Movimento ha sofferto una pesante rottura con la base. Tantissimi parlamentari, tra cui Nicola Morra, sono fuori per non aver votato la fiducia a Draghi. L’attivismo che è rimasto si muove intorno a Massimo Misiti, medico stimato perché tra i pochi a mantenere una tela di rapporti tra la Regione e Roma, e a Giuseppe D’Ippolito, avvocato che si è fatto apprezzare dai 5S calabresi per uno sportello di assistenza legale sulle tasse. Con loro, oltre a Riccardo Tucci, resterà Alessandro Melicchio, dopo che i mal di pancia sulla riforma della giustizia lo stavano spingendo fuori dal M5S. I molti che se ne sono andati – attivisti ed elettori – forse non sono irrecuperabili, perché la sensazione è che aspettino di capire cosa faranno Morra e soci. La speranza di Conte è che, in mancanza di un progetto alternativo, si possa ricucire.

(3. fine)

Dal Duce ai clan: i nostalgici vogliono riprendersi Latina

Alcune notti d’estate il “dròòòm” della sua Moto Guzzi romba ancora lungo la Fettuccia, 60 km dritti di Appia che vanno da Cisterna a Terracina. La sentiva Antonio Pennacchi, da bambino, quando andava a stare dallo zio Gelindo : “Il rombo cresceva, si avvicinava, passava – l’aria smoveva il fieno – si allontanava e scompariva”, direzione Latina. Il fantasma di Mussolini in queste strade aleggia ancora. Claudio Durigon l’ha evocato e ora rischia il posto. Il 4 agosto ha detto di voler restituire ad Arnaldo, fratello di Benito, il nome del parco “Falcone e Borsellino”. Ricordava, forse, i “Duce, Duce” e i “Littoria, Littoria” urlati da una manica di ragazzotti col braccio teso il 19 luglio 2017, giorno in cui il sindaco Damiano Coletta lo intitolò ai due giudici antimafia. Sono tutti voti, avrà pensato. “Ma no, gli è scappata – assicura Alessandro Calvi, consigliere di Forza Italia, uscendo dal bar Poeta, a Piazza del Popolo –. Voleva dire che l’amministrazione è stata ferma su tutto e ha fatto solo l’intitolazione di un parco”. Un’uscita littoria che al governo ha fatto incazzare molti. “Guardi, lo conosco bene – mette la mano sul fuoco il figlio dell’ex senatore Maurizio –. Viene da una delle famiglie che hanno bonificato l’agro, ma non è un fascista”.

Ovunque affiorano i segni del passato. In piazza della Libertà svettano i fregi littori rimossi dopo il 25 luglio ‘43 e fatti ripristinare negli anni ‘90 dal sindaco Ajmone Finestra, un repubblichino dagli occhi allegri che brillavano quando per strada qualcuno lo chiamava il “Federale”. In centro si trovano ancora i tombini con il fascio di ghisa. Una lapide al centro della rotatoria di Borgo Sabotino ricorda Giorgio Almirante. Retaggi di un passato che però ormai fatica ad andare oltre la pura iconografia. “Fuori, c’è polemica – spiega nel suo ufficio Alessandro Panigutti, direttore di Latina Oggi – ma qui ci scivola addosso. È vero, siamo discendenti di famiglie del Nord che hanno avuto un podere e un pezzo di terra dopo la bonifica della palude. Alla fine degli anni ‘80 le due principali etnie erano i veneti e i friulani e fino a vent’anni fa chi arrivava in città da uno dei 13 borghi di fondazione disseminati per le campagne lo notavi subito perché parlava in dialetto. Ora però non accade più, sono arrivati i campani, i pugliesi, i calabresi e tutto si è mescolato”.

E l’eredità fascista? “Latina era la città nera per eccellenza negli anni ‘70, ma fin dalla nascita della Repubblica era stata governata dalla Dc – prosegue il giornalista –. Solo nel 1993, dopo Mani Pulite, arrivò al potere il Msi”. Quell’anno trionfò Finestra e governò fino al 2003. “Fino ad allora la Dc prendeva il 60%, capisce? Vincemmo puntando sulla questione morale”, ricorda Vincenzo Zaccheo, erede del Federale fino al 2010 e oggi di nuovo candidato da FdI, Lega e FI. Gli inizi nel Msi, poi in An e nel Pdl: “Nostalgia? No – assicura retorico –, ce l’ho del futuro, non del passato”. “Latina non è più la città dei fasci – chiosa Panigutti –. Il tempo sta diluendo pure questo aspetto”. Fabio, 54 anni, ad esempio vota “CasaPound e Forza Nuova”, spiega riparandosi dall’afa sotto la targa di Falcone e Borsellino. “Tornare al nome Mussolini? Certo. Abbiamo poche radici, perché cancellarle?”. “Ma non sono fascista – giura –. Mica voglio il regime, io. Ormai non ci sono più i fascisti”.

I dati dell’Anagrafe dicono che a ottobre per la prima volta la maggioranza dei votanti sarà quella nata dal ‘66 in poi: è gente che si informa sui social, vede le serie tv e non ha una memoria storica del mito fondativo. Che, probabilmente, ha e avrà sempre meno peso. Quindi Durigon rischia il posto per aver cercato voti che forse neanche ci sono? “Per ora ha ottenuto l’effetto contrario – sorride Antonio, seduto sotto i lecci e i pini del parco –: ha trasformato una debolezza di questa giunta, un’intitolazione che pochi qui avevano capito, in un suo punto di forza: ora Coletta può dire che Durigon nega il valore della legalità”. In una città interessata da inchieste pesanti. Come “Olimpia” che nel 2016 portò in carcere l’ex sindaco di FdI Giovanni Di Giorgi e mise nei guai Pasquale Maietta, ex tesoriere del partito, salvato dagli arresti perché il Parlamento non votò mai l’autorizzazione. O come quella in cui è indagato Matteo Adinolfi, oggi eurodeputato del Carroccio accusato di essersi fatto portare voti per le comunali di quell’anno dai Di Silvio. Che qui taglieggiano da anni avvocati, commercianti e imprenditori e per la Cassazione sono un clan mafioso.

Il 3 e il 4 ottobre si vota per il sindaco, Coletta ci sarà. “In ballo ci sono i milioni del Recovery – sorride Tullio, 70 anni –, chiunque vinca dovrà essere bravo a farseli dare”. Nel 2032, poi, saranno i 100 anni dalla fondazione e bisognerà gestire altri soldi. Molti. “Lo sa che ai miei tempi Latina aveva un bilancio di circa 124 milioni? – domanda Zaccheo –. Io in un solo anno sono riuscito a farne arrivare da Roma 180 a fondo perduto. Veda un po’ lei”.

“Durigon ha detto una cosa orrenda: è folle cancellare la lotta antimafia”

“La proposta di Claudio Durigon è orrenda” e “dobbiamo rifiutarla totalmente”. Il regista Marco Bellocchio, 81 anni, fresco della Palma d’oro alla carriera a Cannes e da metà luglio al cinema con il suo nuovo film Marx può aspettare, non ha dubbi: serve una “dura opposizione” alle parole del sottosegretario della Lega che ha proposto di intitolare il parco di Latina al fratello del duce Arnaldo Mussolini invece che a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Maestro Bellocchio, cosa ne pensa delle parole di Durigon?

È una proposta che mi ha colpito molto, una follia. Arnaldo Mussolini era un fascista dalla testa ai piedi, non un personaggio qualunque.

Perché è stata lanciata la proposta?

Faccio un altro esempio: ad Alessandria una giunta di centrodestra vuole intitolare una via ad Almirante. Quello che mi colpisce negativamente è il fatto che l’unico obiettivo di queste proposte sia sempre quello di raccogliere qualche voto in più. È come se la democrazia potesse prescindere dai valori: come se, in base a un principio numericamente democratico, cioè le elezioni, si potesse rinunciare a uno dei valori fondamentali della nostra società come quello dell’antimafia. Anche la sinistra lo fa…

Quando?

Per esempio sullo ius soli: a me sembra un’ovvietà ma ci sono delle prudenze di molti partiti che hanno paura di dire “sì” per perdere voti.

Dice Durigon che voleva recuperare le “radici” della sua città.

Togliere il nome di Falcone e Borsellino per intitolare una via o una strada non va bene. Sono stati due personaggi giganteschi che hanno dato la loro vita contro la mafia.

Così si vellicano gli spiriti neofascisti?

Per far eleggere qualcuno del suo partito, Durigon è disposto a cancellare pagine di storia molto recente: non parliamo di eroi del Risorgimento ma di persone che, trent’anni fa, con il loro sacrificio e la loro vita hanno provocato delle scelte dei governi di allora che sono servite proprio a diminuire l’influenza della mafia in Italia. Poi c’è un problema della politica…

Ovvero?

Quando voi giornalisti fate una domanda sul tema a Meloni o a Salvini loro sfuggono. Invece dovrebbero dire apertamente che prendono le distanze almeno dai fatti più negativi del Ventennio fascista. Invece sfuggono e resta l’ipocrisia. A questo punto lo dicano chiaramente: ‘Non vediamo niente di male nell’allearci con dei gruppi, anche se piccoli, che rivendicano un certo passato’. Sarebbe tutto più chiaro.

Lei ha diretto il film Il Traditore che racconta la storia di Tommaso Buscetta e conosce benissimo cosa significa la lotta alla mafia e l’impegno di Falcone. Con quelle parole Durigon che messaggio ha mandato?

Un messaggio da rifiutare totalmente. Mi ha sempre colpito il rapporto tra Buscetta e Falcone, un uomo molto pragmatico ma inflessibile. Il giudice ha detto una frase che tutti conoscono: “La mafia è un fenomeno umano: ha un inizio e una fine”. Su questa sua convinzione Falcone ha costruito il proprio lavoro preciso e instancabile. Per questo l’idea di sostituirlo con Mussolini è orrenda.

Il sottosegretario si deve dimettere?

Questo non lo so, le dimissioni sono una questione personale. Certo, Durigon è un rappresentante del governo e dovrebbe dire: “Ho sbagliato”. Ma al governo ci sono anche altri partiti e devono decidere loro. Ma in questa vicenda conta solo una cosa: bisogna impedire che il parco venga intitolato a Mussolini.

No alla sfiducia: soccorso di Renzi al fascioleghista

La posizione ufficiale è che se ne parlerà al ritorno dalle vacanze e quando si riuniranno i capigruppo di Camera e Senato. Ma l’indirizzo è già chiaro: Italia Viva non ha intenzione di votare la mozione di sfiducia individuale che sarà presentata a settembre da Pd, M5S e LeU contro il sottosegretario leghista Claudio Durigon. E non tanto perché nel partito di Matteo Renzi non si ritengano gravi le parole del fedelissimo di Matteo Salvini che il 4 agosto ha proposto di reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini (fratello del duce) invece che a Falcone e Borsellino. Tant’è che i maggiori esponenti del partito – da Teresa Bellanova (“bruttissima pagina di politica”) a Davide Faraone (“offendere due eroi antimafia dovrebbe essere reato”) – hanno attaccato a testa bassa Durigon. No, il problema, secondo i renziani, è che una mozione di “censura” contro Durigon – unico strumento per chiedere formalmente al premier di revocargli le deleghe – sarebbe una mozione contro il governo Draghi.

La posizione è stata espressa ieri su La Stampa da Ettore Rosato, presidente del partito renziano, che ha fatto sapere che i voti di Italia Viva non ci saranno perché la mozione di “censura” sarebbe di fatto contro Draghi. Una posizione confermata da fonti di Italia Viva secondo cui a decidere dovrebbe essere prima il presidente del Consiglio Draghi, in un caso o nell’altro. Anche Luciano Nobili, deputato romano molto vicino a Renzi lo dice dritto: “Le parole di Durigon sono inaccettabili e vanno condannate – spiega – ma non spetta a noi decidere se deve dimettersi. Per me il caso è chiuso”. Anche il deputato renziano Camillo D’Alessandro, spesso critico nei confronti di Renzi, spiega: “Vedremo cosa fare e Durigon ha detto una cosa grave: ma non l’ha detta rappresentando il governo quindi l’esecutivo non dovrebbe essere investito in questa vicenda”.

La posizione di Italia Viva mette in difficoltà Pd, M5S e LeU che speravano di poter contare su numeri larghi una volta calendarizzata la mozione. Senza i renziani, infatti, i giallorosa non solo non hanno la maggioranza al Senato ma rischierebbero di non averla nemmeno alla Camera dove Iv ha 28 deputati e senza di essi il centrosinistra può contare su 281 parlamentari: per arrivare alla maggioranza di 315 dovrebbe sperare nei 15 ex grillini de “L’Alternativa C’è” che hanno fatto una lunga battaglia contro Durigon e nella ventina di ex 5S che non sono iscritti a nessun gruppo. Numeri risicati, a meno che non arrivi qualche sostegno dal centrodestra. Ipotesi irrealistica visto che né Coraggio Italia né Azione hanno intenzione di sostenere la mozione Pd-M5S: “Durigon dovrebbe dimettersi ma votare la sfiducia in Parlamento vuol dire creare problemi seri al governo” dice Carlo Calenda.

I segnali del soccorso di Iv alla Lega c’erano già: Renzi è l’unico leader a non aver detto una parola sul caso Durigon. Eppure, di occasioni ne ha avute eccome: due presentazioni del libro “Controcorrente” ­e due e-news. Nel frattempo ha dedicato i suoi tweet a qualunque cosa: il reddito di cittadinanza, le Olimpiadi, il ritiro di Valentino Rossi, la guerra in Afghanistan. Ma su Durigon non una parola. Anche Draghi tace. “Ogni giorno chiederemo al premier di ritirargli le deleghe” dice il senatore Sandro Ruotolo.

Il caso arriva sul “Times” e in tutta Europa, ma non al Tg2

Il caso Durigon vale l’attenzione di importanti testate internazionali. Ma non del Tg2 diretto da Gennaro Sangiuliano, considerato molto vicino alla Lega e nominato ai tempi del governo gialloverde.

Il raffronto è impietoso. Il The Times di Londra dedica un pezzo al sottosegretario leghista: “Let’s dedicate local park to Mussolini, says italian minister” (“Dedichiamo un parco a Mussolini, dice un ministro italiano”). Così anche Abc News, il portale della celebre emittente americana (“Crescono le tensioni dopo la proposta di dedicare un parco a Mussolini”) che come Euronews – colosso che trasmette in 155 Paesi – riprende il titolo della American Press. Ma c’è pure il francese L’Opinion, che parla di “nostalgia fascista”.

E pensare che la notizia gode di tutt’altra attenzione nel telegiornale di Rai2. Negli ultimi cinque giorni, durante l’edizione delle 13 si è parlato di Durigon per un totale di 27 secondi, mai durante i titoli di apertura. E l’argomento sembra ormai passato di moda, visto che né ieri né due giorni fa il Tg2 ne ha fatto menzione.

Per riascoltare il nome del sottosegretario leghista bisogna allora andare in archivio e guardarsi il telegiornale del 12 agosto, quando “Durigon” viene nominato dentro un pastone politico di un paio di minuti. Totale: 15 secondi dedicati al sottosegretario. Il giorno prima, l’11 agosto, più o meno la stessa cosa, con 12 secondi di attenzione allo scandalo in mezzo a un servizio sui massimi sistemi politici. Poco, ma sempre meglio del silenzio tombale del 10 agosto, in cui d’altra parte il Tg2 ha raccontato con tre servizi il ritorno degli atleti italiani da Tokyo. E poi c’è il caldo, il ritorno del turismo e tutto il resto: a Durigon si può concedere la grazia mediatica.

I soliti “cattivisti” e i sorrisetti su Gino Strada

Ci sarà pure una quota di ipocrisia in chi ha salutato Gino Strada mostrando l’occhio lucido, dopo non averne compreso o condiviso neppure una parola quando era in vita. Ma quanta miseria c’è, invece, nei cinici di professione, in certi cattivisti a tempo pieno della stampa italiana?

Su Libero l’“omaggio” al fondatore di Emergency lo scrive Renato Farina, l’ex agente Betulla, fresco di una brevissima consulenza nel governo dei Migliori. Il titolo dice molto: “Strada, il pacifista che faceva la guerra”. Il resto lo spiega lui, accusando Strada di “un uso orribile della bontà come strumento di propaganda”. E ancora: “In groppa al maestoso cavallo bianco del benefattore dei poveri si permetteva scorribande ideologiche tragiche, mozzava teste di chi osasse sostenere che Bin Laden andasse snidato nei suoi santuari maledetti”. Su Repubblica, Giuseppe Colaprico si permette un’allusione pesantissima: “Va anche detto che Strada aveva per alcuni servizi segreti e per alcune diplomazie filo-atlantiche una doppia anima, ma non si è mai andati al di là dei sussurri” (che il giornalista riporta con ineccepibile scrupolo professionale).

Su La Verità, Francesco Borgonovo pare quasi divertito dalla circostanza che Strada si sia spento in Normandia, invece che in uno dei suoi ospedali: “Se fosse morto sul campo (…) il martirologio sarebbe stato semplicemente perfetto”. Poi passa in rassegna con malizia i rapporti familiari e la gestione di Emergency, i numeri dei bilanci, le donazioni e “la sensibilità sul tema dei finanziamenti” di Gino Strada. Nemmeno Nicola Porro, durante la sua rassegna quotidiana, si sforza di trattenere un sorrisetto compiaciuto: “La cosa micidiale è che proprio in corrispondenza con la scomparsa di questo grande chirurgo e detestabile politico, l’Afghanistan sarà uno di quei paesi in cui tra poco gli ospedali come quello di Gino Strada saranno più difficili da gestire”. Che ironia. Che pena.

La “nuova” Alitalia tra l’esame di volo e il rebus biglietti

Ita, la compagnia aerea che prenderà il posto di Alitalia, si prepara ad avviare la commercializzazione dei propri biglietti. Domani è in calendario l’esame di volo per poter ottenere dall’Enac il certificato di operatore aereo (Coa), necessario per poter iniziare operazioni di trasporto aereo commerciale. Solo una volta in possesso di queste certificazioni, la compagnia provvederà a mettere in vendita i biglietti, probabilmente già in settimana. Questo è un altro passaggio verso il decollo atteso per il 15 ottobre.

Sul dossier però restano alcuni nodi che creano incertezza, dal rischio che slittino i tempi al tema dei biglietti venduti dalla vecchia compagnia, ancora operativa. Nei giorni scorsi è scoppiata la polemica per il fatto che Alitalia continua a vendere i biglietti sul proprio sito anche per voli successivi al 15 ottobre. La cosa ha suscitato l’immediata “irritazione” della nuova società, mentre da ambienti vicini alla vecchia compagnia è arrivata la spiegazione: la chiusura alle vendite dei voli è subordinata all’effettiva commercializzazione dei biglietti da parte di Italia Trasporto Aereo. Posizione non condivisa però da Ita che, proprio un paio di giorni fa, è tornata sull’argomento per precisare che le due cose non sono in alcun modo correlate. Nel frattempo comincia a serpeggiare una certa preoccupazione per il rischio che la partenza di Ita possa subire qualche ritardo, con i sindacati che chiedono chiarezza e si appellano al governo perché avvii al più presto un confronto.

Mancano infatti ancora i bandi di gara, a partire da quello per il marchio, oltre alla formalizzazione della Commissione Ue del via libera all’operatività di Ita annunciato il 15 luglio scorso. Timori su cui hanno rassicurato ambienti vicini al dossier Alitalia, precisando che né il Mise né i commissari sono in ritardo con l’adempimento degli atti formali per procedere non appena sarà emessa la decisione finale della Commissione europea.

La politica non ha a cuore il territorio. Così nuove e antiche mafie fanno affari

Lo ricordava Corrado Alvaro, grande scrittore calabrese: chi governa e chi comanda ha sempre costruito “fortune imponenti” su catastrofi e disgrazie. Al Sud, la terra brucia come le baracche nel romanzo di Fortunato Seminara. Nel 2021, sono andati in fumo oltre centomila ettari di terreno, il quadruplo rispetto ai 28.479 distrutti in media dal 2008 al 2020. Le rovine fumanti sono gli unici segni di un mondo che scompare. Mario Draghi promette l’ennesimo programma di ristori, insieme a un piano straordinario di messa in sicurezza del territorio. Per decenni, si è trascurata ogni forma di prevenzione. Si sprecano energie, discorsi sulle grandi opere da fare o da non fare, ma si fa poco o nulla per evitare che vada in fumo il patrimonio boschivo e che tanti paesi scendano a valle. È la cifra di una sconfitta, quella di una classe politica che non si è mai preoccupata dell’abbandono delle montagne, della cementificazione delle coste, della salvaguardia dell’ambiente.

È innegabile che ci sia un’economia del crimine che ruota anche attorno agli incendi. Ci sono state faide per il controllo dei boschi, come quella che dagli anni Settanta ha insanguinato le montagne tra la vallata dello Stilaro e le Serre del Vibonese. Nel settembre del 2009, il boss Damiano Vallelunga venne ucciso davanti al santuario dei Santi Cosimo e Damiano. E alla montagna è legata l’epopea di boss come Rocco Musolino, deceduto nel 2013 e originario di Santo Stefano d’Aspromonte, paese di un altro famoso bandito, Giuseppe, che di mestiere faceva il segantino. Era noto come il re della montagna anche don Ciccio Serraino, ucciso in un agguato all’interno degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria nel 1986.

C’è poi il nuovo business del disboscamento selvaggio per alimentare il mercato delle biomasse, grazie al legno riciclato dagli incendi. Nel 2012, in una conversazione intercettata dagli inquirenti, il boss Nicolino Grande Aracri intuisce le opportunità legate ai rifornimenti delle centrali di biomasse. “Crotonesi, mesorachesi, cutresi”, dice, “dobbiamo guadagnare tutti. Dobbiamo mangiare tutti quanti”. Parla con uno dei fratelli e fa riferimento a marsigliesi che hanno aziende in Russia coinvolte nel trasporto marittimo e alla possibilità di utilizzare il loro servizio per vendere il “cippato”, legno vergine ridotto in scaglie.

In una informativa del 2014 della Squadra Mobile di Catanzaro, viene messo in evidenza l’interesse del clan Mancuso “nella progettazione di parchi eolici e fotovoltaici, nonché di impianti a biomasse, al fine di accaparrare i finanziamenti regionali, statali o europei mediante l’aggiudicazione di subappalti”. Di biomasse si parla anche in indagini condotte in Sardegna, Puglia, Basilicata, Toscana, Sicilia e Lazio. Denunciate estorsioni ai danni di società coinvolte nel settore delle rinnovabili, soprattutto a Strongoli, nel crotonese.

Le mafie non hanno mai avuto rispetto per il territorio. Lo hanno sempre sfruttato, danneggiato, saccheggiato. Mi viene in mente una conversazione intercettata in Calabria, al tempo in cui nel mare finivano i veleni dei rifiuti speciali. “Che ce ne fotte, tanto noi il bagno lo andiamo a fare da qualche altra parte”. È la mentalità di tanta gente coinvolta in questa ennesima stagione dei fuochi: il disprezzo per il bene comune.

La tipologia dell’incendiario fa il paio con il disinteresse di una classe politica che non riesce a vedere oltre il proprio naso e con una società civile che spesso non si fa sentire. C’è il folle, il vicino di casa dispettoso, il piromane, ma c’è anche chi cerca di trarre vantaggio da scelte odiose e scellerate. La ‘ndrangheta non deve, però, diventare un alibi. Quello degli incendi è un rito che si ripete da troppo tempo e che andrebbe affrontato seriamente. Per una transizione ecologica che non sia solo di facciata, bisognerebbe “destinare all’Ambiente buona parte delle ingenti somme in arrivo con il Pnrr”, come auspica l’antropologo Vito Teti. “Solo così è possibile trasformare in opportunità e ricchezza quella che sembra una ‘maledizione’, per fare della Calabria un modello, un laboratorio, un luogo emblematico di come anche in altre parti del mondo si possa operare per avere cura dei boschi, delle acque, dei fiumi, dei mari, dei luoghi, dei paesi, delle persone”.

Senza una vera inversione di tendenza, il territorio – in Calabria come in altre regioni – rischia di rimanere nelle mani di mafiosi senza scrupoli, avventurieri del cemento, tecnici contigui al malaffare e politici assolutamente inadeguati.