Comuni, 40% senza registro. E i piromani hanno fuoco facile

C’è una legge, la 353 del 2000, che se fosse applicata nel suo complesso toglierebbe ai piromani buona parte dei vantaggi derivanti dalle loro azioni. Si tratta della normativa che ha introdotto il “catasto delle aree percorse dal fuoco”, meglio noto come “catasto degli incendi”. In sostanza, la norma prevede vincoli temporali molto lunghi (dai 10 ai 15 anni) per i terreni dati alle fiamme, impedendo una destinazione diversa da quella originaria. Ogni anno, i carabinieri forestali tracciano le cartografie, che attraverso le Regioni vengono girate ai Comuni. Arrivati a questo punto, però, la procedura si inceppa. Secondo i dati forniti da Legambiente, solo il 60% delle amministrazioni locali in tutta Italia recepisce – basta una delibera di consiglio – la cartografia. E, dunque, aggiorna il catasto. In Calabria, dove solo nell’ultima settimana sono andati bruciati oltre 11 mila ettari di boschi, i comuni in regola con questo breve passaggio burocratico sono solo il 20%. Come in tutto il sud Italia.

Un bel problema, perché in questo modo criminalità organizzata, “mafie dei boschi” e, in generale, chi ha interesse a speculare su determinate aree, può agire senza che i terreni in questione siano formalmente vincolati. “Non c’è solo la ‘ndrangheta – spiega a Il Fatto Nino Morabito, dirigente di Legambiente in Calabria – ma sacche di anti-Stato che sfruttano lo scarso impegno delle amministrazioni per ricattare le istituzioni stesse”. I vincoli previsti dalla legge 353, infatti, non riguardano solo la cosiddetta speculazione edilizia, ma anche attività “rurali” come l’allevamento o la caccia. “Per questo la scelta del governatore Antonino Spirlì di anticipare la stagione della caccia nel bel mezzo dell’emergenza è incommentabile”, sottolinea ancora Morabito.

Tra l’altro, il mancato aggiornamento del catasto degli incendi ostacola le indagini per individuare i piromani. “Gli inquirenti non sono messi in condizione di accedere subito ai dati necessari per indagare”, spiega Armando Mangone, del Comitato Stop Incendi Calabria. Un tema, quello dell’impunità dei piromani, che ritorna ciclicamente ogni estate. I deputati calabresi di Forza Italia hanno annunciato un’iniziativa parlamentare per “triplicare” le pene. In realtà, il reato di incendio doloso (articolo 423 del codice penale) prevede già pene dai 3 ai 7 anni di carcere, che possono arrivare anche a 10 anni per l’aggravante di incendi boschivi. Il problema è l’applicazione. La gran parte dei “piromani” – come i due pastori arrestati ieri a Siracusa – sono incensurati e, spesso, anziani. Il risultato è che, fra giudizi immediati e attenuanti generiche, non si arriva quasi mai a condanne superiori ai 3 anni. “Il dibattito sulle pene è demagogico – sottolinea Angelo Bonelli, coordinatore nazionale di Europa Verde – I danni derivano anche dalla riforma Renzi-Madia sul Corpo Forestale dello Stato, che ha tolto mezzi, fondi e competenze a una struttura indispensabile al contrasto della criminalità”.

Cartabia sul Ponte: piovono balle, promesse e omissioni

“Lo voglio dire qui, davanti a voi, senza possibilità di equivoci: non c’è mai stato rischio per il processo sul Ponte Morandi”. Lo ha detto ieri il ministro Marta Cartabia: nessuna prescrizione per il maxi-processo di Genova. Il palco è quello dove si commemora il terzo anniversario della strage del viadotto Polcevera. A questo passaggio il pubblico applaude. In platea ci sono molti familiari delle vittime del crollo. È a loro che si rivolge la Guardasigilli, con un argomento quantomeno singolare: la sua riforma, sembra quasi volerli rassicurare, non si applicherà al loro processo. E accusa chi dice il contrario di “disonestà intellettuale” e di “allarmismo infondato” che “aggiungono ulteriore dolore”.

Ma ecco le parole esatte usate nel suo intervento: “Nelle ultime settimane so che è stata per voi e per tutta la città fonte di preoccupazione l’opinione, del tutto destituita di fondamento, per cui la riforma del processo penale potrebbe frustrare la vostra bruciante domanda di verità e giustizia. Lo voglio ripetere qui davanti a voi, senza possibilità di equivoci: non c’è mai, mai stato alcun rischio per il processo sul Ponte Morandi. Anzi, avendo ascoltato le vostre parole questa mattina, c’è un pensiero che non posso tacere. Bisognerebbe riflettere più di una volta prima di diffondere opinioni che generano allarme e gravano di ulteriore peso chi già porta un così grande dolore. Basterebbe leggere il testo della riforma, e non serve un giurista per verificare che si applica a reati successivi al 1 gennaio 2020. Ma questo sarebbe poco. Non solo il processo per il Morandi, ma tutti i processi che riguardano altri gravi disastri, o qualunque altra vicenda umana, debbono essere portati a termine. Il governo ha lavorato a questa riforma per assicurare un accertamento tempestivo di tutte le responsabilità, non per stroncare il lavoro dei giudici”.

Il discorso ufficiale è stato affiancato da un incontro con i familiari delle vittime. Un colloquio in cui la ministra ha esposto sostanzialmente quattro concetti. Il primo è lo stesso ribadito davanti ai microfoni: l’irretroattività della norma. Il secondo: i processi particolarmente complessi avranno strade preferenziali. Terzo: la giustizia viaggerà più rapida grazie alle 8 mila figure che verranno inserite (a tempo determinato) nell’ufficio del processo. Quarto: Cartabia ha spiegato di avere in mente la creazione di una “task force” di 200 magistrati “mobili”, che andranno a coprire le emergenze di volta in volta. In altre parole: “Nessuna tagliola, vogliamo che tutti i processi arrivino in fondo”. Ma è davvero così?

partiamodalla questione principale: la riforma non riguarderà il processo sul Ponte Morandi. Sul Fatto è stato scritto più volte il motivo per cui questa affermazione potrebbe essere smentita: una norma che interviene su una questione “sostanziale” come la pena, può essere impugnata davanti alla Corte Costituzionale, per chiedere che abbia efficacia retroattiva (secondo il principio del favor rei: un imputato ha diritto a essere giudicato secondo la legge a lui più favorevole). In altri termini, se l’appello durasse più di due anni o il processo in Cassazione più di uno, qualunque avvocato potrebbe presentare a nome di un cliente condannato un’eccezione di costituzionalità. E sarebbe tutt’altro che infondata. Un’opinione condivisa da molti giuristi, magistrati e avvocati. È a questa platea che si rivolge la ministra quando parla di “opinioni che generano allarme e gravano di ulteriore peso chi già porta un cosi grande dolore” o solo a quei giornalisti che mettono una cosa in connessione con l’altra? Secondo argomento: le corsie preferenziali per processi di “particolare complessità”. Qui sono i costituzionalisti che hanno già lanciato avvertimenti: ogni volta che si creano binari speciali, l’incostituzionalità è dietro l’angolo. Perché reati puniti con la stessa pena, rischiano di essere giudicati con regole diverse (un esito illogico). E sui reati comunitari potrebbe essere l’Ue a censurare l’Italia per bloccarne l’improcedibilità.

quanto alle risorse aggiuntive (i cui meriti invero andrebbero riconosciuti a Bonafede), qui la questione discutibile è accostare le 8 mila assunzioni di assistenti giudiziari alla promessa di concludere tutti i processi d’appello entro due anni, e in Cassazione entro uno: si può davvero fare senza assumere nuovi magistrati? Quanto all’idea della “task-force”, assomiglia a un rafforzamento di figure già esistenti, i magistrati in applicazione extra-distrettuale: spesso usati come “jolly”, e per questo poco specializzati, sono figure raramente risolutive, se i problemi sono strutturali (uffici che accumulano costantemente più fascicoli di quanti ne possono smaltire). La rassicurazione finale: un cuscinetto di 4 anni, dice la ministra, permetterà di valutare l’efficacia della norma e valutare eventuali modifiche. Peccato che non sia farina del suo sacco, ma il compromesso uscito dalla trattativa con Giuseppe Conte.

“Il decreto sul Green pass va contro norme Ue e Carta”

Con il lodevole intento di fare ordine sulle innumerevoli questioni giuridiche che il decreto Green pass pone, l’Osservatorio sulla legalità costituzionale Stefano Rodotà (che riunisce giuristi di estrazione e formazione diverse) ha reso noto un articolato e utilissimo studio, dal titolo inequivocabile (pubblicato sul sito Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica): “Sul dovere costituzionale e comunitario di disapplicazione del decreto Green pass”. Vediamo perché.

Europa, Italia. Le disposizioni Ue in materia di certificazione verde tendono ad “agevolare” la libera circolazione dei cittadini in possesso del Green pass e non a limitarla: nelle intenzioni del legislatore europeo il Green pass descrive una situazione fattuale (vaccinato, guarito, detentore di tampone negativo) ritenuta sufficiente per non consentire ai Paesi membri di imporre ulteriori aggravi ai detentori del pass (quarantena o tampone). In Italia invece, scrivono i giuristi, il decreto che impone il certificato per accedere a una serie di luoghi “sembrerebbe conferire al pass natura di norma cogente ad effetti plurimi di discriminazione e trattamento differenziato”. Il pass che in ambito europeo ha “valenza informativa”, assume nel nostro ordinamento valenza obbligatoria e prescrittiva.

E la Carta? Altro problema è la presunta violazione costituzionale perché “pur in assenza di un obbligo vaccinale e di un serio dibattito parlamentare, s’introducono forme di discriminazione e di trattamento differenziato nei confronti dei soggetti non titolari del Green pass”. Che fine fa il principio di uguaglianza, che informa tutta la nostra Carta? In Francia il governo ha scelto la via del dibattito pubblico in cui tutti gli attori sono stati coinvolti (Parlamento, Consiglio di Stato, Consiglio costituzionale) e nonostante questo le proteste infiammano le piazze. Qui il governo ha optato per il decreto legge: se formalmente rispetta la riserva di legge con cui è possibile limitare il diritto di circolare, “bisogna chiedersi se il pass, per essere ragionevole e proporzionato in termini di costi/benefici, sia l’unico strumento in grado di garantire la sicurezza sanitaria dei cittadini e tale da imporre limiti alla libertà di circolazione”.

Obbligo surrettizio. È lecito che un decreto attribuisca al pass valore normativo e doverosità giuridica, comprimendo un complesso di libertà individuali, in assenza di obbligo vaccinale? “Se l’obiettivo è vaccinare tutta la popolazione, occorrerebbe esprimerlo con un chiaro atto di indirizzo politico, con una legge, che comunque non sembrerebbe resistere ai limiti costituzionali, in virtù della sperimentalità e delle limitate conoscenze scientifiche circa l’impatto sull’infezione”. Si limitano libertà fondamentali, senza certezze sull’efficacia. A latere: solo Francia e Italia hanno introdotto l’obbligo per il personale sanitario, anche se il Consiglio d’Europa ha finora escluso la legittimità dell’obbligo, affermando la necessità di assicurare che nessuno venga discriminato per non essere vaccinato.

La domanda di fondo, dunque, è perché non si decide di introdurre il vaccino obbligatorio per legge, in modo da evitare “irragionevoli e sproporzionati trattamenti differenziati, anche su base locale” . I giuristi dell’Osservatorio si danno questa risposta: se in passato è stato possibile per altri vaccini, non lo è, allo stato delle nostre conoscenze, per quelli anti Covid, che possono essere incentivati ma non imposti (neppure a categorie a rischio). Perché sono sperimentali, autorizzati in via emergenziale, e – come risulta da “bugiardini” e moduli di consenso informato – non proteggono contro l’infezione ma solo contro la malattia.

Olbia, ultimo Salmo. Tutti accalcatissimi al concerto-sorpresa

Salmo suona, il pubblico si assembra, lo Stato resta senza parole. L’incredibile concerto a sorpresa del rapper sardo venerdì sera a Olbia non ha ancora una spiegazione ufficiale: com’è possibile organizzare un evento del genere, in centro città, senza nessun tipo di controllo pubblico? Un mistero e una clamorosa burla alle regole, in una Regione in cui la percentuale dei malati Covid in terapia intensiva ha superato la soglia critica del 10%, dove si rischia di tornare alle restrizioni sanitarie.

Le immagini di migliaia di ragazzi accalcati e senza mascherina hanno fatto il giro dei social. Da settimane Salmo aveva promesso un concerto per sostenere gli agricoltori sardi dopo gli incendi. La data era stata confermata il giorno prima, luogo e orario sono stati fatti sapere con il passaparola a poche ore dal concerto. Nel frattempo il palco veniva montato al Molo Brin di Olbia, sotto la grande ruota panoramica, senza che nessuno si facesse domande. Prima di iniziare a suonare alle 22, Salmo ha recitato una lettera “al signor Stato”: “L’unico settore dimenticato da Dio e dallo Stato è quello dell’arte e dello spettacolo (…) Ci hanno detto di fare i live con poche persone, tutti distanziati e seduti… Signor Stato, noi non ci vogliamo stare seduti, noi vogliamo alzarci, saltare, quindi la musica la cultura e l’arte in Italia sono importanti tanto quanto lo sport, ma nel resto del mondo fanno concerti con 100mila persone e qua no”.

Il giorno dopo, la notizia e le immagini del concerto sono diventate virali, Salmo è stato raggiunto dalle critiche di diversi colleghi. Il più duro è Fedez: “Sfruttare la nostra condizione di privilegio, aggirare le regole per soddisfare capricci personali. Questo non aiuta nessuno. Avete sputato in faccia a migliaia di onesti lavoratori dello spettacolo che quest’anno cercano di tirare avanti con immensi sacrifici rispettando le regole per andare alla pari con i conti (quando va bene)”.

Il concerto allestito in totale autonomia da Salmo (l’agenzia che in genere gestisce i suoi live non è stata coinvolta) non ha precedenti in Italia nella stagione del Covid. Gli eventi dal vivo che stanno faticosamente ripartendo negli ultimi mesi sono sottoposti a vincoli stretti di capienza e distanziamento, ci si può assistere solo e rigorosamente seduti. Il settore della musica, come noto, è quello che sta pagando il tributo più alto alla pandemia. Secondo i dati di Siae e Assomusica, tra il 2020 e il 2021 la perdita stimata è di oltre 7 miliardi di euro, con il 95% dei lavoratori rimasti senza lavoro (gli altri hanno trovato impiego in televisione), mentre le agenzie che organizzano musica dal vivo hanno perso il 90% del loro fatturato.

Salmo ha risposto alle critiche su Instagram: “Gli assembramenti per gli Europei andavano bene, il mio concerto gratuito no. Non definitevi artisti se poi non avete le palle di infrangere le regole”.

Ma come si fa a infrangere le regole alla luce del sole, montando un palco enorme in pieno giorno su un molo di Olbia senza avere un accordo con le istituzioni locali?

Il sindaco del capoluogo è Settimo Nizzi, storico esponente di Forza Italia e per anni medico di Silvio Berlusconi sull’isola. È in corsa per la rielezione il 3 e 4 ottobre, malgrado sia sotto inchiesta con l’accusa di corruzione aggravata per degli appalti pubblici. Sul caso Salmo, Nizzi si è limitato a diffondere una velina alle agenzie di stampa: “L’amministrazione comunale non sapeva nulla e non ha rilasciato autorizzazioni. Il concerto non si è svolto in area di competenza del comune”. Il Fatto ha chiesto a Nizzi come sia possibile che nessuno si sia accorto dell’organizzazione dell’evento, per quale motivo il molo Brin non sia da ritenere “di competenza” del comune e di chi sia la responsabilità dell’accaduto. Il sindaco non ha risposto. Domande – senza risposta – formulate anche al presidente della Regione Sardegna, Christian Solinas. La Questura di Olbia fa sapere di essere pronta ad aprire un’indagine.

Più casi e ricoveri: cosa stiamo sbagliando

Salgono i contagi: ieri altri 7.188 (venerdì erano stati 7.402), il tasso di positività è in discesa al 2,8% ma la variazione settimanale registra un +9%. Continuano a crescere i ricoveri: in 24 ore in reparto sono aumentati di 68 unità (+22% sulla settimana) per un totale di 3.101 letti occupati. Anche in terapia intensiva ce ne sono 3 in più (372 in totale, +29% sui 7 giorni). Poco conforta il fatto che rispetto a venerdì siano diminuiti i morti: ieri il ministero della Sanità ne ha comunicati 34, il giorno prima erano stati 45, ma anche la curva dei decessi tende verso l’alto. I numeri sono chiari: siamo nel pieno della quarta ondata, tutte le curve in termini assoluti crescono in maniera speculare a come avevano fatto nell’ottobre 2020, quando era partita la seconda che ci ha portato a passare buona parte dell’inverno con le restrizioni. Le tinte fosche del quadro si rischiarano se si considera la variazione dell’incidenza: oggi siamo a quota 74,3 su 100 mila abitanti quando in autunno eravamo ben oltre quota 350. Anche i dati sulla sua variazione percentuale sono tutto sommato confortanti: siamo +9 quando nello stesso periodo del 2020 veleggiavamo ben oltre i 20 punti. Ci stanno salvando le vaccinazioni, spiegano gli esperti, che impediscono nel 96,2% dei casi di sviluppare il Covid in modo mortale e consentono di contenere la pressione sugli ospedali. Ma la certezza che in autunno il quadro non peggiorerà non c’è.

Il numero dei contagiati giornalieri dipende da tre fattori principali. Il primo è la capacità del virus di trasmettersi da una persona all’altra. La grande differenza rispetto all’autunno 2020 è che la variante Delta, oggi prevalente, è molto più infettiva delle precedenti. Immunologi e virologi ci spiegano da un anno e mezzo che per impedire la diffusione del virus occorre interrompere le catene di trasmissione: appena viene individuato un positivo occorre isolarlo, rintracciare tutti i suoi contatti e isolare anche loro. “Il nostro sistema non funziona come dovrebbe – spiega ovunque Andrea Crisanti, capo della microbiologia dell’ospedale di Padova – ancora non abbiamo creato un sistema di sorveglianza basato su un uso ragionato dei tamponi molecolari e su un’infrastruttura informatica efficiente, come hanno fatto Inghilterra, Giappone e Taiwan”.

Il secondo fattore è il comportamento delle persone. Se il Green pass da un lato è uno strumento utilissimo per consentire all’economia di respirare e recuperare almeno in parte la socialità perduta, dall’altro rischia portare con sé il messaggio che con il certificato in tasca si può tornare alla vita di prima dimenticando le regole base del contrasto al Covid, in primis quella del distanziamento sociale. Il caso di cronaca raccontato nella pagina accanto – il rapper Salmo ha tenuto a Olbia un concerto con migliaia di persone, molte assembrate e senza mascherina – è la perfetta esemplificazione di questo pericolo.

Il terzo fattore è la resilienza del sistema sanitario. Al momento la situazione è sotto controllo (ieri su scala nazionale era occupato il 4,3% dei posti in terapia intensiva e il 5,5% di quelli in reparto) perché i vaccini stanno tenendo la maggioranza dei contagiati fuori dagli ospedali: secondo i dati diffusi ieri dell’Istituto superiore di Sanità, chi si è sottoposto alle due dosi ha un rischio di essere ricoverato 7 volte più basso rispetto a chi non è stato immunizzato. Ma i vaccini non prevengono al 100% la trasmissione: secondo uno studio dell’Imperial College di Londra pubblicato il 4 agosto, il siero previene l’infezione in un range di casi che varia tra il 50 e il 60%. Inoltre il target dell’80% della popolazione immunizzata è ancora lontano: ieri gli italiani immunizzati erano 35.503.682, il 60%. Resta inoltre consistente lo zoccolo duro degli over 60 – fascia più vulnerabile – che sfugge: sono ancora 2 milioni. L’altra cattiva notizia: la campagna rallenta, le iniezioni sono scese negli ultimi giorni ben al di sotto del target delle 500 mila quotidiane.

Caos tamponi: sono gratis solo per i prof fragili, non per i no vax

Tamponi gratis al personale scolastico fragile e non vaccinabile. E non ai no-vax. Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, in meno di 24 ore, si è impantanato in una palude di disposizioni tanto da essere costretto nel tardo pomeriggio di ieri a correre ai ripari con un comunicato stampa. La questione è nata con la firma avvenuta nella notte tra giovedì e venerdì del protocollo di sicurezza per la ripartenza dell’anno scolastico. Oltre alla conferma di tutte le regole già valide durante lo scorso anno scolastico (dalle mascherine obbligatorie dai 6 anni in su al distanziamento) è stata anche trovata l’intesa sulle corsie preferenziali per la vaccinazione degli insegnanti ancora non vaccinati. Ma l’introduzione dei tamponi gratis per docenti, bidelli e impiegati senza Green pass (213.277 secondo l’ultimo report pubblicato dal Commissario per l’emergenza) ha sollevato polemiche. Il protocollo prevede “tamponi diagnostici al personale scolastico secondo le modalità previste dall’autorità sanitaria”. Una decisione inammissibile per l’Associazione nazionale presidi che la scorsa notte non ha firmato il protocollo: “Non è chiaro quali siano i dipendenti non vaccinati che hanno diritto al rimborso del tampone. Non intendiamo favorire alcuna logica di sostituzione della vaccinazione con il tampone”. Una reazione, quella dell’Anp, che ha scatenato così una diatriba politica su Bianchi che avrebbe lanciato il sasso nello stagno per poi nascondere la mano. Ieri pomeriggio è arrivata, quindi, la pezza del ministro: ha specificato che la misura è pensata “a favore dei più fragili, che non sono vaccinabili e che risultano anche i più esposti al contagio”. I tamponi gratuiti, per il ministero, non sono quindi “un automatismo” e “non è previsto né si è mai pensato di prevedere un meccanismo di gratuità ai cosiddetti no vax”. Da una parte il ministro insiste sulla campagna vaccinale ma dall’altra con i soldi pubblici “giustifica” chi non vuole vaccinarsi.

Green pacco

Da ultramaggiorenne, ultravaccinato e greenpassmunito, m’illudo di poter sollevare qualche legittimo dubbio sul pensiero unico che ci circonda senza venire iscritto d’ufficio al partito dei Negazionisti No Vax-No Pass e trascinato con loro sulla pira dei pirla.

1. Un anno fa (con zero vaccinati) avevamo un terzo di contagi e un ottavo di morti al giorno rispetto a oggi (con 2/3 della popolazione vaccinata). Il 13 agosto 2021 sono morti in 45 e il tasso di positività (rapporto tamponi/contagiati) era al 3,28%, contro i 6 e l’1,02 del 13 agosto 2020. L’altroieri i ricoverati in terapia intensiva erano +17 e nei reparti ordinari +58, contro i +2 e i +7 di un anno fa. I dati erano molto inferiori a oggi anche il 13 settembre, dopo l’estate folle delle discoteche aperte: 7 morti, positività all’1,6%, +5 in terapia intensiva. Bastano la variante Delta e il mancato lockdown nel 2021 a spiegare il terribile paradosso? O i vaccini (che continuiamo a raccomandare perché riducono i rischi di morte e di ricovero) sono molto meno efficaci e molto più perforabili di quanto si pensasse?

2. Ancora il 13 ottobre, quando Conte varò il primo Dpcm contro la seconda ondata, i morti erano meno dell’altroieri (41 contro 45). Eppure i giornaloni accusavano il governo di inerzia e gli esperti veri o presunti invocavano il lockdown: quanti morti servono ora perché qualcuno chieda a Draghi &C. almeno una parola chiara?

3. Più che della legittimità filosofico-giuridica del Green pass, bisognerebbe discutere della sua utilità pratica. Cosa risponde il governo a Crisanti che lo accusa di mentire spacciandolo per una misura sanitaria mentre non lo è? Se anche i vaccinati possono contagiarsi (stessa carica virale dei non vaccinati: Fauci dixit), contagiare e persino morire (sia pur in misura molto inferiore ai non vaccinati), che senso ha dividere i cittadini di serie A da quelli di serie B, alimentando per giunta l’illusione che i primi non siano contagiosi e che chi li avvicina non debba mantenere le distanze e le mascherine?

4. Siccome il Green pass non è revocabile, ogni giorno aumenta il rischio di incontrare contagiati-contagiosi muniti di carta verde e dunque travestiti da immuni: non sarebbe meglio mantenerlo come incentivo ai vaccini, ma smetterla di farne un passepartout e puntare a ridurre i contagi con tamponi gratuiti e il binomio distanziamento-mascherine nei luoghi affollati? La risposta è nota: ma così si scoraggiano i vaccini. Se però questi coprono le varianti solo fino a un certo punto, anzi le scatenano, qual è lo scopo della campagna anti-Covid: comprare più vaccini o avere meno contagi?

5. Chiunque sollevi qualche dubbio passa per un fottuto No Vax: ma siamo sicuri che le bugie e le omissioni, anziché ridurre i No Vax, non li moltiplichino?

“Ritorno a Coccia di Morto”: un film da mezza pensione

Squadra che vince non si cambia. Dopo i quasi dieci milioni incassati da Come un gatto in tangenziale nel 2017, Riccardo Milani torna a dirigere Paola Cortellesi e Antonio Albanese nel sequel Ritorno a Coccia di Morto, amena località del litorale laziale.

Diciamolo subito, è una commedia godibile, a tratti spassosa: si sorride senza sforzo e si ride anche, più di situazione che di battuta. Cortellesi e Albanese in stato di grazia, o giù di lì, aiutano: quale coppia comica oggi non hanno probabilmente eguali. Ma questa felicità necessita di un’avvertenza: il distacco dalla realtà dei fatti, in sintesi delle periferie, è totale, e non intenderlo, o contraffarlo, risulterebbe tanto sciocco quanto nocivo. Al film stesso. Famo a capisse, direbbe la coatta Monica (Cortellesi): Come un gatto in tangenziale, uno e due, non si alloca nel Neorealismo, e nemmeno nel realismo magico; non alberga, neppure a mezza pensione, nella commedia all’italiana; non domicilia nemmeno nella satira di costume o nella critica sociale. Siamo nei territori del cazzeggio garbato, del trastullo senza se e senza ma, del balocco a indicazione geografica tipica (la Roma delle borgate giustapposta a quella del Palazzo): in sintesi, la riduzione del conflitto, sociale e perfino caratteriale, è totale, la pacificazione Stato-Chiesa-Popolo assoluta.

Un nemico, antagonista, opponente, nemmeno a pagarlo: di questo va dato atto agli sceneggiatori, Furio Andreotti e Giulia Calenda con Milani e Cortellesi, perché raccontare senza nemesi, e in fondo senza ostacoli, non è facile. Ma nemmeno così interessante. Insomma, meglio non farsi troppi pensieri, ridere di quel che viene e farne tesoretto, e sperabilmente volano. Anteprime oggi e domani, dal 26 in sala, se il Gatto saprà rilanciare i consumi cinematografici tanto meglio, ma non cambiamogli i connotati: è evasione al 100%, innocua e appagante, giacché la guerra dei mondi (periferia-centro, coatti-borghesi) che paventa è mero maquillage, belletto estetico più che intendimento poetico. Dunque, Monica e Giovanni (Albanese) che ci riprovano, le gemelle furfantelle che parlano all’unisono, gli ex (Claudio Amendola e Sonia Bergamasco) agli antipodi e il prete “tanto bello quanto pio” di San Basilio (Luca Argentero), tutti coordinati, sinergici e affiatati, per fare risultato: al box office. Coccia di Morto, invero, si vede poco, la tangenziale neanche un po’, e sorge il sospetto: più che borgataro, è il Gatto con gli stivali?

“Tra gelati al veleno e cazzotti, l’incubo in vacanza siamo noi”

Caro Paolo, avevo tanta voglia di lasciare la mia casa lì per un po’, sola, e io scappare da un’altra parte. Vedere la gente, vedere il Paese. Nella città di B., sono rimasto a cena nel giardino del museo dove si era svolta la presentazione del mio libro. Era calata la notte, nel frattempo, una perfetta e ventilata notte di luglio. E qualcosa, con le tenebre, è cambiato. Io, che sono già abbastanza sordo di mio, a un certo punto mi sono accorto di non riuscire più a decifrare il senso dei discorsi a tavola. Perché in effetti, caro Paolo, è vero, rumore ce n’era eccome. Si era manifestata d’improvviso una postazione dj. Ho dato un’occhiata agli altri tavoli: non mi ero reso conto che tutta la frequentazione “culturale” del posto si era smaterializzata e al suo posto, come arrivata da Vega, intorno a noi pulsava una nuova forma di vita. Giovani, giovanissimi. I maschi come in divisa, jeans e magliette bianche. Le ragazze tutte molto eleganti, in tiro, esageratamente truccate. Continuavano ad arrivare. Come se fossero i padroni, come se loro fossero i dominatori unici di quel posto e noi degli intrusi. Ho incrociato per sbaglio lo sguardo di uno di loro. Mi fissava in segno di sfida. Come se ci tenesse a dirmi: “Non ti temo”. Ma poi, cosa mai avrebbero dovuto temere da me? Sul taxi, tornando in hotel, ho pensato al concetto di trasformazione: come dalla luce si passi al buio, come da giovani leoni si muti in pavidi borghesi, e come un museo di arte contemporanea possa diventare una discoteca nel giro di mezz’ora.

Dopo il concerto nel parco archeologico di V., siamo andati a cena in un ristorante nel centro storico del paese. Ci siamo seduti alla grande tavola all’aperto, e anche qui, inaspettatamente, si è nel giro di poco scatenato l’inferno. È cominciata la musica, a volume molto alto, emessa da invisibili altoparlanti. Chi era seduto a tavola ha cominciato a battere le mani, a gridare e a urlare. Di colpo, quella mi sembrava una equa rappresentazione del genere umano tutto, è diventata la stessa orda di giovani e giovanissimi che avevo conosciuto al museo. Erano gli stessi. E credimi, stessi sguardi con la voglia di fare a cazzotti.

Oggi a C. leggo sul quotidiano locale questa notizia: “Ragazza massacrata a pallonate in spiaggia”. È ovvio che è un titolo, ed è probabile che come diceva Simone Lenzi in una bella canzone dei Virginiana Miller, “i giornalisti del giornale locale/ scrivono male”, rimane il fatto che questa cosa è successa nel lido accanto a quello dove io sono parcheggiato adesso in attesa del concerto. Sabato, alle tre del pomeriggio, in spiaggia, il carretto dei gelati pilotato da una ragazza di vent’anni è stato fermato da un gruppetto di ragazzi, pare visibilmente ubriachi. Hanno cominciato a fare allusioni sessuali e a chiedere un gusto di gelato che era l’unico non disponibile. “Allora dacci una birra”, “allora facci una pompa”. Poi, a turno, hanno cominciato a prenderle la faccia come bersaglio con un pallone di cuoio. Non so cosa stia succedendo, mi sembra che ci sia un morbo che ci sta facendo impazzire tutti, come in un brutto film apocalittico degli anni 70. Che stia succedendo come nel Pifferaio di Hamelin? C’è una musica che suona e porta via la testa dei ragazzi? O come ne Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria, in cui la gente in massa esce misteriosamente di casa in preda all’insonnia e alla follia? Questa è la mia fantasia, che è viziata e forse esagerata. Poi penso che quel carretto poteva essere trainato da mia figlia, o che uno dei calciatori potesse essere mio figlio. Ma è un pensare sbagliato. È più corretto (e spaventoso) pensare che potevo essere io tutti i personaggi in gioco. Le vacanze (e la vita) sono un incubo quando si può essere vittima, certo, ma con uno schiocco di dita o al primo colpo di vento, carnefice pure.

Ti abbraccio, Francesco

 

Caro Francesco, a proposito di case lasciate: la mia vacanza da incubo è un trasloco fatto a temperature furibonde. Bel paradosso, dopo una stagione che ha messo così al centro dei pensieri lo spazio domestico (penso al tuo ultimo libro, penso a moltissimi libri di questi mesi sul tema). E ricordo la piccola visione di una vacanza in Grecia – quella sì, spensierata: un camioncino con la scritta “Metafora”. Un camion dei traslochi! Perché la metafora, in effetti, non è altro che un trasloco “semantico”. E se tu pensi a quel romanzo in cui la gente esce di casa in preda alla follia, io penso – chiudendo l’ennesimo scatolone di libri – a una casa più grande, a una casa-sanatorio in cui tutti dovremmo chiuderci per la lunga riabilitazione “da un trauma di cui s’ignora la natura”, come diceva uno scrittore. Il trauma è la lunga vacanza dalla socialità? È la pandemia? O la vacanza-vuoto che viene dopo?

Facciamo un gioco: ti ricopio qui quattro o cinque righe, poi ti dico da dove sono prese. “Che costa stava succedendo? Cosa aleggiava nell’aria? Litigiosità. Suscettibilità a fior di pelle. Indicibile insofferenza. Una generale tendenza al battibecco velenoso, a crisi di rabbia che potevano addirittura sfociare in colluttazioni. Liti accanite e alterchi insolenti e fuori controllo esplodevano tutti i giorni sia tra i singoli che tra i gruppi, e il fatto caratteristico era che anche coloro che non vi erano implicati, anziché scandalizzarsi partecipavano in modo simpatetico lasciandosi parimenti andare, almeno in cuor loro, alla rissa”. Un sociologo contemporaneo? No. Thomas Mann cento anni fa. Forse la vacanza da incubo è appena cominciata. Mentre il mio trasloco non è ancora finito.

Ti abbraccio, Paolo

“Niente di antico sotto il sole”: Ghirri, Hopper e l’arte in ferie

Nel tentativo di guardare la Nascita di Venere, agli Uffizi, non si riusciva a vederne il mare, solo teste di una folla che preme e si accalca sulle rive del quadro più per fotografare che per guardare, ed è evidente, lo scrive anche Gaston Bachelard in Psicanalisi delle acque che “il bagno è diventato sinonimo di folla”. Bella metafora della nostra realtà, annaspare verso l’immaginario di Botticelli coi piedi sul pavimento di un Museo, oggi che dee al bagno, ninfe e nereidi sono state sloggiate dagli umani dell’Antropocene.

Forse anche per questo, per una comprensibile attenzione verso le masse, dall’Ottocento ai nostri giorni ci pensano gli artisti a rappresentare moltitudini di corpi umani nudi e seminudi su scenari di spiagge, mari, ombrelloni e sedie a sdraio, occupandosi del palcoscenico tutto contemporaneo relativo alla “vacanza” in spiaggia, ritualità collettiva con addizione di abbronzatura e nuotata (ancora Bachelard: “Il bagno è diventato solo uno sport”). Un tema ricco di possibilità narrative e coinvolgente per diversi motivi, testimone del resto il cinema italiano che fino al Sorpasso di Dino Risi del 1962 e Casotto di Sergio Citti del 1977 e oltre produce immagini indimenticabili.

Poi, la fotografia, e arriva Massimo Vitali, che visiona distese di persone su immensi spazi marini, creature che puntinano la sabbia come la matita il supporto di carta, ed ecco che affiorano paesaggi umani, territori dove la massa, distante e senza faccia, non ha alcun potere, se non quello di costruire semplicemente alterità geografiche. Altra epifania in Luigi Ghirri, fotografo, teorico, curatore, di cui Quodlibet ha appena ripubblicato Niente di antico sotto il sole, uscito per la prima volta nel 1997 con il sottotitolo “scritti e immagini per un’autobiografia”, visto lo stretto intreccio di scrittura e fotografia.

Ghirri nasce a Scandiano, muore a 49 anni, nel 1992, e il suo quotidiano “sapersi orientare nel mondo” permea di sé le successive generazioni di artisti. Ghirri fotografa una vacanza terminata, il suo spazio e tempo, tracce di assenza e di solitudini.

A Marina di Ravenna nel 1966 una grande cornice bianca in legno per il rimessaggio delle canoe è come uno schermo che inquadra una porzione di paesaggio. È la soglia, è l’inquadratura naturale, su cui Luigi scrive testi memorabili, è la cornice dentro lo spazio della cornice fotografica: molteplici dimensioni convivono nella visione di un oggetto banale che è rivelatore, un “doppio sguardo”. Come nelle foto del 1972, ancora a Marina di Ravenna, condensazioni simboliche: un ombrellone rosso, agitato dal vento nel paesaggio statico e immobile, un lembo di spazio animato che si staglia su sparuti esseri umani.

La vita delle cose, strumenti di percorsi immateriali. Una piccola vecchia giostra, una postazione per gli esercizi agli anelli, tubi esili e struttura che rimemorano i fili sottili poveri gentili della scultura di Fausto Melotti. Come pure, alcuni suoi interni appartengono alla stessa “famiglia spirituale” delle stanze inondate di luce di Edward Hopper. Scrive Ghirri che attraverso la luce a volte finisce per rivelarsi sulla superficie del mondo anche qualcosa d’invisibile; dice Hopper: “Tutto quello che volevo fare era dipingere la luce del sole sul lato di una casa”.

E a proposito di relazioni con l’artista americano e con il suo realismo metafisico, fate una visita al Mart di Rovereto e vi troverete i dipinti di uno dei più significativi artisti del Novecento, innamorato anche di Hopper, oltre che di Bonnard e Balthus e di spiagge e bagnanti e di corpi nell’acqua, dall’isola comacina a Ischia, a Panarea, alla Normandia, agli oceani americani.

Si tratta dello “scandalosamente e recidivamente pittore” Leonardo Cremonini (Leonardo Cremonini-Karl Plattner, a cura di Daniela Ferrari, fino al 26 settembre), morto a Parigi nel 2010 dopo una vita passata a dipingere. Scrive Alberto Moravia in Le vacanze di Cremonini, “stabilimenti balneari, caffè all’aperto, alberghi, nei quali la borghesia si abbandona alle dolcezze velenose delle vacanze estive”.