“È tempo di togliersi l’ambra, è tempo di cambiare parole, è tempo di spegnere la lanterna sul portone”. È l’ultima lirica di Marina Cvetaeva, icona della poesia russa del XX secolo e di quei rifugiati “bianchi”, sostenitori dello zar, che durante la rivoluzione del ‘17 e la conseguente guerra civile lasciarono la Grande Madre per altri lidi.
Dal ’22 in poi Cvetaeva visse da émigré a Berlino, Praga e a Parigi. Quella lanterna pare congedo, bisogno d’altro, sensazione di buio e smarrimento per non aver più avuto, a un certo punto, una patria. Dappertutto esiliata, mai proclamatasi antisovietica ma solo dalla parte di vittime e perseguitati, sostenne di poter vivere senza origini ma così facendo ammise – lo fece attraverso la scrittura a cui rimase eternamente fedele – il bisogno di aver caro un luogo. “Per tutta la vita ho scritto, per eccesso di sentimenti. Ora provo in eccesso quali sentimenti? Offesa. Dolore. Solitudine. Paura. In quale quaderno si possono scrivere versi così?”. Dopo molto peregrinare Cvetaeva rientrò infatti controvoglia, nella primavera del ‘39, in una Russia stalinista che le era ostile. Assistendo all’arresto della figlia e al rapimento del marito (che conobbe in Crimea diciottenne e che sposò dopo che lui, lo lesse come segno del destino, trovò sulla spiaggia una corniola che Marina desiderava), entrambi contro il regime, si rifugiò infine in Tatarstan dove realizzò di non aver futuro (nessuno la pubblicava più) e di esser sola. S’impicca, a 39 anni. Desiderava essere sepolta a Tarusa, sotto un cespuglio di sambuco, ma finì in una fossa comune.
Colta, visionaria, ironica, piena di passione e amore, convertì questa dirompente vitalità d’animo in scrittura. Tra i temi portanti delle sue liriche vi è l’esilio di cui sono intrise anche quelle contenute in Ultimi versi. 1938-1941 (tutte inedite a parte quelle datate 1939, di cui qui accanto anticipiamo alcuni stralci, ndr), volume in uscita per Voland con la cura di Pina Napolitano, in occasione degli 80 anni dalla morte, a raccogliere la produzione degli ultimi quattro, due in Francia, due in Urss. “Sono poche” scrive Napolitano, “non solo se le si compara all’esplosione creativa dei primi anni 20, circa cento liriche all’anno, ma anche se si considera la produzione dei 30, in cui il minor numero di versi è bilanciato dai grandi saggi poetico-critici e dalle prose autobiografiche e memorialistiche”.
“Si trattava di versi politici solo in parte: erano anche, come sempre, versi d’amore”. Amore che si tinge di dolore specie per l’annessione nel ‘38 della regione dei Sudeti da parte di Hitler e l’occupazione della Cecoslovacchia nel ‘39. Cvetaeva vedeva la Boemia, terra che amò infinitamente, ovunque, con spirito nostalgico. Di sé diceva: “Nei miei sentimenti, come in quelli dei bambini, non esistono gradi”; “Io mi sono sempre fatta in pezzi, e tutti i miei versi sono, letteralmente, frammenti argentei di cuore”.
Figlia di una pianista e del filologo che fondò il Museo Puskin di Mosca, cominciò a scrivere versi a sei anni, pubblicò la sua prima raccolta, Album serale, nel 1910 a sue spese, ottenendo ottime recensioni. Non poteva sapere che sarebbe arrivato il tempo dell’emarginazione. “Nel ‘22 sono partita per l’estero, ma i miei lettori sono rimasti in Russia, dove i miei versi non arrivano. In emigrazione dapprima mi hanno pubblicato, poi mi hanno tolto dalla circolazione, avendo fiutato qualcosa di estraneo”. Vivere da emigrata non fu mai una passeggiata. La scrittrice Elena Izvol’skaja la ricorda così nei suoi primi anni a Parigi: “La mia Marina: quella che lavorava, e scriveva, e raccoglieva la legna, e nutriva la famiglia con le briciole”.
“Le poesie di questo volume”, in stile diretto, scarno, frammentato, “sono diario di un progressivo ammutolire”, sottolinea Napolitano, “sono gli ultimi, sparuti baluardi eretti dalla vita contro il dilagare del suo contrario. Non propriamente la morte, ma il non essere, l’informe della storia”. Boris Pasternak, con cui intrattenne, pur non incontrandolo mai, un fitto scambio epistolare scrisse di lei: “Nella vita e nell’arte aspirò sempre, impetuosamente, avidamente alla finezza e alla perfezione. Penso che la massima rivalutazione e il massimo dei riconoscimenti l’attendano”. Così è stato, venti anni d’oblio a parte, in Russia e nel mondo. Eccola, ancora, qui.