Una stella di nome Marina

“È tempo di togliersi l’ambra, è tempo di cambiare parole, è tempo di spegnere la lanterna sul portone”. È l’ultima lirica di Marina Cvetaeva, icona della poesia russa del XX secolo e di quei rifugiati “bianchi”, sostenitori dello zar, che durante la rivoluzione del ‘17 e la conseguente guerra civile lasciarono la Grande Madre per altri lidi.

Dal ’22 in poi Cvetaeva visse da émigré a Berlino, Praga e a Parigi. Quella lanterna pare congedo, bisogno d’altro, sensazione di buio e smarrimento per non aver più avuto, a un certo punto, una patria. Dappertutto esiliata, mai proclamatasi antisovietica ma solo dalla parte di vittime e perseguitati, sostenne di poter vivere senza origini ma così facendo ammise – lo fece attraverso la scrittura a cui rimase eternamente fedele – il bisogno di aver caro un luogo. “Per tutta la vita ho scritto, per eccesso di sentimenti. Ora provo in eccesso quali sentimenti? Offesa. Dolore. Solitudine. Paura. In quale quaderno si possono scrivere versi così?”. Dopo molto peregrinare Cvetaeva rientrò infatti controvoglia, nella primavera del ‘39, in una Russia stalinista che le era ostile. Assistendo all’arresto della figlia e al rapimento del marito (che conobbe in Crimea diciottenne e che sposò dopo che lui, lo lesse come segno del destino, trovò sulla spiaggia una corniola che Marina desiderava), entrambi contro il regime, si rifugiò infine in Tatarstan dove realizzò di non aver futuro (nessuno la pubblicava più) e di esser sola. S’impicca, a 39 anni. Desiderava essere sepolta a Tarusa, sotto un cespuglio di sambuco, ma finì in una fossa comune.

Colta, visionaria, ironica, piena di passione e amore, convertì questa dirompente vitalità d’animo in scrittura. Tra i temi portanti delle sue liriche vi è l’esilio di cui sono intrise anche quelle contenute in Ultimi versi. 1938-1941 (tutte inedite a parte quelle datate 1939, di cui qui accanto anticipiamo alcuni stralci, ndr), volume in uscita per Voland con la cura di Pina Napolitano, in occasione degli 80 anni dalla morte, a raccogliere la produzione degli ultimi quattro, due in Francia, due in Urss. “Sono poche” scrive Napolitano, “non solo se le si compara all’esplosione creativa dei primi anni 20, circa cento liriche all’anno, ma anche se si considera la produzione dei 30, in cui il minor numero di versi è bilanciato dai grandi saggi poetico-critici e dalle prose autobiografiche e memorialistiche”.

“Si trattava di versi politici solo in parte: erano anche, come sempre, versi d’amore”. Amore che si tinge di dolore specie per l’annessione nel ‘38 della regione dei Sudeti da parte di Hitler e l’occupazione della Cecoslovacchia nel ‘39. Cvetaeva vedeva la Boemia, terra che amò infinitamente, ovunque, con spirito nostalgico. Di sé diceva: “Nei miei sentimenti, come in quelli dei bambini, non esistono gradi”; “Io mi sono sempre fatta in pezzi, e tutti i miei versi sono, letteralmente, frammenti argentei di cuore”.

Figlia di una pianista e del filologo che fondò il Museo Puskin di Mosca, cominciò a scrivere versi a sei anni, pubblicò la sua prima raccolta, Album serale, nel 1910 a sue spese, ottenendo ottime recensioni. Non poteva sapere che sarebbe arrivato il tempo dell’emarginazione. “Nel ‘22 sono partita per l’estero, ma i miei lettori sono rimasti in Russia, dove i miei versi non arrivano. In emigrazione dapprima mi hanno pubblicato, poi mi hanno tolto dalla circolazione, avendo fiutato qualcosa di estraneo”. Vivere da emigrata non fu mai una passeggiata. La scrittrice Elena Izvol’skaja la ricorda così nei suoi primi anni a Parigi: “La mia Marina: quella che lavorava, e scriveva, e raccoglieva la legna, e nutriva la famiglia con le briciole”.

“Le poesie di questo volume”, in stile diretto, scarno, frammentato, “sono diario di un progressivo ammutolire”, sottolinea Napolitano, “sono gli ultimi, sparuti baluardi eretti dalla vita contro il dilagare del suo contrario. Non propriamente la morte, ma il non essere, l’informe della storia”. Boris Pasternak, con cui intrattenne, pur non incontrandolo mai, un fitto scambio epistolare scrisse di lei: “Nella vita e nell’arte aspirò sempre, impetuosamente, avidamente alla finezza e alla perfezione. Penso che la massima rivalutazione e il massimo dei riconoscimenti l’attendano”. Così è stato, venti anni d’oblio a parte, in Russia e nel mondo. Eccola, ancora, qui.

“Ma quindi la sinistra ci ha levato i diritti?”

Gilberto Rossi, insegnante iscritto alla Cgil, è stato rapito dagli alieni il 23 marzo 2002. In data odierna è stato riconsegnato alla moglie che lo attende nel tinello.

Giovanna, l’ultimo ricordo che ho è che eravamo al Circo Massimo, io, tu, gli altri del sindacato, per protestare contro l’attacco all’articolo 18 sferrato dal governo Berlusconi…

Non c’è più.

Berlusconi?

No, l’articolo 18. Berlusconi c’è ancora, ancora al governo insieme alla Lega.

E come hanno fatto a cancellare l’articolo 18?! Noi eravamo 3 milioni!

Non lo hanno cancellato loro, lo abbiamo fatto noi.

I Ds??

Nel 2009 ci siamo fusi con i democristiani e siamo diventati il Partito Democratico.

Come fusi con i democristiani? Non stavano al governo con Berlusconi?

Ora ci siamo noi.

Ma non hai detto che ci sta la Lega?

E pure noi.

Con la Lega di Bossi?!

Adesso è di Salvini. Uno che non festeggia il 25 Aprile, come metà dei suoi eletti. Vengono dal Msi, non vogliono ammettere la sconfitta.

E noi stiamo al governo con Berlusconi e con gli eredi del Msi???

E con Beppe Grillo.

Il comico?!

Ha fondato un partito ma dice che non è un partito. Infatti sono tre. Si chiama Movimento, perché si muove. Prima era al governo con il centrodestra, poi con il centrosinistra, ora con tutti e due.

Ma se siamo tutti al governo all’opposizione chi ci sta??

Altri eredi del Msi.

Che hanno rotto con Berlusconi?

No, sono ancora alleati. Governano mezza Italia insieme alla Lega.

E Bertinotti? Almeno lui sta all’opposizione?

Bertinotti è passato con Cl.

Comunismo Libertario?

No, Comunione e Liberazione.

Ma come è successo che NOI abbiamo cancellato l’articolo 18?

Si era creato un mercato del lavoro ingiusto, alcuni lavoratori erano garantiti e altri no. Per riequilibrare la situazione, abbiamo tolto le garanzie ai garantiti.

Ma è come se uno c’ha la gamba destra zoppa e per curarlo gli azzoppano la sinistra! Chi ha avuto quest’idea?

L’allora segretario del Pd, Matteo Renzi, un democristiano.

Che altro ha combinato?

Ha proposto un referendum per abolire il Senato promettendo che se lo avesse perso si sarebbe ritirato dalla politica.

Lo ha perso?

Sì, e fa il senatore.

Che faccia! Almeno lo abbiamo cacciato dal Pd!?

Se ne è andato lui e ci ha lasciato i renziani.

E il segretario ora chi è?

Enrico Letta.

Il nipote di Gianni? Che giustamente sta al governo con Berlusconi.

E con la Lega. Ti ricordi la Bicamerale di D’Alema? Ora è un open space.

Ma come fanno destra e sinistra a governare insieme?

Bocciando le proposte di sinistra e approvando quelle di destra. L’ultima è che vogliono rimettere i voucher. Contratti di lavoro che si comprano dal tabaccaio. Hanno il licenziamento incorporato. Niente contributi, niente ferie… un contratto con cui 400 mila lavoratori hanno guadagnato in media 500 euro.

AL MESE??

All’anno

Altra idea di Berlusconi??

No, sempre nostra. Poi il solito: spese militari, ponte sullo stretto…

Ma non c’è un minuto da perdere! Giovanna, chiama i compagni! Dove sono Bersani e gli altri?? Tocca scendere di nuovo in piazza prima che questi aumentino l’età pensionabile!

Troppo tardi.

Hanno aumentato l’età pensionabile?? Ma chi, sempre i democristiani?

No, proprio Bersani, quando era segretario del Pd e sosteneva il governo tecnico insieme a Berlusconi.

Tecnico?

Senza colore politico

E chi lo guidava?

Mario Monti, il senatore del centrodestra.

Ma perché Bersani e i compagni si sono fatti convincere a aumentare l’età pensionabile?

Si era creato un mercato del lavoro ingiusto, dove i giovani non garantiti non trovavano lavoro e i vecchi…

E per trovar lavoro ai giovani non mandiamo in pensione i vecchi?! Come è andata a finire?

Abbiamo quasi 6 milioni di persone in povertà assoluta e una famiglia su 10 in povertà relativa, il più alto tasso di disoccupazione giovanile d’Europa e la più alta percentuale di lavoratori poveri.

Beh, almeno ci siamo liberati di Brunetta.

No, è al governo.

Ma porca miseria! Ma come è successo??

Ce lo ha chiesto l’Europa. Ci ha scritto una lettera: diceva esplicitamente che dovevamo aumentare l’età pensionabile, precarizzare il lavoro, privatizzare e tagliare la spesa pubblica o saremmo finiti nel mirino degli speculatori. Bisogna uscire dalla crisi, l’Italia era sotto l’attacco delle banche d’affari, della Goldman Sachs. E allora il presidente della Repubblica ha dato l’incarico a Monti, banchiere della Goldman Sachs. Ha pensato: proviamo con l’omeopatia.

Un altro democristiano, immagino.

No, Giorgio Napolitano.

Io torno dagli alieni.

Non fare così.

Ma la lettera chi l’ha scritta?

Mario Draghi, il presidente della Bce.

Ora è in galera?

È il presidente del Consiglio.

Io torno dagli alieni. Io là fuori a fare questa figura di merda non ci vado. Con che faccia esco di casa e spiego ai giovani che per colpa nostra ci siamo ridotti così?

Se vuoi uscire ti devi mettere la mascherina.

Certo, mica vogliamo farci riconoscere.

Venezia – Mose, rimosso il provveditore Cinzia Zincone

Ufficialmente il provveditore alle Opere pubbliche del Triveneto, Cinzia Zincone, è caduta a causa di un’intervista. Ha dichiarato che il commissario straordinario nominato due anni fa per velocizzare i cantieri del Mose, l’architetto Elisabetta Spitz, è una figura “inutile, lo dimostra la situazione in cui siamo, i ritardi accumulati nei lavori e nella gestione del Mose, una situazione preoccupante e la stagione delle acque alte è già qui”. In 24 ore le è arrivato un avviso di sospensione per un mese. Ufficiosamente il provvedimento si riferisce a due vicende che sono cadute come tegole sulla testa della funzionaria prossima alla pensione. Il Demanio ha avviato un accertamento su una piccola casa del Magistrato alle Acque che le è stata data in affitto nel 2018, con un canone di 284 euro al mese, che per i prezzi veneziani è basso, anche se in linea con le tabelle ministeriali. Inoltre le viene contestato di aver pagato il credito integrale (850 mila euro) alla società Clodia di Chioggia, in presenza di una procedura concorsuale. Non avrebbe potuto, visto che l’elenco dei creditori è infinito, in attesa dell’amministrazione controllata appena chiesta dal liquidatore Massimo Miani.

In realtà, la traumatica sospensione nasce da un conflitto latente proprio con il commissario Spitz e dalle feroci discussioni sul Settimo Stato Aggiuntivo che Provveditorato e Consorzio devono firmare per stabilire come spendere 538 milioni svincolati dal Cipess a giugno. Spitz vorrebbe privilegiare il completamento del sistema elettromeccanico del Mose e chiede di accantonare il 10 per cento (53 milioni e mezzo) per le spese del Consorzio in questa direzione. Zincone, invece, si era rifiutata di firmare, ritenendo di non poter mettere in secondo piano gli interventi sulla salvaguardia e la tutela della Laguna.

Il Bollettino Cnel: a oggi è scaduto il 62% dei Ccnl

Il numero dei contratti collettivi di lavoro firmati in Italia sta per raggiungere la cifra monstre di mille. Una quantità spropositata che, sommata al fatto che il 62% di essi risulta scaduto, racconta quanto deboli siano le condizioni di chi lavora. Il dato emerge dall’ultimo rapporto del Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel), aggiornato al 30 giugno. I contratti nazionali sono arrivati a 985, crescendo di 35 rispetto al trimestre precedente e di 50 rispetto a un anno prima.

Questo costante aumento, che osserviamo da oltre dieci anni, è dovuto soprattutto all’ampia presenza nel nostro Paese dei cosiddetti “contratti pirata”: accordi firmati da organizzazioni spesso non rappresentative, che prestano il fianco alle imprese che vogliono risparmiare sul costo del lavoro (o comunque sui diritti). Quasi sempre, infatti, prevedono minimi tabellari più bassi di quelli siglati da Cgil, Cisl e Uil. Alle imprese, quindi, permettono una sorta di “turismo contrattuale”: si passa da uno all’altro allo scopo di pagare stipendi sempre più miseri. Una pratica che in Italia è del tutto tollerata, visto che non abbiamo un salario minimo legale, né esiste una legge che misuri la rappresentanza dei sindacati e stabilisca una certificazione ai contratti validi.

In primavera, durante la stesura della versione finale del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), il tema è per l’ennesima volta sparito dal programma del governo. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha preferito – viste le trattative per la riforma degli ammortizzatori sociali – evitare di infastidire i sindacati e la Confindustria, entrambi contrari al salario minimo per legge. Le aziende non lo vogliono perché aumenterebbe il costo del lavoro, i sindacati lo respingono perché temono che indebolirebbe lo strumento del contratto nazionale (e loro stessi). Il risultato è una galassia di contratti, salari fermi da decenni, lavoro povero oltre il 12%. L’ex ministra Nunzia Catalfo (M5S) ha presentato un disegno di legge che fissa il minimo a 9 euro orari, definendo i parametri per misurare la rappresentanza sindacale e disponendo che quella cifra serve solo come soglia al di sotto della quale non si può scendere. La situazione politica, però, rende difficile incardinare il tema nell’agenda del governo al rientro dalle vacanze.

Tornando al rapporto del Cnel del presidente Tiziano Treu (nella foto), i settori con il più alto numero di contratti scaduti sono Credito e Assicurazioni (85,7%), Poligrafici e Spettacolo (81,8%), Edilizia (72%). “Sempre con riferimento alla data di scadenza stabilita nei singoli testi – si legge – e rispetto ai documenti depositati in archivio, si segnala che ci sono 69 contratti scaduti nel primo semestre del 2021 non ancora rinnovati, nonché ulteriori 81 che andranno a scadenza nel secondo semestre 2021 e 117 aventi scadenza prevista nel corso del 2022”. La lentezza dei rinnovi, oltre che alla crisi, è dovuta anche alla linea lanciata da Carlo Bonomi una volta insediato al vertice di Confindustria: il diktat prevede di non concedere aumenti se non quelli legati all’inflazione. Posizione che non ha però bloccato il rinnovo dei metalmeccanici a febbraio.

Class action contro. Deliveroo per annullare il contratto farsa

Non è ancora finita l’offensiva giudiziaria della Cgil contro Deliveroo, la multinazionale del cibo a domicilio. Anzi, proprio ora che il sindacato ha inanellato una serie di vittorie in vari tribunali, è pronto a lanciare l’affondo finale: è appena partita una class action che ha l’obiettivo di costringere la piattaforma a chiudere definitivamente con l’accordo Ugl e applicare – questa volta a tutti i rider, non solo a quelli che presentano il ricorso – il contratto nazionale della logistica. Tradotto: si punta ad abolire una volta e per sempre il sistema adottato finora, fatto di precariato estremo, collaborazioni autonome, retribuzioni ancorate al numero di consegne, assenza di salari orari, negazione di diritti come malattia, maternità e ferie, per passare invece al lavoro subordinato classico.

La class action è uno strumento che nel diritto del lavoro è entrato in tempi recenti. La causa è stata depositata pochi giorni fa al Tribunale di Milano. A promuoverla sono Filt, Filcams e Nidil di Palermo, le sigle che nella Cgil rappresentano rispettivamente i trasporti, il commercio e i lavoratori atipici. A curarla è una squadra di avvocati composta da Matilde Bidetti, Carlo De Marchis, Giorgio Lo Monaco e Sergio Vacirca. Fa leva su una serie di pronunce che negli scorsi mesi hanno attestato l’invalidità del contratto collettivo dei rider firmato a settembre dall’Assodelivery (Deliveroo, Glovo e Uber Eats) e l’Ugl Rider, unico sindacato disposto ad accettare le condizioni imposte dalle app e nato proprio allo scopo di sottoscrivere quell’accordo di comodo.

Quel testo, come detto, consacra il meccanismo di pagamento “a cottimo” e prevede che per ogni ora effettiva di consegne – i minuti di disponibilità non vengono considerati – il minimo è di 10 euro. A bocciarlo, nell’ordine, sono stati il ministero del Lavoro a settembre, il Tribunale di Bologna all’inizio di luglio e – dieci giorni fa – il Tar del Lazio. Ci sono due problemi che lo rendono contrario alla legge approvata a novembre 2019 dal governo Conte 2. Il primo è che legittima appunto il cottimo, espressamente vietato dalla norma che invece spinge sugli stipendi orari. Il secondo è che, per essere efficace, dovrebbe essere firmato da più di un sindacato: se a siglarlo è uno solo, questo dovrebbe dimostrare di essere il più rappresentativo e l’Ugl non lo ha mai provato.

Proprio per questo, poco più di un mese fa, la Cgil ha vinto un processo per “condotta anti-sindacale” a Bologna. Da novembre 2020, Deliveroo aveva imposto ai suoi rider di accettare il contratto Ugl, minacciando il licenziamento (di fatto) per chi avesse rifiutato: per il Tribunale questo era un comportamento discriminatorio, quindi ha ordinato di farlo cessare.

“Dopo questa sentenza – spiega Tania Scacchetti, segreteria nazionale Cgil – Deliveroo ha però dato applicazione solo per i lavoratori di Bologna; l’obiettivo di questa class action è provare a estenderlo a tutti”. Il ricorso chiede di “disapplicare nei confronti del ricorrente, e dei rider della società aventi un interesse omogeneo leso, le condizioni economiche e normative del ccnl Ugl Rider, condannando la stessa ad applicare le condizioni del ccnl Logistica e Trasporti sottoscritto dalla Filt Cgil”. Proprio quella formula che parla di rider con “interesse omogeneo leso” serve a evitare che la pronuncia si sostanzi solo in favore del fattorino che firma la causa, ma abbia efficacia per tutti. La speranza della Cgil è dare il colpo di grazia finale al contratto Ugl, un accordo che pur essendo stato più volte dichiarato illegittimo, nella pratica continua a essere utilizzato per la maggior parte dei rider italiani.

Le decisioni giudiziarie contro le piattaforme, tra tribunali e Garante della privacy, hanno in questi tre anni stabilito diversi principi: ai rider spettano i diritti del lavoro dipendente (stipendi fissi, malattia e ferie), gli algoritmi che determinano i punteggi dei fattorini non possono discriminare chi sciopera o si ammala, i dati personali dei lavoratori vanno trattati in modo trasparente. “Noi abbiamo scelto di accompagnare questo percorso giudiziario ai tavoli politici – ha aggiunto Scacchetti – A settembre riprenderemo il confronto con il monitoraggio dell’accordo contro il caporalato, poi dovremo riprendere il tavolo sulle condizioni di lavoro, che è quello più difficoltoso”.

Arrivati i primi 25 miliardi del Pnrr: ecco come vanno spesi. Draghi: “Ora le riforme”

Come previsto, la Commissione Ue ha accreditato al Tesoro italiano l’acconto del 13% sul Recovery Plan previsto dagli accordi raggiunti in sede europea nel 2020: si tratta, per l’Italia, di circa 25 miliardi di euro sui 191 abbondanti del Piano (scomponendoli parliamo di 9 miliardi di sovvenzioni e 16 miliardi di prestiti). I tempi d’impiego sono stretti: 1,6 miliardi andranno a coprire spese già fatte nel 2020, altri 15,7 vanno invece spesi entro l’anno, il resto nel 2022.

Quanto ai progetti da finanziare, invece, due di quelli che assorbono più risorse – entrambi nella missione “digitalizzazione” – sono il cosiddetto programma “Transizione 4.0”, cioè crediti d’imposta per stimolare gli investimenti innovativi delle imprese (1,7 miliardi su 24 totali), e il Fondo Simest per l’internazionalizzazione delle Pmi (che chiama 1,2 miliardi). Nel capitolo transizione ecologica invece sono compresi gli 1,6 miliardi per il biennio 2020-21 per l’efficienza energetica dei Comuni e la valorizzazione del territorio e i 468 milioni di euro che rimpingueranno il plafond del cosiddetto Superbonus al 110%.

Non mancano, ovviamente, i soldi per l’alta velocità ferroviaria: 930 milioni per la Liguria-Alpi; 493 per la Brescia-Verona-Padova; 110 milioni per la Napoli-Bari; 47 milioni per la Palermo-Catania; 20 per la Salerno-Reggio Calabria; 361 milioni per il potenziamento dei nodi ferroviari metropolitani; 188 milioni per l’elettrificazione della rete nel Sud. Sempre alle infrastrutture, ma sanitarie (rafforzamento degli ospedali), sono dedicati altri 800 milioni, mentre alla messa in sicurezza delle scuole 700 (ci sono anche 650 milioni per gli asili nido e 400 per la riduzione dei divari territoriali. Al capitolo “lavoro” vanno 600 milioni: 400 per le politiche attive e 200 per il potenziamento dei centri per l’impiego.

Questi soldi, peraltro, non sono solo vincolati alla tempistica e alle destinazioni concordate con Bruxelles, ma il rispetto dei parametri di impiego dei fondi – come l’approvazione delle riforme inserite nel Pnrr – è un prerequisito essenziale per l’accesso ai successivi finanziamenti: “L’assegnazione di queste ingenti risorse richiama tutti noi al senso di responsabilità nei confronti degli impegni presi verso noi stessi, verso il nostro futuro e verso l’Europa”, ha messo a verbale Mario Draghi annunciando che “il governo presenterà, in coerenza con il Piano, la riforma della concorrenza e la delega per la riforma del fisco”. Un messaggio alla sua maggioranza, che su quei due provvedimenti si è così spaccata da costringere il premier a rinviarli a settembre.

Male, non malissimo grazie ai vaccini

Spesso abbiamo reclamato la necessità di affidare ai numeri, ai dati oggettivi, la reale descrizione del momento pandemico. Dobbiamo, però, come ho citato anche in precedenti articoli, non commettere l’errore di tralasciare tutte le variabili determinanti il reale significato. Stiamo leggendo interpretazioni opposte: la pandemia si sta esaurendo, siamo nei guai, la situazione è grave. Cerchiamo di contestualizzare i dati: paragoniamo i numeri relativi ai parametri principali abitualmente presi in considerazione, in un giorno di agosto del 2020 e di quest’anno. Potremmo esser colti da sconforto. L’11 agosto, per esempio: nel 2020 i ricoverati con sintomi erano 801, nel 2021 sono 2948, i ricoverati in terapia intensiva 49 verso 337, i decessi 6 verso 31, dimessi/guariti, 213 verso 4450. Abbiamo girato a vuoto? Stiamo sbagliando tutto? Probabilmente non è cosi. Proviamo a contestualizzare: innanzitutto oggi siamo in piena circolazione della variante Delta. Studi hanno dimostrato che, dal punto di vista della capacità infettiva, ci troviamo davanti a un “nuovo” virus che dà infezioni con cariche virali molto elevate, incubazione dimezzata rispetto al virus precedente, capacità invasive almeno quadruplicate. Attualmente poi i pazienti ricoverati in gravi condizioni e i deceduti sono in prevalenza soggetti non vaccinati. Anziani e soggetti fragili sono ancora le vittime preferite dal virus. Cosa ci dicono questi dati? Se non avessimo imparato ad adottare le misure di contenimento, i positivi sarebbero forse quadrupli rispetto agli attuali. Che il vaccino non risolve da solo la pandemia ma è prezioso per salvare vite umane. Malgrado la circolazione della nuova variante, i vaccini funzionano. Quanti decessi avremmo, se non fossimo stati vaccinati? L’attuale situazione ci indica che le strade sono due: non alternative, ma entrambe. Convincere gli anziani ancora reticenti a vaccinarsi. L’altra è adottare schemi terapeutici precoci, al primo dubbio d’essersi infettati. Le prime 72 ore dell’infezione sembrano essere determinanti. Se non si blocca l’infiammazione in questo periodo, difficilmente si potrà evitare una malattia severa.

C’è troppo lavoro: non se ne può più

Diciamocelo,ormai non si campa più. Dirà il lettore: il caldo? Il Covid? La crisi? Ma magari! Fossero questi i problemi… È che non si può più uscire di casa senza incontrare almeno dieci imprenditori disperati che ti chiedono, le lacrime agli occhi, se per caso non vuoi lavorare per loro. Non è uno scherzo e quando – come d’estate capita – si esce vestiti molto casual, il pericolo aumenta. Ieri, ad esempio, nei pressi della redazione chi scrive è stato fermato da un distinto signore dal forte accento orobico: “Lei sembra proprio un percettore del reddito di cittadinanza”, dice. “Ma veramente io…”. La replica si strozza in gola, perché lui già piange: “La prego, venga a lavorare nel mio ristorante, ne ho bisogno, mancano 150 mila camerieri, 4.146 solo a Bergamo. Venga, pago quel che vuole”. A quel punto, però, si materializza accanto a noi un imprenditore dell’autotrasporto campano: “No, per carità, signor sussidiato venga da me: cerco 60 camionisti a 3.000 euro al mese e non trovo nessuno. È un disastro, pensi che nel settore mancano 17 mila autisti”. “Certo, la capisco ma…”. Un urlo. “Per favore, per carità, rinunci al divano per il mio hotel”, s’accora un azzimato signore ligure: “Sono avvilito, non vivo più. Ma si rende conto che mancano 200 mila stagionali? Faccia lei il prezzo, ma venga: il Paese ha bisogno di lei…”. Neanche ha finito che ho una mano sulla spalla. È Massimo Scaccabarozzi, presidente di Federfarma: “A noi ne mancano 30 mila: un paio di settimane di formazione e poi cureremo il Covid insieme”, ammicca mellifluo. È in quel momento che infilo deciso il portone della redazione, mentre proseguono le urla: “No, l’industria conserviera è al collasso: vanno a vuoto un terzo delle ricerche”. “E l’edilizia allora? Non sa che i nostri nonni si spaccarono la schiena? Lavativo!”. “E l’informatica? Non si vergogna di non mettersi in gioco?”. Davvero, così non si campa più: “Signori – gli urlo, ormai al sicuro, dalla finestra – capisco il vostro dolore, ma ho già un mestiere, il secondo più antico del mondo, il giornalista”. Sì, considerando che i numeri a cazzo scritti qui sopra sono tutti presi da grandi giornali nazionali, magari non sarà un mestiere onorevole, ma – come si diceva una volta – sempre meglio che lavorare…

Il green pass e quel giovine che giurò su suo zio

Sarà vero ? Non lo so, la riferisco così come mi è stata raccontata e ne approfitto per incrementare il mio piccolo bagaglio di nozioni. Mi spiego. Ero al corrente che per confermare la verità di ciò che si afferma a volte si ricorre al giuramento. C’è chi giura sulla testa dei propri figli, ovviamente se ne ha. Chi lo fa sul proprio onore, che mi sembra sempre un azzardo trattandosi di affermazione da prendere comunque con cautela. C’è infine chi giura su Dio con la chiara intenzione di chiudere lì la questione, stante la chiara fama del chiamato in causa. Ma che si potesse giurare sulla testa di uno zio mi era assolutamente ignoto. Eppure così è accaduto, mi racconta un amico ristoratore, in questi giorni in cui il green pass è divenuto obbligatorio per sedere all’interno di un locale. Succede appunto che controllando come previsto la dotazione del detto pass l’amico si imbatte in un soggetto che ne è sprovvisto. Cioè, spiega costui, ce l’ha ma, avendo dimenticato il telefono da qualche parte, non gli è possibile dimostrarlo. Il mio amico ristoratore si stringe nelle spalle, gli scoccia fare la parte del cerbero, ma la legge è legge, non può lasciarlo entrare e aggregarsi alla compagnia che l’ha preceduto. Ed è in quel momento che il tizio sbotta: “Ce l’ho, lo giuro in nome di mio zio!”. Immagino la faccia del mio amico, costretta tra la serietà del momento e l’idiozia che ritiene di aver appena udito. Vince l’ilarità: lo zio? Che c’entra ? Ma il tipo è serio, ribatte a muso duro. Giovanotto, sbotta, forse non sa che Socrate giurava in nome delle oche? Di male in peggio, sul volto del mio amico compare lo sconcerto. E l’altro ne approfitta per spiegare che stante l’assonanza in greco tra Zeus e oca, il grande filosofo onde non usare troppo e a sproposito il padre degli dei tutti ricorreva a quello stratagemma. Tal quale a lui, che giura su Dio quando la questione è seria, affidandosi, sempre per assonanza, allo zio per cose correnti. E come è finita ?, chiedo. Spiegandogli che ha sbagliato nella scelta, mi risponde l’amico, perché la faccenda purtroppo è seria e pregandolo di scusarmi con lo zio se non lo ritengo garante sufficiente.

Una nuova legge contro i roghi nei nostri boschi

 

“Occorre spazzare quella opaca area di interessi illeciti e criminali che punta ai finanziamenti”.

(da una nota del Wwf Sicilia sugli incendi, 13 agosto)

 

Finché lo dice Matteo Salvini, pazienza. Ma fa specie sentire il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, fisico e accademico, parlare in tv di “piromani” a proposito degli incendi che stanno devastando il territorio di mezza Italia: dalla Sardegna alla Sicilia, dalla Campania alla Calabria e alla Puglia.

Non è semplicemente una questione semantica. Dietro l’uso improprio di quel termine, affiora una certa tendenza al fatalismo e alla rassegnazione, quasi che i roghi fossero una calamità naturale o un rituale estivo. In realtà, secondo il vocabolario Treccani, il piromane “è affetto dall’impulso ossessivo a provocare incendi”: insomma, un malato, un soggetto psicopatologico, incline ad appiccare il fuoco. E invece, i responsabili di questi misfatti contro la natura sono in genere delinquenti più o meno organizzati che spesso hanno l’obiettivo di bruciare la vegetazione per “liberare” i campi agricoli e renderli disponibili per impiantare magari i pannelli fotovoltaici o le pale eoliche.

È una sorta di contrappasso, dunque, che sia proprio la conversione energetica a innescare questi scempi, armando la mano di chi punta ad accaparrarsi i fondi europei destinati a sviluppare le fonti rinnovabili, per ridurre l’inquinamento atmosferico e contrastare il riscaldamento del pianeta. Altro che “piromani”, come dice Cingolani. Questo è un esercito di speculatori e incendiari che cerca di sfruttare le opportunità della transizione ecologica per concludere affari e malaffari.

Vero è che una “legge-quadro in materia di incendi boschivi”, la n. 353 del 2000, stabilisce che sui suoli investiti dal fuoco “è vietata per dieci anni la realizzazione di edifici nonché di strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive”. Ma, a distanza di vent’anni, non sarebbe superfluo introdurre un emendamento per specificare che fra queste “attività produttive” è compresa l’installazione di pannelli fotovoltaici e di pale eoliche, abolendo la deroga – per evitare equivoci o scappatoie – che consente la “costruzione di opere pubbliche necessarie alla salvaguardia della pubblica incolumità e dell’ambiente”. E soprattutto, sarebbe opportuno riorganizzare l’attività di sorveglianza e prevenzione, delegata alle Regioni, coordinando l’intervento del governo nazionale che in questo caso è stato inadeguato e tardivo.

Al ministro Cingolani bisogna dare atto, tuttavia, di aver menzionato anche l’emergenza climatica che ormai incombe su tutto il globo. A dispetto del “negazionismo ambientalista”, le temperature roventi di questa estate 2021 dimostrano che il pericolo minaccia la sopravvivenza del pianeta, il futuro e la salute dei nostri figli e nipoti. Siamo ancora in tempo per scongiurare l’apocalisse, ma la situazione tende a peggiorare di giorno in giorno.

Rincresce, perciò, che il ministro abbia assunto posizioni contrastanti con la prospettiva della transizione ecologica: le concessioni per le trivellazioni petrolifere, dall’Alto Adriatico al Mar di Sicilia; la richiesta di proroga all’Ue per l’applicazione della direttiva contro la plastica monouso; fino all’ipotesi da lui stesso ventilata della fusione nucleare e dei mini-reattori per usi domestici. Se è vero che entro il 2030 dobbiamo ridurre le emissioni di gas serra del 50% rispetto al 1990 e completare entro il 2050 la “decarbonizzazione”, allora occorre una svolta rapida e radicale. È necessario cioè adottare un nuovo modello di sviluppo economico-sociale, modificando i nostri comportamenti e i nostri consumi individuali e collettivi.