Addio a Maria Rosa, “sorella” antimafia nel solco di Falcone

Era appena arrivata a Riace per godersi qualche giorno di vacanza dopo un anno duro. Maria Rosa Pilliu, 71 anni, è morta, probabilmente per un arresto cardiaco poco dopo essere scesa dal pullman che l’aveva portata in Calabria con una comitiva di amici da Palermo. La sorella Savina, 66 anni, la teneva per mano fino a pochi minuti prima, come fa sempre da quando l’Alzheimer ne ha fortemente limitato l’autonomia. Sono state unite una vita. Di origine sarda, cresciute nelle casette di Piazza Leoni a Palermo, danneggiate dalle ruspe del costruttore Pietro Lo Sicco, poi condannato per concorso esterno per i suoi rapporti con la mafia. Presto orfane di padre e con una madre anziana, per 30 anni hanno lottato fianco a fianco in tutti i tribunali opponendosi alla prepotenza e all’arroganza mafiosa, insieme, da sole.

Come i lettori del Fatto sanno bene, talvolta lo Stato le ha abbandonate. Dopo avere vinto la loro battaglia in tutti i tribunali, il ministero non le ha riconosciute vittime di mafia e l’agenzia delle Entrate ha chiesto loro pure le tasse (22 mila 840 euro) sul risarcimento di 800 mila euro più interessi che il costruttore mai pagherà perché non ha più nulla: il suo patrimonio è stato confiscato dallo Stato. Una beffa kafkiana alla quale abbiamo dedicato con Pif il libro Io posso, uscito per Feltrinelli il 27 maggio e poi in edicola con Il Fatto in co-edizione con Paper First. Il libro è divenuto un caso editoriale, una sorta di “chiamata alle armi” che punta a cambiare il finale della storia usando i diritti, devoluti dagli autori alla causa. I lettori hanno risposto e il libro è ancora in classifica. Il primo obiettivo è centrato: pagare la cartella esattoriale. Più difficile l’altro: far rinascere le casette dove le Pilliu sono cresciute. Oggi sono diroccate mentre il palazzo abusivo costruito illegalmente svetta beffardo lì di fronte nel cielo di Palermo. Il sogno di Savina è farle rinascere come simbolo tangibile dell’antimafia vincente.

Per ritemprarsi dopo l’ennesimo anno di lotta, Savina pensava di fare un bel bagno con Maria Rosa nelle acque dello Ionio. “Non immaginavo fosse così doloroso rievocare ogni volta quei brutti ricordi”, ci aveva detto pochi giorni fa per spiegare la tristezza che sentivamo calare nella sua voce. Ora dovrà andare avanti da sola. Grazie al comune di Riace che ha accelerato le pratiche, Maria Rosa tornerà oggi a Palermo e il funerale probabilmente sarà all’inizio della prossima settimana.

Il libro Io posso è stato un piccolo raggio di sole nella fase finale della vita di Maria Rosa. Due mesi fa siamo riusciti a riportare le sorelle nella Biblioteca comunale di Palermo dove avevano visto per la prima volta Salvatore Borsellino nel giugno 1992, mentre il giudice ricordava in un dibattito nel cortile di Casa Professa il suo amico ucciso un mese prima: Giovanni Falcone. In quel luogo lo avevano ascoltato, si erano commosse e avevano preso il coraggio per andare in Procura a parlargli delle angherie che stavano subendo. Maria Rosa era la sorella maggiore, quella che parlava per prima. Quando il 9 giugno scorso le sorelle sono entrate a Casa Professa è partito un applauso che sembrava un abbraccio. Chissà cosa avrà pensato Maria Rosa dietro lo sguardo perso. Una cosa è certa: ha visto Savina felice tra la gente amica e si è rasserenata. Quell’ovazione è stato l’ultimo tributo di Palermo a Maria Rosa. A un certo punto la moderatrice del dibattito, Elvira Terranova, ha chiesto a Savina: “In questi 30 anni qual è stato il momento in cui avete pensato di mollare?”. La risposta di Savina è stata: “Mai”. Ora senza Maria Rosa sarà più difficile ma Savina ha accettato pochi giorni fa l’invito alla Festa del Fatto il 4 settembre prossimo. Noi speriamo che ci sia perché le sorelle Pilliu restano. Nel libro Io Posso e nella mente di quelli che si sono indignati leggendolo.

 

Gino, quel moto perpetuo da generoso utopista

“In alcuni posti ho lasciato la salute”. Rispose così Gino Strada a Francesco Battistini che lo intervistava per il Corriere della sera. Era il gennaio del 2019, Emergency compiva 25 anni. Alla domanda se si sentisse stanco, spiegò che l’anno trascorso in Sierra Leone fronteggiando Ebola, nemico tra i più feroci e subdoli che avesse conosciuto, era stato “devastante”. E che per lui valeva alla fine la battuta di Woody Allen: “Non sono tanto gli anni, è il chilometraggio”. Il moto perpetuo tra guerre, chirurgie ardite, costruzioni di ospedali, diplomazie difficili e incontri segreti a rischio. E dibattiti, per far sapere agli ignari.

Dice che è stato il cuore. Se fosse così, e molte sono le conferme ufficiose, si potrebbe dire che Gino sia morto di generosità e di utopia. Ovvero delle sue qualità indomabili. Che sia stato un grande utopista non vi è dubbio. Lo è stato sempre. E accettava volentieri la qualifica. L’utopia lo mosse giovanissimo, quando il vento del Sessantotto, di cui è stato uno dei figli migliori in assoluto, faceva librare nei pensieri di una generazione cose impossibili. Che quelli come lui cercarono di trasformare progressivamente in realtà.

Fece parte dell’anima forse più realizzativa del movimento studentesco milanese, quella degli studenti di medicina, che misero sottosopra uno dei sistemi accademici e di potere più gerarchici e baronali, senza rifiutarne le competenze (il professor Staudacher fu uno dei maestri di Gino Strada) ma rovesciando le prospettive del mestiere, battendosi per la sanità come servizio (“al servizio delle masse popolari”, naturalmente), creando nuove branche disciplinari, a partire dalla medicina del lavoro e dalla medicina del territorio. Per non parlare dei consultori.

Gino prese una specialità di nicchia, la chirurgia di guerra, e in un mondo dove le guerre andavano moltiplicandosi e diventando endemiche, in cui i Paesi più avanzati si arricchivano vendendo armi a quelli più poveri, ne fece il cuore di una nuova medicina universale. Battendosi tenacemente contro tutto ciò che generava il bisogno della sua chirurgia speciale. Ossia la guerra e tutto il resto. Indimenticabile è nella mia memoria l’impegno assiduo, inesausto, contro le mine. Altro che chilometraggio se penso a quanto girava e si spendeva contro la prassi disumana che in Afghanistan produceva schiere di ragazzi e di bambini senza gambe o senza braccia. Mi aprì il mondo un giorno – era la seconda metà degli anni 90 – a un convegno sulle armi a cui lo avevo invitato a Milano: ne vedeva a centinaia di ragazzi da amputare e aveva ancora addosso l’indignazione della prima volta. Perché non si abituò mai alla guerra, Gino. Non si abituò mai alle sofferenze degli innocenti.

Nasceva anche da lì il moto perpetuo, la sensazione di dovere fare sempre di più. Ogni tanto mi è stata sussurrata l’immagine di Emergency come un “impero”, la stessa parola usata per “Libera”, quasi che il lavoro sociale di frontiera debba per definizione essere povero, precario e odorare di elemosina. L’impero erano ospedali nuovi, medici, infermieri, logistiche coraggiose, nei luoghi in cui nessuno avrebbe investito sulla sanità, a partire dal Sudan, dall’Iraq o dallo Yemen. Riuscì a farne ovunque, in aree del pianeta dove la stessa idea di Stato era una scommessa. Si rammaricava di non esserci riuscito in Somalia e in Cecenia. Perché anche l’utopista sbatté nel concetto di impossibile. Fatto sta che Emergency, la grande creatura allevata insieme a Teresa, la moglie da tutti amata e stimata persa nel 2009, ha portato ovunque la sua sola missione – salvare vite umane – senza parteggiare per nessuno, benché Gino le sue idee politiche le avesse eccome. Soprattutto sulla guerra e sulla pace. Solo a sentire certe parole scattava imbufalito, intransigente, tagliente.

Sempre disponibile a discutere, però, appena riconosceva nell’altro la buona fede. Con lui se ne va un cittadino del mondo che all’Italia, nel mondo, ha dato dignità e prestigio. Peccato che ogni volta che, nelle occasioni più svariate, si sono pomposamente compilati elenchi dei nostri concittadini illustri in campo internazionale il suo nome non sia stato fatto. Peccato che quando si sono celebrate le gesta dei nostri medici davanti alla peste cinese, elogiando l’etica dei nostri camici bianchi, Gino Strada e gli altri medici che pure hanno lottato per decenni contro Ebola o le bombe non siano stati citati di rimbalzo nemmeno per sbaglio. Il suo nome era segno e causa di contraddizione, è vero. E il bon ton non gli si addiceva. Ma la verità è che gli innovatori autentici, e lui lo era, non trovano mai tappeti rossi. Speriamo solo che quel che ha fatto e dato gli venga riconosciuto ora che il chilometraggio ha fatto il suo lavoro sporco. Ora che la sua splendida utopia lo ha portato, una tappa dopo l’altra, fino all’ultimo traguardo possibile.

 

In tv: “Vacanze di Natale”, “L’esorcista”, Polanski e il dottor Zivago in Iraq

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Premium Cinema 1, 0.30: L’esorcista, film horror. In Iraq, la spedizione archeologica guidata da padre Mellon, un anziano esorcista cardiopatico, dissotterra finalmente, dopo varie bagatelle (cocci di anfore, un barattolo Liebig, un osso di cane, i rotoli del Mar Morto, un giacimento di petrolio e un vaso da notte), la statua di un demone assiro, Belfagor. PADRE MELLON: “Questo porta sfiga”. SCHIAVO: “Belfagor?”. PADRE MELLON: “No, il petrolio. Causa sempre guerre devastanti”. SCHIAVO: “Figuriamoci! Chi può essere così idiota da venire a fare una guerra in Iraq?”. A Washington, frattanto, un’attrice scopre che la figliola sta giocando alla seduta spiritica con una tavoletta Ouija. L’ATTRICE: “Smettila. È impossibile parlare coi morti”. BIMBA: “Hanno chiamato loro!”. L’attrice dà un party per la proiezione del suo ultimo film, Vacanze di Natale: ha invitato il regista, Roman Polanski, e un giovane gesuita sul quale ha messo gli occhi, padre Karra. Inizia il film, e la bambina giustamente ha un attacco isterico: vomita, si piscia addosso, bestemmia, collassa in preda alle convulsioni. Un medico, il dottor Hannibal Lecter, visita la bambina, e si inietta un calmante. LECTER: “Mai vista una bronchite così”. POLANSKI: “E non sai cosa fa coi crocefissi”. Quella notte, la bimba sveglia la madre: non riesce a dormire perché il suo letto si muove. L’ATTRICE: “È un materasso vibrante. Fanne buon uso”. Sere dopo, l’attrice affida la figlia a Polanski ed esce con padre Karra, la cui vocazione vacilla da quando ha perso la madre in una scommessa (recitare il Credo in apnea); quando torna, la donna scopre che Polanski è morto sfracellato volando dalla finestra: ma perché sul volto ha quel sorriso soddisfatto? Il tenente Kojak, sospettando un omicidio, interroga Jeffrey Dahmer, Shiran Shiran, O.J. Simpson, Braccobaldo e padre Karra, mentre tutti gli spettatori hanno già capito che la colpevole è la bambina, perché ogni volta che viene inquadrata parte una musica sinistra. Neanche il dottor Kildare e il dottor Zivago riescono a capire di cosa sia malata la stronza. KILDARE: “Non resta che l’esorcismo, anche se non lo passa la mutua”. L’ATTRICE: “Un esorcismo? Come farà a guarirla?”. KILDARE: “Male non fa”. L’ATTRICE: “Perché non le fate inalare l’amianto, allora?”. ZIVAGO: “Ci abbiamo pensato, ma causa il cancro”. L’ATTRICE: “Bè, almeno sapreste cos’ha”. L’attrice, disperata, chiede l’esorcismo a padre Karra: ma quando questi vede la bambina cambiare espressione, sbavare sfaccimma, masturbarsi con un crocefisso, camminare sui muri come un ragno, leggere Alberoni e parlare in latino con la voce di Belfagor, telefona spaventato al suo superiore: questi gli consiglia di chiamare in aiuto l’anziano padre Mellon, cui farà da assistente per l’esorcismo, e poi torna dal suo chierichetto. Karra e Mellon fanno l’esorcismo di notte, così è più pauroso per tutti, ma l’esorcismo è faticoso perché Belfagor è in gran forma, e turba padre Karra trasformando la bambina nella sua attrice preferita, Juliette Greco. Padre Mellon gli ordina di uscire dalla stanza, ci penserà lui; ma quando padre Karra rientra, padre Mellon è morto d’infarto, e il suo sorriso soddisfatto lascia intuire come. Con una preghiera gigantesca, padre Karra ordina a Belfagor di uscire dal corpo di Juliette Greco, e Belfagor obbedisce, entrando nel corpo di padre Karra. Diventato Juliette Greco, padre Karra miete successi a Las Vegas, mentre l’attrice e la figlia, per dimenticare l’incubo vissuto, si trasferiscono a Los Angeles, in una villa in affitto sulle colline di Bel Air, al 10050 di Cielo Drive.

 

Mail Box

 

 

Sul caso Farina, troppe le baggianate scritte

Certo che a definire Brunetta un “gigante del pensiero” si raggiungono delle vette di servilismo da record olimpico! Grazie per l’articolo del 6 agosto a firma di Monti e Salvini, che rende note tutte le baggianate scritte da Farina, con sagace ironia. Ci lamentiamo della politica ma quando si accendono i riflettori sulle motivazioni alla base della scelta dei collaboratori “apriti cielo”! Sallusti vi chiami come preferisce, ma il vero insulto è sapere che lui è considerato un vostro collega!

Danilo Babbabino

 

Durigon si dimetta anche da parlamentare

Carissima redazione, ho immediatamente firmato la petizione per la cacciata di Durigon da sottosegretario del governo e vorrei si dimetta anche da parlamentare, in ossequio al fatto che al tempo dei suoi amati Mussolini, non andava di moda criticare il regime e restare al proprio posto. Ma già che ci siamo, non sarebbe male che il ministro degli Esteri rimettesse il mandato, in quanto ha avallato la nomina di ambasciatore a Singapore (mica Cuneo) del fascio-rock Mario Vattani. Che pare ancora più grave, in quanto fa apparire l’Italia non commendevole.

Franco Novembrini

 

L’Italia brucia: servono più vigili del fuoco

Complimenti per la doppia pagina dedicata alla Calabria in fiamme: perfetta l’analisi di Caporale e il documentatissimo pezzo di Bisbiglia e Oliva. Conosco molto bene quella realtà per varie motivazioni. Aggiungo una sola considerazione che mi induce quanto da voi scritto: con 160 milioni annui di costi per il “servizio Aib” si potrebbero assumere 4 mila vigili del fuoco, professionali e permanenti, che rappresenterebbero oltre il 10% in più dell’attuale organico dei Vigili del fuoco. Ciò vale per tutte le regioni italiane che – complessivamente – solo per il cosiddetto antincendio boschivo spendono più di quanto costa il Corpo nazionale. Perché non farlo?

Vito Pindozzi

 

Delusione a 5 Stelle, non ci resta che Conte

Ho letto l’intervista a Vito Crimi, apparsa sul Fatto del 9 agosto e vorrei controbattere a una sua affermazione. Essere al governo non ha fatto altro che impedire ai 5S di dire la verità. Il governo Draghi è l’esecutivo della reazione contro i cittadini e a favore della grande finanza. La riforma Cartabia, pur con le modifiche ottenute, resta una porcheria senza pari, così come l’operatività del ministero della Transizione ecologica, una vera presa in giro. All’opposizione non possiamo sapere cosa i 5S avrebbero ottenuto ma senz’altro avrebbero reso chiaro ciò che accadeva e avrebbero mostrato agli italiani quale era la direzione da prendere. Così, invece, la maggioranza dei cittadini, che segue solo fino a un certo punto i fatti complicati della politica, non ha capito più niente. L’unico partito che sta guadagnando consensi è l’unico all’opposizione (guarda caso). Questa folle politica del restare attaccati al governo, qualunque esso sia, è un tradimento di questo Movimento e un suicidio politico, che solo l’ingresso di una brava persona come Conte riuscirà in parte a lenire. Che tristezza!

Enzo Formisano

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile direttore, le scrivo per rettificare un’informazione errata contenuta nell’articolo dal titolo “Bettini, Gori & C.: sinistra per Salvini in aiuto di Matteo sui referendum” a firma di L. Giar. e pubblicato il 12 agosto. Ho dichiarato e qui ribadisco, che firmerò per i referendum sulla carcerazione preventiva, sulla separazione delle carriere e sulla legge Severino. Non firmerò invece quelli relativi alla responsabilità civile dei magistrati.

Massimiliano Smeriglio

 

Rettifichiamo volentieri, e intanto speriamo che lei trovi le parole per giustificare una scelta che tornerebbe a riempire il Parlamento di pregiudicati e impedirebbe di arrestare i ladri e tanti altri criminali, persino se colti in flagrante.

M. Trav.

Un maturando. “Quando vuole fare propaganda il governo usa la scuola”

 

Gentile redazione sono uno studente di un liceo napoletano di indirizzo classico con specializzazione in francese. Vi scrivo per testimoniarvi le mie preoccupazioni, e quelle di molti altri studenti, in vista del prossimo anno scolastico. Ci apprestiamo a iniziare ancora una volta l’anno senza alcuna certezza, con molti dubbi e in una situazione evidentemente difficile. È chiaro che l’orientamento del governo sia quello di scongiurare l’incondizionato ricorso alla didattica a distanza, favorendo invece il pieno ritorno a regime in classe, ma viene da chiedersi come tutto questo possa essere messo in atto quando le linee guida fino ad ora giunte sono poco delucidanti e i dati, ad esempio quello sulla vaccinazione, mostrino un preoccupante ritardo nella fascia “giovanile”, tra l’altro quella più esposta al contagio e alla sua diffusione come confermato anche dalle parole del presidente dell’Istituto superiore di Sanità Brusaferro. Nel dettaglio, nella fascia 12-19 risulta coperto con due dosi solo il 18,78%, percentuale assai scarsa, seppur condizionata in parte dal fatto che i ragazzi sono in qualche maniera sottoposti alle decisioni genitoriali. Si tratta di numeri preoccupanti anche in virtù dell’annoso problema delle classi pollaio: solo nella mia scuola ci sono una decina di classi di oltre trenta studenti.

In merito al distanziamento, l’attuazione è derogata ai presidi, come se questa misura, in fin dei conti, non sia così necessaria. Ma perché allora non abolirla rendendo meno gravoso il compito degli istituti? In secondo luogo, in molte scuole, compresa la mia, il distanziamento non è garantito, non lo è stato l’anno scorso, e non lo sarà quest’anno. Gli edifici sono molto vecchi e non studiati per classi così numerose. Un altro problema sono i trasporti. La situazione è rimasta immutata negli anni: l’entrata in funzione dei nuovi treni slitta da mesi e probabilmente a settembre i convogli rimarranno quelli attuali. L’anno passato per ovviare a questo problema si era fatto ricorso alla possibilità di scaglionare gli orari, senza rendersi conto del grande disagio che si è creato.

Ma non finisce qui, ci sono altre criticità, come la quarantena dei docenti e delle classi, il tracciamento, l’assunzione di cibo in classe (nella mia scuola vietata per le regole di prevenzione nonostante gli orari delle lezioni si protraessero oltre le 15). Poche settimane addietro sono state rese pubbliche le date della maturità 2022: io la affronterò a giugno. Come si può chiedere a un ragazzo che per due anni ha vissuto la scuola prioritariamente in digitale, senza poter prendere confidenza con gli scritti, di affrontare le prove scritte? È scoraggiante per uno studente che già ha vissuto due anni difficili, cominciare l’ultimo anno con la prospettiva di partire, in vista dell’esame, con un deficit di due anni. Il problema è chiaramente didattico e riguarda anche i docenti che si ritrovano in una situazione indubbiamente difficile. Non va dimenticata neppure la scarsezza di personale docente: alcune classi inizieranno l’anno scolastico scoperte in alcune discipline cardine. Sarebbe più giusto concludere con un esame proporzionato alle difficoltà incontrate. La realtà è che il governo, e la politica tutta, dopo aver lasciato la scuola per anni all’ultimo posto, voglia strumentalizzarla con un’opera di propaganda per testimoniare un ritorno alla normalità che, nei fatti, a oggi è impossibile. La speranza è che chi di dovere possa affrontare il nodo scuola nel merito e con cognizione di causa, nell’interesse di tutti.

Matteo

Soluzione diplomatica e dialogo con i Mullah

La scelta degli Usa di lasciare l’Afghanistan ha messo fine a una delle guerre d’occupazione più lunghe e fallimentari della storia moderna. Ma le modalità del disimpegno, senza un accordo politico con i talebani, hanno generato il caos. La storia insegna che già indiani, greci, arabi, mongoli, britannici e sovietici non sono riusciti a conquistare l’Afghanistan, non a caso noto come “cimitero degli imperi”. L’intervento americano in Afghanistan dopo l’11 settembre 2001, che, come ha ricordato il grande maestro Gino Strada nel suo ultimo intervento pubblico, era già stato pianificato per scopi geopolitici ed energetici, ha devastato un Paese già in sofferenza, creando 5 milioni di nuovi sfollati, sostenendo un regime di criminali di guerra, integralisti e narcotrafficanti che hanno inondato di eroina mezzo mondo.

Una guerra feroce che ha causato la morte di 71 mila civili afgani, 78 mila membri delle forze di sicurezza locali, 84 mila combattenti talebani e oltre 3.500 soldati Nato cui vanno aggiunti almeno 4 mila contractors. L’Italia ha pagato un prezzo altissimo in termini di vite: 53 soldati caduti, più 700 feriti. Anche i costi finanziari di questa guerra sono stati esorbitanti: oltre 2 mila miliardi di dollari spesi dagli Usa più tutti quelli elargiti dagli alleati; dai 25 miliardi di euro del Regno Unito agli oltre 8 miliardi e mezzo pagati dai contribuenti italiani. Spendendo una frazione minima di questi capitali non per distruggere l’Afghanistan ma per ricostruirlo e aiutarlo, oggi questo Paese sarebbe il più sviluppato dell’Asia centrale. Invece, come era prevedibile, è un inferno e le sofferenze del suo popolo aumenteranno se non si interviene subito con una missione diplomatica che fermi la spirale di violenza.

Poche settimane fa i talebani, prima di lanciarsi alla riconquista del Paese, avevano offerto la pace in cambio della loro inclusione in un nuovo governo multietnico di riconciliazione nazionale e quindi dell’uscita di scena del presidente filo-occidentale Ghani. Ma quest’ultimo e gli americani hanno rifiutato. Ora che i talebani sono alle porte di Kabul e l’esercito afgano, da noi addestrato e finanziato, è allo sbando, questa soluzione appare l’unica via per evitare di tornare indietro di vent’anni. L’Europa deve impegnarsi subito per una soluzione politica che consenta di preservare le poche conquiste fatte in questi ultimi due decenni e garantire finalmente una prospettiva di pace. Se l’Unione europea non si fa promotrice di un’azione diplomatica, a riempire il vuoto lasciato dagli Usa saranno altri attori internazionali che già si stanno adoperando per perseguire i loro obiettivi geopolitici.

L’Italia, che in Afghanistan ha avuto un ruolo di primo piano e che tante risorse umane ed economiche ha sacrificato per il bene degli afgani, sia protagonista nell’organizzazione di una vera ‘missione di pace’, una missione diplomatica europea per convincere i principali attori afgani a dare vita a un nuovo governo di unità nazionale rispettoso dei diritti umani. Purtroppo, nei mesi scorsi, non si è voluto realmente trovare una convergenza con i talebani. Ora è il momento di farlo, usando la leva degli aiuti economici. Se questo percorso di pace avesse successo, Italia ed Europa potrebbero svolgere un ruolo di primo piano, collaborando con il nuovo governo alla riconciliazione, al disarmo delle milizie e alla ricostruzione, avviando una rafforzata cooperazione civile allo sviluppo e per la tutela dei diritti umani come sostiene da tempo il nostro ministro degli Esteri Di Maio.

Questa è l’unica via per rimediare a vent’anni di errori. Lo dobbiamo al popolo afgano, che non può essere abbandonato, e ai tanti ragazzi italiani ed europei che per l’Afghanistan hanno sacrificato la loro vita.

Ashraf l’“americano”. Il presidente che ha perso la scommessa

Per candidarsi alle elezioni presidenziali del 2009, Ashraf Ghani rinunciò alla cittadinanza statunitense ottenuta dopo aver insegnato alla Johns Hopkins e alla Columbia University . Ma l’attuale capo dello Stato afgano, eletto nel 2014 e nel 2019, è anche un economista autorevole tanto da aver lavorato alla Banca Mondiale. Se il suo passato americano di docente e tecnocrate lo ha reso il candidato sostenuto dall’Occidente, allo stesso tempo lo ha inserito nella lista dei “collaborazionisti” degli invasori per i tradizionalisti delle aree rurali. Ghani è tornato in patria nel 2002 per ricoprire la carica di ministro delle Finanze per aver fatto parte dell’istituto finanziario mondiale e aver conosciuto l’establishment, i poteri forti del pianeta.

All’allora presidente Hamid Karzai serviva un ministro esperto del mondo economico internazionale. Terminato il mandato nel 2004, è diventato consigliere capo del presidente fino a quando, nel 2009, si è candidato alle presidenziali ottenendo solo il 3% dei consensi, mentre al primo turno delle consultazioni dell’aprile 2014 è stato battuto dall’ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah. Pesanti accuse di brogli in merito allo scrutinio dei voti del secondo turno delle consultazioni hanno reso necessario un riconteggio delle schede, l’esito del quale ha assegnato la vittoria a Ghani che nel settembre è subentrato a Karzai. La sua reputazione da quel momento è stata offuscata ma ciò non ha fermato Ghani dal ricandidarsi, riconfermandosi per un secondo mandato con il 50,6% dei voti nel 2019. Durante le elezioni si palesò la paura degli afgani che evitarono di andare ai seggi. I talebani avevano infatti già ricominciato a terrorizzare gli abitanti. Anche il conteggio delle schede è stata un’operazione pericolosa nell’arretrato Afghanistan. Solo poche persone ben pagate hanno accettato di prendere parte all’organizzazione per il timore di diventare bersagli dei talib, con i quali Ghani, riconfermato presidente, ha subito tentato di intraprendere un dialogo perché era già chiaro agli esperti, e allo stesso Ghani, il loro rientro da macabri protagonisti della scena afgana.

In un’intervista rilasciata alla Bbc nel 2017 Ghani ha affermato che i talebani hanno due obiettivi strategici: rovesciare il governo o creare due “geografie politiche”, ossia uno stato parallelo con i propri territori. Secondo il presidente avevano fallito nel perseguire questi obiettivi. Intanto però iniziava a cercare un modo per dividere i talib e colloquiare con i più moderati, che non esistono. Uno dei motivi per cui il presidente afghano si mostrava perplesso era il fatto che l’Occidente, in primis la Casa Bianca, non capiva che il suo governo non stava e non sta combattendo una guerra civile, bensì una guerra alla droga. “I talebani sono i maggiori esportatori di eroina al mondo. Perché il mondo non si concentra sull’eroina? È una guerra ideologica o è una guerra alla droga?” domandava retoricamente Ghani. Alla domanda sul modo di procedere rispondeva senza esitare : “Fare un accordo di pace con i talebani”.

Ghani elogiò anche il presidente degli Stati Uniti, allora Donald Trump, per “avere finalmente annunciato il mese scorso che il suo governo era pronto a rimanere in Afghanistan a tempo indeterminato”. Peccato che Trump, dopo la rielezione di Ghani, cambiò idea. Per quanto riguarda la corruzione endemica in Afghanistan – uno dei paesi più poveri del mondo – il presidente ha cercato di mettere a punto riforme ambiziose senza riuscire a portare a termine la maggior parte. Noto per il suo carattere irascibile, l’ex antropologo ed economista ha detto pubblicamente 2 anni fa di “fare il peggior lavoro sulla faccia della terra”.

E, a breve, lo perderà.

I Talebani parlano da vincitori. “Ci sarà un’amnistia generale”

“Mostrate rispetto agli anziani e a coloro che si sono arresi a Herat, Badakhshan, Sheberghan o in qualsiasi altra provincia del Paese”, ha ordinato il mullah ai combattenti. “Proteggete gli aeroporti e i funzionari. Rendete facile la vita alla gente comune”. Il capo militare dei talebani, il mullah Yaqoob, con un audio diffuso sui social, lo ha chiesto ai suoi combattenti che da due giorni marciano per le strade di Kandahar, culla di quell’emirato islamico che fino al 2001 era guidato dal mullah Omar, suo padre. Su Lashkar Gah, capoluogo della provincia meridionale di Helmand, sventola il vessillo talebano, issato dopo settimane di combattimenti che hanno messo in fuga l’esercito regolare afghano, che ha abbandonato postazioni ed edifici governativi agli “studenti di religione”. Qalat, capoluogo di Zabul, si è arreso. Perduti i territori intorno a Ghor. Svuotate le prigioni.

Dopo la conquista di Herat, il territorio a nord è caduto. Consolidato anche il controllo sul sud Pashtun, etnia dalla quale provengono la maggior parte dei talebani. La lista delle loro conquiste si allunga fino alla provincia di Logar, una cinquantina di chilometri a sud di Kabul, sempre più vicina nei mirini dei fucili degli islamisti. Al completo controllo del Paese, riferisco i report dell’intelligence Usa, potrebbe mancare solo un mese. Inarrestabili. Irrefrenabili. Ma soprattutto invincibili: i talebani sono stati lasciati liberi di prendere controllo ieri di altre quattro provincie di una terra appena abbandonata da tutte le truppe straniere che l’hanno pattugliata per gli ultimi vent’anni. Mentre nessuno si oppone davvero alla loro avanzata, procedono a conquistare completamente le città più grandi di uno Stato che forse non esiste più e il cui vicepresidente, Amrullah Saleh, è costretto a smentire notizie della sua fuga in Tagikistan. Insieme alle altre alte cariche, ha assicurato quelle che adesso chiamano “forze di resistenza nazionale”, che però fuggono dagli insorti. Sono stati gli stessi islamisti a raccontare al resto del mondo, via Twitter, che “non è possibile con l’uso della forza” conquistare 19 capoluoghi e due terzi del territorio nazionale in una settimana. Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani, lo ha comunicato sui social dove aggiorna con foto e video la cronaca delle loro vittorie, una dopo l’altra, dichiarando che l’avanzata procede non con i proiettili, ma con il consenso della popolazione. “Le braccia dell’emirato sono aperte” anche per gli infedeli: sul web i talebani hanno garantito l’amnistia per chi ha collaborato col nemico straniero, forze Usa comprese, ma i civili continuano a scappare. Antonio Guterres, segretario generale Onu, chiede con insistenza la prosecuzione dei negoziati tra talebani, afghani e inviati internazionali “per il potenziale dei danni e vittime nelle aree urbane” dove si spostano adesso i combattimenti. Migliaia di civili continuano a raggiungere le grandi città in cerca di rifugio o assistenza sanitaria. Le Nazioni Unite forniscono cifre non precise, ma spaventose sull’emergenza in corso: sono almeno 18 i milioni di civili che hanno bisogno di aiuto, quasi 400 mila gli sfollati interni. Per “il disastro umanitario che si consuma davanti agli occhi del mondo” – come lo ha definito Christopher Nyamandi, responsabile di Save the Children, ong che conta già 72 mila bambini arrivati negli ultimi giorni nelle strade di Kabul –, anche l’opposizione del Parlamento britannico chiede che si ritorni dalla pausa estiva “in maniera straordinaria” per valutare gli effetti devastanti del ritiro dei contingenti Nato e per evacuare i tremila britannici residenti nel Paese. Il premier Johnson al termine di una riunione di emergenza del comitato Cobra ha comunque escluso interventi militari che non siano per aiutare l’evacuazione di funzionari. Chiudono l’ambasciata norvegese e quella danese. Rimane quella della Nato. E pure i russi non partono come ha confermato Zamir Kabulov, rappresentante speciale per l’Afghanistan del Cremlino.

Conte tende la mano a Sala, ma i centristi fanno muro

“Di certo non siamo riusciti ad ascoltare con sincera attenzione i bisogni dei cittadini milanesi”. Giuseppe Conte certifica così, con una lettera al Corriere della Sera, una crisi del Movimento che altrimenti non spiegherebbe perché, a meno di due mesi dal voto di ottobre per le amministrative, i 5 Stelle non abbiano ancora né una lista né un candidato sindaco (la base ha indicato Elena Sironi, ma l’investitura da Roma non è mai arrivata).

La lunga ammissione dell’ex premier serve allora a due cose, almeno nell’interpretazione di chi l’ha letta nel mezzo della campagna elettorale milanese: tendere una mano a Beppe Sala e scrollare di dosso dal M5S quello stereotipo “di un Movimento poco attento alle necessità del tessuto imprenditoriale e produttivo”. Ovvero quegli industriali che a Milano non si sono mai fidati dei “barbari” grillini e che ancora preferirebbero non contaminare la coalizione di Sala con l’ingresso del Movimento.

Conte lo sa e per questo rilancia, garantendo che “il nuovo corso del Movimento non consentirà veti pregiudiziali e ideologici” e arrivando a chiedere “una legge speciale” per la città. Ma è anche il linguaggio a far pensare a un messaggio per Sala, che ancora qualcuno nel M5S sogna possa accettare il sostegno del Movimento già al primo turno. Conte parla di “smart city”, richiama l’appuntamento con le Olimpiadi 2026, ricorre alla metafora del Nord che “deve tornare a correre”.

Il problema è sempre lo stesso: gli alleati centristi di Sala non cedono. Sono riformisti, renziani, radicali che non a caso, nel silenzio ufficiale del sindaco, ieri hanno stroncato l’ex premier: “Conte parla a casaccio”, dice Lisa Noja di Iv; mentre la portavoce dei riformisti Alessia Cappello ripete che “il futuro di Milano deve restare nelle mani delle forze politiche che l’hanno spinta a essere il motore d’Italia”. Un chiaro No, allora, che è una risposta alle voci degli ultimi giorni. D’altra parte sono gli stessi alleati centristi del sindaco a confermare, a taccuini chiusi, che il tema di recente è tornato “sul tavolo della coalizione”, ma che la posizione intorno a Sala sia rimasta la stessa “almeno per il primo turno”. Poi si vedrà.

Dal Lazio a Toscana e Abruzzo: nei 5S c’è vita al Centro (Italia)

Una base c’è ancora, ma è alle prese con fratture interne e una diffusa sindrome dell’abbandono. La sfida per Giuseppe Conte – che ha annunciato un tour da Nord a Sud per incontrare gli attivisti del Movimento dopo l’estate – sarà allora quella di ricompattare la truppa 5 Stelle del Centro Italia, lì dove esistono ancora Meet Up di peso e dove le esperienze amministrative hanno aiutato a mantenere uno zoccolo duro di attivisti.

La settimana scorsa abbiamo raccontato le macerie del Movimento al Nord, complice l’esodo di decine di esponenti. Nelle Regioni del Centro, i presupposti per la visita di Conte sono comunque migliori.

Lazio.A Roma e nel Lazio il problema, per il Movimento, è la frammentazione: Virginia Raggi ha mantenuto una certa indipendenza rispetto alle beghe nazionali, rimanendo governista – a differenza di Alessandro Di Battista, suo leale sostenitore – ma facendo i conti con quotidiane battaglie col Pd e Nicola Zingaretti. Per quanto derisa da gran parte dei media nazionali, i sondaggi dimostrano che la sindaca ha ancora un corposo sostegno a Roma, soprattutto in periferia. Un patrimonio da cui Conte ripartirà cercando però di farlo convivere con un’altra anima del M5S di Roma e dintorni, ovvero quella che da tempo ha sposato l’idea di un’alleanza strutturale con il centrosinistra (che invece non convince la Raggi). Il nome di riferimento è Roberta Lombardi, oggi assessore in Regione con Zingaretti insieme all’altra 5 Stelle Valentina Corrado. Ma è anche il caso di alcuni consiglieri comunali di peso che hanno contestato la ricandidatura della Raggi chiedendo “un nome terzo concordato col Pd”: Enrico Stefano, Donatella Iorio, Angelo Sturni, Marco Terranova e Alessandra Agnello.

Difficile invece trovare spiragli di mediazione nella fuga dei cosiddetti “ortodossi”, l’ala rappresentata dalla consigliera regionale Francesca De Vito che, pur difendendo la sindaca di Roma, è appena uscita dal M5S in aspra polemica con l’ingresso nel governo Draghi e con la leadership di Conte. E ribadendo invece la fedeltà a Davide Casaleggio, attorno al quale De Vito vorrebbe riunire i delusi del Movimento (qualche migliaio, assicura lei). Ma qualcosa di buono per Conte resiste fuori da Roma: a Viterbo, per esempio, sono ancora attivi buona parte dei “grillini” delle origini.

Toscana. Il 6 per cento ottenuto da Irene Galletti alle Regionali di un anno fa non deve ingannare. Qui la sfida era polarizzata, con molti 5 Stelle che hanno preferito votare Eugenio Giani per non far vincere la leghista Susanna Ceccardi. In realtà in Toscana sopravvivono alcuni dei Meet Up – anche se adesso cambieranno nome – più frequentati, come quelli della provincia di Massa-Carrara (da cui hanno iniziato i parlamentari Riccardo Ricciardi e Laura Bottici) o di Livorno. Non a caso a Carrara il Movimento ha vinto le elezioni del 2017 con Francesco De Pasquale e a Livorno – dove Filippo Nogarin fu tra i primi sindaci grillini – s’è creata una classe dirigente che poi ha trovato incarichi anche altrove. Anche a Firenze c’è un buon attivismo, il problema in regione è stato semmai politico, con un M5S che avrebbe potuto approfittare delle crepe tra Pd e Italia Viva per guadagnare molto più spazio di quel che ha.

Umbria e Marche. Qui è dove il Movimento soffre di più. In Umbria, alle regionali del 2019, ci fu il primo fallimentare tentativo di alleanza tra 5 Stelle e Pd, che sfidarono la leghista Donatella Tesei con Vincenzo Bianconi e un elenco infinito di errori in campagna elettorale. Oggi a tenere insieme quel che resta del M5S è Thomas De Luca: 33 anni, attivo nei Meet Up grillini da quando ne aveva 23, si fa notare per l’opposizione alla presidente Tesei ed è considerato molto vicino a Conte. Da lui si può ripartire, ma la base è però tutta da costruire. In Umbria come nelle Marche, dove il pur folto gruppo di parlamentari eletti nel 2018 non ha lasciato granché, tra fughe verso altri partiti (come Rachele Silvestri in FdI e Martina Parisse in Coraggio Italia) e scarsa capacità di rassicurare gli elettori, anch’essi ormai fuggiti altrove.

Abruzzo. Visto il curriculum dei 5 Stelle alle Regionali, il 20 per cento ottenuto in Abruzzo due anni fa ha del miracoloso. Ma non è casuale: il volto più carismatico è Sara Marcozzi, consigliera regionale al secondo mandato che ha sfidato la destra facendosi notare anche a Roma. Certo, anche qui si è perso entusiasmo rispetto a qualche anno fa e i simpatizzanti M5S raccontano che le file ai gazebo viste fino al 2018 sono irripetibili. Le divisioni, incentrate soprattutto sulla necessità di un’alleanza col centrosinistra, hanno portato via qualche malpancista. Ma a differenza di Umbria e Marche, l’attivismo c’è ancora e da anni i 5 Stelle abruzzesi hanno tentato di darsi una organizzazione simile a quella di un partito. Garantendo buone premesse per il lavoro dell’ex premier.

(2. continua)