“Io non distinguo le persone tra fascisti e antifascisti, contro questo o contro quell’altro. Le persone non le distinguo se non per uomo, donna e persone perbene”. Luca Bernardo, candidato della destra alle Amministrative di Milano, preferisce non prendere posizione. E così ammette che per lui fascisti e antifascisti uguali sono: “Certo che c’è differenza tra i due, se vogliamo andare sul semantico. So che cosa mi volete chiedere, so che cosa vi rispondo”, ha replicato ai cronisti a margine di un evento. E a domanda diretta se possa definirsi antifascista, Bernardo tergiversa ancora: “No, io non mi definisco né A, né B, né Z. Mi definisco un cittadino della città di Milano, che vuol dire che è aperto e liberale. La libertà conquistata grazie ai nostri nonni dobbiamo portarla sempre avanti. Io mi definisco Luca Bernardo che arriva dalla società civile”. Parole che suonano come una difesa del sottosegretario leghista Claudio Durigon, che nei giorni scorsi si era augurato che un parco di Latina fosse dedicato ad Arnaldo Mussolini.
“Siamo fedeli a Matteo, ma Claudio si dimetta”
A vederla con gli occhi di chi, sopra il Po, da anni organizza Pontida e raccoglie firme per i referendum per l’autonomia del Nord, non è una sorpresa. Perché, dicono i più avveduti leghisti di scuola bossiana, la Lega “è sempre stato un partito antifascista”. Epperò l’uscita di Massimo Giordano, ex sindaco di Novara, ex assessore della giunta Cota e uomo forte della Lega in Piemonte, a Roma è piombata come un macigno nell’inner circle di Matteo Salvini.
Anche perché Giordano, seppur di scuola democristiana e poi leghista della prima ora, è tutt’altro che un nostalgico del secessionismo padano e di “Roma ladrona”: è molto vicino al capogruppo alla Camera Riccardo Molinari (che ogni anno partecipa alle celebrazioni del 25 aprile) e soprattutto è considerato un fedelissimo in Piemonte di Salvini. Per questo le sue parole contro il sottosegretario leghista Claudio Durigon assumono un peso ancora maggiore: “Sarà per il periodo estivo ma sono rimasto stupito dall’assenza di reazioni alla ormai nota uscita di Durigon sul fratello di Mussolini – ha scritto Giordano su Facebook – Sono nella Lega da 28 anni e ci sono rimasto perché ho sempre respirato con Bossi, Maroni e Salvini, uno spirito anticomunista e antifascista ossia antitotalitarista. Se Durigon vuole fare delle provocazioni, cosa assolutamente lecita, almeno lasci stare Falcone e Borsellino che per la libertà ci hanno rimesso la vita”. Il post è stato condiviso dal senatore leghista Enrico Montoni ed è stato sommerso di commenti di elettori e militanti leghisti d’accordo con Giordano e che chiedono al segretario di far dimettere il “pontino” Durigon. “Il mio post è nato spontaneamente perché rispecchia i miei valori” dice Giordano al Fatto specificando che il suo non era un post “contro Salvini” perché “io sono molto fedele al mio segretario”. Ma poi l’ex sindaco di Novara, considerato uomo ombra dell’attuale primo cittadino Alessandro Canelli (che viene dalle organizzazioni giovanili di sinistra), va all’attacco di Durigon: “Nella Lega non siamo fascisti e non lo siamo mai stati. Così in questo momento stiamo vivendo un certo disagio di fronte alle dichiarazioni del nostro sottosegretario, tanto più che sono stati messi in discussione Falcone e Borsellino”. Un’idea condivisa da molti maggiorenti del Carroccio al Nord tra cui i governatori Luca Zaia, Massimiliano Fedriga e il vicesegretario Giancarlo Giorgetti che infatti tacciono.
Nel corpaccione dei gruppi parlamentari sono in molti a criticare Durigon e a vedere in Massimo Bitonci il suo successore naturale. Che il clima sia quello, si capisce dai molti commenti dei militanti sotto il post di Giordano. “Grande Max, concordo in pieno. Certe boutade da esponenti di rilievo sono controproducenti” commenta Francesco Ancora, mentre Clemente Fasce si dice d’accordo: “Durigon dovrebbe accertarsi che il cervello sia inserito prima di parlare. Grave errore politico”. Poi c’è chi, come Ettore Toscani, spiega che “la svolta a destra della fu Lega non mi piace” e chi critica la nuova Lega nazionalista: “Io preferivo quella di prima” scrive Tullio Marini. Anche sotto il post di Durigon è un profluvio di commenti critici di leghisti. La sentenza è di Simonetta Canepa: “Dimissioni subito”.
Ora Salvini “nasconde” Durigon: vacanze forzate e comizi annullati
Per struttura fisica e attitudine alle esagerazioni, Claudio Durigon non è un tipo facile da tenere nascosto. Eppure ce la sta mettendo tutta: il sottosegretario leghista è sparito dai radar. Non si vede più nei talk televisivi che abitava con disinvoltura e frequenza e non interviene più sui social dallo scorso 6 agosto, dopo il tentativo goffo di giustificare la sua proposta di richiamare “Mussolini” il parco di Latina intitolato a Falcone e Borsellino. Non risponde al telefono e prova a farsi invisibile: nei prossimi giorni diserterà ogni evento pubblico.
Non si sa dove sia, Claudio Durigon. Non è nella casa di Santa Fecitola, pochi chilometri a nord del capoluogo pontino: un borghetto con un pugno di villini in mezzo ai vecchi canali di bonifica dell’Agro Redento, dove su più di un citofono si legge il suo cognome. In queste strade i coloni cispadani Durigon divennero cittadini del basso Lazio e si votarono al mito fondativo di Littoria, che tanto caro è costato al nostalgico Claudio.
Durigon non si vede nemmeno a Roma. È la nemesi di un ex sindacalista: le ferie forzate. L’indicazione è arrivata dall’alto, Matteo Salvini gli ha detto di non farsi notare per un po’. Di prendersi delle vacanze, restare sottocoperta, staccare il telefono, aspettare che il caso si sgonfi e le richieste di dimissioni perdano volume.
Per questo motivo il sottosegretario ha dovuto cancellare tutti gli appuntamenti che aveva preso. Dopo Ferragosto, in una fase caldissima delle campagne elettorali per le prossime amministrative, Durigon sarà costretto a saltare gli eventi nelle sue due città elettive, Latina e Roma. Sarebbe dovuto comparire accanto ai due candidati del centrodestra, il pontino Vincenzo Zaccheo e la romana Simonetta Matone (scelta dalla Lega per affiancare il frontman Enrico Michetti). Invece resterà lontano dai riflettori: la sua presenza sarebbe scomoda per sé (viste le inevitabili attenzioni giornalistiche), per la Lega e anche per i candidati.
Durigon dovrebbe saltare anche l’appuntamento del 27 agosto alla festa di Affari Italiani, dove sarebbe costretto a tornare sul caso che sta imbarazzando il governo Draghi e per di più di fronte ad Antonio Misiani, viceministro dell’Economia del Pd, uno dei partiti che lavora per sfiduciarlo. Sono previsti entrambi nello stesso incontro.
Nel calendario estivo del leghista è prevista anche una speziata partecipazione, venerdì 3 settembre, alla Fiera mondiale del peperoncino di Rieti (la stessa nella quale nel 2011 Renata Polverini arrivò in elicottero). Il patron dell’evento è Livio Rositani, figlio del post-fascista Guglielmo, che fu vicino a Gianfranco Fini nell’Msi e poi in An. Rositani ha già confermato la presenza di Durigon, al di là di ogni possibile imbarazzo politico: gli interessa solo parlare di soldi con il sottosegretario all’Economia. “Il nostro unico obiettivo – ha dichiarato – è creare uno spazio per discutere su cosa ne sarà della valanga di denaro che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza porterà nel Reatino”. Chissà se il desaparecido Durigon riuscirà a svincolarsi.
Tra i fortunati che ieri sono riusciti a parlargli c’è Armando Valiani, il suo delfino, che ha raccolto la sua eredità a Latina come segretario locale del sindacato Ugl e coordinatore della Lega.
Fa sapere che Durigon non ha nessuna intenzione di dimettersi: “Gli ho parlato poco fa e l’ho trovato abbastanza sereno, anche se ovviamente provato per gli attacchi ingiusti che l’hanno colpito dopo un evento elettorale nella sua città. Abbiamo parlato del Latina Calcio, come fossimo al bar. La campagna contro di lui è assolutamente pretestuosa. A questo punto perché non proponete di buttare giù anche il palazzo M (l’edificio con la forma della lettera di Mussolini, ndr), se volete cancellare la storia della città?”.
I PARERI
Petrini Aderisco con convinzione: draghi ora deve allontanarlo
Ho firmato e sostenuto il vostro appello per far dimettere Claudio Durigon per un principio di coerenza: non è assolutamente possibile che un sottosegretario di Stato che ha giurato fedeltà alla Repubblica faccia un’affermazione di questo tipo. Io quindi firmo con convinzione seguendo i miei valori guida che sono quelli dell’antifascismo. Certo, si può proporre di cambiare un nome a una strada o a una piazza ma non in quel modo lì, chiedendo di intitolarla al fratello di Mussolini, Arnaldo, invece che a due eroi del nostro Paese, cioè Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Così non si può fare: si manda un messaggio devastante ai cittadini e soprattutto alle giovani generazioni. Dunque, in un modo o nell’altro, Durigon non può rimanere al suo posto: o si dimette spontaneamente oppure deve essere qualcun altro, in questo caso il presidente del Consiglio Mario Draghi, a farlo dimettere o revocargli le deleghe.
Ovadia Ha violato la costituzione antifascista: dimissioni immediate
La premessa di tutta questa vicenda è che la Costituzione italiana è antifascista. Durigon quindi dovrebbe essere coerente: non dovrebbe fare politica, né lui né quelli che non si riconoscono nell’antifascismo. La destra negli ultimi anni non ha fatto altro che calunniare i partigiani e la Resistenza e una grossa colpa ce l’ha avuta anche la sinistra che ha lasciato fare, mollando la presa. Solo che l’argine ormai è caduto e le esternazioni di Durigon, e non solo, sono il risultato di questi errori. Se fossi io a dover decidere, bisognerebbe cambiare la Costituzione specificando in un articolo che siamo un Paese antifascista.
Se non ci si arriverà, comunque, bisognerà partire dalle dimissioni di Durigon perché il sottosegretario della Lega con quella proposta ha violato la Costituzione su cui ha giurato: dunque sostengo il vostro appello. Ma deve essere un punto di partenza: i fascisti in Italia non possono continuare a fare politica.
Vergassola È un’anticipazione della destra che verrà: io dico no
Quella di Durigon è follia pura. Mi ricorda di quando, nel 2012, il presidente della Regione Sicilia Gianfranco Micciché propose di cambiare il nome dell’aeroporto di Palermo da “Falcone e Borsellino” ad “Archimede”. Solo che stavolta è più grave perché si chiede di intitolarlo a un fascista. E questo è un modo subdolo per iniziare a cancellare la memoria antimafia. Inoltre è una proposta che serve a solleticare gli spiriti neofascisti. A me sembra un’operazione anticipata di quello che rischia di succedere nei prossimi anni: arriverà una destra, che durerà magari 10 anni, e imporrà di ritornare ai vecchi ricordi del Ventennio. Solo che questo non può succedere e dobbiamo puntare i piedi per dire un secco “no”. Per questo Durigon si deve dimettere da sottosegretario e dovrebbe essere il suo segretario di partito, cioè Matteo Salvini, a convocarlo e dirgli: “Ora fai un passo indietro, l’hai fatta troppo grossa”.
Il confronto in tv. I roghi? per Bruni è colpa delle fiumare
“La Regione non ha fatto la pulizia delle fiumare, oggi piene di sterpaglie”. Non la criminalità, non i piromani. Per Amalia Cecilia Bruni, candidata alla presidenza della Regione Calabria, quello della manutenzione dei fossi in secca è la principale causa degli incendi che in quest’ultima settimana hanno devastato la Calabria.
Il tema è emerso durante un confronto fra i tre principali aspiranti governatori, Bruni per il centrosinistra, Roberto Occhiuto per il centrodestra e Luigi de Magistris, a capo di una coalizione civica. Il dibattito, organizzato e messo in onda dall’emittente locale L’Altro Corriere Tv, ha visto come domanda d’apertura ai tre candidati un’opinione sul “dramma dei roghi”. A rompere il ghiaccio proprio la direttrice del Centro di Neurogenetica di Lamezia Terme, che ha parlato di “lutti ingiusti e immeritati” per le famiglie delle quattro persone che fin qui hanno perso la vita e di una “responsabilità enorme della Regione” per non aver “richiesto immediatamente lo stato di emergenza”; “questi incendi così devastanti io non li ho mai visti”, ha concluso. Lo stato d’emergenza però, per Occhiuto “è stato chiesto subito, prima delle altre regioni” ed è “già qualcosa” anche se – afferma il deputato di Forza Italia – “sinceramente non saprei a cosa possa servire, non so a che soluzione possa portare”. Poi Occhiuto invita all’unità: “La casa sta bruciando, dovremmo chiedere a tutti quanti di aiutare a farla bruciare di meno”.
Fra i due candidati in testa ai sondaggi, in realtà a entrare nel merito della problematica ci ha pensato De Magistris: “Il quadro è devastante e va avanti da anni – ha detto l’attuale sindaco di Napoli – C’è un’economia criminale dietro tutto questo, un attacco di chi non vuole i parchi nazionali e la valorizzazione del territorio”. E ancora: “I ristori non servono a niente, bisogna prevenire. È come bruciare un Van Gogh: che fai, poi lo ripaghi? Il Parco nazionale dell’Aspromonte ci metterà 200 anni per ricostituirsi, è un dramma”.
“Regie criminali dietro questi attacchi”
In questi giorni, in tutta la Calabria, sono stati devastati dagli incendi migliaia di ettari di foresta, di boschi, campagne e coltivazioni agricole. Sono stati duramente colpite grandi parti di Aspromonte, Presila e Reventino. Si tratta di un attacco a questa terra, con responsabilità politiche e istituzionali evidentissime. Auspico che magistratura e forze dell’ordine diano il massimo per individuare i criminali del fuoco. Purtroppo si sono registrati gravi ritardi nell’arrivo dei mezzi aerei, dopo giorni, dopo vite umane perse a San Lorenzo, nell’area metropolitana di Reggio Calabria. C’è una responsabilità devastante sul piano politico-istituzionale. Di chi doveva programmare la prevenzione e investire.
Da pm in Calabria ho conosciuto bene la regia criminale dietro questi incendi e da presidente di questa regione, mi impegnerò per invertire completamente la rotta con una vastissima economia circolare a tutela delle foreste, delle campagne, dei coltivatori e degli agricoltori, per prevenire, tutelare e valorizzare il territorio. Occorre potenziare tutte le componenti istituzionali, in particolare i vigili del fuoco e il gruppo forestale dei carabinieri.
Bisogna assumere, creare convenzioni col terzo settore, con associazioni e comitati già attivi nella protezione della natura e del paesaggio che, insieme alla Regione e ai Comuni, devono stringere alleanze. Da presidente della Regione Calabria attiveremo convenzioni forti con i Vigili del fuoco, con la Protezione civile e con tutte le entità che lavorano per la tutela del territorio, un fronte su cui si possono creare tantissimi posti di lavoro, per la bonifica dei siti inquinati, la forestazione, la cura dei boschi, la riforma agraria e la difesa della biodiversità.
La ricchezza e il ristoro devono essere collegati alla diminuzione degli incendi, non si deve alimentare la spirale più incendi, più profitto, più denaro. Se muore il parco nazionale dell’Aspromonte muore per sempre, come se si distruggesse un Picasso o un Van Gogh.
Calabria, persi 11 mila ettari. “Ora c’è il rischio alluvioni”
La faggeta vetusta dell’Aspromonte, patrimonio Unesco, pare sia stata risparmiata dalle fiamme. Solo nel sud della Calabria, però, sono andati bruciati almeno 11 mila ettari di boschi, pari a circa 110 km quadrati. Per rendere l’idea, è come se fosse stata distrutta dalle fiamme l’intera città di Napoli. Un quadro impietoso tracciato ieri mattina dal capo della Protezione civile nazionale, Fabrizio Curcio, che si è recato prima a Reggio Calabria, in prefettura, e poi presso la sede regionale di Catanzaro, per toccare con mano l’emergenza incendi.
La visita di Curcio segue di poche ore la telefonata di giovedì sera fra il premier Mario Draghi e il sindaco di Reggio, Giuseppe Falcomatà. “Il mandato è quello di ascoltare il territorio, dopodiché ci saranno una valutazione tecnica e una più complessiva”, ha detto il capo della Protezione civile in conferenza stampa. Sempre giovedì il governatore reggente della Regione Calabria, Antonino Spirlì aveva dichiarato lo stato d’emergenza. “Al prossimo Consiglio dei ministri utile saranno stanziati dei fondi”, ha anticipato il deputato di Forza Italia, Roberto Occhiuto, in corsa per la successione a Spirlì (le elezioni ci saranno in ottobre). Soldi che dovranno servire “per le bonifiche”, ha ribadito Curcio: “I roghi sono ancora attivi ma la situazione va migliorando – ha spiegato – ed ora serve un’azione di ricostruzione che deve abbracciare gli aspetti ambientali e quelli di natura economica e sociale”. Nelle prossime settimane, infatti, “avremo a che fare senza dubbio con criticità altrettanto gravi” legate “al tema delle alluvioni e delle frane”. Pertanto “il rimboschimento delle aree interne è già oggi un tema di stringente attualità”. Solo nella giornata di giovedì, ha ricordato il capo della Protezione civile, “hanno volato sulla Calabria ben 12 canadair, un numero che non ricordo in precedenza”.
Non c’è solola Calabria. Ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è salito a bordo di un elicottero partito dalla base dell’Aeronautica Militare di Alghero, con cui ha sorvolato le zone dell’Oristanese colpite dagli incendi di fine luglio. “La situazione dei roghi sta peggiorando in Basilicata, Campania e nel Lazio”, ha spiegato Curcio. Emergenze che seguono quelle ancora in corso in Sicilia e, appunto, in Sardegna. Nell’area del Sannio, in provincia di Benevento, un uomo di 53 anni ha perso la vita mentre lavorava insieme agli operai idraulico forestali della comunità montana nel tentativo di difendere il suo uliveto minacciato dalle fiamme. A Tivoli, alle porte di Roma, è ancora in corso un devastante incendio nella riserva naturale del Monte Catillo, area protetta limitrofa alle importanti ville storiche del centro tiburtino, fra cui Villa Gregoriana, patrimonio Unesco e sede nazionale del Fai (Fondo ambiente italiano). Il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, ieri ha firmato lo stato di calamità naturale fino al 30 settembre.
Ricostruzione, 40 indagati fra “i furbetti degli appalti”
Quaranta indagati e la mano di alcuni commercialisti, che potrebbero aver “accompagnato” più di un cliente nella costruzione di aziende fantasma. È questo lo scenario che si profila nella terza indagine nata dal crollo del Ponte Morandi: quella sugli avvoltoi della ricostruzione. Nella lista di 43 imprese che hanno avuto accesso agli sgravi fiscali stanziati per la ricostruzione – la cosiddetta zona franca fiscale, pensata come un incubatore di imprese per sostenere l’economia depressa – circa la metà per la Guardia di Finanza sono palesemente delle scatole vuote. Ditte con dipendenti e sedi finte, costruite appositamente per mettere le mani sul credito d’imposta. Un tesoretto da scaricare su rami societari che nulla hanno a che vedere con l’area per cui erano stanziati i fondi o addirittura da monetizzare attraverso la vendita dello sconto fiscale.
Nell’elenco dei beneficiari c’è un po’ di tutto: una ditta sotto sequestro antimafia; una società con radici in società offshore; un albergo a ore; un call center gestito formalmente da un trentenne ucraino residente in Emilia Romagna; tre ditte con sede nello stesso ufficio, senza campanello sulla porta; una stessa consulente fiscale che ha presentato tre diverse domande, per attività che sembrano tutte simili. C’è inoltre una zona grigia di imprenditori genovesi che sembrano aver cambiato sede, almeno formalmente, appositamente per accaparrarsi i fondi.
L’inchiesta, coordinata dal procuratore Francesco Pinto e dal pool reati economici e contro la pubblica amministrazione, ipotizza reati che vanno dalla truffa ai danni dello Stato all’indebita percezione di aiuti pubblici. E guarda anche in direzione di chi avrebbe dovuto effettuare i controlli. Una responsabilità che, fino a oggi, l’ufficio del commissario straordinario all’emergenza Giovanni Toti e il ministero degli Affari economici sembrano rimpallarsi.
Non è andato tutto bene, insomma. Anche perché nella zona arancione, la cintura intorno a quella rossa, immediatamente colpita dal crollo, sono rimaste decine di (veri) piccoli commercianti esclusi da ogni aiuto, per via di paletti inseriti nella scrittura dei bandi.
Non solo Morandi: 2 mila ponti a “fine vita”
Ci sono voluti 43 morti per scoprire che il Ponte Morandi non era l’unico viadotto malato del Paese. Al terzo anniversario del disastro – alla cerimonia di oggi con i familiari delle vittime parteciperanno i ministri Enrico Giovannini e Marta Cartabia – l’Italia si presenta con circa 2 mila dei 4 mila viadotti autostradali che hanno raggiunto il “fine vita”, oltre i 50 anni. Non tutti, ovviamente e per fortuna, sono anche a rischio crollo. Ma dalla Sicilia alla Lombardia, passando per Abruzzo e Liguria, sono decine i casi di chiusure imposte dai controlli straordinari del Ministero delle Infrastrutture (Mims) o addirittura i sequestri disposti dalla magistratura. E riguardano un po’ tutti i concessionari, non solo Autostrade per l’Italia (Aspi), che di quelle opere ne gestisce circa metà. “Quasi nessun viadotto controllato era esente da problemi – spiega il commissario straordinario del Mims Placido Migliorino – L’invecchiamento è fisiologico, ma è stato aggravato dall’incuria”.
Ciò che è certo è che il Paese nei prossimi anni si troverà ad affrontare una gigantesca manutenzione straordinaria, su una rete sempre più vecchia. E la concentrazione di investimenti richiesta rischia di ricadere in parte, ancora una volta, sulle finanze pubbliche: le ricadute sui pedaggi sarebbero insostenibili. “È impossibile fare stime esatte – dice Migliorino – ma non sbaglio se dico che serviranno decine di miliardi. Tutte le concessionarie in media hanno raddoppiato i budget per le manutenzioni. È già molto, ma credo non basterà”.
Per capire cosa è cambiato dal 2018 a oggi si può dare un’occhiata a uno dei dati più impressionanti. È contenuto in una recente informativa, depositata dal Primo Gruppo della Guardia di Finanza di Genova nel filone Morandi-bis, quello legato alle falsificazioni sistematiche sulla sicurezza della rete gestita da Aspi (viadotti, gallerie e barriere fonoassorbenti): “Fra il secondo trimestre del 2018 e il quarto trimestre del 2019 è stato registrato un aggravamento dei voti sullo stato di sicurezza dei viadotti in termine di valore assoluto del 328,4%”. Un cambiamento di valutazione improvviso, su infrastrutture che erano le stesse di prima. “Tale determinazione – scrivono gli inquirenti – è ovviamente frutto di una meticolosa e più accurata opera di ispezione. L’attuale situazione (che ha comportato la chiusura di tratti autostradali o limitazioni al transito) è figlia di una perdurata e negligente opera di ispezione protrattasi nel tempo”.
Si poteva insomma prevenire, piuttosto che operare nella più classica delle emergenze. E forse evitare così di chiudere interi pezzi di autostrade, fino a poco prima dati per sicuri, sulla spinta delle inchieste giudiziarie o delle ispezioni del Mims.
Che qualcosa (di epocale) sia cambiato se ne sono accorti utenti e sindaci dei comuni della rete stradale ligure, esasperati dai cantieri stradali. Disagi che, se da un lato hanno ripercussioni importanti, dall’altro sono quantomeno il sintomo di una presa di coscienza sulla sicurezza, dettata forse anche dal timore di perdere la concessione. Una policy che in ambienti vicini ad Aspi è considerata una sorta di rivoluzione copernicana. Un dato su tutti: dal 2018 a oggi la somma di manutenzioni ordinarie e straordinarie di Aspi è aumentata di 7 volte, passando da 50 milioni a 333 milioni in un anno (dato 2021). Una sterzata commentata nelle intercettazioni da Alessandro Benetton con l’amico manager Fabio Corsico: “Castellucci era un bello stronzo”, dice Benetton il 20 gennaio del 2020. “Oggi tu dici: va bene – replica Corsico – faremo 7 miliardi di investimento nel prossimo anno. La gente dice: scusa, ma allora qualcuno ve le ha fatte fare ‘ste robe… siamo matti che in un anno fate un investimento che non avete fatto in 20 anni?”.
Va detto che nel frattempo sono cambiate le linee guida ministeriali: lo Stato, dopo anni da controllore distratto, sembra aver ripreso in mano in modo più deciso il suo ruolo. E nel frattempo Aspi si è liberata dal conflitto di interessi dei monitoraggi “casalinghi” sulle opere (effettuati in passato da Spea, controllata dalla stessa Aspi) affidati oggi a società esterne. Dal nuovo assessment è emerso che il 25% dei viadotti Aspi avrà bisogno di interventi seri entro i prossimi 5 anni (avviso ai naviganti su gomma). Del resto l’anagrafe parla chiaro: il 50% dei ponti è di prima del 1970, il 90% di prima del 1990.
Nell’inchiesta della Procura di Genova un ruolo cruciale in questa “sottovalutazione” sistemica è attribuito al vecchio management. Non a caso la svolta è coincisa con l’allontanamento dell’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, indagato in tutte le indagini post crollo. Un suo fedelissimo, l’ex capo delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli è stato registrato mentre chiedeva a personale Spea di rivedere al ribasso i voti sui viadotti. L’obiettivo, per i pm, era di tagliare i costi e distribuire più dividendi. Il fascicolo Morandi-bis è partito dal disastro per arrivare a contestare reati che hanno un unico movente: il profitto.
Un esempio di “malattia improvvisa” è lo Scrivia, sulla A7, la Genova-Milano. Da un giorno all’altro il viadotto è stato valutato 70 (voto che ne impone la chiusura immediata) e dopo una valutazione costi-benefici Aspi sta preparando un piano di abbattimento, che verrà ufficializzato dopo settembre. Un caso tutt’altro che isolato. Sulla A6 Savona-Torino, controllata dal gruppo Gavio, 13 viadotti su 15, spiegano dal Mims, sono destinati a fare la stessa fine: è più economico abbattere l’impalcato e ristrutturare i piloni piuttosto che continuare a fare manutenzione. In Abruzzo, sulla A24-A25 (Autostrade dei Parchi, gruppo Toto) la situazione è anche peggiore, perché aggravata dalle norme antisismiche: 100 viadotti su 300 sono a rischio; molti saranno demoliti, altri addirittura ricostruiti su nuovi tracciati. In Sicilia i pm hanno sequestrato una ventina di viadotti per rischio crollo (gestiti dal Cas) e non sono esenti da problemi ponti calabresi. Questa la dura realtà, che andrà affrontata con o senza Ponte sullo Stretto.
Parti civili: Toti e Bucci ancora non pervenuti
È molto probabile che la domanda, e le relative polemiche, resteranno senza risposta fino all’ultimo, almeno fino all’udienza preliminare il prossimo 15 ottobre: il Comune di Genova si costituirà come parte civile nel processo per il crollo del Ponte Morandi? Il sindaco-commissario alla ricostruzione Marco Bucci assicura pubblicamente di sì. Anche se recentemente è diventata terreno di scontro politico la manovra con cui ha evitato che la questione fosse votata in Consiglio comunale (e diventasse dunque vincolante) su proposta del Movimento Cinque Stelle. Una scelta commentata in modo evasivo dallo stesso Bucci in un’intervista rilasciata ieri al Secolo XIX: “Certe cose non possono essere discusse in Consiglio comunale”.
Una possibile spiegazione potrebbe arrivare dai rumors che circolano da tempo: il sindaco di Genova sta trattando con Autostrade un risarcimento a nove zeri, una cifra che, quantomeno nelle intenzioni dell’amministrazione comunale, si aggira intorno al miliardo e mezzo di euro. È evidente che l’accettazione di un risarcimento in via extra-giudiziale equivarrebbe alla rinuncia a costituirsi come parte civile. Una scelta processuale che non certifica solamente il fatto che l’intera città di Genova sia stata ferita e danneggiata dal crollo del viadotto Polcevera, ma sarebbe anche una presa di posizione fortemente simbolica in sostegno delle 43 vittime del crollo e dei loro familiari. Non è un mistero che Bucci si sia guadagnato la fama di amministratore pragmatico, che bada più ai risultati concreti che non alle lotte di principio. Ma come si spiega allora la trattativa riservata con l’assicurazione che il Comune di Genova entrerà nel processo senza se e senza ma? Il Fatto ieri lo ha chiesto allo staff di Bucci, che sul punto ha fornito una conferma indiretta: “Il sindaco ha dichiarato in tutte le sedi che il Comune si costituirà parte civile”, viene ribadito. Alla specifica domanda sulla trattativa, sulla quale per riservatezza la risposta è un no comment, “non si esclude che l’amministrazione possa accettare un risarcimento congruo”.
Uno scenario che non è esattamente quello auspicato dai familiari delle vittime: “È per noi un passo irrinunciabile che dovrebbero fare le istituzioni, sia il Comune di Genova che la Regione Liguria. Non possiamo immaginare alcuna soluzione alternativa, non è giusto per quello che è successo e per le vittime che ci sono state. Detto ciò, non abbiamo intenzione di entrare in questo dibattito, che ci sembra creare tensioni politiche. Attenderemo di vedere cosa sarà deciso e poi ci muoveremo di conseguenza”.
La Regione Liguria, peraltro, è apparsa ancora più fredda sull’argomento. E da Giovanni Toti, ultimamente spesso in prima linea nel denunciare i disagi dei cantieri autostradali, finora non è mai trapelata l’intenzione di chiedere i danni ad Autostrade per l’Italia. Sul caso ieri ha lanciato un duro attacco Luca Pirondini, capogruppo in Consiglio comunale del M5s: “Bucci dice di non poter dire tutto sulla costituzione di parte civile: cosa vuole nascondere che non può essere detto in Consiglio comunale? Perché scappa da qualsiasi confronto con le opposizioni? Per difendere accordi ingiustificabili? E con chi, con Aspi o con il Ministero? Caro sindaco, su un argomento così grave non può esistere un argomento di cui non si debba parlare con totale trasparenza”. Sul caso da tempo attacca anche il capo della coalizione di opposizione di centrosinistra in Consiglio comunale Ferruccio Sansa, che ha lanciato una class action contro Autostrade per l’Italia. Non è la prima volta che la costituzione di parte civile del Comune di Genova provoca fibrillazione presso i vertici dell’amministrazione. Un caso celebre (e poco ricordato), e in quel caso coinvolgeva l’allora sindaco di centrosinistra Beppe Pericu, riguarda la scelta di non chiedere i danni alla polizia nei processi per le violenze del G8 del 2001.
Per cinquant’anni sempre in trincea
Gad Lerner Era un militante. Uno che si è sporcato le mani per quello in cui credeva
Gino Strada è la Milano migliore, è il Sessantotto migliore, è la dimostrazione che l’utopia non è ingenuità ma fede creatrice.
Ebbene sì, me lo ricordo in manifestazione con il casco in testa prima che col camice verde del medico di guerra. Militante non ha mai smesso di esserlo, per sua e nostra fortuna. Nelle commemorazioni odierne troppi sorvoleranno sul suo radicalismo burbero e finanche litigioso, disinteressato agli equilibri della sinistra ufficiale, dominato dall’urgenza del fare. Fare bene. Fare del bene. Prestare cura.
Riuniva generosità e ricerca dell’eccellenza questo figlio di operai sestesi, sempre in prima fila quando c’era da battersi ma al tempo stesso capace di apprendere la chirurgia d’urgenza alla scuola di Vittorio Staudacher.
Così Gino Strada ha preso il volo per un mondo in guerra, inorridito dalle sue ingiustizie, mentre Teresa Sarti, sua moglie, imprimeva la E rossa di Emergency dapprima nella coscienza della città e poi molto oltre. Tanti sceglieranno di diventare medici e infermieri seguendo il suo esempio.
Solo ieri ricordava, nell’ultimo scritto su La Stampa, di aver vissuto complessivamente sette anni in Afghanistan. Un occidentale che poteva circolare a testa alta in quel disgraziato paese. Testimone del fallimento delle mire imperiali spacciate per esportazione della democrazia.
Quando, nel 2020, la pandemia del Covid si è abbattuta sull’Italia, e la salute gli ha impedito di essere presente negli ospedali da campo afghani, sudanesi, iracheni che era riuscito a dotare delle più moderne tecnologie, Emergency ha dato vita pure in casa nostra agli ambulatori popolari di strada. Di nuovo a Milano, ha coordinato la formazione delle Brigate dei volontari della solidarietà.
Se n’è andato troppo presto. La sua memoria va onorata ricordando che l’umanitarismo non è sentimento neutrale ma impegno contro i potenti, signori della guerra.
Cinzia Monteverdi Uomo irripetibile le sue battaglie continueranno attraverso i suoi volontariTra i tanti aggettivi che mi vengono in mente per descrivere Gino Strada scelgo questo: irripetibile. Irripetibile soprattutto di questi tempi, quando ci tocca ascoltare alcuni politici che vorrebbero farci credere che aiuteranno le persone e salveranno il nostro Paese. E ci tocca sopportare la moda dei social network, dove ogni giorno un buon numero di leader politici ci propinano le loro strategie comunicative cercando di apparire eroi. Avessero fatto un centesimo di quello che ha fatto Gino. Per chi lo conosceva è facile dire che era un gigante, per chi invece si è perso in qualche fogna mediatica si arrangi, inutile spiegarlo. Voglio solo ricordare una cosa: Gino in televisione. Si animava sempre per le sue battaglie, nazionali e internazionali, e spesso veniva assalito da certe bestiacce culturalmente inesistenti ma purtroppo parlanti. La televisione di oggi proprio non era il suo habitat, era troppo sincero. E troppo preso dalle vite che salvava sul campo, spessissimo sotto le bombe. Nel 2015, in una puntata di Servizio Pubblico di Michele Santoro, Gino Strada ricordò a tutti che ogni anno si spendono 1.750 miliardi per armamenti, cioè per le guerre. Quelle dove lui, e tutti coloro che lavorano in Emergency, si recavano per salvare vite umane. E spiegò con un rapido calcolo che bastava rinunciare a questa spesa per poter avere le risorse necessarie per migliorare i vari Paesi, compreso il nostro, senza dover mettere in piedi manovre finanziarie pesantissime sulle spalle dei cittadini. Se solo uno dei nostri politici di oggi si fosse recato in quei luoghi, a toccare con mano cosa fanno queste persone, le persone come Gino Strada, forse oggi si sarebbero resi conto della vera essenza umana, e magari avrebbero una visione politica un po’ più lungimirante. Invece di blaterare sulle “chiusure dei porti” senza nemmeno sapere cosa comporti. Purtroppo Gino Strada non si può clonare, perché è irripetibile, ma per fortuna Emergency esiste. E dentro ci sono tantissime persone dedicate a progetti umanitari importantissimi. Persone più forti di qualsiasi politica. Grazie Gino per tutto quello che hai fatto.