“Ci insegnò urlando a ricucire corpi sotto le bombe”

“Una volta a Kabul arrivarono quattro bambini feriti da una mina. Braccia e gambe saltate in aria. Gli spagnoli li avevano operati, ma dopo qualche giorno avevano i monconi completamente infetti. Gino li chiamò tutti nel suo ufficio e gli spiegò con i suoi modi spicci, a urlacci, cosa significa fare medicina di guerra. Prima di lui nessuno ne aveva idea”. Matteo Dell’Aira è un infermiere, oggi lavora al Sacco di Milano ma le bombe che ti piovono attorno ha imparato a conoscerle sulla sua pelle: è stato per anni il medical coordinator dell’ospedale di Emergency a Lashkar Gah, ieri caduta in mano ai talebani che si stanno riprendendo l’Afghanistan dopo la partenza dei contingenti internazionali.

“L’ho conosciuto nel ‘94, faceva una conferenza sulle mine anti-uomo a Milano. Sono andato a sentirlo perché avevo letto un articolo in cui parlava di ‘pezzi di carne ricucita in giro per il mondo’. ‘Quando vi diplomate venite, questo è il vostro mestiere’, aveva detto a me e agli altri ragazzi che erano lì”. Dopo un po’ di esperienza in Italia, nel 2000 Matteo è partito per Kabul. “Sono arrivato lì a digiuno di chirurgia di guerra. Aveva un carattere difficile, ma mi ha insegnato tutto. Era un clinico, con pochi strumenti ti rendeva semplice una chirurgia di altissima specialità”. Cosa impensabile prima di Emergency. “In quei contesti ricevi persone che possono essere maciullate dalla testa ai piedi e devi ragionare, prenderti la responsabilità di decidere e agire in pochi minuti”. Primo insegnamento: “Per salvare una vita bastano pochi esami – spiega Dell’Aira, che ha lavorato fino al 2011 con l’ong in Afghanistan a parte due parentesi nel 2003 in Palestina e nel 2007 in Sudan –: si mette mano sulla pancia e un fonendo sul torace per capire i danni interni, ad esempio se un polmone è collassato. E il paziente va in sala operatoria nel giro di 10 minuti”. Modalità estreme di cui in Occidente si ha una vaga idea: “Se oggi anche in un grande ospedale di una città europea arrivasse un ferito da mina si bloccherebbe tutto, perché non c’è il knowledge per affrontare una situazione del genere”.

Secondo comandamento: “Quei quattro bambini di Kabul erano stati operati su tavoli non disinfettati, in mezzo alla polvere o alla sporcizia. Strada ci ha insegnato che anche in quei posti bisogna lavorare in ambienti asettici. Ho girato diversi ospedali a Milano e molti non erano puliti come il nostro a Kabul. Anche lì devi dare il massimo che la medicina può offrire. Non si va in quei Paesi a fare la carità e anche un cerotto è meglio di nulla. No, non è così”. Per il sanitario non è l’unica eredità del medico morto ieri in Normandia: “In Afghanistan la gente per anni ha solo visto guerra – prosegue –, bambini talmente avvezzi alla morte che tra un pallone e un fucile scelgono il fucile. Emergency ha dimostrato che una vita diversa è possibile. L’indotto che si è creato nel Panjshir attorno all’ospedale – persone che lavoravano in corsia, commercianti che portavano il cibo, ambulanze usate per i soccorsi – ha ricreato un microsistema sociale ed economico che ha dato a quelle persone un’alternativa alla guerra. Costruire ospedali vuol dire anche costruire la pace e ricostruire una società distrutta senza imporlo dall’alto come avvenuto in Afghanistan”. Perché poi quando i contingenti stranieri si ritirano i Paesi ripiombano nel caos. “È quello che sta succedendo a Lashkar Gah – prosegue Dell’Aira, che nell’aprile del 2010 venne arrestato con altri due dipendenti della ong con l’accusa di aver partecipato a un complotto per uccidere il governatore della provincia di Helmand, Gulab Mangal –. È una tragedia: le potenze occidentali hanno dato una finta parvenza di ordine e controllo con la forza e adesso, come accaduto in Vietnam, se ne vanno perché si sono rese conto che hanno speso tanto e abbandonano la popolazione civile nelle mani dei carnefici”.

Ora, se non fosse morto, Strada avrebbe visto con i suoi occhi la terza presa di Kabul: “Nel ‘92 era lì con la Croce rossa internazionale e nel 2001 era lì quando i Mujaheddin sono entrati in città con la coalizione internazionale. I talebani entrarono nel nostro ospedale per rubare le jeep e usarle per scappare e Gino e i colleghi si nascosero nella botola del reparto di pediatria. L’ospedale, ce lo ha insegnato lui, è il posto più sicuro del mondo quando c’è la guerra”.

L’amico “Buonista del cazzo: hai avuto ragione tu”

Risparmiateci condoglianze e coccodrilli. Gino Strada era un buonista del cazzo per tutti quelli, a destra e sinistra, per i quali esistono guerre giuste, specialmente quando hanno cariche di governo o autorità politica. Oggi è morto un utopista convinto che la pace sia un’utopia realizzabile con la volontà e con la passione. Oggi è morto un sognatore che tentava di praticare i sogni. Oggi è morto un realista certo che la pace non si costruisce con le armi. Oggi è morto un cretino come me e come qualche altro. Spero solo che il cretinismo buonista sia contagioso più del Covid. La speranza è l’ultima a morire, dicono: ma con Gino io ho imparato che l’ultima a morire è la disperazione.

Gino Strada. “Le guerre sono orrore” Addio al medico utopista

Quando muore un personaggio famoso gli epitaffi sui giornali sono sempre celebrativi, spesso omissivi, raramente sinceri. Tutti santini, e quasi mai si tratta di santi. Oggi ci tocca salutare Gino Strada, chirurgo di guerra morto all’improvviso, che detestava i superlativi, gli encomi e l’adulazione: un’insofferenza che non si è mai curato di nascondere. Milioni di messaggi di cordoglio e commozione hanno affollato in pochi minuti agenzie e social network: nessuno di questi è delle persone, migliaia e migliaia in tutti i continenti, che gli devono la vita.

Di lui bisogna dire che aveva un caratteraccio e che certamente aveva visto troppo dolore durante il suo personale giro del mondo, un passaggio all’inferno da cui non si può uscire indenni. Per tutte queste ragioni Gino Strada era un uomo con cui era difficile avere a che fare: i dolori, propri e altrui, pretendono sempre qualcosa in cambio. Quanto alto è il prezzo, lo si capisce solo alla fine. Questa volta il cordoglio per lo scorbutico dottore che era nato 73 anni fa a Sesto San Giovanni è autentico. Tutti lo abbiamo guardato osservare il giuramento di Ippocrate negli ospedali dei teatri di guerra con un velo di vergogna, un’invidia codarda e sempre con una domanda a fior di labbra: “Come ha fatto a sopravvivere?”.

Da Milano, amatissima città dove si era laureato in Medicina d’urgenza alla Statale, negli anni Ottanta si era spostato negli Stati Uniti, poi in Inghilterra e in Sud Africa finché nel 1988 aveva deciso di dedicarsi ai feriti di guerra. Lo ha fatto con la Croce Rossa, fino al 1994, in Pakistan, Etiopia, Thailandia, Afghanistan, Perù, Somalia, Bosnia. Poi la decisione che cambia la vita, e non solo la sua: nasce Emergency, associazione “neutrale e indipendente” (due aggettivi per nulla superflui) che avrebbe offerto cure gratuite e specialistiche a oltre 11 milioni di persone in 19 Paesi del mondo, dalla metà degli anni Novanta a oggi. Cioè una ogni minuto. E anche qui, in Italia: gli ambulatori di Emergency, dopo la crisi economica, sono spuntati in diverse città per curare migranti, ma anche italiani indigenti. Da anni aveva preso di mira il sistema della sanità italiana, pubblico per modo di dire, ben prima del Covid (e anche in quest’occasione, Emergency aveva messo in atto diverse iniziative a cominciare dalla gestione della terapia intensiva nel presidio della Fiera di Bergamo e alle Brigate dei volontari della solidarietà). In Afghanistan ha vissuto sette anni: ieri mattina – il destino ha un’animaccia porca – ha firmato un durissimo editoriale sulla Stampa sull’avanzata dei talebani verso Kabul. Parole chirurgiche: “La guerra all’Afghanistan è stata – né più né meno – una guerra di aggressione iniziata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti a cui si sono accodati tutti i Paesi occidentali”. Noi compresi, con una risoluzione del Parlamento del 2001 che Strada non ha mai smesso di ricordare. Mancano memoria e conoscenza, come ha ricordato nell’articolo di ieri. Dunque nessuna sorpresa. L’uomo che con la politica ha sempre litigato nel 2013 fu candidato alle Quirinarie dei 5 Stelle per il Colle: rinunciò. Manco a dirlo.

“Le guerre, tutte le guerre, sono un orrore e non ci si può girare dall’altra parte per non vedere il dolore negli occhi di chi soffre in silenzio”. È un riassunto perfetto delle ragioni di una vita. Lo ha scritto lui nella sua biografia uscita per Feltrinelli nel 2015, in cui s’incontrano frasi che gli assomigliano molto: asciutte, sobrie, qualche volta troppo sbrigative. “Avrei voluto scriverlo ancora questo diario”, dice riportando appunti presi in Kurdistan, “ma non ce l’ho fatta perché la scrittura s’inaridisce, ogni storia assomiglia alla precedente, ed è facile immaginare cosa ci sarà da scrivere domani”. Un racconto che si snoda in luoghi e culture diverse, eppure sempre, tragicamente, uguale a se stesso: braccia e gambe volate via, un ragazzino morto suicida dopo essere diventato cieco, bambini mutilati da mine antiuomo costruite come giocattoli (“ho dovuto crederci, ancora oggi non capisco”). Il libro è dedicato all’amatissima moglie Teresa Sarti, sua compagna anche nella missione di Emergency scomparsa nel 2009 e da cui ha avuto la figlia Cecilia: nella dedica (che sta in fondo al libro) si possono capire moltissime cose dell’uomo che non voleva essere chiamato eroe. “Avrei dovuto stare vicino a lei, darle amore e aiuto. Invece ero in giro a occuparmi di gente strana, col turbante o gli occhi a mandorla, di bambini altri, di sconosciuti che ho curato perché andava fatto, ma forse, innanzitutto, per la mia personale soddisfazione. A qualcuno sarò stato utile. Che cosa io abbia guadagnato non lo so, di certo so cosa ho perso. Se tornassi indietro, rifarei quasi tutto. Vorrei solo che al mio fianco, nei tanti luoghi pieni di sofferenza che ho visto, ci fosse lei”.

Voleva cambiare il mondo, Gino. Lo disse in un’ intervista su La7 a Diego Bianchi un anno fa: “Quando ero ragazzo ero inconsciamente sicuro che diventando adulto il mondo sarebbe stato migliore. È stata una grande illusione, perché ancora una volta sta vincendo la scelta della guerra, dell’eliminazione reciproca e della violenza”. Vale sempre che dare un esempio – ottimo, buono o anche solo discreto – è già fare un bel pezzo di Strada.

Big Tech non ama lo smart working: se non torni, taglio del 25% al salario

Forse il lettore ricorda le lodi commosse allo smart working che avrebbe rivoluzionato il nostro modo di rapportarci col lavoro e il tempo libero e cambiato per sempre la mobilità urbana e il volto stesso delle città. Uno sconvolgimento che, ovviamente, sarebbe stato guidato dalle grandi WebSoft del pianeta: insomma Google, Facebook, Twitter, etc. Ebbene, non sarà così o comunque se il lavoro da remoto sarà una rivoluzione non sarà guidata dai grandi monopolisti di internet: tutti, ultimo Google, hanno già annunciato ai loro dipendenti che dovranno tornare a lavorare in sede, anche se la data è stata posticipata dall’autunno al 1° gennaio 2022 per via della nuova ondata di Covid.

La novità è che non è un invito ultimativo: chi vuole può lavorare da casa, ma con meno stipendio. L’agenzia Reuters ha visionato i risultati del calcolatore usato da Google (Work location tool) per calcolare le nuove retribuzioni e ha scoperto che le decurtazioni arrivano fino al 25% del salario e colpiscono di fatto chi ha scelto di vivere fuori dalle grandi città: ad esempio vivendo a Stamford, nel Connecticut, a circa un’ora di treno da New York, lo stipendio cala del 15%; se si risiede nella Grande Mela nessun taglio. Lo stipendio, dicono dalla società, viene come al solito parametrato al costo della vita del luogo di lavoro: se si lavora da casa il calcolo verrà fatto sul comune di residenza. Google, d’altra parte, segue una strada già aperta da Facebook e Twitter e per la rivoluzione dell’abitare e la tecnologia che cambia il rapporto col lavoro bisognerà ripassare più avanti.

Lasciapassare, svista del governo: la Ue non prevede revoche

C’è una norma sul green pass che non quadra: è quella che riguarda i casi dei vaccinati che contraggono il Covid dopo l’immunizzazione. Il Dpcm del 17 giugno sull’applicazione del certificato verde italiano prevede nell’allegato b la possibilità di “revocare” i green pass “in caso di nuova positività accertata dopo avvenuta vaccinazione o guarigione”. In questi casi di reinfezione, si legge, l’azienda sanitaria locale dovrebbe comunicare “il codice univoco identificativo” del green pass della persona positiva per inserirlo in una lista di revoca. Ma nell’app VerificaC19 di questa opzione non c’è traccia, né esiste nessuna “black list”. A scoprirlo, passando al setaccio il codice di programmazione, sono stati Matteo Flora, imprenditore ed esperto di storytelling digitale, Stefano Zanero, professore di cybersicurezza al Politecnico di Milano, e l’avvocato Carlo Piana, paladino del software libero. “Vi hanno detto in lungo e in largo che se vi ammalate i pass verranno revocati. Peccato che non esiste alcun modo per revocarli”, scrive Flora.

Al ministero della Salute fanno sapere che lo strumento è in corso di sviluppo, e che si lavora sia sul lato app che su quello dei protocolli sanitari. Però il problema sembra un altro: non una mancanza nel software, ma un equivoco nel testo governativo. Il green pass italiano, infatti, ricalca in tutto e per tutto il modello del “digital Covid certificate” europeo, concepito per essere “interoperabile” tra i vari Paesi Ue e garantire la mobilità. La “lista nera” dei positivi vaccinati non c’è, in nessun Paese europeo.

Per garantire la privacy ed evitare che il certificato si trasformi in uno strumento per tracciare spostamenti e abitudini di chi lo usa, il sistema funziona con un codice qr validato attraverso una “firma digitale” e non contiene i dati sanitari personali. La verifica di validità, così, non avviene sui dati del cittadino ma solo sulla firma del suo green pass. Una firma digitale dell’autorità sanitaria viene usata per “validare” molti certificati. La normativa europea prevede l’eventualità nefasta che queste “firme” possano essere clonate da hacker, rubate o emesse per errore, e quindi che si possano “revocare” come misura d’emergenza. Insomma, se uno Stato s’accorge che una chiave è compromessa per qualche motivo, la può revocare e invalidare automaticamente tutti i green pass che la usano.

Nel testo adottato dal Parlamento europeo il 9 giugno si legge che “gli Stati membri dovrebbero poter redigere e scambiare con altri Stati membri elenchi di revoche di certificati in casi limitati, in particolare per revocare i certificati rilasciati erroneamente, a seguito di frode o della sospensione di un lotto di vaccino Covid-19 risultato difettoso”. È un’eventualità remota, non pensata per diventare un sistema di controllo del pass dei singoli cittadini, come invece ipotizza la norma italiana che scrive di “revocare” il green pass ai positivi.

“Il fatto che non si possano segnalare i green pass dei positivi nel codice della app è coerente con il certificato verde europeo, pensato come attestazione di vaccinazione e non come pass per accedere a determinate attività o luoghi pubblici”, dice Stefano Zanero. Green pass o no, comunque, quando si risulta positivi scatta l’obbligo di isolamento. Non si capisce cosa aggiungerebbe alle norme sull’isolamento la revoca temporanea del certificato verde. A meno di non intendere il green pass come un lasciapassare per luoghi pubblici, idea che non è coerente con il fatto che il contagio può avvenire anche tra guariti e vaccinati. “La comunicazione sul certificato verde tende a presentarlo come una certificazione di buona salute, ma non è così”, continua Zanero. “La norma italiana aggiunge a quella europea un passo in più che non ha senso, e trasformerebbe un certificato in un titolo al portatore”.

“Inutile vaccinare i guariti: ok il pass con gli anticorpi”

“Ecco, non credo che alcuno possa darmi del no vax, sarebbe come dire che sono juventino”. L’interista Massimo Galli, capo del dipartimento Malattie infettive del “Sacco” di Milano sulla questione degli anticorpi sta ormai battagliando da mesi. “La sindaca Virginia Raggi ha ragione, per me dovrebbero darle il green pass se ha gli anticorpi alti dopo aver avuto mesi fa il Covid”.

Professor Galli, su questo a Roma si è scatenata una polemica politica con gli avversari che accusano la sindaca di non dare il buon esempio.

So che darò qualche dispiacere prendendo una posizione, la mia, che non ha proprio nulla di politico. Se la Raggi e chi come lei ha una quantità alta di anticorpi, l’eventuale green pass assegnato non mi scandalizzerebbe. Anzi, per me quello della misurazione degli anticorpi dovrebbe essere il criterio principe fra un po’ di tempo, quando si riproporrà il problema delle terze dosi.

Quindi i green pass per lei dovrebbero essere rilasciati, oltre che per il ciclo completo di vaccinazione (ora basta la prima dose), anche per eventuale misurazione di anticorpi a livello alto?

Lo dico da mesi, toglierebbe un sacco di problemi. Ma non è materialmente realizzabile a quanto capisco. Peccato.

Insomma i guariti non andrebbero vaccinati?

Conserverei quelle dosi per altri, il vaccino va dato a tutti coloro che hanno necessità. Non sono un assertore della vaccinazione dei guariti se non in situazioni particolari, cioè un guarito va vaccinato se non ha uno straccio di anticorpo nell’organismo.

Agli anziani che lo scorso inverno hanno avuto il Covid e sono guariti è stata somministrata una dose di Pfizer sei mesi dopo, sbagliato?

È una decisione un filino burocratica, perché qualcuno ha deciso che dopo sei mesi dalla guarigione queste persone andavano vaccinate ma su nessuna base a livello di dato scientifico, considerando anche l’assoluta rarità delle reinfezioni. Teniamo presente che anche nelle persone molto anziane registriamo risposte e manifestazioni diverse. Detto questo può anche essere comprensibile per precauzione aver vaccinato over 80 guariti, ma per una persona giovane come la sindaca di Roma, ribadisco, con gli anticorpi alti non ha senso.

Calenda la attaccherà…

Non me ne importa nulla. A scanso di equivoci, perché posso immaginare attacchi strumentali, considero quella dei no vax una pericolosa sottocultura che combatto da sempre. Sono stato sufficientemente chiaro? Aggiungo che ho appena risposto a una mail di due coniugi entrambi ritornati positivi dopo tre mesi dalla guarigione: se non si tratta di un errore di laboratorio, comunque non è una reinfezione, ma una positività che si prolunga nel tempo a bassissima quantità virale con replicazioni non del virus intero ma di alcune sue parti, insomma non una reinfezione ma cascami dell’infezione precedente.

Nuova allerta. Terapie intensive. Quarantena, cambiano le regole

Una buona notizia: la doppia dose di vaccini anti-Covid raggiunge un’efficacia del 96,8% contro la mortalità rispetto ai non vaccinati. Una sola dose l’82,26%. È il dato che emerge dal monitoraggio settimanale dell’Istituto superiore di sanità riguardante il periodo 4 aprile-8 agosto. Per i ricoveri in terapia intensiva, il ciclo completo ha una efficacia del 97,2%, una dose dell’89,4%.

Putroppo però le brutte notizie arrivano dalla circolazione del coronavirus con una curva che non accenna a scendere e, soprattutto, gli ospedali, terapie intensive comprese, che ritornano vicini ai valori soglia di allerta, soprattutto in Sardegna, Sicilia, Toscana e Calabria: regioni che non saranno ancora gialle dopo Ferragosto ma che rischiano fortemente per la settimana successiva.

Il professor Massimo Antonelli, responsabile della terapia intensiva dell’ospedale Gemelli di Roma, è da qualche giorno in vacanza dopo un anno e mezzo di apnea: “Ma diciamo vacanza lavorata… la mattina controllo le cartelle cliniche e sento i colleghi di reparto, perché come temevo il numero dei malati di Covid sta ritornando a riempire la rianimazione da noi e un po’ in tutta Italia. In realtà il sistema regge e sul fatto che ci sarebbe stata una ripresa dei contagi non avevo dubbi, ma la situazione è un po’ peggio di quanto mi aspettassi un mese fa. Molto dipende da persone che hanno evitato di vaccinarsi, in tutta Italia abbiamo ancora oltre 4 milioni di over 50 senza vaccino, e da chi ha tenuto comportamenti un po’ troppo disinvolti”.

Le terapie intensive ieri in Italia avevano 369 posti letto occupati, mentre i reparti ordinari destinati ai malati Covid hanno di nuovo superato quota tremila pazienti. Numeri che, ancora lontani più di un mese dall’inizio dell’autunno, ritornano a essere un’allerta importante.

Intanto il ministero della Salute ha diramato una nuova circolare con rinnovate regole per la quarantena: resta di dieci giorni l’isolamento per chi non è vaccinato o non ha completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni e sia venuto in contatto con una persona risultata positiva; ma è ridotta da dieci a sette giorni la quarantena dei vaccinati che abbiano avuto contatti con un positivo: “Possono rientrare in comunità – si legge nella circolare – dopo un periodo di quarantena di almeno sette giorni dall’ultima esposizione al caso, al termine del quale risulti eseguito un test molecolare o antigenico con risultato negativo”. Dopo quattordici giorni per i vaccinati via libera anche senza tampone.

Nelle due isole maggiori, che come abbiamo visto soffrono già la pressione in corsie e reparti di ospedale, vengono prese misure correttive mentre comunque si procede a passo spedito verso il “giallo”: la Sardegna ha sospeso dal servizio cinquecento sanitari contrari alla vaccinazione, mentre il governatore Nello Musumeci ha reintrodotto l’obbligo di mascherina all’aperto in Sicilia, anche se solo nei luoghi affollati. Intanto una stretta è in arrivo nelle prossime ore un po’ in tutta Italia per evitare un picco di contagi nel week end di Ferragosto scongiurando il rischio che si creino pericolosi assembramenti. Addio, quindi, al classico falò in spiaggia, allo spettacolo dei fuochi d’artificio e alle sagre. Sono già tante le ordinanze comunali che vietano di recarsi in riva al mare la notte di domenica e in alcune zone, come ad esempio Ponza o San Felice al Circeo dove già da settimane è stato disposto l’obbligo di mascherine anche all’aperto.

I controlli saranno rafforzati e le forze dell’ordine saranno impegnate, quindi, nelle località di mare ma anche nelle grandi città, dove verranno impiegati anche droni. Parte dell’attività sarà affidata anche a personale in borghese in modo da potere svolgere le verifiche in modo non invasivo soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo del green pass nelle zone della movida e dei locali: non si escludono controlli a campione.

Uomini e no

La cosa peggiore della morte di Gino Strada è il pensiero che non ci metterà più in crisi con le sue invettive intransigenti e spiazzanti. Ora tutti, i pro e gli anti, lo dipingono come un santino del buonismo: chi l’ha conosciuto sa che era un uomo buono, ma quanto di più lontano dal buonismo. Personaggio difficile, ruvido, spigoloso, capace di grandi slanci e altrettanto grandi sfuriate. Come tutte le persone di carattere, ne aveva uno pessimo. Parlando chiaro e rifiutando i compromessi si era fatto molti più nemici che amici. A destra, ma anche a sinistra. In un Paese che etichetta tutti con le bandierine dei partiti, pochi capivano che era anzitutto un chirurgo. Quando gli portavano un corpo squartato da una bomba, una scheggia, una mina, una pallottola vagante, non pensava a nazionalità, bandiera, fede politica o religiosa, né riusciva a derubricarlo a “effetto collaterale” di missioni o strategie superiori: lo curava e basta. Perciò era contro tutte le guerre e i traffici di armi: perché ne vedeva gli effetti sulla carne viva degli uomini. Non era un politico, anche se faceva politica da cittadino. Non avrebbe potuto fare il ministro degli Esteri, perché se ne fregava delle alleanze e delle convenienze. Ma sarebbe stato un ottimo ministro della Salute, perché avrebbe levato fino all’ultimo centesimo pubblico alla sanità privata. Gli insulti da ogni parte politica (gli ultimi quando Conte lo chiamò a dare una mano in Calabria) erano per lui il migliore complimento. Non era temuto tanto per quel che diceva, quanto per la credibilità con cui lo diceva: la gente vedeva in lui un uomo vero e lo stava a sentire. Perciò non apparteneva a nessuno: perché era di tutti.

Ps. A proposito di credibilità. Sallusti, noto giurista di scuola Palamara, ci insulta (“chihuahua di Conte e Grillo”) perché il Csm ha trasferito una dei pm che indagava sul presunto stupro (che lui, garantista alle vongole, dà già per certo) di Grillo jr &C., per insabbiare il caso a fini politici. Non sa, il poveretto, che i magistrati sono inamovibili e trasferibili solo se lo chiedono (è il caso della pm Bassani) o se vengono puniti (non è il caso della pm Bassani); l’inchiesta è chiusa da tempo e l’udienza preliminare si terrà nella data fissata del 5 novembre col procuratore capo nei panni dell’accusa; se la legge Cartabia fosse passata nella prima versione cara a Sallusti, il processo sarebbe morto in appello dopo 2 anni, mentre le modifiche seguite alla campagna del Fatto e la blocca-prescrizione Bonafede lo rendono inestinguibile; un solo governo tentò di trasferire un giudice per insabbiare un processo: il governo B. nel 2002 col giudice Brambilla nel processo Sme-Ariosto. Queste cose le sanno persino i chihuahua. I somari no.

Non c’è due senza “Tre”, Perrin bissa il successo con un romanzo da soap

Una donna cosa indossa dopo aver fatto l’amore? “Una camicia trovata nell’armadio” dell’uomo.

E cosa accade quando si raggiunge il successo? “Ha acquistato sicurezza e comincia a guardarsi nelle vetrine dei negozi per sistemarsi i capelli. Un ex brutto diventato bello grazie alla fama”.

L’alcool: “Per resistere beve almeno tre bicchieri a sera. È consapevole che si sta distruggendo, ma non ha trovato altri palliativi. L’alcool rende sopportabile l’insopportabile”.

Tocco di saggezza: “Alla fine si convince che ognuno ha la sua vita, che è impossibile salvare l’intero mondo, che pure gli altri dovrebbero fare qualcosa per salvarsi”.

Dialogo d’amore:

“Stai sognando?” chiede Romain.

Persa nei suoi pensieri, Nina sobbalza.

“Vecchi ricordi che tornano a galla”.

Romain l’ha trovata in cucina con una valigia aperta sul tavolo e lo sguardo rivolto verso l’esterno. (…) Le dà un bacio sul collo.

“Hai un buon odore”.

“Odoro di cane. E in via accessoria di gatto” scherza lei.

“No, in via accessoria odori di me”. Le annusa il collo. “Sai di caldo, come stessi tutto il giorno al sole… Adoro il tuo odore”.

“Cos’è che non va in te?”.

“Tutto” risponde lui.

Similitudini: “Si sente sola come un cane abbandonato sul ciglio della strada”.

Sono frasi tratte da Tre, l’ultimo bestseller dalla francese Valérie Perrin, già autrice di Cambiare l’acqua ai fiori, altro successo editoriale (entrambi editi da e/o). Tre, da settimane, è primo in classifica, con migliaia di lettori non spaventati dalla misura extra: 615 pagine. E Tre è un libro sul quale riflettere per trovare i perché e i percome: la Perrin, da brava sceneggiatrice, costruisce immagini, suggestioni, àncora i personaggi a contesti comuni o quantomeno a situazioni di largo consumo. La banalità non la preoccupa. E poi tratta ogni tema possibile: senza spoilerare il romanzo, dentro c’è l’amicizia, l’amore, il sesso, il tradimento, la droga, l’alcolismo, la violenza sulle donne, l’integrazione razziale, l’emarginazione, la malattia, l’identità sessuale, l’abbandono di minore e di animali, la bigamia, la prostituzione e un tocco di speranza. C’è tutto, così da apparire anche troppo. Come quelle serie tv che alla fine diventano soap opera.

“Audrey, lo champagne e suo marito che voleva farmi un elettroshock”

Audrey Hepburn era una coppa di champagne.

Audrey Hepburn era perennemente dentro a Colazione da Tiffany.

In anni di vita romana non l’ho mai vista con abiti comuni o poco eleganti: anche quando spazzava il tetto della sua casa, andava dal fruttivendolo, o portava il figlio Luca ai giardinetti per leggergli i giornaletti, manteneva un certo aplomb, un certo distacco dall’esistenza comune, un atteggiamento indolente ma non altezzoso; però avvolta da uno dei suoi cappotti di Givenchy, o tempo dopo con gli abiti realizzati dall’amico Valentino.

A Roma era arrivata dopo le nozze del 1969 con Andrea Dotti, celebre psichiatra, personaggio opposto a lei: il dottore Dotti rientrava nella categoria di uomini che amano essere amati, circondarsi di donne, mantenere lo sguardo e l’atteggiamento da seduttore, imporre una certa superiorità mentale.

Spesso uscivano insieme, frequentavano il jet set, i locali, lei per questioni di opportunità professionale lui per voglia di apparire. Lei sopportava noi fotografi, da star abituata alla vita di Hollywood capiva le regole del gioco, il riflettore non è solo una metafora, mentre il dottore manifestava un esplicito fastidio ai click. Anche perché lo seguivamo pure quando non era con la moglie.

Una sera lo provocai: “Dimmi la verità: ma se ti capito sotto le mani, cosa mi fai?”

“A te? L’elettroshock”. Il suo sorriso non era rassicurante.

Pochi anni dopo la loro storia finì, lei cambiò casa, sempre a Roma, e scoprii un’altra Audrey Hepburn: finalmente sorrideva. Si era innamorata dell’attore olandese Robert Wolders, una storia che si è portata avanti fino alla fine della sua vita; nel frattempo il dottor Dotti aveva aperto il suo studio a pochi passi dalla nuova abitazione della moglie. Ma lei oramai sorrideva.