“Una volta a Kabul arrivarono quattro bambini feriti da una mina. Braccia e gambe saltate in aria. Gli spagnoli li avevano operati, ma dopo qualche giorno avevano i monconi completamente infetti. Gino li chiamò tutti nel suo ufficio e gli spiegò con i suoi modi spicci, a urlacci, cosa significa fare medicina di guerra. Prima di lui nessuno ne aveva idea”. Matteo Dell’Aira è un infermiere, oggi lavora al Sacco di Milano ma le bombe che ti piovono attorno ha imparato a conoscerle sulla sua pelle: è stato per anni il medical coordinator dell’ospedale di Emergency a Lashkar Gah, ieri caduta in mano ai talebani che si stanno riprendendo l’Afghanistan dopo la partenza dei contingenti internazionali.
“L’ho conosciuto nel ‘94, faceva una conferenza sulle mine anti-uomo a Milano. Sono andato a sentirlo perché avevo letto un articolo in cui parlava di ‘pezzi di carne ricucita in giro per il mondo’. ‘Quando vi diplomate venite, questo è il vostro mestiere’, aveva detto a me e agli altri ragazzi che erano lì”. Dopo un po’ di esperienza in Italia, nel 2000 Matteo è partito per Kabul. “Sono arrivato lì a digiuno di chirurgia di guerra. Aveva un carattere difficile, ma mi ha insegnato tutto. Era un clinico, con pochi strumenti ti rendeva semplice una chirurgia di altissima specialità”. Cosa impensabile prima di Emergency. “In quei contesti ricevi persone che possono essere maciullate dalla testa ai piedi e devi ragionare, prenderti la responsabilità di decidere e agire in pochi minuti”. Primo insegnamento: “Per salvare una vita bastano pochi esami – spiega Dell’Aira, che ha lavorato fino al 2011 con l’ong in Afghanistan a parte due parentesi nel 2003 in Palestina e nel 2007 in Sudan –: si mette mano sulla pancia e un fonendo sul torace per capire i danni interni, ad esempio se un polmone è collassato. E il paziente va in sala operatoria nel giro di 10 minuti”. Modalità estreme di cui in Occidente si ha una vaga idea: “Se oggi anche in un grande ospedale di una città europea arrivasse un ferito da mina si bloccherebbe tutto, perché non c’è il knowledge per affrontare una situazione del genere”.
Secondo comandamento: “Quei quattro bambini di Kabul erano stati operati su tavoli non disinfettati, in mezzo alla polvere o alla sporcizia. Strada ci ha insegnato che anche in quei posti bisogna lavorare in ambienti asettici. Ho girato diversi ospedali a Milano e molti non erano puliti come il nostro a Kabul. Anche lì devi dare il massimo che la medicina può offrire. Non si va in quei Paesi a fare la carità e anche un cerotto è meglio di nulla. No, non è così”. Per il sanitario non è l’unica eredità del medico morto ieri in Normandia: “In Afghanistan la gente per anni ha solo visto guerra – prosegue –, bambini talmente avvezzi alla morte che tra un pallone e un fucile scelgono il fucile. Emergency ha dimostrato che una vita diversa è possibile. L’indotto che si è creato nel Panjshir attorno all’ospedale – persone che lavoravano in corsia, commercianti che portavano il cibo, ambulanze usate per i soccorsi – ha ricreato un microsistema sociale ed economico che ha dato a quelle persone un’alternativa alla guerra. Costruire ospedali vuol dire anche costruire la pace e ricostruire una società distrutta senza imporlo dall’alto come avvenuto in Afghanistan”. Perché poi quando i contingenti stranieri si ritirano i Paesi ripiombano nel caos. “È quello che sta succedendo a Lashkar Gah – prosegue Dell’Aira, che nell’aprile del 2010 venne arrestato con altri due dipendenti della ong con l’accusa di aver partecipato a un complotto per uccidere il governatore della provincia di Helmand, Gulab Mangal –. È una tragedia: le potenze occidentali hanno dato una finta parvenza di ordine e controllo con la forza e adesso, come accaduto in Vietnam, se ne vanno perché si sono rese conto che hanno speso tanto e abbandonano la popolazione civile nelle mani dei carnefici”.
Ora, se non fosse morto, Strada avrebbe visto con i suoi occhi la terza presa di Kabul: “Nel ‘92 era lì con la Croce rossa internazionale e nel 2001 era lì quando i Mujaheddin sono entrati in città con la coalizione internazionale. I talebani entrarono nel nostro ospedale per rubare le jeep e usarle per scappare e Gino e i colleghi si nascosero nella botola del reparto di pediatria. L’ospedale, ce lo ha insegnato lui, è il posto più sicuro del mondo quando c’è la guerra”.