“Riposare stanca”: Camilla, la marchesa delle Lettere

“Per me riposare è fatica”. Parola della Signora Narratrice più singolare d’Italia: la marchesa Camilla Salvago Raggi. Straordinaria per l’età, certo, visto che è nata a Genova il 1° marzo del 1924, anche se, come ha detto di recente, “quando qualcuno, scrivendo di me (rare volte ma succede), mi definisce una novantenne, un po’ ci resto male. Lo sono, anzi ben più che novantenne, ma un conto è dirselo da sé, un conto leggerla nero su bianco, quella parola in cui non mi riconosco. Meglio le parole – benevole – degli amici”.

È quindi Signoraper antonomasia, Camilla Salvago Raggi, per due ragioni precise. Come letterata, per prima cosa. Narratrice e poetessa, traduttrice (di D. H. Lawrence, Wilde, Conrad, Virginia Woolf) e autrice di racconti e romanzi (Il noce di Cavour, Prima del fuoco) assai lodati. Secondo il critico Giovanni Pacchiano, inoltre, il suo libro L’ora blu, pubblicato da Marietti nel 1995, è “il romanzo breve più bello del Novecento italiano, alla pari con Il diavolo sulle colline di Cesare Pavese”. Ma è Signora pure per ragioni di nascita: un antico e nobile casato ligure, di cui ha scritto in tante pagine mirabili (in La Druda di famiglia, per esempio).

Alla Salvago Raggi, vedova dello scrittore Marcello Venturi (1925-2008), l’indimenticabile autore di Bandiera bianca a Cefalonia, la Fondazione Guido e Giovanna Zavanone ha dedicato il bel volume Per Camilla. Saggi e testimonianze per Camilla Salvago Raggi, curato da Rosa Elisa Giangoia e Stefano Verdino e appena uscito per i tipi de Il canneto editore. Un libro, questo, che celebra i 97 anni della scrittrice, innervato dai tanti interventi di amiche, amici, critici, studiose e studiosi e impreziosito da una lirica inedita di Giorgio Caproni (che pubblichiamo qui accanto, ndr). Il grande poeta livornese fu uno dei tanti rilevanti corrispondenti di Camilla: Anna Banti, Elena Croce, Beatrice Solinas Donghi, Natalia Ginzburg, Gina Lagorio, Rosetta Loy, Lalla Romano, Carlo Betocchi, Raffaele Crovi, Georges Duby, Elio Vittorini…

Spiegano Giangoia e Verdino che “nel cuore della sua ‘quinta età’ Salvago Raggi non cessa di stupire i suoi lettori, i suoi amici, i suoi fan, per l’energia con cui affronta costantemente le sue giornate”. E aggiungono: “Naturalmente si presume che molto si debba alla sua inesauribile voglia di leggere e di scrivere, davvero ‘passione predominante’ della sua vita, fin dalle prove (inedite) dell’adolescenza scambiate con la coetanea Beatrice Solinas Donghi (vedi le Lettere verdi del 1938-40) e poi con il lungo sodalizio con lo scrittore Marcello Venturi, suo sposo”. Una “dote davvero straordinaria del suo spirito è la tonalità di ‘allegro con brio’, si potrebbe dire (per lei grande musicofila), che pare un tratto davvero ineguagliabile poiché connesso all’età più che veneranda. Un ‘allegro con brio’ che si ritrova nella sua scrittura, che vive di un singolare paradosso: per quanto la narrazione sia per lo più rivolta al passato, un passato autobiografico e di genia (tra i Raggi e i Salvago), nondimeno essa è priva di tonalità malinconiche e nostalgiche ma tende a dipanarsi in fragranti epifanie, ipotesi e garbate ironie”.

Il primo racconto le venne pubblicato grazie ad Anna Banti nella prestigiosa rivista Paragone, nel 1958. Fu per quel testo che conobbe Marcello Venturi. Camilla ha ricordato che Venturi, “allora direttore editoriale della Universale economica di Feltrinelli”, volle “includerlo in un volume”. Fu un “racconto galeotto, perché grazie a quello, e a Paragone, trovai non solo un editore ma un marito”.

 

L’inedito

Poesia su carta gialla

Torna agli occhi leggeri.
Canta. Torna
– e non avere paura –
ai tuoi alberati pensieri.
Torna ai rimorchiatori,
alla quarta corda
profonda dei vapori
di corso Oddone. Torna
a quando ti batteva al polso
la speranza – e credi
anche se più non c’è
un filo di brezza
per te, alla giovinezza
acre e scontrosa dei
tuoi giorni verdi – al vento
di vita della giovinetta
passati accanto, ai bei
fuochi di San Giovanni, ai
giochi e alle sassaiole
sull’erba. Torna
dove non si può tornare
e così dolce è sostare.
Torna dov’anche la morte
ha un fiore in bocca, e fingi
(fingi) di credere
che tutto quello che stringi
(vana aria) è un procedere.

23/6/195…

Giorgio Caproni

 

*Poesia inedita offerta da Silvana Caproni, figlia del poeta Giorgio Caproni, alla marchesa Camilla Salvago Raggi

Armi ai sauditi, Trudeau cede al colore dei soldi

Anche un campione dei diritti dell’uomo come il premier canadese Justin Trudeau avverte il fascino – non troppo discreto – dei soldi e del petrolio sauditi. L’immagine di Trudeau, già molto sbiadita per i conflitti energetici con i nativi canadesi, esce ulteriormente macchiata da un rapporto redatto da organizzazioni umanitarie: il Canada – è l’accusa – vende ai sauditi armi utilizzate nel conflitto nello Yemen e viola le leggi internazionali.

Amnesty International e altri movimenti chiedono, dunque, la revoca delle licenze di export già concesse verso il regno saudita e il blocco delle nuove. In ballo, c’è un contratto da 12 miliardi di dollari, che riguarda veicoli blindati leggeri, negoziato dal premier Stephen Harper, ma avallato da Trudeau. L’export di armi dal Canada al regno saudita ha superato nel 2020 il miliardo di dollari, secondo dati ufficiali: la cifra rappresenta i due terzi del totale di export di armi canadese, senza contare le vendite agli Usa. Nel loro rapporto, le organizzazioni umanitarie accusano il governo Trudeau di violare l’Arms Trade Treaty (Att), un accordo internazionale cui il Canada aderisce dal 2019.

La difesa di Ottawa è debole: tutto avviene nel rispetto delle leggi del Paese, i contratti sono vecchi e le procedure di concessione delle licenze sono state riviste alla luce delle responsabilità saudite nell’eliminazione del giornalista e oppositore Jamal Khashoggi, ucciso e smembrato nell’ottobre 2018 nel consolato saudita di Istanbul. Però, a Ottawa nessuno ha il cattivo gusto di trincerarsi dietro presunti “rinascimenti sauditi”. Come non lo fa Joe Biden: da quando alla Casa Bianca non c’è più Donald Trump, i rapporti con Riad si sono raffreddati e quelli col principe ereditario Mohammed bin Salman sono congelati. Un rapporto dell’intelligence Usa, diffuso a fine febbraio, conferma il coinvolgimento di MbS nell’eliminazione di Khashoggi. Il cambio di passo di Washington verso Riad era stato annunciato dallo stop, sia pure temporaneo, imposto alle vendite di armi ai sauditi; e dal venire meno dell’appoggio alla guerra nello Yemen, che ha già fatto, nelle stime dell’Onu, 233 mila vittime e sta causando “la peggiore crisi umanitaria al mondo” – il giudizio è sempre dell’Onu –, con milioni di persone a rischio di morire di fame. Una portavoce del ministero degli Esteri canadese, citata da Al Jazeera, assicura che “il governo è impegnato a rispettare regole rigorose per l’export delle armi”; e dice che “il rispetto dei diritti umani è incastonato nella nostra legislazione”.

Dopo l’omicidio Khashoggi, il Canada aveva già bloccato le vendite di armi all’Arabia saudita, ma le aveva poi riprese nell’aprile 2020, sulla base di controlli che dovrebbero garantire l’osservanza delle leggi canadesi e del trattato Att. Secondo il governo di Ottawa, “non c’è rischio sostanziale che le armi canadesi, fra cui fucili di precisione siano utilizzate nello Yemen o siano usate per violare diritti umani”.

Intanto è giunta ieri la notizia che il premier canadese intende convocare elezioni anticipate, entro settembre. L’annuncio ufficiale dovrebbe avvenire domenica, per consentire la durata della campagna elettorale, 36 giorni, il minimo previsto dalla legge elettorale. L’anticipazione è stata fatta dal sito online Canadian Broadcasting Corporation (CbC), citando proprie fonti a conoscenza dei piani del premier che hanno chiesto di mantenere l’anonimato, e aggiungendo che la data in cui gli elettori saranno chiamati alle urne, con due anni di anticipo, dovrebbe essere il 20 settembre.

Trudeau è al potere dal 2015, quando ottenne la maggioranza dei 338 seggi alla Camera dei Comuni, ora però guida un governo di minoranza.

Camp Islamabad: dove Bin Laden resta un “martire”

Quando aveva già portato al tavolo dei negoziati di Doha, in Qatar, i talebani, nel giugno dello scorso anno, il primo ministro pakistano Imran Khan davanti al Parlamento affermò che Osama bin Laden “è un martire”. Per accrescere il proprio indice di popolarità fra gli ultraconservatori religiosi, il premier pakistano non si è fatto scrupolo a elevare il fondatore di al-Qaeda, nonché mente degli attentati dell’11 settembre, al rango di eroe. L’obiettivo di Islamabad era la creazione di una compagine militarizzata per riuscire a controllare Kabul e allargare così la cosiddetta “profondità strategica” contro il suo vicino rivale, l’India induista. Gli Stati Uniti, allora convinti alleati di Islamabad, non vollero ritenere pericolosa questa nuova “creatura”, anzi la considerarono un aiuto contro i sovietici che avevano occupato l’Afghanistan. La retorica pakistana e americana allora incentivava la jihad (la guerra santa) descrivendo i soldati russi come “comunisti senza Dio”. L’effetto domino provocato da questo “esperimento” geopolitico dura tuttora finendo per riversarsi nuovamente sulla pelle della maggior parte degli afgani perché sono in pochi a volere il ritorno al potere dei mullah oscurantisti che durante i negoziati di Doha in corso con gli Stati Uniti e il governo di Kabul – l’ultimo incontro è avvenuto tre giorni fa – promettono di volere una soluzione politica mentre sul campo i propri militanti fanno l’esatto contrario.

Sul campo, le squadracce dell’esercito talib hanno ripreso a torturare e trucidare i soldati dell’esercito nazionale anche dopo la loro resa, sparare razzi nei pressi degli ospedali, reclutare forzatamente ragazzini, tagliare mani per punire i presunti ladri, rapire vedove e adolescenti poco più che bambine per soddisfare le proprie voglie, non certo spirituali, giustificando, agli occhi di Allah, questo odioso crimine con matrimoni fittizi. L’antico sodalizio tra i servizi segreti militari pakistani e i talebani ora sembra pendere, pur nella totale disparità di forze, dalla parte dei talib. Un paradosso che è emerso dalle parole del potente capo dell’esercito pakistano che, al termine di due incontri con i talib, si è detto frustrato dalla loro intransigenza e infuriato per la loro determinazione a tornare al potere in Afghanistan senza condividerlo con le attuali autorità di Kabul, come invece promettono ufficialmente a Doha. Mentre alcuni analisti affermano che l’attuale influenza del Pakistan sia sopravvalutata, è un dato di fatto che la leadership talebana, il vertice, vive dentro i suoi confini e che molti feriti ricevono cure nei suoi ospedali. I figli dei mullah che dirigono questa infernale orchestra vanno a scuola in Pakistan e alcuni di loro possiedono case, negozi e terreni. Per giustificare questa liason mortifera alcuni politici pakistani hanno ribattezzato gli insorti come “i nuovi talebani civilizzati”. Ismail Khan, un potente signore della guerra alleato degli Stati Uniti, ha recentemente dichiarato ai media locali che la guerra in corso nella sua patria è stata colpa del Pakistan: “Posso dire apertamente agli afghani che questa guerra non è tra talebani e il governo afghano. È la guerra del Pakistan contro la nazione afgana”, ha denunciato. “I talebani sono la loro risorsa e vengono usati come servitori”. Le parole del primo ministro Khan secondo cui il Pakistan non ha favoriti in questa guerra ed è profondamente contrario a un’acquisizione militare dell’Afghanistan da parte dei talebani suonano vuote mentre le migliaia di madrasse (scuole coraniche) sparse in tutto il Pakistan risuonano delle sure del Corano recitate a memoria da bambini che diventeranno talebani. Il mese scorso, le autorità pakistane hanno sigillato la madrassa Darul-Aloom-Ahya-ul Islam nelle campagne di Peshawar dopo che il corpo del nipote talebano dell’imam era stato riportato a casa e sepolto come un eroe. La madrassa aveva operato liberamente per decenni, anche se il religioso ammetteva di aver mandato i suoi studenti a combattere in Afghanistan.

Nessuno ferma i Talebani: aperta la strada per Kabul

Da ovest, a Herat, fino a Ghazni, a est, i talebani puntano vittoriosi i loro kalashnikov al cielo: hanno ripreso il controllo del territorio afghano e i loro avamposti sono ormai a solo poco più di cento chilometri dalla capitale, Kabul. Mentre infuria l’avanzata islamista, secondo informazioni riportate dai media locali, è stato lo stesso governo afghano a offrire una divisione dei poteri ai miliziani per tentare di frenare le violenze in corso. La guerra che doveva finire quest’anno, con il ritiro completo delle truppe straniere dal Paese che chiamano “la tomba degli imperi”, è invece appena cominciata. L’assedio di Ghazni, decimo capoluogo caduto, è completo ma gli scontri sono ancora in corso. Il governatore della regione, dopo aver stretto un accordo con gli estremisti, è stato arrestato insieme ai suoi collaboratori dall’esercito regolare mentre tentava di fuggire, ha riferito ieri il ministero dell’Interno di Kabul.

Anche Herat, culla della missione delle forze armate italiane, è caduta dopo settimane di assedio. Dove per vent’anni i soldati italiani hanno pattugliato la terza città del Paese, ora avanzano gli “studenti di religione”, che hanno messo in fuga l’esercito regolare riparatosi a Guzara. Che adesso anche Khandahar sia sotto controllo talebano lo confermano le stesse milizie su Twitter, che diffondono foto della loro avanzata sui social, selfie sui carri armati tra tuniche e razzi. Dall’inizio degli scontri sono morti almeno mille civili, secondo le stime Onu, decine di soldati dell’esercito afghano sono stati uccisi. Altri si sono arresi e hanno consegnato le armi, oppure sono morti nei combattimenti in alcuni degli 11 dei 34 capoluoghi provinciali che compongono il Paese e sono ormai nelle mani delle milizie. Tra le montagne dove sono stati sconfitti prima i sovietici e poi gli americani, fuggono i civili in cerca di rifugio e asilo. Quello che si vede sulla mappa di un territorio appena abbandonato dalle forze di sicurezza dei Paesi occidentali, – che adesso temono l’irrefrenabile potere conquistato dagli islamisti -, sono disgregazione, caos e già centinaia di migliaia di sfollati interni. Un esodo massivo dal conflitto è quello che si teme in Europa, mentre dalle ambasciate straniere le evacuazioni sono iniziate ormai da giorni. A ogni frontiera l’Afghanistan brucia. Mosca blinda il suo confine ex sovietico inviando al Tagikistan milioni di dollari per la costruzione di una barriera adiacente alla provincia di Kunduz, ora interessata dagli scontri. Mentre Heiko Maas, ministro degli Esteri tedesco, intima la fine degli aiuti di Berlino, – che superano i 400 milioni di euro annui – se le violenze non cesseranno immediatamente, la Danimarca invece garantisce asilo per due anni agli afghani che hanno collaborato con il proprio esercito. L’ambasciata statunitense invita i suoi cittadini a fare ricorso ai voli commerciali e valuta l’opzione di riposizionare la sua sede nell’area adiacente all’aeroporto della capitale, dove comincerà a evacuare la maggior parte dei suoi oltre 5mila addetti. Il Pentagono ha annunciato l’invio di 3.000 soldati per le operazioni di evacuazione. Se l’intelligence Usa aveva previsto la caduta di Kabul entro 90 giorni, c’è chi adesso, nell’amministrazione Biden, teme allarmato che la previsione sull’inizio dell’assedio della Capitale sia invece imminente e possa iniziare in meno di trenta giorni. In vent’anni, gli Stati Uniti hanno perso tra la polvere di quei picchi e deserti 2.300 soldati (quasi 20.000 i feriti), e oltre mille miliardi di dollari per addestrare le truppe di Kabul, le cui armi, saccheggiate da caserme e depositi, sono finite adesso tra le mani di quel nemico che si diceva di voler combattere ed estirpare. La Casa Bianca non si pente di aver deciso il ritiro delle truppe. Le immagini in cui i miliziani festeggiano con smartphone e kalashnikov al cielo non sono più, ormai, un problema di Washington, ha riferito ieri il presidente Joe Biden, bensì dei leader afghani: “Si uniscano e comincino a combattere, è solo questione di volontà”.

Crimini e stragi in Darfur, Bashir estradato all’Aja. I suoi tremano

Il governo del Sudan ha deciso di consegnare l’ex dittatore Omar al-Bashir e altri “funzionari ricercati” alla Corte penale internazionale dell’Aja, ha annunciato il ministro degli Esteri, la signora Mariam al-Mahdi. Bashir, sotto processo a Khartoum per il golpe del 1989 che lo portò al potere, è ricercato dalla Cpi per crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità nel conflitto in Darfur, la regione del Sudan dove si stima che dal 2003 oltre 300.000 persone siano state uccise e milioni siano gli sfollati. L’annuncio della signora Al Mahdi è arrivato dopo un incontro con il procuratore della Cpi, Karim Khan: il governo estraderà i ricercati alla Cpi e ha anche approvato il disegno di legge sull’adesione del Sudan allo Statuto di Roma che ha istituito il tribunale. Bashir, al potere dopo aver rovesciato il suo predecessore democraticamente eletto Sadiq al-Mahdi nel 1989, è stato estromesso nell’aprile 2019 dopo mesi di proteste. Da allora il Sudan è governato da un Consiglio di sovranità civile-militare, sulla base di un accordo per un periodo di transizione di 39 mesi. Bashir, il suo ex ministro della Difesa Abdel Rahim Mohamed Hussein, l’ex capo del Partito del Congresso Ahmed Haroun e il capo della milizia Janjaweed Ali Kushayb sono tutti ricercati dalla Cpi. La questione della consegna di Bashir alla Cpi ha causato un duro scontro in Sudan. Alcuni militari che un tempo erano uomini di fiducia di Bashir, e che attualmente prestano servizio nel governo di transizione, si sono opposti. Come Mohamed Dagalo – noto anche come Hemeti – che è a capo delle Rapid Support Forces (Rsf), un gruppo paramilitare composto da più gruppi di miliziani Janjaweed accusati di crimini contro l’umanità in Darfur e di repressione mortale della rivolta del 2019. Ora ricopre il ruolo di vice capo del Sovrano Consiglio. Dagalo e i suoi hanno respinto la consegna di Bashir alla Cpi per timore di essere perseguiti anche loro in futuro.

Trasferita la pm dell’inchiesta su Ciro Grillo. Il procuratore: “Gravi carenze di organico”

Trasferita la pm dell’inchiesta su Ciro Grillo. Laura Bassani, sostituto procuratore che ha sostenuto la pubblica accusa nell’inchiesta per la presunta violenza di gruppo di Porto Cervo, lascia la Procura di Tempio Pausania per andare al tribunale dei Minori di Sassari. Un avvicendamento che il procuratore capo Gregorio Capasso aveva chiesto al Csm di posticipare, per via delle “gravi scoperture di organico”: “Siamo una giovane Procura esposta a pressioni elevatissime”, ha spiegato ieri Capasso all’Adnkronos. Capasso ha seguito in prima battuta le indagini sul presunto stupro di gruppo ed è probabile che continuerà a occuparsi del caso in prima persona: “Abbiamo una mole di lavoro enorme e processi molto impegnativi – dice ancora Capasso – Attualmente i magistrati in servizio sono tre con una scopertura pari al 50% anche se di fatto i magistrati in organico effettivo sono solo in due, dato che un terzo si trova in congedo per maternità dal febbraio scorso. In tale insostenibile situazione, dal settembre prossimo sarà difficile persino garantire la partecipazione del pm alle udienze”. Il provvedimento è entrato in vigore il 31 agosto e di certo non semplifica la vita ai magistrati di Tempio Pausania, tribunale che soffre dei tipici malanni delle sedi meno ambite: carico di lavoro imponente, organico carente, un arretrato consistente da smaltire, e posti che tendenzialmente finiscono sempre a magistrati di prima nomina (i quali sono tenuti a restare almeno tre anni prima di chiedere il trasferimento). Molto probabilmente il prossimo 5 novembre sarà lo stesso Capasso a presentarsi all’udienza preliminare del procedimento che riguarda il figlio del fondatore del Movimento Cinque Stelle. Del resto il procuratore conosce bene il caso, avendo affiancato la pm Bassani fin dai primi passi delle indagini. Ciro Grillo è indagato insieme agli amici Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, tutti ventenni, con l’accusa di aver violentato una coetanea al termine di una serata passata al Billionaire. I fatti risalgono al luglio del 2019. Secondo quanto denunciato dalla ragazza, gli abusi sarebbero avvenuti nella casa vacanze in cui soggiornavano i ragazzi genovesi. Una seconda contestazione di violenza sessuale riguarda anche alcune foto oscene scattate mentre l’amica della vittima, anche lei ospitata nello stesso appartamento, stava dormendo. La versione della difesa è che quella notte si sia consumato un rapporto consenziente.

Mamma Camorra e la “sua” catena di hotel di lusso

sono cinque le società di gestione alberghiera intestate a familiari di Maria Licciardi, la boss dell’Alleanza di Secondigliano che ha ispirato la Scianel di Gomorra catturata sabato scorso a Ciampino mentre stava per prendere il volo verso la Spagna. Si tratta dell’“Hotel Domitiana”, del “Grand Hotel Capodimonte”, della “Società Mediterranea Alberghi Srl”, dell’“Hotel Cyrus”e dell’“Hotel Max Sas”. Ne riferiscono i carabinieri del Ros in un’informativa consegnata alla Procura di Napoli il 3 agosto. Gli hotel sono citati nel decreto di fermo vistato dal procuratore Giovanni Melillo.

Secondo gli inquirenti, Maria ‘a Piccirella stava per iniziare un viaggio di sola andata e aveva intenzione di sottrarsi ai futuri provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Una vacanza, ma senza biglietto di ritorno. Partenza il 7 agosto all’alba, destinazione Malaga. Due settimane in un villaggio turistico con la figlia e il genero, l’uomo che le aveva acquistato il biglietto aereo con una carta di credito American Express Oro. Poi una terza settimana a Getafe, “nel luogo di residenza della figlia”, ricordano i pm. Circostanza che li ha allarmati: vecchie sentenze, richiamate nel provvedimento, hanno sottolineato gli investimenti economici che il clan Licciardi ha realizzato in Spagna proprio attraverso il genero di “Mamma camorra”. L’uomo peraltro gestisce proprio a Getafe insieme alla figlia di Maria Licciardi una attività di import export di prodotti alimentari italiani. L’impresa risulta iscritta al Registro Mercantile di Madrid.

“La Spagna, dunque – affermano i pm a pagina 102 del fermo – è un territorio dove risulta già accertata l’infiltrazione di soggetti intranei al sodalizio criminale di riferimento nonché l’esistenza di strutture commerciali riconducibili all’organizzazione malavitosa gestite, nel caso di specie, da componenti della famiglia Licciardi, idonee a fornire supporto logistico ed economico in caso di latitanza”.

Gregoretti: “Non ci fu sequestro di persona. Salvini legittimato da un ombrello politico”

Matteo Salvini non ha commesso alcun reato nella gestione dei migranti trattenuti a bordo di Nave Gregoretti. È scritto nelle motivazioni con cui il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Catania, Nunzio Sarpietro, ha stabilito a maggio il non luogo a procedere nei confronti dell’ex ministro dell’Interno che era imputato di sequestro aggravato di persona (per il caso Open Arms, invece, andrà a processo a Palermo). Nel caso di Nave Gregoretti non sarebbe stata violata alcuna norma nazionale o internazionale neppure in relazione all’indicazione del place of safety (Pos) che “venne accordato entro limiti temporali normali e accettabili”. Il giudice sottolinea come Salvini sia stato “efficace interprete della linea del rigore legittimata da una sorta di ombrello politico” da parte del governo allora impegnato in sede europea per ottenere un accordo di redistribuzione automatica dei migranti. E che “forte di questo qualificato appoggio si sia sentito ben autorizzato nel concretizzare (…) le medesime condotte avute nel caso della Diciotti”.

Mail Box

 

Il “Fatto” faccia luce sull’Italia alla deriva

Viviamo in un Paese pieno di inquisiti e mezze seghe che si considerano migliori. Nella mia famiglia tiriamo a sorte per chi deve pagare le utenze, segno di un Paese malandato. Il direttore tempo fa ricevendo un premio disse: “Penso di essere un giornalista normale in un Paese che non è più normale da diversi anni. Questo premio va a tutti quelli che continuano a fare bene questo lavoro, fortunatamente sono ancora tanti, anche se non fanno carriera e hanno diverse difficoltà”. Il desiderio, non solo mio ma di molti, è di ritornare a essere un Paese normale. Lei e tutta la comunità del Fatto, quando il fango sale, dovete essere come il lampadiere che rivolge la luce della pertica non davanti a sé, ma verso gli ultimi, per fare luce in un Paese al buio. Buona fortuna.

Moreno Vettorato

 

Il reddito di cittadinanza e i fondi dati ai giornali

Si parla di abolire il reddito di cittadinanza, perché si ritiene che sia per fannulloni o frodatori, ma bisognerebbe togliere gli aiuti all’editoria, approvati nel 2001 e costati milioni di euro. Oppure spiegare come mai la crisi nel settore duri da 20 anni. Nessuna ditta chiuderebbe se fosse sovvenzionata a vita con soldi pubblici. Come può un giornale scrivere liberamente, se finanziato dallo Stato?

Ermanno Migliorini

 

Piromani: si applichino le leggi anti-terrorismo

Quest’anno siamo arrivati al top degli incendi. Si parla spesso di “mano dei piromani”, che talvolta incappano in quelle dei Carabinieri e vengono denunciati. E poi? Pagano per i danni incalcolabili che producono, oltre che per le vite umane distrutte? A me non risulta (spero di sbagliare). Di certo la nuova legge sul processo penale non migliorerà la situazione. Perché chi appicca un fuoco a un bosco non è considerato terrorista? Al pari di questi colpisce l’intera società, come chi mette una bomba. I danni provocati dagli incendiari alla nazione sarebbero degni di Al Qaeda. Perché non si applicano a questi criminali le leggi anti-terrorismo? Il Parlamento è in vacanza, il Paese intanto brucia.

Adriano Menin

 

La conta degli anticorpi contro il Covid è decisiva

Ringrazio il professor Galli per aver sollevato (finalmente) il tema della persistenza degli anticorpi in persone guarite da Covid o vaccinate. Il perseverare nel non considerare presenza e numero degli anticorpi come elemento decisionale nella vaccinazione e nel rilascio e proroga del Green Pass senza darne una motivazione scientifica è una grave colpa che gli organismi medici nazionali e internazionali dovrebbero sanare quanto prima.

Marco Corbellari

 

Via Arnaldo Mussolini: l’aneddoto di Trento

Durigon mi ha fatto venire in mente un aneddoto raccontatomi da un vecchio zio. Durante il ventennio a Trento fu dedicata una via ad Arnaldo Mussolini. Nella notte seguente all’inaugurazione, un temerario sotto la scritta “Via Arnaldo Mussolini” aggiunse: “e via anche il fratello”.

Mario Calliari

 

DIRITTO DI REPLICA

In riferimento all’articolo del 5 agosto, dal titolo “Capaci: scontro in antimafia sul no allo scioglimento”, si precisa che: 1) il sottoscritto, durante le indagini effettuate dalla stazione Carabinieri di Capaci nel 2014, non rivestiva il ruolo di consigliere comunale e non ricopriva alcuna carica in seno all’amministrazione comunale di Capaci; 2) il sottoscritto non è mai stato coinvolto in procedimenti penali riguardanti l’iter di un centro commerciale di Capaci, in cui sono coinvolti l’imprenditore Massimo Romano e un avvocato, entrambi legati al cosiddetto “sistema Montante”; 3) le indagini della Procura di Palermo sono state aperte il 4 giugno 2018 e chiuse il giorno seguente, mentre l’indagine sul centro commerciale di Capaci è iniziata il 21 novembre 2017 e terminata il 1° giugno 2018 con richiesta di archiviazione dal parte del pm al Gip, che successivamente ha archiviato il procedimento il 6 giugno 2018. Ci terrei infine a precisare che il titolo dell’articolo non rispecchia quanto viene poi riportato nel pezzo.

Salvatore Luna

A chiedere l’audizione del luogotenente Salvatore Luna in commissione antimafia è stato il senatore Luigi Vitali, che ha annunciato l’abbandono dei lavori per la mancata convocazione in polemica con il presidente Morra, del quale ha chiesto le dimissioni dalla presidenza di palazzo San Macuto. Prendo atto della precisazione del luogotenente Luna sulla sua estraneità al contesto affaristico mafioso denunciato dal luogotenente Paolo Conigliaro. Sul suo incarico di consigliere comunale di Capaci al tempo delle indagini per un errore di battuta è saltato un ‘’ex’’: dell’errore mi scuso con l’interessato e con i lettori.

g. l. b.

 

In relazione all’articolo a firma Vincenzo Iurillo, sul Fatto di mercoledì dal titolo “Nel segno di Draghi insieme FI, M5S e i reduci di Gava”, ove si fa riferimento alla vicenda giudiziaria che ha coinvolto l’ex sindaco di San Cipriano D’Aversa, Enrico Martinelli, e in particolare alla affermazione secondo cui “Martinelli è stato condannato in via definitiva”, si precisa che tale condanna è sottoposta a giudizio di revisione, attualmente in fase rescissoria davanti alla quarta sezione penale della corte di Appello di Roma, con udienza fissata per il 5 ottobre. Ciò a seguito della sentenza emessa dalla corte di Cassazione il 3 febbraio. Inutile precisare che il presupposto per avanzare una richiesta di revisione, e per vederla esaminata in fase rescissoria, riposa nella possibilità che la difesa abbia individuato e prodotto nuove prove idonee a dimostrare l’innocenza dell’imputato. Prove che dimostrano l’esatto contrario di quanto affermato nell’articolo a proposito di una supposta sottomissione dell’ex sindaco Martinelli ai clan.

Avvocato Valerio Spigarelli

Il Veneto di Zaia. “Macché eccellenza. Per il vaccino servono mesi di attesa”

Gentile redazione, mia mamma ha quasi 97 anni. È vaccinata ma ha diverse patologie. Vive in casa ed è accudita da una badante moldava di 52 anni residente presso di lei e assunta con regolare contratto di lavoro. La signora non voleva vaccinarsi perché ha problemi di circolazione però, dato che noi figli le abbiamo espresso le nostre preoccupazioni per la possibilità che possa contrarre il virus e trasmetterlo alla mamma, persona molto fragile, da qualche tempo si è convinta a farlo previa visita specialistica che la rassicuri in merito ai possibili effetti negativi del vaccino. È dal 18 maggio che si trova in lista di attesa per fare questa visita. (Nel frattempo ha finalmente preso appuntamento e il giorno 17 agosto potrebbe vaccinarsi. Ha pensato di riuscire ad avere in tempo l’esito della visita specialistica.)

Da quella data ho chiamato sei volte il Cup per capire se le fissavano questo appuntamento… poi ho telefonato agli ambulatori e scritto alla segreteria del direttore generale dell’Asl n. 3 (siamo in provincia di Venezia), per renderlo edotto sul mal funzionamento di tutto l’apparato. Ho telefonato e scritto alla segreteria del presidente della Regione Zaia per lo stesso motivo. Tutto ciò ha prodotto che in data 10 agosto mi chiama il Cup per fissare l’appuntamento per la visita il 24 di settembre! A parte il fatto che salta la data per la vaccinazione, la badante in quei giorni si troverà in Moldavia per le ferie annuali.

A questo punto penso che chiederò di fissare la visita a pagamento con l’applicazione del solo costo del ticket così come previsto dal dlgs 124/98, art. 3, comma 13… e vedremo se si potrà accelerare la cosa. Non credo però che farà in tempo a vaccinarsi il 17 agosto e a questo punto chissà quando lo farà!

Questa è la cosiddetta eccellenza veneta tanto sbandierata dal presidente Zaia.

Lettera firmata