Il mezzobusto combatte Lucifero

D’estate fa caldo, su questo non ci piove. Ma siccome ormai in Italia si pensa solo in grande, dal piano vaccinale alle Olimpiadi, anche il caldo si è adeguato. Una volta c’era l’Anticiclone delle Azzorre, un tipo tranquillo che dava del tu al colonnello Bernacca, non se la tirava troppo né faceva sudare più di tanto; visto l’andazzo, ha tagliato la corda, e al suo posto sono arrivati i temibili anticicloni africani dagli occhi di bragia, con tanto di nomi escogitati per tirare su il morale. Lucifero, Scipione, Caronte, Minosse… mancano solo Godzilla e Nosferatu, ma prima o poi si faranno sotto anche loro.

Questi anticicloni luciferini non si limitano a coprire l’atmosfera, invadono anche l’etere, segnatamente i titoli dei telegiornali, sempre per tirare su il morale. “L’Italia sotto la morsa di Lucifero”. “Lucifero avanza indisturbato verso il centro-nord.” “Domani il picco, 15 città col bollino rosso” (sembra di vedere Emilio Fede con le bandierine di Forza Italia). “A Siracusa il record europeo”, e abbiamo fregato gli inglesi un’altra volta. Si passa ai servizi filmati, e qui scende in campo il mezzobusto sanitario, imbottigliato all’origine. Dopo avere attraversato il centro semideserto di Roma, di Milano o di Napoli, di solito si piazza in prossimità di una fontanella in attesa di qualche passante disidratato. “Buongiorno. Lo sa che questa è la settimana più calda dell’anno?” “Ah?” “Proprio così. Guardi, c’è il bollino rosso”. “Ci credo. Mi scusi ma sto morendo di sete”. “Prego, beva pure”. Mentre il poveretto riesce a dissetarsi, seguono i consigli del mezzobusto frate indovino per avere ragione di Lucifero. Non uscire di casa nelle ore più torride. Se proprio si deve uscire, ripararsi all’ombra. Bere molta acqua e mangiare frutta e verdura. Al di là di queste preziose dritte, nessun approfondimento, nessun meteorologo o climatologo chiamato a spiegare le ragioni dello sconvolgimento, forse perché non se ne trovan più. Ormai sono tutti virologi.

Il termometro del fallimento

Non sono passati che un paio di giorni dalla pubblicazione del nuovo inquietante rapporto delle Nazioni Unite sul riscaldamento globale che puntualmente un ennesimo record di temperatura si è aggiunto alla lista di questi ultimi mesi: i 48,8 gradi registrati a Siracusa nel pomeriggio dell’11 agosto.

Si tratta del valore più elevato nella storia meteorologica italiana, che vanta oltre 200 anni di rilevamenti, e costituisce anche il record di calura sul territorio europeo, superando i valori precedenti rilevati anni fa in Grecia, Spagna e Portogallo. È un dato che appare affidabile, in quanto frutto di una rete pubblica di moderne stazioni meteorologiche automatiche, quella del Servizio informativo agrometeorologico siciliano (Sias). Tuttavia, come sempre accade nei casi di record significativi a scala continentale, sarà istituita dall’Organizzazione meteorologica mondiale di Ginevra una commissione di validazione, che si avvarrà anche di competenze italiane, quelle dell’Inrim di Torino, l’Istituto di Metrologia, un’eccellenza internazionale nel settore della taratura degli strumenti di misura. Ma al di là del decimo di grado in più o in meno, il caldo senza precedenti si manifesta in tutto il mondo. In Canada con i 49,6 gradi di Lytton, in Scandinavia con i 34 gradi di inizio luglio oltre il circolo polare, mentre i satelliti del sistema Copernicus certificavano il terzo luglio più caldo della storia a livello globale, dopo quelli del 2019 e del 2016. Il sesto rapporto sul clima dell’Ipcc non lascia più dubbi: siamo in “codice rosso”, e questo per l’umanità significa una grave minaccia per le condizioni di vivibilità futura del pianeta, che rischia di diventare ostile a quelli che sono i nostri bambini di oggi.

Purtroppo assistiamo a un cliché comunicativo che va avanti da decenni: gli allarmi degli scienziati non fanno più notizia, poi quando arriva un’emergenza tra incendi, alluvioni, siccità, per qualche giorno si inonda la cronaca di buoni propositi e dichiarazioni ambientaliste, dopodiché tutto torna come prima, senza sostanziali cambiamenti della società. Ma la malattia climatica è come una patologia umana: inizialmente si può prevenire con comportamenti saggi, come non fumare e fare attività fisica, poi se si trascura questa fase e insorgono i primi sintomi il medico ci chiede di fare una dieta rigorosa, se non si fa nemmeno quella e i sintomi peggiorano tocca prendere farmaci invasivi, ma se il paziente si rifiuta di collaborare, occorre un intervento chirurgico delicato e con minori probabilità di successo, anticamera di una situazione irreversibile fino all’esito fatale. Orbene, la società globale era stata invitata a moderare i propri stili di consumo e di crescita economica e demografica fin dal rapporto del Club di Roma del 1972, ignorato o vituperato anche se oggi ritenuto purtroppo veritiero e anticipatore di un collasso della civiltà probabile entro qualche decennio, poi è stata esortata a mettersi a dieta evitando le energie fossili fin dalla conferenza Onu di Rio del 1992, ma niente, le sono quindi stati prescritti farmaci più impegnativi come il protocollo di Kyoto e l’accordo di Parigi, assunti però in dose troppo limitata, e ora siamo alla necessità di un intervento chirurgico d’urgenza: entro una decina d’anni invertire la curva di aumento delle emissioni per arrivare a zero al 2050 e scongiurare così un catastrofico incremento termico superiore ai due gradi a fine secolo. Il rapporto Ipcc non fa sconti: siamo già entrati in una spirale di irreversibilità del cambiamento climatico a causa di un trentennale ritardo nelle azioni di contenimento, ma rimane una concreta speranza di riuscire ancora con un rapido colpo di mano economico-sociale a moderare i danni attraverso una incisiva decarbonizzazione delle attività umane. È tuttavia un documento frutto della diplomazia internazionale, mediato dal consenso di 195 Paesi e quindi piuttosto ovattato circa le soluzioni, genericamente invocate come “maggiori ambizioni di riduzione delle emissioni da parte dei governi”. Il punto che non si vuole affrontare è l’inadeguatezza dell’attuale modello economico a gestire il conflitto con i limiti fisici ambientali. Non è possibile una crescita infinita in un mondo finito, questo è lampante. Eppure si vorrebbe risolvere il più grave problema che l’umanità sta incontrando nel suo cammino evolutivo con gli stessi strumenti che l’hanno generato: la crescita economica materiale, sia pur dipinta di verde. Anche l’Agenzia europea per l’Ambiente nello scorso gennaio ha timidamente affermato che il motivo del drammatico impatto ambientale che sta gonfiando attorno a noi è la crescita economica, che corrisponde a una maggiore estrazione di risorse naturali e a una maggiore produzione di scorie e rifiuti. Quindi appare chiaro che la severità degli eventi estremi climatici del futuro dipende dalle scelte economiche di oggi. Tocca decidersi ad ammettere che la crescita non è più possibile, pena il collasso del clima e dell’ecosistema. Dobbiamo uscire da questo dogma intoccabile e avere il coraggio di esplorare altre alternative. Dobbiamo tutti prepararci e incoraggiare un cambiamento epocale, una svolta culturale che ci faccia uscire dal neoliberismo e dal culto del mercato come risolutore di tutti i problemi, che è in realtà ciò che ci ha messi in questo casino.

Abbiamo bisogno di visioni creative, basate sulla scienza ma pure sull’etica, sulla filosofia e su una nuova alleanza tra natura e umanità. Se non lo faremo – e in fretta – saremo perduti. E non chiamatelo catastrofismo o radicalismo ambientale: è solida scienza, corroborata da decine di migliaia di pubblicazioni autorevoli, simulazioni numeriche ed evidenze osservative: ci stiamo pericolosamente avvicinando a punti di non ritorno multipli e la nostra saggezza di specie è accettare questa verità per evitare uno scenario tanto impensabile quanto sempre più probabile: il nostro fallimento evolutivo.

Detto meglio: saremmo fottuti.

 

La zia di Eitan, Israele e la religione integralista

L’argomento di cui si è avvalsa la zia materna del piccolo orfano Eitan Biran per contestarne l’affidamento ai cognati residenti in Italia contiene un’insinuazione tale da avvelenare una vicenda già di per sé dolorosissima. Con l’aggravante di averlo pubblicizzato in una conferenza stampa, a Tel Aviv.

La signora in questione non solo ha sostenuto che Eitan sarebbe tenuto “come in ostaggio” nel paese dove è nato e dove i genitori avevano deciso di risiedere, prima di perdere la vita insieme al fratello e ai nonni nella tragedia del Mottarone. Per di più essa ha aggiunto che in Italia “verrebbe gradualmente cancellata l’identità ebraica e israeliana di Eitan”. Tanto basterebbe a giustificare l’annullamento della decisione del Tribunale dei minori di Torino che ha ritenuto fosse preferibile, nell’interesse del bimbo, affidarlo alla famiglia degli zii paterni e dei cuginetti, in provincia di Pavia, dove già abitava e frequentava la scuola materna.

Eitan, secondo costei, dovrebbe invece sottoporsi a emigrazione forzata al fine di preservare un’appartenenza che finirebbe altrimenti per venir “cancellata”.

Trovo questo argomento della zia materna intriso di fanatismo e offensivo: quasi che in Italia non fosse possibile coltivare la propria identità ebraica e un legame affettivo con Israele. O, peggio, come se al giorno d’oggi l’ebraismo potesse darsi solo israelocentrico.

Tale pulsione integralista attecchisce purtroppo in spregio agli autentici valori religiosi, nonostante venga smentita dall’esperienza di tante famiglie ebraiche per le quali, nel mondo contemporaneo, va sfumando la netta distinzione fra natività israeliana e diaspora. Proprio come nel caso della sfortunata famiglia Biran che aveva liberamente scelto di trasferirsi in Italia.

Resta solo da augurarsi che Eitan apprenda il più tardi possibile i termini della pretesa di cui viene fatto oggetto.

Da B. e Dell’Utri a Durigon: quelli che ammirano il duce

Forse è colpa della fornace agostana di Lucifero, forse no. Fatto sta che tra coloro che sottovalutano lo scandalo fascioleghista di Claudio Durigon c’è persino quell’antifascismo radical chic e filo-draghiano che negli ultimi tre anni ha invocato l’eterno mussolinismo a ogni piè sospinto per attaccare Matteo Salvini, soprattutto ai tempi del governo gialloverde. Epperò le gravi parole del sottosegretario all’Economia rimandano a un problema di fondo della politica italiana: l’istituzionalizzazione di una destra normale che condanni definitivamente il fascismo.

Al contrario, tutte le volte che si avvicinano le urne forzisti, leghisti e meloniani fanno a gara per solleticare la pancia nostalgica del Paese. Lo ha fatto Durigon a Latina con la proposta di reintestare il famigerato parco ad Arnaldo Mussolini, fratello corrotto del duce. E lo fece finanche il grigio Antonio Tajani due anni fa, alla vigilia delle elezioni europee. Da presidente in carica dell’Europarlamento affermò che Mussolini aveva “fatto cose positive”. È un tic revisionista, questo, che c’è sempre stato, anche se con sfumature diverse. Durante la Prima Repubblica la corrente andreottiana della Dc era il rifugio di tanti fascisti che volevano diventare e morire democristiani, in primis Giuseppe Ciarrapico e Vittorio Sbardella alias lo Squalo. L’avvento di Silvio Berlusconi, poi, più che liberare gli animal spirits del capitalismo ha tolto definitivamente le briglie agli ammiratori del Ventennio. A cominciare dallo stesso ex Cavaliere. Nel 2013, e proprio in occasione della Giornata della Memoria, B. disse che Mussolini “leggi razziali a parte, fece bene”. Quattro anni più tardi, alla presentazione di un libro di Bruno Vespa, ebbe il coraggio di affermare che “Mussolini proprio un dittatore non era”. Vale la pena ricordare anche il suo sodale condannato per mafia Marcello Dell’Utri, editore dei falsi diari del duce. Sentenziò Dell’Utri: “Mussolini era troppo buono, un uomo straordinario e di grande cultura, alla Montanelli (sic!). Non fu un dittatore spietato come Stalin”.

Ecco, questo è lo stantio brodo di coltura da cui nasce il fascioleghismo di Durigon. Tenendo conto, ovviamente, della destra postmissina passata per il disastro di An e che oggi ha finito la sua traversata nel deserto con il boom di Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni, appunto. Ieri in un’intervista al Corsera, pur di non dire qualcosa contro il fascismo, ha ribaltato astutamente la questione: “Non avrei toccato due nomi come quelli di Falcone e Borsellino”, i due magistrati eroi cui è dedicato il parco di Latina. Non solo. Arnaldo Mussolini non viene citato e si fa riferimento a generiche “personalità”. Un lapsus indicativo: non fratello corrotto del duce bensì “personalità”. È come se il lavoro di Gianfranco Fini per ripudiare il fascismo – dalla svolta di Fiuggi alla condanna di Gerusalemme nel 2004 – non fosse mai avvenuto.

Anzi, il rinnovato vento delle destre sul finire degli anni Dieci ha condotto a una regressione preoccupante. Dal revisionismo si sta passando tout court a un nuovo negazionismo, che porta a tollerare, anche a sinistra, la frase di Durigon. Ma è normale che un sottosegretario di Stato rivaluti Arnaldo Mussolini? Dicono quelli che minimizzano: “Sono solo parole, è una polemica estiva”. Allo stesso tempo, purtroppo, restano parole sulla carta quelle pronunciate da Mario Draghi lo scorso 25 aprile, come ha ricordato Gad Lerner sul Fatto. Peraltro Durigon è ormai un pezzo da novanta della Lega: tre anni fa, il 7 agosto del 2018, era con Salvini a Sabaudia quando la Lega provocò la crisi del Conte 1. È un politico affamato di potere e poltrone ed è fascista. Il suo caso è soltanto un banale problema di toponomastica?

 

In Italia il problema non sono i sussidi, ma i miseri stipendi

Il concetto lo espresse benissimo molti anni fa Henry Ford: “Non è l’azienda che paga i salari. L’azienda semplicemente maneggia denaro. È il cliente che paga i salari”. Se le cose stanno così viene allora da chiedersi perché sempre più spesso i nostri politici sostengano che gli imprenditori del turismo non trovano lavoratori stagionali a causa del Reddito di cittadinanza. Nelle località di mare si registra il tutto esaurito. Secondo il Codacons oggi per fare dieci giorni di vacanza si spende in media l’11 per cento più che lo scorso anno. I danni economici causati dalle restrizioni dovute alla pandemia sono stati fortissimi nelle città dove bar e ristoranti hanno subito cali verticali di fatturato, ma sono stati quasi inesistenti per chi lavora davvero solo nella bella stagione.

Insomma se davvero, come affermano Matteo Renzi e Matteo Salvini, la carenza di stagionali esiste, ed è causata dai 550 euro al mese erogati in media alle famiglie povere, per risolverla almeno nelle località di mare basterebbe aumentare gli stipendi. Come del resto suggerito poche settimane fa agli imprenditori americani non da un pericoloso bolscevico, ma da un uomo affezionato al capitalismo come il presidente Usa, Joe Biden.

Proposte del genere però nel nostro Paese non trovano spazio. E invece impera la demagogia.

Ai primi di giugno, per basarsi sui fatti e non sulle opinioni, alcuni colleghi de Ilfattoquotidiano.it si sono armati di microfoni e telecamere nascoste e sono andati a verificare sul campo la realtà degli stagionali. Tre giornalisti hanno sostenuto un centinaio di colloqui di lavoro da Nord a Sud. L’esperienza è documentata sul sito e francamente fa cadere le braccia. In nessun caso sono stati loro offerti contratti in regola. In Emilia Romagna l’assunzione è sempre una sorta di part-time. Al massimo sei ore e 40 al giorno quando invece se ne lavorano 12 o 13. Il giorno di riposo, previsto dal “finto” contratto, non esiste. Il compenso solo raramente arriva a 1.500 euro al mese, pari a 4 euro l’ora, in parte in assegno in parte in contanti. Più comuni sono invece le offerte da 1.000 euro. Peggio ancora va nel Sud. Negli stabilimenti balneari siciliani visitati dai cronisti, si lavora sette giorni su sette per 14 ore al giorno per 900 euro. A volte, ma è raro, viene offerto un contratto di poche ore per aggirare i controlli in caso di visita degli ispettori del lavoro. Meglio vanno le cose in Versilia. Qui già a giugno era difficile trovare un posto da stagionale. Su settantacinque stabilimenti contattati solo 19 cercavano ancora lavoratori, ma quindici di essi offrivano contratti metà in nero e metà in chiaro tra i 700 e i 1.000 euro al mese per 12 ore di lavoro al giorno. L’inchiesta sul campo de Ilfattoquotidiano.it ha insomma documentato che il Reddito di cittadinanza e l’asserita carenza di stagionali hanno ben poco in comune.

È vero però che questo tipo di lavoratori, se disoccupati, si sono visti erogare negli ultimi 12 mesi come bonus Covid 8.600 euro in varie tranche. Tra di loro dunque c’è certamente chi si è fatto due conti: meglio stare a casa e percepire i bonus piuttosto che spezzarsi la schiena per tre-quattro mesi per 4 euro l’ora. Ma il politico accorto, che opera per il bene dei cittadini, dovrebbe capire che la questione non sono i bonus o i sussidi, ma gli stipendi da fame. E, visto che ce lo ha suggerito pure l’Europa, dovrebbe battersi per il salario orario minimo garantito, già presente in 21 stati su 27. Lo faranno Mario Draghi e la maggioranza in Parlamento? Noi ci speriamo. Ma ne dubitiamo.

 

Le 10 righe che cambiano lo stile dei nuovi 5Stelle

A volte, all’interno di un testo ufficiale, dieci righe possono valere anche più di 39 pagine. Tante sono le righe contenute nel nuovo Statuto del M5S, al punto “O” dell’articolo 2, che esprimono meglio di qualsiasi altra norma il rinnovamento politico e culturale introdotto dalla svolta di Giuseppe Conte. E rappresentano anche la misura di una trasformazione per così dire antropologica da Movimento anti-sistema o anti-establishment, com’era alle origini, a partito delle istituzioni.

Del resto, dopo tre esperienze di governo diverse, prima con la Lega, poi con il Pd e ora nella maggioranza extralarge che sostiene Draghi, non c’è più dubbio che i Cinquestelle per la gran parte siano cresciuti e maturati sul piano della consapevolezza e della responsabilità.

Il paragrafo s’intitola significativamente “Cura delle parole”. Laddove già quel richiamo alla “cura” implica una regola di maggiore compostezza e controllo. Tradotto: attenti a come si parla, a che cosa si dice e a come si dice. Un invito, insomma, al self-control, alla moderazione verbale, senza rinunciare ovviamente alle proprie idee, ai propri valori e alla propria radicalità. Per chi ricorda gli esordi del Movimento, è in pratica un “addio al vaffa day”.

“La cura delle parole, l’attenzione per il linguaggio adoperato sono importanti anche al fine di migliorare i legami di integrazione e di rafforzare la coesione sociale”, si legge nelle prime righe del paragrafo “O”. Ed è già un prologo impegnativo. Segue una frase-chiave che non lascia margini d’interpretazione: “Le espressioni verbali aggressive devono essere considerate al pari di comportamenti violenti”. Come dire, insomma, che in certi casi le parole possono pesare più delle pietre.

Non manca un riferimento critico all’uso o all’abuso dei social network, a quella bulimia mediatica che spesso induce a esprimere giudizi istintivi o riflessioni non sufficientemente meditate: “La facilità di comunicare consentita dalle tecnologie digitali e alcune dinamiche innescate dal sistema dell’informazione non devono indurre a dichiarazioni irriflesse o alla superficialità di pensiero”. E infine, per concludere, un’esortazione di tono pedagogico, soprattutto per un popolo come quello dei Cinquestelle abituato a frequentare la rete, i blog e i meet up che vengono sostituiti nell’organizzazione interna dai “Gruppi territoriali” e dai Forum: “Il dialogo profondo, il confronto rispettoso delle opinioni altrui contribuiscono ad arricchire la propria esperienza personale e l’esperienza culturale delle comunità di rispettiva appartenenza”.

A qualcuno, fra i grillini più ortodossi e di antica fede, queste dieci righe del nuovo Statuto potranno anche suonare bigotte e retoriche. O magari, estranee alla “cultura primitiva” del Movimento. Ma in ogni caso lo Statuto di Conte è stato approvato dall’87 per cento degli iscritti e costituisce una piattaforma programmatica aperta verso l’esterno: cioè verso un’ala d’opinione pubblica magari più moderata, ma non per questo meno intransigente e impegnata sul piano civile.

Per risalire la china elettorale, ora il M5S deve scegliere fra il “richiamo della foresta” e l’esplorazione di nuovi territori e nuove frontiere. Sotto la guida dell’“Avvocato del popolo”, come si definì lo stesso ex premier al suo debutto, le nuove cinque stelle – beni comuni, ecologia integrale, giustizia sociale, innovazione tecnologica ed economia eco-sociale di mercato – indicano un orizzonte progressista e ambientalista a tutto l’arco del centrosinistra.

Non è da oggi, del resto, che il presidente dei Cinquestelle indossa la pochette bianca nel taschino della giacca. E non a caso è stato emulato dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, assurto alla guida della nostra diplomazia. Sono piccoli segni estetici che valgono per quel che valgono. Ma comunque trasmettono all’esterno un messaggio, per così dire subliminale, di stile e di contegno.

Ora s’aggiunge la “cura delle parole”, inserita addirittura nello Statuto, come codice di un linguaggio più misurato e anche più convincente ed efficace. Predicava Desmond Tutu, arcivescovo anglicano e attivista sudafricano, leader negli anni Ottanta dell’opposizione all’apartheid: “Don’t raise your voice, improve your argument” (“Non alzare la voce, rafforza il tuo ragionamento”). È un suggerimento che può valere anche per il nuovo Movimento di Giuseppe Conte.

 

“Green pass”: le possibili truffe, cosa non funziona e perché l’han fatto così

E per la serie “La commedia smette di essere una commedia quando qualcuno si fa davvero male”, la posta della settimana.

 

Caro Daniele, un sacco di gente sta pubblicando su Facebook e Instagram la foto del proprio Green pass. Se io la scarico sul mio cellulare e la mostro agli ingressi che richiedono il Green pass, mi fanno passare come fossi vaccinato? (Andrea Mussoni, Riccione).

 

Sì, se i gestori dei luoghi pubblici a ingresso controllato non verificano anche un tuo documento d’identità. Senza controllo dei documenti, chiunque può mostrare qualunque Green pass adatto per età e sesso. È uno dei motivi per cui l’operazione Green pass, pur animata da buone intenzioni, è potenzialmente catastrofica. A parte l’idiozia di informare sul Gp pubblicando foto di un Gp sui portali istituzionali (Regione Toscana, Tim, Confcommercio Bologna) e media (“il Giornale”), Gp che chiunque potrebbe usare per entrare dove richiesto, il motivo principale dell’assurdità del Gp è che in Italia abbondano gli scellerati disposti a mostrare un Gp abusivo fregandosene della vita altrui. Quella pubblicata sul portale della Regione Toscana è la foto del Gp di un fotografo che l’ha messa in vendita su un celebre sito di foto stock (in questo modo, il fotografo ha reso pubblici anche tutti i dati personali contenuti nel suo Gp, scaricabili da una app). Su Twitter ne ha parlato per primo, due giorni fa, l’informatico Matteo Flora, e il thread andrebbe studiato dagli esperti del ministero della Salute. C’è chi ha provato quel Gp per entrare in bar e ristoranti ed è passato tranquillamente. Daniele Polonioli segnala: “Evento DeeJay on stage a Riccione: 6 agosto controllo scrupoloso di Gp e documenti, ieri scansione veloce del Gp e tutti dentro. Non andremo lontano”. Se uno è infetto dovrebbe starsene a casa, certo; e mostrare un Gp abusivo è un reato penale; ma siamo in Italia. Un altro problema serio del Gp, come spiega l’avvocato Carlo Piana nel thread, è la sua revoca: è necessaria in caso di positività del vaccinato, ma la app VerificaC19 pare non abbia la funzione che verifichi la revoca; il ministero non avrebbe previsto neppure la funzione per revocare il Gp in caso di compromissione (furto, copia). È assurdo, inoltre, che il Gp non sia richiesto su tram e autobus, dove l’assembramento è la regola. Comunque, una volta entrato col Gp in un locale, è meglio comportarsi come prima del 6 agosto, cioè distanziati da altri e con la mascherina su e giù, sia perché il personale non è detto che sia vaccinato, sia perché chi è vaccinato non è detto che non sia contagioso: col vaccino non finisci in terapia intensiva e non muori, ma puoi sempre beccarti una variante e contagiare altri. Infatti in Israele, che aveva vaccinato tutti, stanno rivaccinando con la terza dose, sperando che funzioni. In attesa del rimedio migliore (lo spray nasale che blocca l’ingresso dei Coronavirus nelle mucose, come già fatto per altri virus in passato: bye bye Pfizer!), non ci resta che vaccinarci con la puntura nel deltoide, e continuare con mascherina, disinfezione e lontananza dagli assembramenti all’aperto e al chiuso. Il Gp è pleonastico nei locali dove già si praticavano distanziamento, mascherina e disinfezione: le misure funzionavano. Per usare i mezzi pubblici ed entrare ovunque, basterebbero tamponi giornalieri gratis e ubiqui, eseguiti in farmacia o in gazebo dedicati: i soldi non mancherebbero, grazie all’Europa, ma il governo non ha voluto implementare questa soluzione perché voleva spingere gli italiani a vaccinarsi. Ed ecco spiegato il Green pass.

 

“Sergio don’t go”. Il Financial pizzino

“L’Italia sta vivendo un’estate di successi”. Dice: l’Eurovision, il calcio, le Olimpiadi, ma soprattutto “il Paese ora ha un governo che funziona” e ha “smesso di essere sinonimo di disfunzionalità politica”, anzi “appare come un polo di stabilità nell’Ue”, altro che Francia e Germania. La cosa ha effetti anche sulla psiche di ampie fasce della popolazione: “Capi azienda, investitori stranieri e i partner Ue ne sono rimasti incantati” (e qui non si citano le folle in festa solo perché tanto si sa che non contano una mazza). No, non è l’editoriale di uno dei grandi giornali italiani – anche se con quelli condivide gli errori sui dati e la passionaccia per il non sequitur – ma un articolo comparso mercoledì sul Financial Times, giornale dei mercati finanziari che – sia detto en passant – funge anche da bollettino non ufficiale della Bce e ha dunque con Draghi una corrispondenza d’amorosi sensi tanto antica quanto profonda. È per questo che risulta inquietante la conclusione: “La grande domanda è: quanto Draghi resterà premier?”. No perché il premier “potrebbe essere tentato dal passare alla presidenza una volta che, il prossimo febbraio, sarà finito il mandato di Sergio Mattarella”. Ecco, “in un mondo ideale, Mattarella verrebbe persuaso (sic) a restare per un altro anno”, perché “Draghi ha bisogno di più tempo per cambiare l’Italia”. Please, Sergio, don’t go, sono i mercati che te lo chiedono: che vuoi che sia un anno? Eddai. A questo proposito, ma qualcuno al Quirinale sa come si dice pizzino in inglese?

Il premier e le minacce del leader del Carroccio

Leggiamo sui giornali che al caso Durigon, Mario Draghi penserà al ritorno dalla pausa estiva. Indiscrezione piuttosto interessante che solleva alcune ipotesi sull’atteggiamento del presidente del Consiglio che sottoponiamo al giudizio dei lettori.

1. Stremato. È stata tale la fatica di questi mesi che Draghi appena messo piede nel buen retiro umbro avrebbe impartito severissime disposizioni agli stretti collaboratori, del tipo: fino a Ferragosto non voglio seccature, sbrigatevela voi.

2. Distratto. Stretto collaboratore: presidente, ci sarebbe il caso Durigon? Draghi: Durigon chi?

3. Manzoniano. Tacere, sopire, troncare. E poi, lasciare sbollire, affidarsi alle amnesie agostane dei giornali (tranne uno). Anche perché la pausa estiva finisce quando lo decide lui.

4. Machiavellico. Durigon è un problema di Salvini: se non lo risolve s’incasina con i suoi. Ma più passano i giorni e più Durigon è un problema di Pd, grillini e Leu: se la loro mozione di sfiducia fosse bocciata ne uscirebbero molto più deboli. In ogni caso, Draghi sarebbe più forte.

5. Decisionista. Nel caso non fossero Durigon a togliere il disturbo e Salvini a gestire la patata bollente, ma comunque prima che si arrivi a un voto parlamentare assai scivoloso per maggioranza e governo, toccherà giocoforza a Draghi risolvere il problema. Perché il premier è lui e il sottosegretario Durigon un suo sottoposto. Potrebbe fare una di quelle gelide e secche telefonate di cui si favoleggia, una cosa del tipo: mi dispiace ma voglio le sue dimissioni entro stasera, clic. Sarebbe un atto di elementare decenza politica, e non solo politica, poiché un membro del governo che ha giurato sulla Costituzione repubblicana, sorpreso a espettorare sulla pubblica piazza l’apologia del fascismo, e del fascistissimo Arnaldo Mussolini, insultando la memoria di due magistrati assassinati dalla mafia, da quel governo deve essere quanto prima cacciato. Anche perché quel tizio non ha ancora avuto il coraggio civile di chiedere scusa. Salvini (muto di fronte a una tale vergogna) farà fuoco e fiamme? Pazienza. Salvini minaccia di far saltare il banco? Difficile che arrivi a tanto ma se un governo andasse in crisi per un Durigon, o quel governo vale poco o c’è un impresentabile che conta troppo.

Il disastro politico e civile di una terra quasi indifferente

Quanti falò nella notte di San Lorenzo sulla spiaggia di Scilla, il bagliore color rubino e il chiasso felice di chi non vede e neanche sente. Avessero voltato le spalle, quei ragazzi avrebbero visto le mascelle del fuoco che azzanna il crinale maestoso dell’Aspromonte e scende sui suoi fianchi e dall’interno vira verso l’esterno, dal Tirreno passa allo Jonio. Mammola, Gioiosa Jonica, San Giovanni in Gerace, Cittanova, Caulonia, per fermarci al reggino. Arde la Calabria ed è quasi un disturbo per l’Italia che ha dovuto inviare 130 vigili del fuoco per soccorrere e tamponare un po’, con i pompieri di Cuneo perduti tra il fumo del Reventino, l’istmo tra i due mari. Ora che il corpo forestale è stato sciolto, solo i pompieri devono fronteggiare il disastro. E fanno quel che possono. Oggi anche le migliori pratiche, come quelle che Tonino Perna aveva introdotto da presidente vent’anni fa nel parco dell’Aspromonte, sono perdute. “Assegnavamo a cooperative e volontari zone del parco e condizionavamo gli incentivi alla tenuta dei boschi. Loro perdevano i soldi se si fosse incendiato più dell’1 per cento del territorio assegnato”. In questo modo, con quattrocentomila euro, Perna riuscì a ridurre del 90 per cento gli incendi e 900 ettari di bosco furono salvati.

Ora il fuoco è impossibile da contenere, e il paradosso è che le sue lingue si alzano alte e spesso quasi in coincidenza con la stipula dei contratti con le società dell’antincendio. È certo che esistono piromani professionisti e legati alla criminalità, e troppo, troppo a lungo sopportati contadini incoscienti, pastori senza scrupoli che hanno fatto divenire la Calabria, regina italiana dei boschi, oggi un braciere. Bruciano i pini di Acatti, finiscono le querce della Valle Infernale, arrostiscono vivi i pini loricati del Pollino, gli abeti bianchi delle Serre, le sequoie, l’alto fusto della Sila.

La Calabria brucia e i calabresi? “Il paradosso è che le aree interne si sono svuotate e il pieno della costa è effimero, provvisorio precario, scollegato. Brucia e piange la Calabria nascosta, festeggia quella marina. Come se l’una e le altre fossero nemiche, scollegate, irrintracciabili nella cartina sociale”, commenta l’antropologo Vito Teti.

Seimilacinquecento ettari di boschi, tre grandi Parchi, quello dell’Aspromonte, del Pollino, della Sila, una porzione divenuta patrimonio Unesco della biodiversità, due Parchi regionali, enormi catene di sentieri oggi trasformate nelle strade del fuoco. Le fiamme hanno raggiunto il santuario di Polsi, sono per fortuna salve le faggete vetuste di Salve, ma è cenere Roccaforte del Greco, cenere Roghudi, Bagaladi, San Luca. E a nord, nel Cosentino, Acri brucia, e la piana di Lamezia, che fa da baricentro, guarda le fiamme di Gizzeria, di Isca dello Jonio, e perfino Catanzaro sta chiusa tra le fiamme.

Il disastro ambientale collega a sé quello civile e politico. I cinquemila dipendenti impegnati a curare i boschi dove sono? Il lavoro di Calabria Verde, la società regionale che dovrebbe difendere dagli incendi e dai dissesti, che fine ha fatto? Chi porta il conto e soprattutto chi lo paga? Il presidente della Regione Nino Spirlì ha la voce addolorata: “Subiamo azioni assassine di gente criminale”. Subiamo? Chi subisce e perché?

L’antincendio è divenuta una macchina industriale che macina fatturato senza alcun risultato. Ma intorno a questa macchina una società civile debole se non connivente, poco attenta ai bisogni della terra, svogliata, distratta. Il rosario di questo immenso funerale non finisce di allegare immagini e luoghi sacrificati al fuoco: la pineta di Siano arde, arde la sommità del monte Mancuso, gli animali arsi vivi, sullo Zomaro c’è solo fumo.

Il fuoco si fa corona lucente di quello spicchio di terra che guarda il mare e in questo mese fattura ciò che serve per l’intero anno. La Riviera dei Cedri, da Praia a Mare a Cetraro, è una colonna di auto e il lungomare stazione di ristorazione permanente. Il bagliore è lassù. Tutti guardano, e basta così.