Quanti falò nella notte di San Lorenzo sulla spiaggia di Scilla, il bagliore color rubino e il chiasso felice di chi non vede e neanche sente. Avessero voltato le spalle, quei ragazzi avrebbero visto le mascelle del fuoco che azzanna il crinale maestoso dell’Aspromonte e scende sui suoi fianchi e dall’interno vira verso l’esterno, dal Tirreno passa allo Jonio. Mammola, Gioiosa Jonica, San Giovanni in Gerace, Cittanova, Caulonia, per fermarci al reggino. Arde la Calabria ed è quasi un disturbo per l’Italia che ha dovuto inviare 130 vigili del fuoco per soccorrere e tamponare un po’, con i pompieri di Cuneo perduti tra il fumo del Reventino, l’istmo tra i due mari. Ora che il corpo forestale è stato sciolto, solo i pompieri devono fronteggiare il disastro. E fanno quel che possono. Oggi anche le migliori pratiche, come quelle che Tonino Perna aveva introdotto da presidente vent’anni fa nel parco dell’Aspromonte, sono perdute. “Assegnavamo a cooperative e volontari zone del parco e condizionavamo gli incentivi alla tenuta dei boschi. Loro perdevano i soldi se si fosse incendiato più dell’1 per cento del territorio assegnato”. In questo modo, con quattrocentomila euro, Perna riuscì a ridurre del 90 per cento gli incendi e 900 ettari di bosco furono salvati.
Ora il fuoco è impossibile da contenere, e il paradosso è che le sue lingue si alzano alte e spesso quasi in coincidenza con la stipula dei contratti con le società dell’antincendio. È certo che esistono piromani professionisti e legati alla criminalità, e troppo, troppo a lungo sopportati contadini incoscienti, pastori senza scrupoli che hanno fatto divenire la Calabria, regina italiana dei boschi, oggi un braciere. Bruciano i pini di Acatti, finiscono le querce della Valle Infernale, arrostiscono vivi i pini loricati del Pollino, gli abeti bianchi delle Serre, le sequoie, l’alto fusto della Sila.
La Calabria brucia e i calabresi? “Il paradosso è che le aree interne si sono svuotate e il pieno della costa è effimero, provvisorio precario, scollegato. Brucia e piange la Calabria nascosta, festeggia quella marina. Come se l’una e le altre fossero nemiche, scollegate, irrintracciabili nella cartina sociale”, commenta l’antropologo Vito Teti.
Seimilacinquecento ettari di boschi, tre grandi Parchi, quello dell’Aspromonte, del Pollino, della Sila, una porzione divenuta patrimonio Unesco della biodiversità, due Parchi regionali, enormi catene di sentieri oggi trasformate nelle strade del fuoco. Le fiamme hanno raggiunto il santuario di Polsi, sono per fortuna salve le faggete vetuste di Salve, ma è cenere Roccaforte del Greco, cenere Roghudi, Bagaladi, San Luca. E a nord, nel Cosentino, Acri brucia, e la piana di Lamezia, che fa da baricentro, guarda le fiamme di Gizzeria, di Isca dello Jonio, e perfino Catanzaro sta chiusa tra le fiamme.
Il disastro ambientale collega a sé quello civile e politico. I cinquemila dipendenti impegnati a curare i boschi dove sono? Il lavoro di Calabria Verde, la società regionale che dovrebbe difendere dagli incendi e dai dissesti, che fine ha fatto? Chi porta il conto e soprattutto chi lo paga? Il presidente della Regione Nino Spirlì ha la voce addolorata: “Subiamo azioni assassine di gente criminale”. Subiamo? Chi subisce e perché?
L’antincendio è divenuta una macchina industriale che macina fatturato senza alcun risultato. Ma intorno a questa macchina una società civile debole se non connivente, poco attenta ai bisogni della terra, svogliata, distratta. Il rosario di questo immenso funerale non finisce di allegare immagini e luoghi sacrificati al fuoco: la pineta di Siano arde, arde la sommità del monte Mancuso, gli animali arsi vivi, sullo Zomaro c’è solo fumo.
Il fuoco si fa corona lucente di quello spicchio di terra che guarda il mare e in questo mese fattura ciò che serve per l’intero anno. La Riviera dei Cedri, da Praia a Mare a Cetraro, è una colonna di auto e il lungomare stazione di ristorazione permanente. Il bagliore è lassù. Tutti guardano, e basta così.