Non solo piromani: la Calabria brucia per sprechi e mafia

Il primo segno sono le cicale. Non friniscono come gli altri giorni, incessanti. Poi, le colonne di fumo intenso che si alzano, a segnare il passaggio della guerra. E i cumuli di cenere, i legni neri carbonizzati e le carcasse degli animali, che invadono quel che resta dei boschi. La Calabria è in guerra col fuoco, da giorni. Bruciano le foreste della Sila e il Reventino, il Pollino e la Riviera dei Cedri, brucia l’Aspromonte, coi suoi giganteschi pini e faggi, con le querce pluricentenarie, tutti patrimonio Unesco. Non solo sterpaglie, o erba secca. A essere mangiati dalle fiamme sono i boschi antichi delle valli degli argenti e dei briganti, il cuore della Calabria grecanica: “È come se bruciassero i Bronzi di Riace”, hanno detto ieri le guide del Parco nazionale dell’Aspromonte. I roghi ancora attivi sono 59. Il giorno prima, se ne contavano 13 di più. Non si può avere una stima precisa dei danni, degli ettari bruciati, perché – come sottolineano gli ambientalisti riuniti nel Comitato Stop Incendi Calabria – “qui è stata disattesa la Legge quadro sugli incendi (353/2000), che prevederebbe, oltre al piano di spegnimento attivo, anche la prevenzione. Manca pure un catasto degli incendi, senza cui è impossibile quantificare i danni, così come individuare le zone interessate, anche per far partire le indagini…”. Ed è proprio il Comitato Stop Incendi Calabria, assieme a Italia Nostra e Wwf, a puntare il dito nei confronti delle istituzioni di una Regione che “non fa altro che chiedere per l’ennesima volta lo stato di emergenza: l’emergenza di un’emergenza di un’emergenza”, si sfoga Armando Mangone. “Fino a pochi giorni fa, nonostante le elezioni a breve, il tema degli incendi non era nemmeno dibattuto tra i candidati!”. Tant’è che le diverse associazioni hanno scritto una lettera aperta ai principali candidati alla guida della Regione (Mario Occhiuto per il centrodestra, Amalia Bruni per Pd e M5S, e Luigi De Magistris), a oggi senza risposta. “Gli incendi che stanno dilaniando la nostra terra non sono imponderabili disastri – si legge nel testo – né tanto meno piaghe dovute al fato o alla casualità, bensì fenomeni prevedibili, se soltanto le istituzioni operassero come le loro responsabilità e funzioni impongono”.

 

La regione e Calabria Verde

Quaranta milioni di euro andati persi. Sono i soldi previsti ogni anno come contributo statale vincolato per i piani di forestazione che il leghista Antonino Spirlì – presidente pro-tempore e in corsa per la poltrona da vice, nel ticket con Occhiuto – avrebbe “bruciato”, per non aver presentato gli adeguati progetti con la sua giunta. Un’azienda alle strette dipendenze della Regione, Calabria Verde, a cui fa capo il servizio “AIB – anti incendio boschivo”, che ogni anno costa ai contribuenti 160 milioni di euro solo di stipendi (4.800 addetti, età media 55 anni). Una grande mangiatoia di soldi pubblici, a guardare le diverse inchieste della magistratura, finita negli anni agli onori della cronaca o per essere stata usata dalla politica come “moneta di scambio” clientelare, o perché, secondo i pm, avrebbe contato tra i suoi addetti uomini delle ‘ndrine e pregiudicati.

La società regionale nasce nel 2013 sulle ceneri dell’agenzia Afor, e finisce per “imbarcare” addetti ai lavori di sistemazione idraulico-forestale, personale delle comunità montane (abolite proprio nel 2013) e decine di “comandati” dai vari uffici della Regione. Lavoratori, di base, per lo più inquadrati come operai agricoli, con buste paga da 1.300 euro al mese, ma che spesso mancano di una formazione specifica. Un ente pachidermico che alla voce “personale sorveglianza idraulica” nel 2019 contava 3.988 dipendenti, sui 4.769 totali. Aloisio Mariggiò, ex generale dei Carabinieri oggi in pensione, è stato il Commissario straordinario di Calabria Verde che, nel 2020, prima di dimettersi, ha consegnato ai vertici della Regione una relazione durissima in cui ricordava come “qualcuno” avesse assunto un “preciso impegno” per “non operare tagli sul personale”. Fra le anomalie rilevate da Mariggiò, anche il caso della sede di Calabria Verde. Si trova “all’interno di una struttura commerciale di Catanzaro” e occupa 1.760 metri quadri. Una sede per cui la società regionale “corrisponde canoni di locazione per oltre 180mila euro l’anno”, e che appartiene “a due diverse società” (su una delle quali pende “un’interdittiva antimafia”).

 

La mafia dei boschi

Così, mentre i servizi regionali che dovrebbero contrastare e prevenire affondano negli sprechi, la “mafia dei boschi” fa affari grazie agli incendi. Come? La Calabria, oltre a essere l’unica, assieme all’Abruzzo, ad avere sul proprio territorio tre Parchi nazionali (Aspromonte, Sila e Pollino, il più esteso d’Italia), è anche la regione italiana con più centrali elettriche a biomasse, dunque a combustibile organico, tecnologia che viaggia anche grazie al legno “riciclato” dagli incendi. “Solo il 20% dell’energia prodotta dalle centrali biomasse qui resta in Calabria – spiega Ferdinando Laghi, medico per l’ambiente oggi candidato con De Magistris – il resto finisce fuori. E, per avere un’idea, la centrale del Mercure, in provincia di Cosenza, nel primo anno di esercizio ha incassato 49 milioni di euro: 10 dalla produzione di energia, 39 dagli incentivi pubblici”. A fiutare il business, ancora una volta, è la ‘ndrangheta. Dalle carte dell’inchiesta “Farmabusiness” del 2020 della Procura di Catanzaro, emerge come già nel 2012 il boss Nicolino Grande Aracri avesse intuito l’affare: intercettato, parlava di un guadagno di “300mila euro al mese” dai carichi di legname venduti, da ditte affiliate, ai gestori delle centrali. E sempre la Dda di Catanzaro, con l’operazione “Stige”, aveva portato alla luce i “disboscamenti selvaggi per alimentare il mercato delle biomasse, favoriti dalla connivenza di chi doveva vigilare e non l’ha fatto”.

 

I contadini improvvisati

“Quando parliamo di incendi, specie in questa terra, per inquadrare le responsabilità bisogna guardare a tutti i livelli”, spiega Mangone di Stop Incendi. “È molto diffusa purtroppo la pratica dei singoli che bruciano le stoppie, per ripulire i propri campi”. Sono i tanti calabresi, ricorda lo scrittore Francesco Bevilacqua, “che giocano a fare i contadini e i pastori, avendo dimenticato gli antichi saperi. Così come calabresi sono i piromani che appiccano il fuoco per psicopatia o per ritorsione verso il vicino, il parco, il mondo intero. È la Calabria, che ha la sua luce e la sua ombra. Il fuoco non è che una metafora di questa condizione ambivalente”.

“Il lasciapassare così è pericoloso. Non è misura di sanità pubblica”

“Il governo sul Green pass mente e lo fa in modo pericoloso”. Andrea Crisanti, docente di microbiologia all’Università di Padova, ormai noto alle cronache come uno degli scienziati più intransigenti rispetto alle misure sul Covid è molto critico sull’utilizzo del green pass come misura per uscire dalla pandemia. “Dire che creiamo ambienti sicuri se tutti al loro interno hanno il green pass è una fake news bella e buona”.

L’immunità di gregge è una chimera: lei è molto critico sul Green pass, non risolve?

Che l’immunità di gregge fosse impossibile mi era già chiaro da tempo, adesso ne abbiamo la certezza. L’unico scopo positivo del Green pass, per come la vedo io, è quello di aumentare la percentuale di vaccinati. Ma, attenzione: non è una misura di sanità pubblica come viene fatta passare dal governo in modo totalmente errato.

Cioè, il governo Draghi mente?

Ma certo, anche in modo pericoloso e fuorviante. È rischioso utilizzare il Green pass come misura di sanità pubblica perché, lo ripeto, non lo è. Intanto non è mai stato riformato, quindi viene concesso già dopo la prima dose e abbiamo visto come con una sola dose di vaccino SarsCov2 e in particolare la variante Delta sia perfettamente in grado di contagiare, cosa che per altro può avvenire, anche se in misura minore, pur con due dosi addirittura.

E questo è pericoloso?

Certo, il Green pass viene millantato come misura per creare ambienti sicuri, non ha proprio senso, niente di più falso. Io non sono contrario all’utilizzo del Green pass in senso lato, basta chiamarlo per quello che è. Non tollero l’ipocrisia del governo su questo. Se uno Stato vuol fare rispettare la legge deve comminare sanzioni molto chiare ma non può mentire. E comunque anche sulle sanzioni mi pare che si propenda per la faccia feroce a cui raramente seguono fatti. È giusto utilizzare il “lasciapassare” come incitamento alla vaccinazione, è sbagliato far intendere che avendolo, addirittura dopo una sola dose di vaccino, si sia al sicuro, che ne so, in un ristorante al chiuso con altre cento persone, tanto per fare un esempio.

Il suo collega Massimo Galli pone molto l’attenzione sulla questione degli anticorpi, sostiene che gli anticorpi dovrebbero esser monitorati anche per capire la necessità di una terza dose di vaccino. È d’accordo?

In realtà non del tutto, perché non abbiamo una misura-correlato di protezione, cioè che indichi la soglia minima dell’immunità tanto da dirci con esattezza quale sia il livello anticorpale di protezione dal coronavirus. Certo a buon senso più anticorpi hai più stai tranquillo, di certo più del solo possesso del Green pass.

Terza dose, in Francia il governo ha già annunciato che cominceranno con i fragili a settembre, in Israele l’hanno già somministrata a quasi un milione di persone… lei come la pensa?

Mancano i dati, vedremo con Israele, ma teniamo presente che con ulteriori possibili varianti la terza dose del vaccino già somministrato potrebbe diventare acqua fresca.

Inps, la quarantena non è più malattia: a casa senza salario

Non c’è solo il nodo del Green pass obbligatorio ad agitare le acque nel mondo del lavoro. Mentre il governo continua a prendere tempo, il dibattito sulle nuove regole in vigore già da una settimana è rapidamente degenerato nel primo sciopero in Italia, proprio mentre sui lavoratori si abbatteva una mannaia niente male: l’Inps non considera più in malattia chi è costretto alla quarantena per contatto con un positivo al Covid. In pratica, chi si ritrova a casa in isolamento potrà perdere fino a metà dello stipendio, dal momento che si possono fare fino a 14 giorni di quarantena. Andiamo con ordine.

Oggi alla Hanon Systems di Campiglione Fenile, in provincia di Torino, sono state indette due ore di sciopero con uscita anticipata su tutti i turni di lavoro. È il primo sciopero in Italia contro l’esclusione dei lavoratori sprovvisti di Green pass dalla mensa aziendale, che il governo ha equiparato di fatto ai ristoranti. I sindacati si sono detti contrari alla decisione della società specializzata in componenti elettronici di consentire l’accesso alla mensa solo ai dipendenti con Green pass stabilendo che gli altri per mangiare dovranno recarsi sotto due gazebo allestiti all’esterno dello stabilimento.

Ma questo sciopero, annunciano i sindacati, è solo il primo di una lunga lista. Fino a quando Palazzo Chigi non prenderà una decisione sul rendere o meno obbligatorio il Green pass sul luogo di lavoro, in sempre più aziende andrà in scena questo paradosso: ci si troverà a dividere una scrivania o parte di una catena di montaggio con un collega che ha deciso di non vaccinarsi, ma non ci si potrà mangiare insieme. Intanto la Fiom Cgil di Torino ha denunciato anche il caso della Trilix di Nichelino: l’azienda di progettazione stile per il gruppo Tata Motors ha comunicato via mail agli 80 dipendenti che al rientro da un periodo di ferie superiore alla settimana dovranno recarsi all’ufficio personale per esibire il Green pass oppure un tampone eseguito a proprie spese.

Così come di tasca propria i lavoratori del settore privato dovranno affrontare la quarantena se saranno a contatto con una persona positiva al Covid-19. Con un messaggio dell’Inps pubblicato negli scorsi giorni, l’istituto guidato da Pasquale Tridico ha chiaramente spiegato che l’isolamento delle persone costrette a casa dal primo gennaio 2021 non è più equiparato alla malattia ai fini del trattamento economico. In pratica, non viene più corrisposta l’indennità previdenziale e la relativa contribuzione figurativa.

Il motivo? Il legislatore non ha previsto un nuovo stanziamento per prorogare la tutela della quarantena. Quindi, a meno che il governo non corra ai ripari in un prossimo decreto, l’Inps non potrà procedere a riconoscere i contributi. Con il rischio di perdere metà dello stipendio. Secondo le nuove regole sulla quarantena imposta a chi è stato a contatto stretto di un caso Covid positivo, i giorni da passare a casa variano da 7 a 14, a seconda se si è completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni e se si ha un test molecolare o antigenico negativo.

È stato il Cura Italia a introdurre nel marzo 2020 l’equiparazione delle tutela della malattia a quelle dei periodi di assenza dal lavoro dovuti a quarantena. E per garantirne la continuità sono stati stanziati l’anno scorso 663,1 milioni di euro. Fondi che però si sono esauriti lo scorso dicembre. A poco sono valse le note che l’Inps ha inviato ai ministeri dell’Economia e del Lavoro sollevando la questione. La proroga della misura non è mai stata contemplata dal governo. Una situazione che a settembre, quando riapriranno tutte le attività dopo la pausa estiva, rischia di essere un fenomeno di massa se il numero dei contagiati dal Covid-19 continuerà a salire. Chi sarà costretto in quarantena starà a casa senza stipendio e senza contributi.

Green pass a pezzi: anche le polizie ne fanno a meno

Il green pass viene giù pezzetto dopo pezzetto. Sulla scuola nessuna firma ieri da parte dei sindacati, che hanno incontrato i tecnici del ministero, al Protocollo sulla sicurezza: parti distanti sul lasciapassare, controlli, tamponi e distanziamento in classe, praticamente su tutto ma entro agosto il documento dovrà essere approvato per forza con l’anno scolastico ormai imminente.

Come se non bastasse, una serie di circolari certificano che per i “controllori” ci sarebbero regole diverse rispetto ai “controllati”, infatti nelle mense all’interno delle strutture delle forze armate e delle forze di polizia il personale in servizio non dovrà avere il green pass per potervi accedere. La mensa, sottolineano diverse fonti degli apparati di sicurezza, è considerata alla stregua di un’attività di servizio obbligatoria che non può essere preclusa e, dunque, non può esserci l’obbligo del pass. Pensare che proprio oggi alla Hanon Systems di Campiglione, in provincia di Torino, i lavoratori incroceranno le braccia per due ore proprio contro l’obbligo di green pass per l’accesso a mensa.

E lo scenario epidemico in Italia non pare dare segnali di miglioramento, anzi: sembra tutto fermo in una sorta di stallo, ma da regioni e province arrivano i primissimi segnali di un cambiamento che fanno addirittura temere una risalita della curva dell’epidemia di Covid-19 in Italia. Mentre continuano a crescere i ricoveri (2.975 pazienti nei reparti ordinari, + 27 ieri) anche in terapia intensiva (352 malati, +15 ieri), con i parametri delle Regioni che cominciano a colorarsi di “giallo” a cominciare dalla Sicilia: potrebbe scamparla ancora oggi e resistere in bianco ancora la settimana successiva a Ferragosto, ma difficilmente oltre.

Ma la pandemia, con la variante Delta che ha ormai preso il sopravvento, continua a incrementare i suoi numeri in tutto il mondo e si moltiplicano le emergenze per i picchi di contagi e morti, pass o non pass. Di fronte a questo scenario, i Paesi varano nuovi lockdown, restrizioni e contromisure mentre tentano di trovare un fragile equilibrio tra la tenuta delle economie e la riduzione dei rischi. A volte, scontrandosi con la giustizia.

Come nel caso della Spagna, dove l’obbligo del green pass è caduto dopo che il tribunale regionale della Galizia ha dichiarato non valido il requisito della certificazione per accedere a bar, ristoranti e locali notturni in certe zone della regione. La Galizia era l’ultimo territorio in cui la misura era ancora vigente, dopo che precedenti sentenze avevano fatto cadere l’obbligo della certificazione in altri territori come l’Andalusia, Cantabria e le Canarie. Ma la Spagna è un’eccezione tra i Paesi che sono sempre più disposti a chiedere il pass per attività sociali potenzialmente rischiose. In una nuova stretta, Israele ha scelto una ulteriore estensione del green pass che, dal 18 agosto, sarà applicato dai 3 anni di età in su. In parallelo, il governo di Naftali Bennett ha approvato uno stanziamento straordinario per gli ospedali per rafforzarne le strutture, mentre nel Paese scattano anche nuovi limiti al distanziamento nei centri commerciali: sarà reintrodotto, dal 18 agosto, il “Codice viola” che autorizza la presenza massima di una sola persona ogni sette metri quadrati. Anche in Francia, che ha reintrodotto il tampone antigenico obbligatorio per chi arriva dall’estero, le cose non vanno affatto bene: tra martedì e mercoledì sono stati registrati 30.920 nuovi casi di contagio, un numero mai così alto da aprile. Negli ultimi sette giorni era stata riportata una media di 23.288 casi quotidiani, in leggero calo rispetto ai giorni precedenti. I francesi, insomma, intravedevano segni di miglioramento spazzati improvvisamente via dall’impennarsi della curva epidemica.

Il privatizzatore “a catena” venuto a normalizzare Cdp

C’è del commovente candore e un intero romanzo (balzacchiano, s’intende) nell’incipit della lettera con cui Dario Scannapieco, gran capo di Cassa depositi e prestiti per volere di Mario Draghi, si lamenta con Repubblica per il pezzo dedicato alla nomina a suo capo staff di Fabio Barchiesi, già direttore del Coni Sport Lab: “Il salto di carriera del fisioterapista di Malagò sbarcato al vertice di Cdp”, il titolo che ha fatto sobbalzare l’economista nato a Maiori, sulla costiera amalfitana, il 18 agosto di 54 anni fa. “Stupisce – scrive al direttore Molinari – dover leggere sul Suo autorevole quotidiano, anche alla luce della Sua formazione e visione internazionale, un articolo con tante imprecisioni e con un approccio così capzioso e fuorviante”. Tu quoque, s’addolora Scannapieco. Tu quoque, giornale del ceto medio riflessivo, dell’azionismo e dell’azionista, dell’italiano comm’il faut e dunque draghiano. Ah hypocrite journal, mon semblable, mon frère…

Il suo dolore è comprensibile. La scelta, legittima, dell’ex fisioterapista fattosi manager plasticamente svela infatti un paio di retroscena sulla natura dei Migliori: da un lato la libertà che i competenti si prendono con la competenza, dall’altro – più interessante – una sorprendente contiguità tra le meglio grisaglie europee e quel demi-monde del potere romano e post-democristiano che potremmo riassumere nella figura di Giovanni Malagò, nome che da solo copre la distanza, anche antropologica, tra il fu “palazzo dei pescicani” del Pasticciaccio e l’attuale Circolo Aniene con annessa dependance Coni.

Lo Scannapieco addolorato che scrive ai Bruto di Repubblica rappresenta qui il simbolo del draghismo, un “partito” arrivato al potere con la pretesa di amministrare lo Stato come un’azienda, come se la politica non ci avesse nulla a che fare: da decenni segnale infallibile, questo, che si è di fronte a un progetto di destra liberale, che qui innerva nel profondo anche le biografie dei protagonisti. Prendiamo proprio Scannapieco. Classe 1967, studi in economia alla Luiss, “subito dopo la laurea, entrai nella direzione programmazione di quella che si chiamava Sip. Dopo neanche due anni quasi per caso riempii l’application per entrare nella Business School di Harvard, e non senza fatica ce l’ho fatta”, ha raccontato lui stesso nel 2015 proprio a Repubblica (tu quoque). È negli States che capisce che il suo destino è il settore pubblico: per entrarci scrive lettere a chiunque – da Prodi a a Ciampi fino al dg del Tesoro Mario Draghi – e “nei giorni del Natale 1996”, mentre “ero a casa dei miei genitori a Roma, mi convocò Draghi”. L’estate successiva Scannapieco entra al Tesoro e diventa un Draghi boys.

Fu lavoro matto e disperatissimo, dice, “ma è stata un’esperienza entusiasmante, andavo in ufficio felice: facemmo privatizzazioni a catena”. E qui si capisce che il destino del nostro era entrare nello Stato per smontarlo: da Telecom ad Autostrade (capolavori), da Enel ad Alitalia e molte altre per citare solo i dossier che lo coinvolsero direttamente. “Si è sfruttata l’occasione offerta dalla necessità e urgenza di rispettare gli stringenti vincoli esterni, imposti dalla partecipazione all’Unione monetaria, per avviare iniziative volte alla ridefinizione del ruolo dello Stato e alla riforma, in senso concorrenziale, dei mercati”, scrisse lui stesso nel 2001, giusto un anno prima di assurgere – grazie a Giulio Tremonti (“ebbe la cortesia, visto che non avevo compiuto i 35 anni prescritti, di lasciare la sede vacante per qualche mese per aspettarmi”) – al ruolo di direttore generale Finanza e Privatizzazioni del Mef, da cui guidò le mitiche cartolarizzazioni del governo Berlusconi-2.

Scannapieco, insomma, è stato uno dei protagonisti della restaurazione neoliberista nel nostro Paese, dove oggi torna – dopo la lunga parentesi da vicepresidente della Banca europea degli investimenti (nominato da Tommaso Padoa-Schioppa nel 2007) – per finire l’opera e sempre nel segno dei “vincoli esterni” di cui Draghi, il suo dante causa, è quasi la personificazione, specie dopo la sbandata populista dell’elettorato nel 2018: il suo compito è normalizzare la Cassa depositi, tenerla lontana dalla tentazione di farsi “nuova Iri” – specie ora che è invischiata in dossier industriali di peso (Open Fiber, Tim, Autostrade, Nexi, Euronext) – concentrandola sul ruolo di aiuto e supporto ai capitali privati, in particolare ora che entra nel vivo il Piano di ripresa, in cui Cdp giocherà un ruolo rilevantissimo.

Per riuscire nella difficile prova Scannapieco ha pensato di sfruttare le capacità accumulate dal dottor Barchiesi, già direttore di Coni Lab e fisioterapista di Malagò (e Draghi), anche se quest’ultima frase, ci spiega il capo di Cdp, è superflua, un “pettegolezzo estivo”. Ma certo, non lo diciamo più.

Basilicata, indagato collaboratore di Bardi

Appalti e incarichi pubblici, la sanità regionale, il Festival del cinema di Maratea e l’ombra dei clan calabresi sul voto a Lagonegro: per quest’ultima vicenda risulta indagato un collaboratore del governatore Vito Bardi, di due assessori di Forza Italia e del capogruppo azzurro.

C’è questo ed altro nell’indagine della Dda di Potenza – procuratore capo Francesco Curcio, pm Vincenzo Montemurro – che vede indagati a vario titolo gli attuali e i vecchi vertici della Regione Basilicata e della politica lucana: l’ex governatore Pd Marcello Pittella, il senatore Pd ed ex sottosegretario di Conte Salvatore Margiotta, gli assessori di Forza Italia alla sanità Rocco Leone e alle attività produttive Franco Cupparo, il capogruppo regionale azzurro Francesco Piro. Più alcuni amministratori locali del territorio lucano, tra i quali l’ex sindaco e l’attuale sindaco di Lagonegro, Domenico Mitidieri e Maria Di Lascio, il sindaco di Maratea Daniele Stoppelli, il sindaco di Ruoti Anna Scalise e il sindaco di San Severino Lucano Franco Fiore. Indagati anche diversi manager della sanità pubblica.

Una inchiesta che tratteggia reati di concussione, corruzione, peculato, turbativa d’asta, truffa, abuso d’ufficio e voto di scambio politico mafioso. Trasversale a diversi mondi, come trasversale è un’ipotesi di associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta che tocca Paolo Araneo, segretario del governatore azzurro Vito Bardi (estraneo a queste indagini), e il predecessore di Bardi, Marcello Pittella, in concorso con il segretario di Pittella, Biagio di Lascio, l’imprenditore potentino Maurizio De Fino, titolare della Spix, che ha ottenuto appalti di gestione dei servizi di archiviazione della Regione, e l’avvocato civilista Raffaele De Bonis Cristalli, già finito nel mirino della procura potentina (arrestato nel 2019) perché ritenuto al centro di un sistema di collusioni tra politica, imprenditoria e professionisti. Queste nuove accuse sono lo spin off del suo precedente fascicolo.

Araneo è stato in passato segretario del governatore dem Vito De Filippo (estraneo a queste indagini), in carica dal 2005 al 2013.

Tra le diverse vicende scandagliate dai pm c’è quella di Lagonegro: cinque indagati per voto di scambio politico mafioso, tra cui – oltre al sindaco, l’ex sindaco, il capogruppo in Regione Piro e un macellaio, Biagio Riccio, condannato a 4 anni per le bombe ad alcuni imprenditori dei lavori dell’autostrada Sa-Rc – c’è anche Tony Borreca: un file degli uffici regionali lo indica tra i collaboratori di Bardi, Cupparo, Leone e Piro. Uno che lavora per il gruppo di Forza Italia in Regione Basilicata.

Finanzieri e residenti furiosi: ora il Papeete è sotto assedio

Sabbia rovente, mare petrolio. Gli ombrelloni e i lettini sono sold out, ma al Papeete Beach non c’è aria di festa. Siamo nello stabilimento più famoso di Milano Marittima, pioniere degli happy hour e tempio del salvinismo balneare, dove si fanno e disfanno governi. Il padrone è Massimo Casanova, l’amico a cui Matteo ha donato un seggio a Bruxelles.

A inizio agosto, quasi in contemporanea con la festa della Lega, a Milano Marittima è arrivata anche la Guardia di finanza. I pm di Ravenna hanno sequestrato oltre mezzo milione di euro a due società dei Casanova (intestate alla sorella Rossella) per un giro di fatture false. Lui ovviamente accusa i magistrati, ma sul suo impero di sabbia inizia a soffiare un vento minaccioso.

Milano Marittima è diventata insofferente verso il modello economico e turistico inaugurato al Papeete ormai vent’anni fa. Le transumanze alcoliche dei ragazzi che sciamano lungo la III Traversa – quella dello stabilimento dei Casanova – sono quasi quotidiane nonostante la pandemia. Le chat private e le pagine pubbliche sui social sono piene di video e foto inclementi. File di giovani ubriachi a fare la pipì sul marciapiede, un minorenne in svenimento etilico accasciato per strada, un giovane completamente nudo che corre dallo stabilimento verso la reception dell’Hotel Miami (sempre dei Casanova). Comitive assembrate e senza regole.

È l’“indotto” del Papeete, un modello che a Milano Marittima è diventato egemone. Il turismo giovanile e alcolico ha integrato e sostituito quello familiare, benestante e pacioso.

Il sindaco di Cervia (di cui Milano Marittima è frazione) si chiama Massimo Medri ed è stato eletto con il Pd grazie anche a un programma sul decoro urbano, che prometteva il rispetto delle regole da parte dei balneari. È rimasto sulla carta. Chi non ama Casanova fa notare che la Polizia cittadina si dimentica sempre della III Traversa, specie negli orari critici e malgrado copiose segnalazioni. L’ex assessore alle Attività produttive Michele Fiumi, nominato da Medri con l’obiettivo di “ripulire” Milano Marittima, si è dimesso lo scorso agosto dopo un solo anno di mandato. “Era come lottare contro i mulini a vento”, dice oggi. “Non c’è alcuna volontà politica di cambiare le cose. Ho provato a far rispettare le regole ai gestori delle spiagge, sistematicamente violate. Ho scritto un regolamento apposito ed è stato bloccato dallo stesso Pd. Né il sindaco né il suo partito mi hanno difeso dagli imprenditori delle spiagge”.

Malgrado la militanza leghista, Casanova coltiva rapporti trasversali, eccellenti, con tutta la politica e l’amministrazione romagnola. L’elenco è corposo. Il proprietario del Papeete è tra i 100 imprenditori romagnoli che hanno sostenuto pubblicamente la candidatura di Michele De Pascale, sindaco dem di Ravenna, in corsa per la rielezione a ottobre. L’avvocato del comune di Cervia – la stessa figura che dovrebbe risolvere eventuali controversie con i gestori dei lidi – è Silvia Medini, è tra le migliori amiche di Rossella Casanova ed è una collaboratrice occasionale del Papeete. Il segretario della Lega a Cervia è il consigliere comunale Simone Donati, “beach manager” del Papeete fino al 2020. L’ex assessore alla Sicurezza era invece Gianni Grandu (Pd), che si è fatto fotografare sorridente in occhiali da sole alla consolle dello stabilimento di Casanova, dove ha lavorato da barista anche il figlio Roberto. Una grande famiglia.

Fiumi si sfoga: “Questa economia arricchisce pochi imprenditori e impoverisce la città. Però è coperta da destra a sinistra”. Ricorda un aneddoto clamoroso: “Una volta ho dovuto accompagnare personalmente i vigili alla III Traversa, perché nonostante mi fossi raccomandato di presidiare quella via, si erano messi da un’altra parte. Quando siamo arrivati è uscito Casanova, mi faceva un video con il cellulare e mi chiedeva cosa diavolo stessi facendo”.

“No a Falcone: un segno per il sistema collusivo”

Damiano Coletta, eletto nel 2016 con la lista Latina Bene Comune, è il sindaco che il 19 luglio 2017, a 25 anni dalla strage di via D’Amelio, intitolò il parco a Falcone e Borsellino.

Claudio Durigon l’ha accusata di aver voluto “cancellare la Storia”.

Sono affermazioni gravi e offensive verso la nostra comunità e mistificatorie nei confronti della realtà. Se si vuole parlare di “Storia” bisogna prima conoscerla.

Lui non la conosce?

Non sa o fa finta di non sapere che il parco era intitolato ad Arnaldo Mussolini durante il Ventennio e che poi nel ‘43, con la caduta del regime, il podestà lo rinominò “Parco comunale”. Una passata amministrazione lo reintitolò al fratello del duce, ma senza produrre alcun atto amministrativo.

Fu la giunta guidata da Ajmone Finestra, ex repubblichino. Una sorta di intitolazione “abusiva”, quindi.

Fatto sta che nel 2017, nel 25° anniversario dalla loro morte, lo intitolammo ai due magistrati antimafia. E non per negare la Storia o creare divisioni, anzi. Sono due figure che dovrebbero unire tutti nel valore della legalità. Invece Durigon ha fatto una strumentalizzazione di bassa lega, espressione di una evidente povertà di idee. Ma sbaglia, perché c’è una Latina di centrodestra, moderata, che ha capito la scelta e si riconosce in questi valori.

Qual è il suo scopo?

Se vuoi iniziare una campagna elettorale devi fondarla su temi reali. Invece, cosa fai? Accendi una diatriba ideologica, contrapponendo Arnaldo Mussolini a Falcone e Borsellino? Scherziamo? Per raccattare quattro voti ha offeso due figure simbolo della legalità e della democrazia.

In un territorio piagato dalla presenza di organizzazioni criminali definite mafiose da sentenze di Cassazione.

È una realtà. Con diverse inchieste, tra cui l’operazione “Don’t touch” (24 arresti nell’ottobre 2015, ndr), magistratura e forze dell’ordine hanno decapitato un sistema che negli anni si era infiltrato nella politica. Ecco perché quello di Durigon è un messaggio pericoloso, perché negando Falcone e Borsellino si vuole dire che si punta a tornare al vecchio “sistema Latina”, alla commistione tra politica e criminalità che per decenni ha governato la città. Quel sistema noi lo abbiamo tenuto fuori.

Si aspettava la richiesta di dimissioni?

No, ma sentivo l’indignazione delle persone.

Deve dimettersi?

Ha fatto un’affermazione grave, ma la discussione si terrà in Parlamento.

Alle comunali Lega, FdI e Forza Italia si presenteranno uniti e le contrapporranno l’ex sindaco Vincenzo Zaccheo.

Rappresenta un passato in cui la cosa pubblica era gestita a favore del bene di pochi e in cui la città era stata consegnata alla criminalità. Latina è uscita da questo tunnel e non ci vuole più rientrare.

Salvini fa lo scudo umano di Durigon. Draghi rinvia tutto a dopo Ferragosto

Matteo Salvini difende Claudio Durigon (“È bravissimo, nella Lega non c’è nessun nostalgico”) e Mario Draghi tace. Ancora. Dopo dieci giorni dall’uscita del sottosegretario leghista all’Economia che ha proposto di reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini (fratello del duce) invece che a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un’uscita che ha provocato la reazione furiosa di Pd, M5S e LeU, che hanno messo sul tavolo una mozione di sfiducia individuale da calendarizzare e votare a settembre, quando riapriranno le Camere. Ieri il deputato del Pd Enrico Borghi, membro della segreteria di Enrico Letta, a Radio 24 ha ribadito: “La mozione sarà presentata e sarà votata”.

Ma a settembre mancano ancora oltre 15 giorni e la pressione politica e della società civile per le dimissioni di Durigon – il Fatto ha raccolto oltre 80 mila firme – continua a crescere di ora in ora. Così a Palazzo Chigi l’imbarazzo è evidente. Mario Draghi al momento non ha intenzione di revocare le deleghe al sottosegretario e ha rinviato il delicato dossier a dopo Ferragosto. Ma nel frattempo, dicono da Palazzo Chigi, il premier spera che la sua moral suasion servirà a convincere Durigon a lasciare autonomamente. Altrimenti aspetterà settembre e affiderà la decisione di farlo cadere al Parlamento: se la mozione dovesse passare – e i numeri in Aula ci sono se i giallorosa confermassero il proprio voto favorevole – Draghi non potrà fare altro che prenderne atto e revocare le deleghe al sottosegretario.

Il premier infatti non può esporsi adesso e allontanare Durigon: sarebbe uno strappo lacerante. Quest’ultimo è un fedelissimo di Salvini, che intanto gli fa da scudo, e sfiduciarlo significherebbe mettere a rischio la tenuta del governo stesso. Nella Lega la speranza è che la polemica si sgonfi nella calura di Ferragosto ma, se così non sarà, Salvini ai suoi ha già fatto sapere che, in caso di caduta di Durigon, il Carroccio non farà più “il pilastro del governo Draghi”. “Non possiamo sempre prenderle di fronte agli attacchi della sinistra” ha confidato, innervosito, il segretario a chi gli ha parlato nelle ultime ore. Un modo per dire che la Lega a settembre andrà al contrattacco lanciando l’offensiva su due fronti: il decreto sul green pass che arriverà alla Camera, già seppellito da oltre 900 emendamenti leghisti, ma soprattutto l’assalto alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, messa nel mirino per la gestione degli sbarchi (“È inadeguata” continua a ripetere Salvini). Un messaggio fatto arrivare, anche se indirettamente, agli emissari di Palazzo Chigi. Una minaccia che sta impedendo a Draghi di fare qualsiasi mossa.

A pesare sulla vicenda però non sono solo le pressioni politiche. Ieri a Sant’Anna di Stazzema, piccolo paese in provincia di Lucca, è stato ricordato il 77esimo anniversario dell’eccidio nazifascista in cui persero la vita 560 persone, di cui oltre cento bambini. A ricordare la strage è stato anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Tanto orrore non potrà essere mai dimenticato – ha detto – è in questo abisso di disumanità, che affondano le radici della libertà riconquistata, nel nostro Paese e in Europa”. Anche il sindaco di Stazzema Maurizio Verona, che ha lanciato una petizione per rimuovere Durigon, ha chiesto a Draghi di “trarne le conseguenze” mentre il presidente della Commissione Giustizia del M5S Mario Perantoni ha concluso: “Durigon onori le vittime di Stazzema dimettendosi”.

Fontana, Pillon & C: l’orda nera leghista. Camerati per Matteo

“La Lega è la continuazione della lotta di liberazione fatta dai partigiani e tradita dalla partitocrazia. Mai coi fascisti. Mai. Mai”. Era il 6 febbraio 1994 e Umberto Bossi, allora segretario della Lega Nord, dal palco del congresso federale di Bologna diceva no all’alleanza con i post-fascisti di An di Gianfranco Fini. E con un unico discorso prendeva le distanze anche dalla “porcilaia fascista” con cui la Lega, a suo dire, non sarebbe mai andata al governo. Il senatur padano ha sempre preso le distanze dal ventennio mussoliniano. Cosa che invece non ha mai fatto il suo successore, Matteo Salvini, che negli ultimi anni ha spesso ripetuto che il fascismo “ha fatto anche cose buone”. Nel 2015 Salvini marciò in piazza del Popolo con CasaPound. Nel novembre di due anni fa il leader della Lega arrivò a sostenere che in Italia “non ci sono fascisti”. Eppure, per capire che invece i fascisti in Italia esistono eccome, Salvini dovrebbe guardare ai molti parlamentari, europarlamentari, consiglieri regionali e comunali del Carroccio di tutta Italia. Non c’è solo il caso del sottosegretario Durigon: ecco tutti gli altri ex camerati in salsa leghista in giro per l’Italia.

Ai vertici della Lega Salvini ha messo due figure che al mondo fascista ammiccano da tempo: i vicesegretari Lorenzo Fontana e Andrea Crippa. Il primo, da ministro ultracattolico della Famiglia durante il governo Conte-1, nel 2015 sfilava al “Verona Family Day” con il leader locale di Forza Nuova Luca Castellini e Yari Chiavenato, fuoriuscito da Fn per fondare il movimento neonazista “Fortezza Europa”. Tra i cori di quell’evento si ricorda questo: “Chi ha permesso questa festa: Adolf Hitler”. Oggi Fontana, che da ministro propose di abolire la legge Mancino, è responsabile Esteri della Lega: nel gennaio 2019 , volò a Bruxelles per tessere relazioni con i partiti neonazisti di Grecia (Alba Dorata), Cipro (Elam) e Ekre (Estonia). Anche Crippa, 35enne di Monza, ha fatto da trait d’union tra la Lega e il mondo dell’estrema destra giovanile, tant’è che nel luglio 2018 fu mandato in Sicilia al festival “Magmatica 2018” dove sfilavano tutte le sigle studentesche di estrema destra: oltre a “Lealtà e Azione” c’erano i pescaresi di “Audere Semper” e i romani di “Foro 753”.

Nel centronord, passato il tempo del fascista Mario Borghezio, il rapporto tra la Lega e l’estrema destra post-fascista si è fatto più stretto. E lo si nota dalle iniziative comuni. Ormai consolidata la partecipazione di esponenti di primo piano leghisti alla “Festa del Sole” di Lealtà e Azione, gruppo neonazista: il 4 settembre ospite d’onore sarà il senatore leghista Simone Pillon, pasdaran ultracattolico, che parteciperà a un dibattito contro il ddl Zan, ma negli ultimi anni alla festa hanno partecipato anche altri parlamentari leghisti come Igor Iezzi, Paolo Grimoldi e William De Vecchis. Il cuore nero leghista però batte in Veneto: da lì viene il sindaco di Verona Federico Sboarina (oggi in FdI) ma soprattutto il consigliere comunale, ultras dell’Hellas Verona, Andrea Bacciga. Quest’ultimo ha preso la tessera del Carroccio a marzo: fu processato per aver fatto il saluto romano in Aula. A questi si aggiungono i casi sul territorio: il sindaco di Mirandola (Modena), Alberto Greco, il 25 aprile ha lasciato la piazza quando è partita Bella Ciao e Francesco Biamonti, consigliere comunale di Cogoleto (Genova) che a gennaio onorò la giornata della Memoria con un saluto fascista (espulso).

Nel centro Italia l’enclave post-fascista salita sul carro della Lega si concentra nel Lazio. Oltre a Francesco Storace, il capogruppo a Roma Maurizio Politi ha fatto una battaglia per dedicare una via a Giorgio Almirante. Anche il capogruppo in Regione Angelo Tripodi ha un lungo passato in Forza Nuova. Poi c’è Stefano Andrini, dirigente dell’Ugl e legato all’estrema destra romana: ex ultrà della Lazio, è stato condannato per lesioni. Scontata la pena e riabilitato, oggi fa campagna elettorale a Roma per Fabrizio Santori e Simonetta Matone, candidata prosindaco con la Lega.

Anche al Sud Salvini ha raccolto molti reduci del mondo “nero”. Da lì viene Domenico Furgiuele, un passato nella Destra: nel 2018 ha definito Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale e tra gli ispiratori dei moti di Reggio del 1970, “più una vittima che un carnefice”. Leghista è anche l’assessore alla Cultura della Regione Sicilia Alberto Samonà: nel 2001 in una sua poesia inneggiava alle SS. La scorsa settimana a Palermo ha incontrato Matteo Salvini insieme ai dirigenti del partito.