SuperMario Zelig

Che l’Eurovision non l’avessero vinto i Maneskin, ma Draghi con la parrucca di Damiano, era noto. Che a segnare e parare i rigori nella finale degli Europei non fossero stati i calciatori azzurri, ma Draghi, era assodato. E che fosse Draghi a guidare la mano di Berrettini a Wimbledon con la sola forza del pensiero, ma solo fino alla semifinale, si sapeva. Ora però, grazie a un sensazionale scoop di Repubblica, che modestamente lo condivide col Financial Times, apprendiamo una quarta mission impossible di SuperMario, la più ardua: “È grazie alla fiducia ispirata da Draghi che l’Italia ha ottenuto i miliardi del Pnrr”. Ohibò: a noi pareva di ricordare che li avessimo ottenuti 13 mesi fa quando, senza offesa per nessuno, il premier si chiamava Giuseppe Conte, che del Recovery Fund era stato promotore, prima riunendo altri 8 governi nella “Lettera dei Nove”, poi convincendo i riottosi con interviste e vertici bilaterali, infine battendosi per quattro giorni (e notti) nel Consiglio Ue più lungo della storia (17-21 luglio ‘20). Un successo che gli riconobbero, oltre a Mattarella, persino i suoi oppositori B., Meloni e Innominabile, nonché la stampa internazionale, FT incluso e giornaloni italioti esclusi. Ora invece apprendiamo da Rep, che cita una frase mai scritta dal FT, che a Palazzo Chigi c’era già Draghi, sia pure camuffato da Conte, col ciuffo posticcio e la pochette a tre punte: un travestimento così somigliante che gli altri 26 leader non lo riconobbero e seguitarono a chiamarlo Giuseppe, senza che lo Zelig dei Parioli facesse un plissé. Resta da capire come mai, se Michel, Von der Leyen, Merkel, Macron, Sànchez, Rutte, Orbàn&C. lo scambiavano per Conte, gli diedero fiducia e la fetta più grande del Recovery: mistero della fede.

Lui poi, schivo com’è, celò la sua vera identità anche durante la standing ovation in Parlamento, lasciando che Conte si prendesse tutto il merito. Sempre grazie all’allegra joint venture con FT, Rep gli intesta pure il presunto miracolo dei vaccini: “l’Italia è partita a rilento, ma adesso è avanti a Germania e Francia”. E pazienza se a gennaio, con Conte e Arcuri, l’Italia era davanti a Germania, Francia e Spagna, che poi la sorpassarono sotto Draghi e Figliuolo. Ma ormai il giornalismo si è definitivamente separato dai fatti per diventare un fenomeno mistico: infatti, tra le grandi riforme draghiane, Rep&FT citano “la legge sulla concorrenza e quella fiscale”, entrambe mai viste. Prossimamente su questi schermi: nel 1861 il conte Camillo Draghi proclama l’Unità d’Italia; nel 1918 il generale Armando Draghi sbaraglia gli austroungarici a Vittorio Veneto; nel 1945 il Comitato Draghiano Nazionale, al fianco degli Alleati, libera l’Italia dal nazifascismo. Sempre sia lodato.

Il “Charlatan” della scienza che curava con erbe e urina

Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior: e dall’urina? Un film, Charlatan – Il potere dell’erborista, diretto dall’autrice polacca Agnieszka Holland. Da oggi in sala con Movies Inspired, ha la propria immagine emblematica nelle provette di urina: ad analizzarle è l’erborista ceco Jan Mikolášek, che nelle caratteristiche cromatiche osservate a occhio nudo rileva eventuali condizioni patologiche. Urina sana in corpore sano, e Mikolášek (interpretato da adulto dal formidabile Ivan Trojan, e da giovane dal figlio Josef) diventa la riconosciuta, financo idolatrata autorità in materia: pazienti in coda da stadio, 200 visite al giorno, diagnosi in controluce, verdetti inappellabili. Ma chi è Jan, un guaritore, un santone (dalla cura della gangrena al procurato aborto, i miracoli in effetti si sprecano…), un impostore, l’eponimo ciarlatano?

Supportata dalla sceneggiatura di Marek Epstein, Holland pesca nel torbido e tira su una creatura degli abissi, indefessa e individualista, calcolata e crudele, dispotica e sadica. Estraneo alla medicina ufficiale, parimenti consultato da nazisti e comunisti, infine farsescamente processato dai secondi: il paglierino delle urine trascolora nel chiaroscuro morale, le ombre totalitarie del secolo breve nella superstizione dell’Europa orientale, la parabola personale di Mikolášek nell’eterno homo homini lupus. Holland ha la forza per non affondare il colpo, per fare professione di ambiguità come il personaggio che s’è scelto, dunque per abitare l’autoreclusione di Jan, il suo mondo fatto di impassibilità, scale di grigi, ieraticità senza maestà. A uso e consumo degli spettatori, e non della verità storica, s’inventa anche l’amore omosessuale – adombrato, ma solo quello, dal matrimonio fallito e dall’ospitalità del suo assistente nella stessa dimora – di Jan per il bel František Palko (Juraj Loj), con cui l’opera guadagna, urina a parte, gli unici colori vivaci. Film in costume di sartoriale eleganza, irrisolto per definizione, incostante, e scostante, per intenzione, Charlatan rinnova il gusto, sottile, e la sostanza, di bastiancontraria, di Agnieszka Holland, sempre più incline a infilare la macchina da presa nella storia e trarne – si veda il precedente Mr Jones sul giornalista gallese Gareth che svelò la carestia pianificata da Stalin in Ucraina negli Anni Trenta – sangue, urina e altri fluidi corporali di una controversa, ma irredimibile umanità.

La prima marxista: Madonna Una rivoluzionaria gentile

Fertile giardino del Carmelo, Vite fiorente, Stella del mare, Rosa fragrante…: infinite sono le immagini, i titoli, le metafore con cui Maria Vergine, Madre di Dio, è stata invocata per duemila anni da milioni di cristiani. Certo, quello di “bastiancontraria” non risulta. Eppure, a ben guardare, questa piccola e fragile donna di Palestina la cui immagine è stata innalzata e brandita da ogni armata reazionaria – dalla sanguinosa Vandea al Matteo Salvini baciatore di rosari – conserva intatto il suo fascino rivoluzionario. Il fascino di chi contraddice, con ognuna delle sue poche parole note, l’ordine stabilito del mondo di oggi.

Quando Giovanni Paolo II visitò l’Argentina del regime militare (era il 1982), durante la messa solenne nello stadio di Buenos Aires alcune parti di un testo furono censurate, soppresse, nascoste. Parole del papa polacco, o di qualche vescovo troppo vicino alla teologia della Liberazione? No: parole di Maria. A essere tagliati furono due versetti del suo cantico evangelico, il Magnificat: quelle dove il Signore viene esaltato per aver “abbattuto i potenti dai troni” e per aver “esaltato gli umili”, per aver “rimandato i ricchi a mani vuote” e aver “saziato gli affamati”. In un colpo solo sembrava che la Madonna parlasse contro la sanguinaria giunta fino all’anno prima presieduta da Videla, e contro la ricchezza dei gringos che quel regime appoggiavano. Una Madonna pericolosa: più la riduci a un santino, più ti mette in crisi.

La vicenda di Maria è quella di una marginale, di una scartata. Il Magnificat fiorisce sulle sue labbra quando va a visitare sua cugina Elisabetta. Sono due donne povere, entrambe incinte “fuori dalla regola”: e in quel momento lasciate sole dai loro mariti, incapaci di comprenderle. “Zaccaria è muto, afono per la sua poca fede; Giuseppe pensa di ripudiare Maria in segreto. Certamente non erano capaci di fede come le loro spose, ma non erano neppure capaci di relazione, di cura dell’altro e di carità, come invece sono queste due donne” (Enzo Bianchi). Due “scartate” dalla società che cercano solidarietà l’una nell’altra. E il canto che esce dalla bocca di Maria è un canto di rivoluzione: spirituale, ma anche sociale e politica. Ha scritto il teologo Clodovis Boff: “La Vergine vede le contraddizioni sociali, sa che nel mondo esistono potenti e oppressi, ricchi e affamati e denuncia la situazione, pone cioè a nudo gli antagonismi politici ed economici, dice la ‘verità’ sociale, perché dalla verità soltanto può nascere la libertà. Non è quindi una denuncia che provoca il conflitto, ma essa riconosce che il conflitto è già in atto. Maria si presenta come una donna che ha coscienza critica, la prima che nella Chiesa mostra questa coscienza profetica”.

Abbattere i potenti dai troni (cioè ricostruire una democrazia non oligarchica e fondata sulla rappresentanza di tutti) e innalzare gli umili è ancora oggi la prima parte del programma essenziale di ogni possibile politica “contraria” allo stato delle cose. La premessa indispensabile per poter rimandare i ricchi a mani vuote e saziare chi ha fame. Il Magnificat è molto più onesto della stragrande maggioranza dei discorsi dei capi della finta sinistra di duemila anni dopo. La Madonna dice chiaramente che un conflitto (pacifico, incruento) è necessario: che non è possibile innalzare gli umili senza abbattere (quanta forza in questo verbo, letteralmente rivoluzionario!) i potenti dai loro troni. Così come dice che la redistribuzione della ricchezza implica necessariamente che sia tolto a chi ha troppo per dare “a ciascuno secondo i propri bisogni” (Karl Marx).

A dire oggi queste cose ci si sente dare del terrorista. L’accusa è quella di incitare all’odio sociale. Di inventarsi un conflitto inesistente, una lotta di classe fuori tempo massimo. Nell’Italia di oggi il governo è saldamente in mano ai ricchi, e nell’intero arco costituzionale non c’è praticamente nessuno che, leggendo le stesse parole del Magnificat in un articolo o in un tweet, non correrebbe a prenderne le distanze. Proprio per questo le parole di Maria appaiono oggi da “bastiancontrario”: perché contraddicono ogni bon ton, ogni prudenza, ogni opportunità, ogni ipocrisia. Dicono quello che non si può dire, fanno pensare l’impensabile, svegliano le coscienze e imbarazzano i benpensanti. Dicono che, sì, esistono i potenti, innalzati sui loro troni, e gli umili (letteralmente quelli a terra): esistono i ricchi, con le mani piene, e i poveri, con la pancia vuota. “È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”, ha dichiarato Warren Buffet al New York Times nel 2016. È una guerra vinta anche sul piano delle idee: tanto vinta da sembrare che non ci sia mai stata, e che tutto l’ordine attuale del mondo sia ovvio, pacifico, naturale. Ma poi una domenica vai in una di quelle chiese “che rigurgitan salmi di schiavi e dei loro padroni” (De André) e senti le parole di quella piccola bastiancontraria di duemila anni fa. E pensi che allora, no, la guerra delle idee non è ancora perduta.

Limonov, il punk bolscevico che aveva pietà degli ultimi

“Poco prima di morire non riusciva più a parlare, quasi una beffarda legge del contrappasso per lui che era un oratore torrenziale. Il cancro si era impossessato della sua mandibola, non riusciva più neanche a mangiare. Ma guai a parlargli della malattia, ti mandava affanculo se osavi toccare l’argomento”. Il soggetto in questione è Eduard Limonov, una delle figure più controverse, enigmatiche e al contempo magnetiche della seconda metà del Novecento: poeta, politico, dissidente, diventato famosissimo in occidente grazie alla biografia romanzata che gli ha dedicato Emmanuel Carrère nel 2012.

A raccontare al Fatto le sue sfaccettature più sottaciute e ambigue è Sandro Teti, editore italiano e grande amico di Limonov: “Lo conobbi nel 1992 davanti al mausoleo di Lenin – spiega Teti –, c’era una folla che definire pittoresca è poco: trotskisti, monarchici, zaristi, eversivi, disperati, punk. Mi trovai di fronte a un uomo molto duro, brusco, ma intellettualmente magnetico, circondato da donne giovani che lo veneravano e che cercavano di penetrare il cordone di sicurezza delle sue guardie del corpo”. Limonov ha speso tutta la sua vita in direzione contraria rispetto al Potere, di qualsiasi colore fosse: dissidente a New York, dissidente con Boris Eltsin, con Valdimir Putin, ma anche in collisione con i neocomunisti, guerrigliero al fianco dei serbi nell’ex Jugoslavia, alleato dell’ex campione di scacchi e attivista Garri Kasparov, leader del blocco politico Altra Russia. Il Partito Nazional Bolscevico da lui fondato non è stato riconosciuto ma oggi ne è nato un altro, questa volta regolare, che porta il suo nome in calce alla sigla. Un ossimoro vivente, Limonov, che riusciva a mettere insieme il primo Mussolini con Lenin, il punk col Comunismo, il nazionalismo con l’imperialismo russo. “Ha combattuto ogni forma di potere costituito – aggiunge Teti – fosse questo di destra o di sinistra: quando incontrò Jean-Marie Le Pen lo definì ‘nient’altro che un borghese inserito nel sistema’”. Preconizzatore del caos ideologico che viviamo oggi, delle contraddizioni che vedono i partiti progressisti aver consenso nell’establishment e quelli conservatori in quello che un volta, senza pudore, si chiamava proletariato. “Limonov – dice Teti – era seguito per lo più da gente di estrema sinistra, però trovava consenso anche nella destra estrema. Tutto questo perché attorno a lui orbitavano persone che vivevano nel disagio sociale più spinto: dai russi traditi dalla politica neoliberista di Eltsin agli americani delle periferie più estreme e disagiate, insomma le banlieue del mondo”.

Venne più volte arrestato per azioni clamorose, dal traffico d’armi a gesta tanto simboliche quanto pericolose, come issare la bandiera russa in Ucraina durante il conflitto tra i due Paesi. In Russia venerato, in occidente meno, fino al libro di Carrère, che lo dipinge come un eroe moderno sempre contro: “Limonov non ha mai chiesto niente a nessuno, il suo orgoglio era inscalfibile. Veniva foraggiato da tanti, anche da molti oligarchi russi, cosa strana per uno che è contro Putin…”. Su di lui girava anche la nomea di antisemita, ma Teti la rigetta categoricamente: “Tanti giovani ebrei hanno aderito al suo partito, la sua prima moglie era ebrea, dunque niente di più falso. Certo, quando metti insieme tutti gli ultimi del mondo qualche rivolo non appartenente al tuo pensiero si insinua”. Limonov venne in Italia negli Anni 70, volle incontrare Pasolini ma non ci riuscì. Conosceva l’intera opera del poeta, tanto che – racconta Teti – leggendo che durante i disordini del ’68 Pasolini prese le difese dei poliziotti, “in quanto veri figli del popolo a differenza dei manifestanti”, cambiò la sua idea anche sui secondini che incontrò in carcere: “Provò comprensione per loro, con quelle divise che ‘puzzavano di plastica e merda’, disse”.

L’orizzonte di lotta di questo poeta era forse concentrato contro l’omologazione dei popoli che la globalizzazione aveva portato – Pasolini diceva una cosa simile parlando del capitalismo, spiegando che dove non era riuscita una camicia nera a irreggimentare gli italiani ci riuscì la società dei consumi “che si era impossessata di loro da dentro”. Limonov è come se fosse riuscito a federare il disordine che era uscito dal crollo del muro di Berlino e dalla fine delle ideologie. Per la casa editrice di Sandro Teti sono già usciti diversi libri inediti di Limonov e altri ne usciranno dal 2022, libri di poesia e di prosa, compreso il suo successo Il poeta russo preferisce i grandi negri, per la prima volta tradotto dal russo (e non dal francese). “Capire Limonov – conclude Teti – è importante per comprendere il nostro tempo”. Vasto e contorto, come era lui.

Gli artisti italiani danno voce agli “Imbavagliati” di Minsk

A un anno dall’inizio della rivoluzione di Minsk l’Alto rappresentante dell’Unione europea, Josep Borrell, è tornato a chiedere “la fine delle pratiche repressive” del regime del presidente Aleksandr Lukashenko, annunciando che Bruxelles è pronta a valutare nuove misure sanzionatorie finché Minsk “non aderirà ai principi di diritto, democrazia e rispetto dei diritti umani”. Da una latitudine all’altra, il mondo ricorda il sacrificio del popolo bielorusso.

A Varsavia polacchi e diaspora bielorussa, marciando insieme per celebrare l’anniversario delle proteste scoppiate in seguito alla frode elettorale, hanno sfilato con le bandiere bianche e rosse raggiungendo prima l’ambasciata russa, poi quella americana nella capitale polacca. I bielorussi fuggiti a Kiev per evitare arresti e repressione del regime di Lukashenko hanno commemorato la rivoluzione nello stesso modo, stringendo però tra le mani anche le foto del dissidente Vitaly Shishov, trovato il 2 agosto scorso “suicida” in un parco al centro della città. L’attivista aiutava gli oppositori ad attraversare il confine e raggiungere l’Europa. Alla “Maratona per la libertà” organizzata in Europa dal Fondo di solidarietà dello sport bielorusso, parteciperà anche l’olimpionica Kristina Tsimanouskaya, la velocista riuscita a fuggire da Tokyo grazie all’intervento del Cio e ora rifugiata in Polonia.

Si è unita al coro solidale anche la cestista del Wnba Yelena Leuchanka, stella del basket americano nata a Minsk e finita in manette quando protestò, lo scorso agosto, contro il presidente al potere dal 1994.

Le immagini sono agghiaccianti: pugni, calci, manganellate su corpi già pesti di uomini e donne, aggressioni tanto feroci quanto gratuite messe in atto da belve in divisa e in borghese agli ordini dell’autocrate Aleksandr Lukashenko, l’ex militare sovietico protetto da Putin, eletto per la sesta volta di fila presidente della Bielorussia. Inizia così, a un anno esatto da quelle assai discusse elezioni, lo spot “Imbavagliati per #StandWithBelarus”, la straordinaria staffetta solidale dove Sergio Rubini, Marisa Laurito, Fabrizio Gifuni, Giorgia Cardaci, Francesco Bolo Rossino, Stefano Scherini e altri volti noti e meno noti, leggono insieme la toccante lettera del giovane prigioniero politico Siarhei Verashchahin, in risposta all’attivista Ilya Mironov, che gli scrive in carcere. Questo, nell’ambito della campagna internazionale per l’adozione dei prigionieri politici bielorussi, tramite l’invio di missive in carcere e il racconto crudo delle loro storie sui social. E quella di Siarhei Verashchahin, uno dei seicento e passa prigionieri politici (dall’inizio delle proteste 37.000 le donne e gli uomini arrestati, 4.600 quelli torturati e circa una decina gli assassinati), è una storia che più cruda non si può: è stato massacrato di botte nella sua abitazione per aver urlato agli agenti di fermarsi, mentre assisteva dal balcone ai pestaggi in strada di chi chiedeva solo elezioni libere e trasparenti. Cinque anni di carcere la condanna, al netto di un trauma cranico, ecchimosi del cervello e traumi alle sezioni cervicale, lombare e toracica della colonna vertebrale. Danni severi alla vista. E al ragazzo, nella galera di Lukashenko, non vengono prestate le cure mediche necessarie per salvarlo.

“Per i prigionieri politici”, spiega Ekaterina Ziuziuk, l’attivista bielorussa promotrice della campagna, “è estremamente importante sapere che non sono soli: una lettera che arriva da fuori dà loro molta forza”.

Ad amplificare il messaggio dello spot ideato e diretto da Désirée Klain, prodotto con il patrocinio della Fnsi, è stato il Festival Internazionale di Giornalismo Civile “Imbavagliati”, manifestazione che dal 2015 si svolge a Napoli e dà voce a quei giornalisti che nei loro Paesi sono minacciati, ma non per questo hanno smesso di parlare, raccontare e denunciare. Così come gli altri testimonial famosi dello spot che ci hanno messo la faccia, anche Marisa Laurito è da sempre vicina alle battaglie civili: “Chi dimentica diventa il colpevole. Non si può tollerare tutta questa violenza con la quale si torturano dei poveri innocenti che hanno solo espresso pacificamente il loro dissenso in una nazione della democratica Europa, il continente dove è stata firmata la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”.

Assange, un punto a favore degli Usa sull’estradizione

L’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca non cambia la durissima posizione nei confronti di Julian Assange delle autorità Usa, che perseverano, e segnano un punto importante, nel loro tentativo di ottenere l’estradizione del fondatore di Wikileaks. Assange è recluso nel carcere londinese di massima sicurezza HMP Belmarsh dall’aprile 2019 benché abbia ampiamente scontato la sua pena detentiva di 50 settimane per violazione della condizionale: un reato risalente al 2012, quando, per sfuggire all’estradizione in Svezia dove era accusato di presunto stupro e molestie sessuali, sempre negate, chiese e ottenne asilo nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Vi è rimasto per 7 anni, fino all’irruzione della polizia britannica e al successivo trasferimento a Belmarsh. Accusato dal Dipartimento della Giustizia Usa di spionaggio e di aver facilitato l’hackeraggio di computer governativi per ottenere i file classificati sulle atrocità della guerra in Iraq e Afghanistan, poi pubblicati da Wikileaks, negli Usa rischia oltre 150 anni di carcere. A gennaio scorso il magistrato dell’Alta corte di Londra Vanessa Baraitser aveva negato l’estradizione per il rischio che Assange si suicidasse in un carcere americano. Ma ieri, nell’udienza preliminare di appello a quella decisione, i legali Usa hanno convinto i magistrati dell’Alta Corte Timothy Holroyde e Judith Farbey che il rapporto psichiatrico utilizzato per illustrare le condizioni mentali di Assange fosse fuorviante. Una grave sconfitta per i sostenitori di Assange, dato che la Corte ha accolto il ricorso, riaprendo la porta all’estradizione. Per gli avvocati dell’accusa l’appello proverà che, al contrario di quanto sostenuto dalla perizia psichiatrica, l’uomo non “ha mai avuto una malattia mentale” e le sue condizioni non rientrerebbero nei criteri di rischio che potrebbero indurre al suicidio. Processo aggiornato al 27 ottobre. Nel frattempo Assange, malgrado abbia scontato la pena per cui è detenuto, continua a languire a Belmarsh.

Wagner, dentro un tablet tutti i segreti dei mercenari

Ci sono filmati realizzati con droni, mappe militari della linea del fronte e nomi in codice scritti in cirillico nel tablet smarrito da un mercenario durante la ritirata delle forze del generale Khalifa Haftar da Tripoli lo scorso anno. Secondo l’inchiesta dell’emittente Bbc, il fatto che le immagini indichino zone della Tripolitania e, soprattutto, che i nomi di battaglia riportati siano in lingua russa mostra, nero su bianco, che nelle fila dell’Esercito Nazionale Libico, (Lna), guidato dall’uomo forte della Cirenaica, militano i mercenari della compagnia privata russa Wagner. La Bbc ritiene di aver identificato almeno uno di questi soldati di ventura arruolati dalla compagnia vicina al Cremlino, che ha sempre negato il proprio coinvolgimento nella guerra civile libica. Il ritrovamento del tablet Samsung, che ora si trova in un luogo segreto, rivelerebbe il ruolo chiave dei mercenari ingaggiati dalla Wagner, o Evro Polis (il nome precedente della compagnia).

I giornalisti inglesi sono riusciti a ottenere un raro contatto con due ex combattenti che hanno sottolineato la mancanza di qualsiasi regola di condotta della milizia russa. Secondo quanto da loro affermato, i prigionieri vengono “schiavizzati o uccisi perché nessuno vuole una bocca in più da sfamare”. Le altre rivelazioni contenute nell’inchiesta includono prove di sospetti crimini di guerra, tra cui l’uccisione intenzionale di civili e la loro sepoltura in fosse comuni. Un abitante di un villaggio tripolino descrive di essersi finto morto mentre i suoi parenti venivano uccisi. Un soldato libico ha riferito di quando un compagno, pur essendosi arreso ai mercenari della Wagner, fu colpito tre volte allo stomaco da un fucile d’assalto. Da allora il soldato non lo ha più visto, così come non ha più incontrato altri tre amici portati via contemporaneamente. Il tablet Samsung fornisce inoltre la prova del coinvolgimento dei mercenari nell’estrazione mineraria e nel posizionamento di trappole esplosive in aree civili. Piazzare mine senza segnalarle è un crimine di guerra. Per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse naturali, Evro Polis è nota per la propria attività in Siria nei campi petrolifieri di Deir Ez Zoir.

La Bbc ha avuto anche la “lista della spesa” relativa all’equipaggiamento militare all’avanguardia che, secondo gli esperti, può provenire solo dalle forniture dell’esercito russo. Il gruppo Wagner è diventato noto a partire dal 2014, quando sosteneva i separatisti filo-russi nel conflitto in Donbass, nell’Ucraina orientale. Da allora, è stato coinvolto in Siria, Mozambico, Sudan e Repubblica Centrafricana. Due giornalisti russi che indagavano sullo scambio di “miliziani in cambio di risorse naturali” in Africa sono stati trovati morti. Nonostante il cessate il fuoco siglato tra la Tripolitania e la Cirenaica nell’ottobre 2020 e la risoluzione dell’Onu che vieta il rifornimento di uomini e armi da parte di paesi terzi, la situazione sul campo è rimasta di fatto invariata.

Un analista militare ha detto alla Bbc che nel dossier con l’elenco dei materiali bellici da inviare in Libia viene indicato il coinvolgimento di Yevgeny Prigozhin, ex cuoco del presidente Putin diventato un ricco uomo d’affari. Il Tesoro degli Stati Uniti ha sanzionato Wagner nel 2018, definendola una società russa incaricata di “proteggere” i giacimenti petroliferi siriani che erano “di proprietà o controllati” da Prigozhin.

Bolsonaro messo ko dal congresso

Il presidente Jair Messias Bolsonaro incassa in Congresso due smacchi che prefigurano una sconfitta nelle elezioni presidenziali dell’anno prossimo, quando l’ex capitano dell’esercito, autoritario e omofobo, cercherà di ottenere un secondo mandato. Tutti i sondaggi lo danno oggi battuto, specie se il suo rivale dovesse essere l’ex presidente di sinistra Inacio Lula da Silva, escluso dalla competizione nel 2018 e gettato in carcere per una condanna per corruzione poi annullata. Il Congresso ha revocato la legge sulla sicurezza nazionale in vigore dalla dittatura militare, durata dal 1964 al 1985: il Senato al completo ha varato con un voto finale un disegno di legge di riforma del codice penale che abroga norme imposte nel 1983 dal regime militare che, fra l’altro, autorizzavano a perseguire penalmente gli oppositori politici.

E sempre in Congresso è mancata la maggioranza necessaria per modificare la legge elettorale come desiderato dal presidente, che voleva promuovere il voto manuale su quello elettronico, sulla scorta dell’ipotetico rischio ‘alla Trump’ di fantomatici brogli. Bolsonaro fa già filtrare l’esplicita minaccia di non riconoscere l’esito del voto se la sua proposta resterà lettera morta, ma il senatore Omar Aziz, che guida la commissione sulla gestione della pandemia, è stato esplicito: “Non vi sarà il voto stampato, come non vi sarà nessun golpe contro la nostra democrazia, le istituzioni, il Congresso in testa non permetteranno che questo succeda: la democrazia ha gli strumenti per difendersi da questi capricci golpisti”. A inasprire l’atteggiamento del Congresso contro il presidente è stata, lunedì, una parata militare davanti ai palazzi del potere di Brasilia, proprio in concomitanza con i voti su codice penale e riforma elettorale: l’opposizione l’ha considerata un tentativo di intimidire deputati e senatori. A compromettere le possibilità di conferma di Bolsonaro è in primo luogo la gestione ‘negazionista’ e disastrosa della pandemia: il Covid continua a fare migliaia di morti al giorno e decine di migliaia di contagi. Secondo i dati della Johns Hopkins University, il Brasile è terzo al mondo per il numero dei casi dietro Usa e India, con oltre 20.200.000, ed è secondo per quello dei decessi dietro gli Usa, con 565 mila. Al ritmo attuale, il Brasile, a fine estate, potrebbe risultare il Paese con più vittime da Covid al mondo. La pandemia ha aggravato la crisi economica, con l’inflazione al massimo da quasi vent’anni. Tornando allo smacco subito dal presidente, il sì del Senato ha dato via libera a un disegno di legge che crea “crimini contro lo Stato di diritto democratico” e contestualmente abroga la legge sulla sicurezza nazionale retaggio della dittatura militare. Varato dalla Camera a maggio, il disegno di legge introduce una nuova sezione del Codice penale, che dettaglia dieci reati contro la democrazia in cinque capitoli. Vi spiccano i reati di “interruzione del processo elettorale”, di “fake news nelle elezioni” e di “attacchi al diritto di manifestare”. “La Legge sulla sicurezza nazionale era finita nell’oblio, ma era poi stata recuperata, in questi anni, dal governo e utilizzata come strumento di bavaglio” di critici e oppositori, ha spiegato il relatore del progetto, Rogerio Carvalho, esponente del Partito dei lavoratori (Pt, di sinistra), all’opposizione. La Camera ha invece respinto la proposta d’emendamento costituzionale che promuoveva il ritorno al voto cartaceo, accanto all’elettronico. Perché il progetto passasse, ci voleva una maggioranza speciale di 308 voti, i 3/5 dei 513 deputati: in una seduta conclusasi a notte fonda, la proposta ha ottenuto 229 sì, 79 in meno del necessario, e 218 no.

La lettura dell’esito del voto è controversa. L’iniziativa di Bolsonaro non è passata ma ha ottenuto più consensi del previsto. Le votazioni al Senato e alla Camera sono la cartina di tornasole della crisi istituzionale in cui, ormai dalla scorsa settimana, il Brasile è precipitato, con scambi di accuse pesanti tra il presidente e la magistratura, in particolare quelle del Tribunale superiore elettorale e della Corte suprema, entrambe critiche della Proposta di emendamento costituzionale. Intanto la famiglia Bolsonaro sogna sempre una sorta di ‘internazionale della destra’, e il figlio deputato del presidente brasiliano, Eduardo, ha incontrato Bannon, l’ex stratega del presidente Trump, a un evento nel South Dakota. A sua volta Bolsonaro jr ha invitato Trump in Brasile per un seminario della Conferenza di azione politica conservatrice.

Quale green Pass, vaccini agli anziani

L’attenzione di noi tutti è in questi giorni polarizzata sul Green Pass, diventato dal 6 agosto il lasciapassare necessario persino per consumare un caffè al bar. Prima di tentare di esprimere un giudizio su questa nuova misura, è necessario fare alcune considerazioni. Molti nostri politici e non solo stanno rilasciando dichiarazioni di entusiasmo per il numero di Green Pass scaricati in pochi giorni e, di pari passo, per l’incremento di prenotazioni di vaccinazione. I giovani stanno correndo a farsi vaccinare! Ottimo traguardo, ma non si dice che rimane stabile il numero di over 60 che continua a non accettare la vaccinazione.

La maggior parte dei giovani dichiarano che si stanno vaccinando per non avere impedimenti nei loro spostamenti, sperando di andare in discoteca, di riappropriarsi di una vita normale. Avete chiesto a questi “nuovi” (ma anche vecchi) vaccinati cosa pensano sia il Green Pass? Molti lo interpretano come il mezzo per certificare di aver superato la pandemia, liberi di non doversi attenere ad alcuna regola comportamentale. E ciò è veramente grave.

Ma torniamo alla scienza. Scopo dichiarato dell’utilizzo del Green Pass, in uso, anche se con qualche differenza, nei 27 Paesi europei e da qualche giorno anche nella città di New York, è contenere la diffusione del maledetto Coronavirus, dimostrando di essere vaccinati. È un obbiettivo raggiungibile? Le evidenze scientifiche dicono “no”. Sono state avanzate diverse ipotesi sulla carica virale (capacità di diffondere il virus) dei soggetti che si infettano e sono vaccinati e quelli non vaccinati. Alcuni studi avevano evidenziato che il vaccino fosse capace di abbassare circa dieci volte la quantità di virus nel primo gruppo. La variante Delta ha cancellato questo vantaggio, come si evince dal lavoro pubblicato su Hospital Healthcare Europe il 5 agosto. Questa variante ha praticamente sostituito il virus precedente. Dunque, i vaccinati possono contagiarsi e contagiare come i non vaccinati, anche se fortunatamente sono protetti dalla gravità della malattia. A che serve il Green Pass? Piuttosto vacciniamo gli anziani che rifiutano il vaccino. Il Covid è una minaccia molto grave per loro e per le fasce deboli. Finché questi soggetti non saranno stati tutti vaccinati non potremo raggiungere il traguardo “decessi zero”.

 

L’agenzia europea nell’Athenaeum: l’ennesimo sfregio

Fra le varie immagini che circolano, ve ne è una che documenta in modo molto peculiare la recente inaugurazione del G20 al Colosseo: è ripresa dall’alto, e mostra il lungo tavolo a cui siedono Mario Draghi, Dario Franceschini e gli illustri ospiti, tavolo disposto lungo il bordo della “porzione” di arena ricostruita sperimentalmente alla fine del Novecento, porzione che si affaccia in maniera spettacolare sui resti dei sotterranei dell’Anfiteatro. Se, invece di scambiare battute sugli esperti che è meglio non ascoltare, il presidente del Consiglio e il ministro dei Mic avessero guardato verso il basso, avrebbero convenuto che era meglio lasciare le cose come stanno.

Ricostruire o non ricostruire per intero l’arena (pur reversibile) che ricoprirebbe quel complesso unico al mondo? Il Fatto Quotidiano (lo scorso 1° agosto) ha già dedicato ampio spazio alla discussione sul tema, e per ora non vi è altro da aggiungere. Si affacciano in compenso, sia pure al momento timidamente, nuovi motivi di inquietudine. Si è proposto di trasferire a Roma l’Agenzia europea per la cultura e l’istruzione, e per il Messaggero l’idea è stata di Nicola Zingaretti; lo stesso giornale ha ospitato inoltre un articolo di una sua “firma” di spicco, Mario Ajello, che individuava anche una possibile sede, l’Ateneo di Adriano presso piazza Venezia.

Si tratta di un giornale che all’archeologia dedica molto spazio, e di un giornalista che è anche ottimo conoscitore del mondo antico: possibile che venga proprio da questa fonte l’idea (per ora, sembra, non ripresa da altri) di un nuovo caso di “uso e abuso” di un monumento romano? L’Athenaeum è l’ultimo edificio costruito a Roma dall’imperatore Adriano (135 d. C.), di cui parlano gli autori antichi ma di cui, fino al 2008, non si erano rinvenuti i resti: in quell’anno si avviarono gli scavi (molto, molto complessi) connessi con i lavori per la linea C della Metropolitana, e si cominciarono a mettere in luce consistenti murature. Siamo in piazza Madonna di Loreto, fra piazza Venezia e i resti del grande Foro fatto costruire da Traiano (che di Adriano era il predecessore), non lontano dal tempio dedicato a lui e alla moglie Plotina, di cui restano consistenti avanzi sotto Palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma. Si sono rinvenute tre grandi aule separate da corridoi, caratterizzate dalla presenza di gradinate disposte sui lati lunghi. Si tratta certamente di strutture connesse con la vita culturale: lezioni, discussioni filosofiche (il II secolo è quello della scuola detta “seconda sofistica”), audizioni di poeti, e forse vi è qualche legame con le non lontane biblioteche del Foro Traiano stesso. Alcuni studiosi pensano a un “pendant” con l’Athenaeum istituito da Adriano presso la biblioteca da lui costruita ad Atene, anche se non c’è una rispondenza architettonica precisa.

Una situazione molto interessante, ma in una collocazione assai delicata e tutta da studiare. Non si spiega perché la sede di una grande istituzione culturale dovrebbe essere realizzata proprio qui, e quale sarebbe il rapporto fra le rovine e le nuove strutture (forse meglio non saperlo). Cultura di oggi su un luogo della cultura di 1.900 anni fa? Idea suggestiva ma un po’ forzata. Come spesso accade (Colosseo docet) si insegue il fascino dell’antico senza curarsi dei seri problemi propri delle realtà su cui si va a incidere. Speriamo che finisca qui.