Si sprecano in questi giorni le riflessioni sul nuovo Rinascimento italiano, dentro il quale i successi delle ultime Olimpiadi sarebbero la più recente prova ontologica dell’esistenza di Draghi. Gli eccessi di retorica e il trionfalismo cuciti su eventi che ci hanno emozionato fino alle lacrime sono altrettanto molesti del catastrofismo cosmico permanente. Ma se c’è una lezione da trarre da questi giorni indimenticabili per chi ama lo sport è quella che di sport in televisione ce n’è poco. Intendiamo lo sport vero, non il circo miliardario del calcio mandato in onda sette giorni su sette: parliamo della saltatrice australiana che prende appunti sul diario tra un tentativo e l’altro, della ginnasta che si ritira ma poi ritorna, del pugliese che parla come Zalone ma marcia come Pamich, della pentatleta in lacrime per il quarto posto, della nuotatrice che esce di scena. Istantanee commoventi per sport poveri che hanno composto giorno dopo giorno un affresco di umanità pulita, vera. In una parola: di realtà. Detto ciò la domanda che subito viene da farsi è: adesso che la festa è finita non è che si ritornerà come niente fosse ai soliti tristi riti che in tv celebrano solo il calcio, fortissimamente il calcio? Un discorso che vale anche per la Rai, che da tempo ne ha perso parte dei diritti ma in ogni caso di esso riempie la maggior parte del palinsesto sportivo. Già, perché ora che le Olimpiadi di Tokyo hanno spalancato porte e finestre sugli sport più umili e meno alla moda, dove cuore, sudore e lacrime si mixano decoubertianamente in una rappresentazione ancora genuina, sarebbe il caso di riflettere sulle ore di trasmissioni insulse, piene di parole inutili, che riempiono i palinsesti dilatati delle tante reti. Talk che hanno l’unica funzione di giustificare con la messa in onda la propria esistenza. Ripensare allora i programmi, della Rai innanzitutto, alla luce di queste Olimpiadi significa provare a riconsiderare la presenza dello sport in televisione. Di tutto lo sport. Dandogli magari una più spiccata riconoscibilità di rete. Insomma non è solo un problema di mancato streaming delle gare: si tratta di allargare la scena oltre il football, magari rinnovando cronache e cronisti. Sentire Bragagna raccontare l’atletica, vedere Elisabetta Caporale intervistare in inglese senza intoppi o Alessandra De Stefano condurre il Circolo degli anelli, è stata una boccata d’ossigeno rispetto a commentatori e commentatrici che parlano di calcio non sempre a proposito, non sempre con perizia, ma di certo sempre troppo. Viene in mente la vecchia Rai che non tralasciava nulla, dallo sci di Thöni alla boxe di Benvenuti, dal ciclismo su pista di Beghetto all’ippica di D’Inzeo, dall’atletica di Arese alla pallacanestro di Meneghin, dal tennis di Panatta al nuoto di Calligaris fino alla ginnastica di Menichelli, sport ora del tutto scomparsi dai palinsesti e che nemmeno su Rai Sport trovano spazio (canali fotocopia tra l’altro mal utilizzati: un po’ archivio, un po’ repliche). Dopo Tokyo è giunta l’ora di allargare lo sguardo a eventi che una volta erano pane quotidiano in video e ora non lo sono più, sconfitti dalle leggi dell’audience. Ma chi lo dice che mandare in onda più atletica, più boxe, più ginnastica, più basket, più nuoto, più ciclismo, più volley debba penalizzare gli ascolti? E perché no, più tennis, nonostante ci sia un canale della federazione che fa un ottimo lavoro. Si abbia il coraggio, parliamo non solo della Rai, di andare oltre l’eterna liturgia intorno a un calcio straricco e famoso, con trasmissioni costruite sul nulla, con Domeniche Sportive che non sanno di sport, con Tiki Taka che del modulo spagnolo ricalcano solo l’estenuata ripetizione. Anche l’audience è fatta di abitudini. E le abitudini si creano.