Criptovalute, maxi-rapina da 520 milioni. Gli hacker, beccati, restituiscono il malloppo

È uno dei maggiori ma anche dei più strani “furti” di criptovalute mai registrati, quello accaduto l’altroieri, martedì 10 agosto, sulla piattaforma di finanza decentralizzata Poly Network. Alcuni hacker hanno sottratto dai portafogli (wallet) dei clienti criptovalute per un valore di oltre 520 milioni di euro, trasferendole su tre indirizzi della blockchain, la rete di dati sulla quale vengono realizzate le transazioni cripto. Gli aggressori poi però sono stati identificati e hanno fatto una parziale, repentina marcia indietro: secondo i dati raccolti alle 17 di ieri erano stati restituiti cripto per circa 220 milioni.

Quando gli hacker hanno rubato i fondi, hanno iniziato a inviarli a vari altri indirizzi online. Secondo la società di sicurezza SlowMist, criptovalute per un valore totale di oltre 520 milioni di euro sono state trasferite illegittimamente a tre indirizzi web. L’attacco degli hacker è stato realizzato sfruttando una vulnerabilità di Poly Network, una piattaforma finanziaria di scambio di criptovalute crosschain, che permette cioè di connettere tra loro blockchain diverse in modo che possano lavorare insieme. Ogni criptovaluta ha la propria blockchain, anche se molte utilizzano quella di Ethereum: si tratta di reti diverse l’una dall’altra che non comunicano tra loro. Poly Network afferma di essere in grado di mettere in comunicazione queste varie blockchain. Ma Poly Network non si è persa d’animo e ha subito svelato su Twitter ai propri clienti l’attacco, chiedendo agli hacker di “restituire gli asset” rubati “a migliaia di utenti della comunità”. SlowMist ha poi dichiarato di aver identificato le caselle di posta e l’indirizzo Ip dei computer e dunque le “impronte digitali” degli aggressori. Secondo la società di sicurezza il furto è “stato un attacco pianificato, organizzato e preparato a lungo”. Poly ha così reso noti gli indirizzi sui quali erano confluite le criptovalute rubate, chiedendo a tutti gli utenti di non accettare alcun pagamento da quegli indirizzi e a inserirli sulla “lista nera”. Dopo questa segnalazione, i fondi hanno cominciato a essere restituiti. L’aggressione dimostra che le crosschain sono molto vulnerabili. A luglio la crosschain Thorchain ha subito due attacchi in due settimane. A maggio tocò a Rari Capital, altra crosschain, che perse 9,35 milioni. Da inizio anno fino a luglio, gli hackeraggi a reti di finanza decentralizzata (DeFi) hanno sottratto oltre 300 milioni, il quadruplo dell’intero 2020.

Si è già rifugiato in una grotta di montagna e in un’oreficeria

Chissà che faccia ha oggi, la sua firma sulle stragi del 1992-’93 di certo è indelebile: Matteo Messina Denaro, nato il 26 aprile del 1962 a Castelvetrano, è l’ultimo dei pezzi da novanta dei Corleonesi di Riina ancora in libertà (escluso Giovanni Brusca, ritornato libero dopo aver collaborato con la giustizia e scontato la pena). Già suo padre, Francesco Messina Denaro, era il re incontrastato di Cosa nostra nel Trapanese, feudo che Matteo ha ereditato nel 1998 quando don Ciccio è morto mentre condividevano la latitanza. Matteo Messina Denaro non si trova dal giugno 1993, dai giorni della ormai nota vacanza in Toscana, a Forte dei Marmi, con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, oggi al 41 bis.

Il profilo di Matteo Messina Denaro è quello di un boss diverso dai suoi predecessori al vertice di Cosa nostra: amante del bel mondo, delle auto sportive, del lusso, la sua presenza è spesso stata data quasi per certa in angoli del pianeta come Dubai, già rifugio di altre latitanze, ma anche America latina, Sudafrica, Belgio e Malta, isola crocevia di traffici di ogni tipo e facilmente raggiungibile anche in barca dalla Sicilia stessa. Insomma il boss, ora 59enne, sarebbe difficile da immaginare tra trazzere e ovili mentre mangia ricotta indossando i Ray-ban.

Eppure uno dei pochi luoghi accertati come siti dell’ormai lunga latitanza di Messina Denaro è poco più di una grotta, un buco nella montagna messo a disposizione da un altro boss, Vincenzo Virga, in un angolo remoto del Trapanese irraggiungibile perfino in elicottero. Sempre in quei primi anni Messina Denaro è stato capace di “nascondersi” anche in città, in un appartamento a Bagheria, in un altro a Trapani e addirittura dentro una gioielleria nella sua Castelvetrano, un nascondiglio studiato appositamente per lui dal reverente Francesco Geraci, che in seguito si sarebbe pentito.

L’11 aprile 2006 dopo la cattura di Bernardo Provenzano a Corleone, nel casolare furono trovati i pizzini firmati “Alessio”, nei quali si parlava degli investimenti di un ex sindaco, Antonio Vaccarino “Svetonio”, che avrebbe collaborato col Sisde di Mario Mori proprio per arrivare a Messina Denaro. Ovviamente senza nessun risultato.

Caccia a Messina Denaro tra ovili e pizzini

C’è un circuito di go kart, poi bisogna inerpicarsi per l’ennesima trazzera in un viaggio sfiancante attraverso la Sicilia più remota e arcaica. Siamo tra Villapriolo e Villarosa, provincia di Enna, contrada Giurfo.

Non c’è un’anima ma la suggestione di essere osservati è prepotente: la vegetazione, dove più alta, è perfetta per ammucciare, nascondere: infatti guardando bene si scorge un casolare, dall’alto si noterebbe che è a forma di elle. Matteo Messina Denaro potrebbe nascondersi in un posto simile. Qui il 3 dicembre del 2007 ci arriva la polizia per catturare Daniele Emmanuello, 43 anni, in quel momento nella lista dei latitanti più pericolosi considerato secondo solo all’imprendibile boss di Castelvetrano. “Fermo, polizia!”, sembra di sentire le urla degli agenti in questo silenzio che pare ammutolire pure le cicale. Emmanuello si catapulta fuori dalla finestra, in pigiama, cominciando a correre quando il sibilo degli spari irrompe sulla scena. “Abbiamo sparato in aria”, sosterranno i poliziotti. Ma Emmanuello è a terra, colpito anche alla nuca. Morto. È stato latitante per undici anni, amico di Giovanni Brusca, tra i carcerieri di Giuseppe Di Matteo, noto come “boss dei ragazzini” perché reclutatore di minorenni da introdurre al terrore di Cosa nostra impiegandoli come killer al servizio del male.

Messina Denaro, 59 anni compiuti il 26 aprile scorso, latitante dal 1993, gode ancora di grande “rispetto” e di diversi livelli di protezione, invece, anche strettamente legati a una sorta di scudo massonico in cui spesso si sono imbattuti i magistrati e la commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi dal 2013 al 2018: in una audizione del 3 agosto 2016 proprio la presidente affermò: “Come spieghiamo che Castelvetrano è la patria di Matteo Messina Denaro e ha la più grande concentrazione di logge massoniche in rapporto alla popolazione di qualunque parte del nostro Paese? Un consigliere comunale ha sostanzialmente dichiarato che avrebbe dato la propria vita perché non fosse catturato Messina Denaro”.

E che Matteo Messina Denaro goda ancora di consenso e ammirazione è fuor di dubbio. “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”, disse una volta Paolo Borsellino. Quel tempo non è ancora arrivato: la scorsa domenica 25 luglio la figlia di Messina Denaro (che il latitante non avrebbe mai incontrato) ha partorito e sui social non sono mancati auguri e felicitazioni al neo nonno anche da parte di giovanissimi. “Al di là della pietas umana che può accompagnare un decesso o la nascita di una nuova vita – ha scritto il giornale online di Marsala Itacanotizie.it –, nelle sue varie trasformazioni la mafia resta sempre il peggiore tra i mali che affliggono la nostra terra. Sottovalutarla è il miglior servizio che le si possa rendere per consentirle di continuare a prosperare, nei suoi mille interessi e nelle sue molteplici collusioni”. Nonostante in questi anni a ogni nuovo arresto di mafiosi e collusi, soprattutto intorno a Trapani, inquirenti e stampa abbiano parlato di “cerchio che si stringe”, fino a ora Matteo Messina Denaro è rimasto un fantasma.

L’ultima traccia è del 14 luglio scorso: nell’operazione a Torretta, eseguita dai carabinieri su delega della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, è emerso che Lorenzino Di Maggio, una volta tornato in libertà, nel 2017, secondo le accuse del pentito Antonino Pipitone, sarebbe stato il “postino”, addetto alla consegna di pizzini per Messina Denaro. “Gran parte dei pizzini sia della provincia che dei mandamenti di Palermo – ha riferito il pentito – che dovevano arrivare al superlatitante arrivavano sempre a lui (Di Maggio, ndr). I biglietti gli venivano consegnati dove lavorava o a casa della madre”. Poi Calogero Caruso, a cui venivano consegnati da Di Maggio, “a sua volta li consegnava a Campobello di Mazara, utilizzando l’auto del Comune di Torretta dove Caruso all’epoca lavorava”.

Se questa traccia corrispondesse a verità, sarebbe quindi scontato che Messina Denaro non è lontano dalla Sicilia o, comunque, che spesso ci ritorna. Il consigliere del Csm Nino Di Matteo in un’intervista al Tg2 un anno fa spiegò: “Una latitanza così lunga come quella di Matteo Messina Denaro si può comprendere soltanto in funzione di coperture istituzionali e forse anche politiche. È gravissimo che, dopo tutti questi anni, lo Stato non riesca ad assicurare alla giustizia un soggetto condannato tra i principali ispiratori degli attentati del ’93 di Roma, Firenze e Milano che fecero temere al presidente Carlo Azeglio Ciampi che fosse in atto un golpe. Matteo Messina Denaro è certamente custode di segreti di quel periodo, di quella campagna stragista del 1993, che lo rendono in grado ancora di esercitare un potere di ricatto nei confronti delle istituzioni. Ecco perché sarebbe veramente un segnale bello se finalmente venisse rintracciato, arrestato”. E Antonio Ingroia, ex pm del processo Trattativa proprio come Di Matteo e oggi avvocato, si rivolge direttamente al latitante: “A questo punto è Matteo Messina Denaro che deve scrivere la parola fine, dovrebbe trovare il coraggio e la dignità di consegnarsi allo Stato, prendersi la responsabilità di confessare tutti i suoi orribili crimini e rivelare tutto ciò che sa rispetto a quei terribili anni delle stragi: voglio fargli sapere che, qualora decidesse di farlo, proprio io che ho messo alla sbarra Bruno Contrada e Marcello Dell’Utri, sarei pronto ad assumerne la difesa come suo legale. Ma deve raccontare tutto, proprio tutto, dando i nomi dei mandanti a volto coperto. Lui li conosce”.

“È qui: nascosto nelle campagne, spesso si sposta”

“Ma quale Dubai?!”. Ne è convinto chi accetta di parlare con noi, da diversi anni in prima linea con uno dei reparti delle forze di polizia impegnate nella ricerca di Matteo Messina Denaro, super latitante numero 1, ultimo degli stragisti ancora in fuga, per molti esperti e inquirenti tutt’ora unico capo possibile di Cosa nostra. “È in Sicilia. Bisogna sempre considerare che la genesi delle notizie rispetto a una sua presenza all’estero in pianta stabile, dal Sudamerica ai paesi arabi, può essere sempre strumentale”.

Per depistare?

Ma certo.

Crede sia in Sicilia?

Iddu comanda e per comandare in Cosa nostra le persone vanno guardate negli occhi.

È sempre stato raccontato come un amante del bel mondo, del lusso, della compagnia femminile: può permettersi di vivere così in Sicilia?

Considerando gli errori dei suoi sodali nel passato e la sua fiducia in persone diciamo molto avanti con l’età, con mentalità mafiosamente arcaica, questo identikit regge poco. Non dimentichiamo che lui è ancora giovane, ha compiuto 59 anni lo scorso 26 aprile, l’età gli consente capacità dinamiche frequenti.

Quindi si sposta spesso?

Certamente, provi a immaginare una rete di protezione molto ermetica. Ma non nel “bel mondo”, appunto. Parliamo di una Sicilia rurale, pastori e ovili, vecchi mafiosi pronti ad aprire le proprie porte e acquisire un prestigio importante nel contesto.

Prima di spostarsi da un posto all’altro quanto tempo potrebbe intercorrere?

Non è ipotizzabile, perché ci sono occasioni che può delegare parlando a suo nome e impegni molto rari dove è richiesta la sua presenza, tenga conto che attraverso gli errori del passato Messina Denaro ha determinato un abbassamento dell’attenzione, basta vedere cosa avviene nella città di Palermo rispetto alla provincia.

Cosa intende per abbassamento dell’attenzione?

Non avviene niente di eclatante nelle varie aree ad alto rischio che possa far prestare particolare attenzione. La strategia della sommersione insomma applicata con molto scrupolo.

Escluderebbe la possibilità che Messina Denaro sia morto?

Quali circostanze hanno mai prospettato tale ipotesi? Se, ipotizziamo, suoi nemici all’interno dell’organizzazione venissero a conoscenza della sua morte, dovrebbero seguire delle linee ben precise, documentare la presunta morte e rivedere molte strategie, che al momento non risultano esser cambiate.

Negli anni molti indizi hanno portato anche a Malta. Isola al centro di molti traffici illegali e facilmente raggiungibile via mare dalla Sicilia. È possibile che Messina Denaro continui ad andarci?

Non è da escludere tenuto conto di certi equilibri, diciamo, che ci sono a Malta. Ma secondo una logica degli eventi accaduti a Malta negli ultimi anni sarebbe troppo rischioso adesso continuare ad andarci.

Quindi da anni setacciate ogni angolo di Sicilia, trazzere, casolari sperduti, campagne remote, ruderi irraggiungibili. Ha parlato di una mafia arcaica pronta ad accogliere e proteggere Messina Denaro, quali sono le zone più calde sulla mappa?

Le aree geografiche più aderenti a quanto ci siamo detti sono le province di Agrigento e Caltanissetta, senza trascurare l’Ennese, più ai margini ma proprio per questo zona più tranquilla.

Come sta Cosa nostra oggi? In ginocchio? In ritirata? Morta?

Diversa. Continua a essere autoreferenziale e attende con ansia i soldi del Pnrr (piano nazionale di ripresa e resilienza, ndr) del governo.

Roma, sondaggio: Raggi e Gualtieri pari dietro Michetti

Virginia Raggi e Roberto Gualtieri sono testa a testa nella corsa al secondo posto, dietro Enrico Michetti (nella foto), per il ballottaggio alle prossime elezioni comunali. Così come M5S e Fratelli d’Italia si giocano sui decimi di punto percentuale il titolo di primo partito. Sono questi i due elementi che emergono dal sondaggio sulle amministrative di Roma commissionato da Sinistra Civica Ecologista. Al momento, il M5S guida con il 22,1%, davanti a Pd al 20,9% e Fd’I al 18,7%, ma quello del partito di destra è “un dato che non tiene conto di un +3% derivante da una candidatura di Giorgia Meloni come capolista”, spiegano fonti dei committenti. Nel novero non c’è nemmeno la lista civica Raggi, che potrebbe “rubare” agli avversari un altro 6-7%. Il totale del centrodestra, secondo le stime dei sondaggisti, fa 30,8%, il totale del centrosinistra per Gualtieri fa 29,3%, mentre la coalizione Raggi, considerando anche la Civica, si attesterebbe intorno al 28-29%.

“Ma non c’è ancora uno straccio di dato: verificare gli anticorpi”

Allo stato attuale dei fatti, al di là di questi primi dati che arrivano da Israele, non c’è uno straccio di prova che lo stesso vaccino o un altro possa esser utile in soggetti fragili a cui non hanno funzionato le due dosi precedenti. Potrebbe essere forse utile per l’anziano – immunosenescenza – che ha una immunità meno valida di altri, ma chi ce lo dice se non facciamo altre sperimentazioni? Non mi piace sentir ipotesi di rivaccinare tutti a prescindere e poi casomai si capisce dopo se funziona la terza dose o meno.

Un’altra questione che mi disturba parecchio è quella relativa alla persistenza o meno degli anticorpi. Se Ambrogio, piuttosto che Filippo, ha una risposta diversa perché va trattato nello stesso modo di Franco? E, che piaccia o meno, un marcatore di risposta sono gli anticorpi. Sento molti spaventati dall’eventualità della verifica degli anticorpi perché capisco che preoccupi dal punto di vista organizzativo, ma io di mestiere faccio il medico e non l’agente di sanità pubblica. Bisogna considerare che il livello di anticorpi al SarsCov2 non rappresenterà magari una risposta esaustiva ma è la più semplice da trovare.

Poi voglio capire un’altra cosa: perché Angela Merkel e Mario Draghi, cancelliera tedesca e premier italiano, si sono sottoposti al test degli anticorpi e il signor Rossi non ne avrebbe diritto?

Io posso dire che mi controllo abbastanza spesso, anche per motivi di studi che stiamo svolgendo, e gli anticorpi li ho eccome. Bene, a brevissimo, tra settembre e ottobre il mio green pass, insieme a quelli di tutti i sanitari in Italia, scadrà. Sento parlare di proroga da nove a 12 mesi, ma poi il problema si ripone. Perché dovrei farmi somministrare una terza dose di vaccino se dopo tre mesi ho gli stessi anticorpi di prima? Capisco solo che Albert Bourla, ceo di Pfizer, tiri acqua al suo mulino parlando di terze dosi.

“Un richiamo può servire in autunno per gli immunodepressi”

Parlare di terza dose forse potrebbe essere ancora prematuro, ma penso si possa già vedere una utilità per chi ha avuto una bassa reattività con le due dosi. Mi riferisco ad alcune categorie di immunodepressi, come chi ha avuto un trapianto d’organi, pazienti con terapie immunosoppressive. Credo che i dati che arriveranno nelle prossime settimane da Israele, dove hanno già cominciato a somministrare le terze dosi, inizieranno a essere più solidi in questo senso, perché loro sono davvero all’avanguardia.

Pensare invece a una nuova somministrazione di massa, cioè una terza dose per tutti, mi pare sinceramente poco serio. Intanto non credo sarebbe facile trovare altri milioni di dosi e poi non conosciamo ancora quanto durerà per davvero l’efficacia della doppia dose precedente. E allo stato anche con le varianti non mi pare di esser di fronte a numeri tali da far pensare alla necessità di una terza dose per tutti. È molto difficile anche pensare di essere in grado di prevedere adesso se il vaccino anti-Covid andrà somministrato ogni anno come l’anti-influenzale. Ripeto: non sappiamo quanto dura l’effetto.

Piuttosto il vero problema è che c’è una larga parte del mondo con la campagna di vaccinazione arrivata appena all’uno per cento: il rischio è che nuove varianti facciano ricominciare tutto da zero se l’Occidente non si sbriga ad aiutare i Paesi più poveri.

Inoltre, come sistema-Italia soffriamo di una grande debolezza per poter davvero pensare alle terze dosi, continuo a ripeterlo da mesi ma non vedo molte iniziative concrete in questo senso: il vaccino dobbiamo essere in grado di produrlo da soli senza dover aspettare le concessioni dall’estero e la mediazione dell’Unione europea.

Sì alla 3ª dose ai fragili in Francia Green pass a lavoro: è scontro

Èferma al picco la curva dell’epidemia di Covid-19 in Italia, e non accenna affatto a scendere. Si è venuta a creare una situazione di stallo nella quale a portare su il numero dei nuovi casi, che ieri hanno sfiorato i 7.000, sono secondo gli esperti comportamenti poco rispettosi delle regole basilari di sicurezza, vale a dire evitare gli assembramenti e indossare la mascherina.

Intanto la Francia, dove le cose non vanno troppo meglio, vara una serie di misure per arginare una crisi che, ha detto il presidente Emmanuel Macron, “non è alle spalle e durerà ancora diversi mesi”: da metà settembre via alla terza dose che per il momento sarà destinata agli ultraottantenni e ai fragili. Ma non solo. Scatterà anche una stretta sugli ingressi: il 100% dei viaggiatori provenienti da Paesi a rischio verrà controllato con test antigenico.

Tornando in Italia il generale Figliuolo ha annunciato che da lunedì i 12-18enni potranno vaccinarsi senza prenotazione e la Società italiana di pediatria chiede a gran voce un vaccino per i più piccoli: “Abbiamo bisogno di un vaccino sicuro, efficace. Abbiamo bisogno di uno scudo con cui difendere anche i nostri bambini da questo terribile virus. Nel nostro Paese, il 5,5% dei casi (240.105) con 14 decessi riguarda la fascia di età 0-9 anni, mentre il 10,0% (436.938) con 16 decessi riguarda la fascia di età 10-19 anni”. Contrario, però, Francesco Vaia, direttore dello Spallanzani di Roma: “Assolutamente contrario: nei bambini è statisticamente irrilevante non solo il contagio ma anche la malattia al di sotto dei 12 anni. In questo caso quindi la bilancia rischio-beneficio penderebbe tutta sulla parte del rischio”.

Sul green pass è invece in atto uno scontro tra governo e sindacati, contrari all’obbligo e alle sanzioni per i lavoratori, a cominciare dalle sigle sindacali della scuola: “Basta diktat, la scuola non si riapre per decreto”.

E, nel Torinese, la Fim-Cisl ha proclamato per oggi due ore di sciopero, per i 650 dipendenti della Hanon Systems di Campiglione Fenile, azienda specializzata in componenti elettronici, contro l’obbligo di green pass per l’accesso alla mensa: “Si discriminano i lavoratori e si viola la loro privacy mettendoli alla gogna davanti ai colleghi senza considerare i motivi per cui qualcuno non ha ancora fatto il vaccino, l’azienda dovrebbe aspettare chiarimenti dal governo prima di procedere”.

Intanto il Viminale ha allertato agenti delle forze dell’ordine pronti agli accertamenti in ristoranti, bar o locali nelle zone della movida e nelle città delle vacanze soprattutto in vista del weekend di Ferragosto. I Comuni stanno organizzando il piano dei controlli annunciando i vari Comitati provinciali per la sicurezza, mentre continuano in queste ore gli stop alle discoteche abusive, dalla Riviera romagnola a Porto Cervo.

Terme, tv e gli altri bonus “regressivi”

Altro giro, altro bonus. Ad allungare la già copiosa lista di incentivi previsti negli ultimi anni è la misura dedicata all’acquisto dei servizi termali presso gli stabilimenti accreditati. Il “bonus terme” fino a 200 euro può essere richiesto da tutti senza limiti di Isee (per farla facile è l’indicatore del patrimonio immobiliare e mobiliare di tutta la famiglia).

La misura, introdotta lo scorso anno all’epoca del governo Conte-2, è diventata operativa solo in questi giorni dopo il decreto attuativo firmato dal ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Lo scopo è teoricamente nobile: sostenere un settore particolarmente colpito dall’emergenza Covid che nell’ultimo anno ha perso il 75% dei ricavi e almeno 2 milioni di turisti. Certo che, se paragonato ai fondi stanziati per gli altri bonus previsti fin qui, il plafond erogato per le terme è poca cosa: appena 53 milioni di euro contro i 215 milioni previsti per le bici, i 225 milioni per le tv o la cifra monstre di 2,4 miliardi per il conclamato flop del bonus vacanze. Eppure, come per le altre misure, i limiti sono gli stessi: la mancanza di un tetto Isee rende qualsiasi bonus “regressivo”. Tradotto: anche chi non ha alcuna difficoltà a pagarsi da solo la vacanza alle terme – o la bici o la tv o la vacanza – può ottenere il bonus (sempre che riesca a vincere la gara conosciuta come click day, un tempo assai stigmatizzata dai media e oggi per nulla). È come regalare con soldi pubblici uno sconto su un bene a chi non ne ha bisogno.

Una critica che, tuttavia, fu sollevata pubblicamente nei confronti del cashback dallo stesso Mario Draghi. “È un bonus regressivo. Le risorse sono sempre scarse e ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni”, spiegò il premier, parlando della misura voluta dal suo predecessore Giuseppe Conte e annunciando la sua messa in pausa per sei mesi. Parole che possono ben valere anche per i bonus che l’attuale governo ha deciso di elargire. Così i 53 milioni di euro stanziati per il bonus terme, per una spesa massima di 200 euro, serviranno a coprire le richieste di appena 260 mila persone che saranno presumibilmente le stesse che già prima della pandemia frequentavano gli stabilimenti termali: uno sconto massimo di 200 euro difficilmente farà la differenza nel conquistare nuova clientela.

Stesso discorso per i bonus bici e tv. I fondi totali stanziati per la mobilità sostenibile hanno consentito di acquistare 663.710 biciclette, e-bike o monopattini con uno sconto di 500 euro (e solo dopo un iter disseminato di ritardi, disastri informatici e polemiche a non finire). Peggio ancora sta andando con il bonus tv di appena 100 euro che partirà il 23 agosto: i 225 milioni stanziati serviranno a coprire circa 2,5 milioni di richieste, mentre ci sono oltre 9 milioni di vecchie televisioni da cambiare. E se si danno soldi a tutti sempre col click day – una versione del vecchio ‘chi prima arriva meglio alloggia’ – solo i più svelti se ne avvantaggeranno.

La Cdp di Scannapieco e il fisioterapista di Draghi

Afine luglio sui giornali s’era parlato della “rivoluzione di Scannapieco” in Cassa depositi e prestiti. Scannapieco sarebbe il dottor Dario, economista di formazione, già vicepresidente della Banca europea degli investimenti (Bei) e precedentemente al Tesoro quando Mario Draghi ne era il direttore generale: è stato proprio il premier a volerlo a capo di Cdp facendo partire “la rivoluzione”. All’inizio, però, non avevamo messo in relazione questo radicale cambio nella Cassa pubblica con una notizia data dal Messaggero il 7 luglio e ripresa senza clamore nelle settimane successive: a capo dello staff di Scannapieco, ruolo fondamentale in una grande società, era stato indicato Fabio Barchiesi, già capo dell’Istituto di medicina sportiva del Coni “dove da sempre si tengono a battesimo, com’è noto nei circoli economici che contano, piani di sviluppo ed aggregazioni industriali” (così Il Tempo del 1° agosto, che non sembra trovare bizzarro che al Coni Lab si faccia politica industriale).

Ieri, però, Repubblica ha avuto il merito di raccontare la storia da un’altra prospettiva: “Il salto di carriera del fisioterapista di Malagò sbarcato al vertice di Cdp”. Una bella rivoluzione, non c’è dubbio. La vita di Barchiesi, infatti, cambiò quando – nella romana Villa Stuart – si trovo a mettere le mani sul presidente del Coni, oggi circonfuso dalla luce di 40 medaglie olimpiche ma a inizio luglio – quando avvenne la nomina – solo quello che è sempre stato: un gran visir del potere romano con ottimi agganci nella meglio imprenditoria italiana (dagli Agnelli in giù).

Malagò evidentemente vide qualcosa nel suo fisioterapista, tanto che lo portò con sé prima all’amato Circolo Aniene e poi al suddetto al Coni, dove regna dal 2013. Barchiesi, va detto, oltre a curare i dolori dei meglio nomi di Roma, si dà da fare: si laurea in economia all’università telematica Cusano, frequenta master alla Luiss e alla Bocconi, collabora con mezzo mondo, scrive articoli scientifici. E fa bene perché nel frattempo è assurto al ruolo di dirigente e persino alla direzione generale di Coni Sport Lab, guidato in un “processo di ristrutturazione, rilancio e riposizionamento strategico”. È stato un tale successo che è proprio lì che, sotto l’occhio vigile di Barchiesi, va a fare fisioterapia lo stesso Draghi.

Ora, come si passi dalla manipolazione di Malagò o del premier a un ruolo rilevante nella mega-holding pubblica non è chiarissimo, ma d’altronde il nostro “trasmette efficienza, partecipazione, oltre che velocità e senso pratico nella risoluzione delle criticità” (o almeno così dice il suo curriculum). Scannapieco non poteva farselo scappare: è stato scelto, hanno spiegato a Repubblica da Cdp, per “la sua esperienza di manager” e le relative “competenze in: pianificazione strategica, amministrazione e controllo, risorse umane”. A non dire che ha “decuplicato” i ricavi del Coni Lab, che – ricordiamo – è strategico nella politica industriale del Paese, che si fa – com’è noto – tra un convegno e un massaggio: è tanto vero che Malagò ha preteso, con un comma infilato alla chetichella in un decreto di fine gennaio, di far tornare al Coni la proprietà delle mura (non le funzioni) dell’Istituto, sottraendole all’odiata Sport e Salute, ex Coni Servizi.

Purtroppo la rivoluzione fisioterapica di Scannapieco ha subito un piccolo stop: a fronte delle polemiche, Cdp ha annunciato che Barchiesi sarà affiancato da un “profilo tecnico”, cioè Francesco Pettenati, economista e già capo di gabinetto di Scannapieco alla Bei, il quale però – a quanto risulta – non sa nulla di colpo della strega.