Bettini, Gori &C.: sinistra per Salvini in aiuto di Matteo sui referendum

A tirare la volata alla Lega sui referendum per la giustizia c’è un alleato inaspettato. Trattasi di quella che più volte sul Fatto abbiamo chiamato “Sinistra per Salvini”, ovvero quella parte di Pd che per un motivo o per l’altro si trova sempre a portare acqua al mulino del leader leghista.

Succede anche sui quesiti proposti da Matteo Salvini e dai Radicali, che negli ultimi giorni stanno raccogliendo parecchie adesioni tra i dem. Tra i primi a esporsi è stato Goffredo Bettini, uomo ombra di Nicola Zingaretti durante la sua segreteria. L’ex eurodeputato ha preso posizione sostenendo che ci sia “ancora molto da fare per una riforma organica” e che con la sua firma spera di agevolare “un cambiamento profondo della nostra giustizia malata”. Posizione ripresa da Massimiliano Smeriglio, parlamentare europeo dem vicino allo stesso Bettini: “È la strada maestra per riavvicinare la sinistra al garantismo contro il populismo giudiziario. Firmerò i sei quesiti sulla giustizia giusta per non lasciare la critica alla mala giustizia nelle mani della destra”.

Sostiene invece “soltanto” tre quesiti Giorgio Gori, sindaco di Bergamo che firmerà i referendum sulla revisione della carcerazione preventiva, sullo svuotamento della legge Severino e sulla separazione delle carriere. Senza alcun imbarazzo: “Li appoggia anche la Lega? Bene. Dopo la legge Cartabia avanti per una giustizia giusta, che rispetti le persone”. Alla campagna partecipa poi il senatore Gianni Pittella, tra i primi a dichiararsi favorevole ai referendum. Con lui ci sono pure l’eurodeputato Giuseppe Ferrandino e Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi appena assolto per un caso di un bando sulle piscine comunali: “Quei referendum non possono essere relegati alla destra – scuote la testa l’ex sindaco – Quei temi sono patrimonio della sinistra”.

Di ieri è invece l’adesione di Luciano Pizzetti, deputato del Pd che fu sottosegretario sia con Matteo Renzi – altro fan del referendum – sia con Paolo Gentiloni. Non a caso la Lega gongola, tanto che nel lanciare le iniziative di agosto spernacchia i dem: “Nonostante i no di Enrico Letta, nel Pd aumentano le adesioni per i referendum sulla giustizia”. Chissà che presto non unifichino i gazebo.

La destra al comizio di Letta, tra vigneti, cedri e grana Mps

inviata a Montepulciano (si)

Uno scatto sfondo Val di Chiana, cedri del Libano in bell’evidenza; un primo piano sorridente, seduto al tavolo. Nei locali, ovunque calici di rosso, ma anche di bianco. La Fortezza di Montepulciano è una delle prime tappe della campagna elettorale di Enrico Letta per le suppletive di Siena. Guest star, la fotografa del New York Times. Val di Chiana, Val d’Orcia e vino sono cornici imperdibili. Soprattutto se incombe l’operazione di Unicredit su Mps e il segretario del Pd deve interpretare il ruolo di garante del territorio, ma anche di quello che si fida del governo.

Un tempo la Fortezza ospitava un Liceo Classico, adesso invece un’enoteca. Vetrine raffinatissime esibiscono Montepulciano pregiati. L’atmosfera pre-incontro è vagamente rarefatta, elitaria. Nonostante il macigno Mps, che è piombato sulla corsa del segretario del Pd in maniera abbastanza inaspettata da risultare sospetta. Almeno a sentire gli amministratori dem del territorio. Una certa tensione si percepisce. “Ecco, lui si autodefinirebbe l’artefice di questa corsa. È lui che su di me ha sempre molta influenza”, scherza arrivando Letta. Lui sarebbe Silvio Franceschelli, sindaco di Montalcino, che non sa bene se prenderla come una battuta e ridere o prepararsi a fare il capro espiatorio. Dunque, raddoppia: “Serve un personaggio di caratura nazionale, uno come Enrico. È una sfida. Non è che possiamo mettere la testa sotto al cuscino: il caso della banca c’era e va affrontato. Noi siamo per la tutela del marchio, del territorio, dell’occupazione. Contro lo spezzatino. Certo, avremmo voluto che l’Europa ci desse più tempo. Ma Franco mi pare che su questo non ci senta”.

Sotto gli alberi, per l’iniziativa, c’è un sacco di gente, ventagli alla mano. “Io voto Lega, ma ascolto tutti”, confessa qualcuno. Alla parola Mps, gli elettori Pd più classici allargano le braccia e se ne escono con un sospiro: “Eh”. Durante il dibattito con David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, la prende larga Letta la domanda della moderatrice, Eva Giovannini: “Questo territorio arriva ad avere chiaro per la prima volta che il futuro di Mps sarà diverso dal passato. Non si devono posporre le decisioni difficili. Il ministro Franco ha dato risposte che per ora ci hanno soddisfatto”. Dice il meno possibile Letta. Davanti alle telecamere era stato ancora più generico. La soluzione sul tavolo? “È la soluzione che ha proposto il governo. Ho fiducia negli impegni che il ministro Franco si è preso pubblicamente in Parlamento. Noi vigileremo”. Per ora, i contorni dell’operazione sono ancora generici. Ma evidentemente, meglio, fare buon viso a cattivo gioco. Sassoli getta il cuore oltre l’ostacolo: “Gli stress test li considero un’opportunità. Ci stanno avvertendo che rispetto a crisi possibili banche come Mps potrebbero trovarsi non solvibili”.

Fortuna che c’è il vino. A parlare con il segretario del Pd a Montepulciano, oltre agli amministratori locali dem, arrivano il consorzio La Strada del vino nobile e dei sapori della Val di Chiana senese, Federalberghi, Confesercenti. Chiedono le infrastrutture che mancano, come spiega il segretario del Pd di Montepulciano, Alberto Millacci, e la valorizzazione del territorio. Una sfida pure questa, visto che lo sfidante appoggiato dalla Lega è un imprenditore del vino, Tommaso Marrocchesi Marzi. Intanto, un battagliero sindaco uscente di Trequanda, Roberto Machetti denuncia: “Da noi la Sogin vuole fare un sito di scorie nucleari: evidentemente gli stranieri conoscono la Val d’Orcia meglio del ministero”. Quello del Tesoro, per restare in tema.

Ci si aspetta di certo che Letta faccia meglio di un ex ministro dell’Economia, quel Padoan, che ora guida l’acquisizione di Mps dai vertici di Unicredit, dopo essere stato paracadutato qui da Matteo Renzi ed essere stato visto solo in campagna elettorale. L’ordine di scuderia è: “No polemiche, dobbiamo portare i voti di tutti a Enrico”. Ma del fu Rottamatore si fidano in pochi. “A Chiusi dove si vota per il Sindaco, Iv ha presentato la sua lista”, dice Simona Cardaioli, la segretaria dell’unione comunale. Lì il dominus è Stefano Scaramelli, vice presidente del Consiglio regionale. Uno che ha dichiarato “urbi et orbi” che – anche se lui lo appoggia – non può chiedere ai suoi di sostenere Letta. La tentazione dello sgambetto da parte dell’eterno rivale Matteo è ghiotta: se vince Letta, è pronto a dire di essere stato determinante, se perde, è pronto a terremotare il Pd da fuori, magari rientrando. Intanto, Eugenio Giani, governatore della Toscana, figura di cerniera, su Mps fa il barricadero.

Guai però anche per gli sfidanti. Alberto Perugini, dirigente di Coraggio Italia si sfoga con gli amici mentre fuma nervosamente un sigaro: “Se non la smettono di fare così, Toti e gli altri, porto i miei voti a questo”. La platea applaude. “Interessante, bellissimo. Ma dovrebbero fare discorsi più basici”: il commento all’anziano militante pare venire dal cuore. Croci e delizie.

Scuola e Leopolda: urgono soldi

Matteo Renzi, è noto, può contare su sponsor niente male. Alcuni di loro, come Davide Serra o l’onorevole Gianfranco Librandi, sborsano quasi ogni mese centinaia di euro per sostenere le attività di Italia Viva.

Con l’approssimarsi di Ferragosto si avvicinano però due eventi particolarmente dispendiosi per le casse renziane: la Scuola di formazione politica, in programma a settembre, e la dodicesima edizione della Leopolda, fissata a novembre.

Appuntamenti per cui l’ex premier si sta preoccupando di sollecitare donazioni da parte degli attivisti, chiedendo un aiuto sulla sua enews settimanale: “Un modo per sostenerci è darci una mano – ha scritto il senatore – anche economica, per la Scuola di formazione che si terrà a Ponte di Legno dall’1 al 3 settembre. Centinaia di ragazze e ragazzi da tutta Italia a discutere di formazione politica. Bello, no? Tutt’altro che effimero. E ricordatevi che dal 19 al 21 novembre torna la Leopolda”.

Il messaggio è corredato da link al sito per le donazioni: 10, 15, 25 o 75 euro, o magari un importo a piacere. Da non sottovalutare è anche la location scelta per la Scuola. Dopo il Ciocco (a Lucca) e Castrocaro (in Romagna), ecco Ponte di Legno, il Comune bresciano che per anni è stato sede del raduno estivo della fu Lega Nord. Una tradizione interrotta solo da Matteo Salvini nel 2018 dopo quasi tre decenni, complice l’obiettivo di non connotare più la Lega soltanto con le valli sopra il Po.

Chiusa quell’esperienza, ora la politica torna a Ponte di Legno con Renzi e la Scuola di Italia Viva, nel tentativo – dice l’ex premier – di mandare un messaggio “nel profondo Nord nell’anno in cui dalle spinte sovraniste si è passati ad una nuova visione dell’Europa”.

Poi verrà la Leopolda, tornata all’abituale formato dopo che l’anno scorso Renzi si era dovuto arrangiare organizzando l’undicesima edizione su un solo giorno di incontri. Anche col coronavirus non erano mancati però i soliti floridi finanziatori, vista l’apertura – come rivelato dal Fatto Quotidiano nelle scorse settimane – di una cassa denominata “Comitato Leopolda 9 e 10” che fino all’anno scorso ha continuato a ricevere le donazioni di Librandi e soci fino a un totale di 428 mila euro. Ora che il Comitato è stato liquidato, Renzi spera nell’aiuto degli elettori. Pregando che siano abbastanza generosi.

L’attacco di Renzi alla stampa: “Prendete i telefoni dei cronisti”

In questi giorni molti quotidiani hanno riportato distrattamente i passaggi del libro di Renzi dedicati alla magistratura e alla stampa. Nessuno però ne ha sottolineato il senso politico.

L’ex segretario del Pd, l’uomo che ha guidato la sinistra italiana dalla fine del 2013 all’inizio del 2018 con qualche interruzione, scavalca a destra Berlusconi nell’approccio ostile a pm e giornalisti.

Nel suo libro Renzi dedica molte pagine alle inchieste giudiziarie e giornalistiche su di lui, la sua famiglia e i suoi collaboratori.

Il leader di Iv offre la sua visione dei casi Consip, Banca Etruria, del rinvio a giudizio del cognato e del di lui fratello, per la questione dei fondi Unicef. Scambia per una quasi assoluzione il provvedimento del Tribunale del Riesame che ha liberato dagli arresti domiciliari i genitori, confermando però il grave quadro indiziario. Renzi però non si limita ad attaccare Il Fatto per gli scoop. Non si accontenta di riportare come Vangelo la versione di Piero Sansonetti, che lui definisce “ex direttore dell’Unità” (in realtà è stato condirettore) forse perché definirlo ‘direttore del giornale del coimputato di mio padre nel caso Consip’ (Alfredo Romeo) non avrebbe prodotto lo stesso effetto. Renzi non si ferma alla critica faziosa di magistratura e stampa ma si trasforma in istigatore dell’azione dei magistrati contro i giornalisti. E del Csm contro i magistrati. Nemmeno Berlusconi era arrivato a tanto. “Quando un giornalista pubblica una notizia riservata sulla casa della mia famiglia violando il segreto istruttorio e bancario – scrive Renzi – presento una denuncia per violazione del segreto. Casualmente il pm che gestisce il fascicolo è proprio il pm Turco. E cosa succede? Nulla. Nessuno sequestra i telefonini dei responsabili della violazione del segreto: non hanno mica finanziato la Leopolda, loro”. Insomma per Renzi il pm Turco gli ha fatto un torto perché non ha sequestrato i cellulari di due giornalisti che avevano fatto solo il loro dovere raccontando sulla base di documenti veri la storia vera del prestito ricevuto da Renzi stesso per comprare la sua villa di Firenze.

A rendere grottesca questa frase c’è un dato: in passato il cellulare di Tiziano Renzi non è stato sequestrato né dai pm di Roma né dai pm di Napoli nel caso Consip, nonostante Tiziano fosse indagato a Roma. Anche i pm di Firenze hanno evitato fino al novembre del 2019 di sbirciare le comunicazioni del babbo indagato per altri fatti. Viceversa proprio chi scrive questo articolo ha subito un sequestro simile a quello che Renzi oggi auspica contro i colleghi Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian, nel frattempo passati al Domani.

Nel 2017 i pm di Napoli sequestrarono i telefonini e i pc miei e dei miei congiunti perquisendo quattro abitazioni, compresa quella di mio padre 95enne, per scoprire le fonti degli articoli sul caso Consip. Ebbene la Cassazione spazzò via quel provvedimento abnorme ordinando ai pm di restituire tutto, computer e cellulari, subito, senza leggere nulla. Nonostante questo precedente Renzi si infuria se i pm di Firenze non mandano i finanzieri ad agguantare i cellulari dei giornalisti per scoprire le fonti delle notizie su di lui.

Non è la prima volta. Quando a maggio una signora osò filmare (lecitamente) con il telefonino l’incontro all’Autogrill di Renzi con il funzionario dei servizi segreti Marco Mancini e passò il video a Report, i legali del leader Iv chiesero ai pm di sequestrare e acquisire “il cellulare, i computer, la corrispondenza telematica (email e messaggistica WhatsApp) e gli altri sistemi informatici”.

Renzi è stato il leader della sinistra italiana, che ha sempre mostrato attenzione alla tutela dei magistrati, dei giornalisti e delle fonti. Possibile che nessuno ricordi all’ex premier che il dovere di un politico è rendere conto dei suoi incontri con gli 007 e dei prestiti ricevuti dagli imprenditori senza intimorire giornalisti e fonti?

Anche la sfida finale di Renzi al pm Luca Turco è inedita per un leader politico. L’ex premier prima accusa e poi provoca così il pm che indaga su di lui e i suoi familiari: “Nessun organismo di controllo ha mai scelto di verificare davvero la fondatezza di queste critiche e accuse. E io sono pronto a portare le prove di tutto ciò che sto dicendo annunciando sin da adesso che ove il dottor Turco volesse denunciarmi per le cose – sacrosante e inattaccabili – scritte in questo libro, sono pronto a chiedere al Parlamento di rinunciare alle guarentigie previste dalla Costituzione per affrontare il processo e portare le carte che dimostrano ciò che ho scritto davanti a un giudice terzo”.

Se il pm Turco accettasse la provocazione si metterebbe nelle condizioni di doversi astenere nei procedimenti contro Renzi e i suoi familiari. L’ex sindaco ha studiato legge molti anni fa. Delle due l’una: o sfida il pm Turco perché ha dimenticato le regole dell’astensione o perché le ricorda bene.

La Calabria brucia e Salvini confessa: “Sintonia con Renzi”

A sera, in terrazza, quando il caldo prende un po’ di requie, Matteo Salvini formalizza quel feeling che alimenta le virtù triangolari di Matteo Renzi: “Fortunatamente c’è sintonia con Italia Viva e così riusciamo a stoppare le pretese di Pd e Cinquestelle”. Tace su Durigon, invece. Diamante, la capitale della riviera dei cedri, la baia più preziosa della costa e anche il segno della politica calabrese: il paese del mare, meta di un flusso turistico rilevante, si raggiunge solo via terra. Il porto è in progettazione da 30 anni, ed è una rovina a cielo aperto: “Certo che lo faremo, quando andremo al governo”, assicura Salvini dimenticando che il suo schieramento si è dato il cambio con il centrosinistra dal giorno della nascita della Regione. Una legislatura a te e una a me. Il risultato è ciò che purtroppo si vede. “Lo faremo” conferma Ernesto Magorno, senatore di Italia Viva e sindaco del borgo ospitante: “Onoratissimo, veramente di averti qui tra noi”.

Lucifero fa ansimare i poliziotti ingaggiati per accompagnare il leader leghista nel rinnovato tour del peperoncino. Rispetto a due anni fa (la Regione rivota per il decesso della presidente eletta Jole Santelli) la truppa dei selfisti è ridotta al lumicino, e il gazebo – al netto degli accompagnatori e dei questurini – accoglie non più di una quarantina di osservatori, prevalentemente della terza età. Curiosi ma a distanza, attenti e anche, a dire il vero, un po’ diffidenti. Pochi fan, pochi selfie. Ai fini della conta politica la serata vale poco e non prova nulla. Il centrodestra infatti chiama al bis e non c’è alcun dubbio che sarà una riconferma: “Vinco col 55 per cento, forse arrivo al 60”, considera Roberto Occhiuto, il cui fratello è sindaco di Cosenza e lui candidato presidente di FI e portavoce di una delle più influenti famiglie calabresi.

Le famiglie in Calabria funzionano sempre. Se quella di Occhiuto è in pole position per il governo regionale, quella mini di Magorno (con moglie ex vicesindaco del paese) era data al fixing in procinto di lasciare Renzi e immettersi nella larga compagnia salviniana. “Nuovi ingressi ci saranno”, garantisce peraltro Nino Spirlì, il presidente pro tempore della Regione noto in Italia per essersi dichiarato, lui omosessuale, favorevole alle incontinenze lessicali: “Un ricchione è ricchione. Perché chiamarlo gay?”. Spirlì assiste il capo che, mano nella mano con l’amata Francesca Verdini, si avvia a completare il breve tour. Il sindaco-senatore Magorno passa o non passa? “Non passo, mi fermo dove sto”, dice il politico accreditato come il teorico dell’ambivalenza, il senatore perduto nel sospetto che diriga, nel segreto dell’urna, le simpatie verso quel che ufficialmente è l’avversario incallito.

In Calabria il trasformismo è così sfacciato, così aperto alla voce del popolo che, per esempio, la famiglia che detiene il pacchetto di maggioranza del Pd di Crotone, rappresentato dalla consigliera regionale Flora Sculco, è data come silente ma operosa testimone della transumanza dal povero centrosinistra, guidato per questa corsa da un medico, Amalia Bruni – chiamata in extremis a sostituire un’altra donna, Anna Maria Ventura, colta in flagranza di conflitto di interessi –, al ricco centrodestra. E tutte le opinioni, i pronostici, le assicurazioni, le convinzioni, addirittura le certezze, illustrano un capitombolo per Pd e Cinquestelle. “Il centrodestra vince, ma secondo arriva De Magistris, che pesca nel largo scontento sociale e si intesta il voto di protesta. La Bruni subirà le defezioni dei vari cacicchi del Pd che si sistemeranno, nel dopo voto, con Occhiuto. È la storia di sempre”, dice Francesco Saccomanno, segretario cosentino di Rifondazione comunista.

La Calabria è quella di sempre. Vuota tra le montagne, dove in queste terribili giornate arde di un fuoco incessante e assassino. Incendi in Aspromonte e sulle pendici tirreniche. A nord e a sud, lungo i fianchi marini e dentro le magnifiche gole interne, i boschi secolari, fino a insidiare le mirabili faggete, vero e proprio tesoro naturalistico. Non è Lucifero, non è il caldo torrido a scatenare questo inferno, ma la mano omicida, volontaria, organizzata e premeditata dei piromani. E così in questo agosto di fuoco nelle piazze non c’è vita. O al mare, o chiusi in casa. Anche per questo la visita turistico-elettorale di Salvini è senza appeal, svuotata dei fotogrammi personalizzati, di quelle lunghe file di selfisti che Matteo omaggiava con un abbraccio e un sorriso fino a tarda notte.

Nella piccola confessione serale c’è però questa rinnovata ed emergente sintonia con l’altro Matteo, che pure figurerebbe nominalmente nel campo avverso, e una confermata distonia con Giorgia Meloni, che pure dovrebbe esserle alleata. Ci sarà da contare le schede e valutare se la predizione che a Roma, perfino a Milano e anche in Calabria Fratelli d’Italia sarà in testa ai consensi, diverrà certezza ma il dubbio, ecco, è tutto interno a chi, nello schieramento largamente favorito, avrà la quota di maggioranza.

Appello “È ignobile”. Già 25 mila firme alla nostra petizione

”Durigon fuori dal governo”. Non servono giri di parole per lanciare la petizione del Fatto, accessibile da ieri sul nostro sito ilfattoquotidiano.it e change.org. Si può firmare e unirsi agli oltre 25 mila che hanno già sottoscritto l’appello per cacciare il sottosegretario leghista.

Con le sue dichiarazioni del 4 agosto – quando ha ammesso che preferirebbe intitolare un parco di Latina ad Arnaldo Mussolini piuttosto che a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – Durigon ha indignato migliaia di persone. Ieri l’Anpi di Trieste, come già l’Anpi nazionale, ha pubblicato un duro comunicato contro questa “inammissibile esaltazione del fascismo”, mentre il sindaco di Sant’Anna di Stazzema Maurizio Verona ieri ha chiesto le dimissioni di Durigon sul Fatto, lanciando a sua volta una raccolta firme. Per dirla con le parole dell’appello scritto da Peter Gomez, Antonio Padellaro e Marco Travaglio, Durigon ha compiuto “un autentico tradimento della Costituzione, nata sui valori dell’antifascismo, su cui Durigon ha giurato lo scorso 1 marzo”, per giunta vellicando “i rigurgiti neofascisti a costo di screditare due uomini che hanno dato la vita per combattere la mafia”. Ragioni per cui il leghista è “totalmente incompatibile con l’incarico che dovrebbe ricoprire con disciplina e onore”. Di questo tono sono anche i commenti dei molti firmatari. Pietro Rocco scrive: “Via dalle istituzioni chi infanga i morti per mafia ed esalta una storia di cui bisogna vergognarsi”. Così pure Valentino Devito: “Non mi sento rappresentato, è ignobile avere certe figure al governo”. Amaro invece Marco Valentini: “In un Paese civile non ci sarebbe bisogno di una petizione per cacciare un tale personaggio”.

La Lega si spacca su Durigon. E Draghi continua a stare zitto

La pressione per le dimissioni del sottosegretario della Lega Claudio Durigon sale di ora in ora. Il fronte giallorosa – Pd, M5S e LeU – chiede il passo indietro immediato o che sia il premier Mario Draghi a ritirargli le deleghe, ma il centrodestra si chiude in un imbarazzato silenzio. E mentre la petizione lanciata ieri dal Fatto raggiunge le 25mila firme in meno di 24 ore, il premier Mario Draghi continua a tacere sulla vicenda: per il momento non intende intervenire sul sottosegretario – reo di aver proposto di reintitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini invece che a Falcone e Borsellino – per non provocare fratture all’interno del governo. Lo farà solo se la pressione politica diventerà tale da obbligarlo a una decisione. Così Pd, M5S e LeU hanno già annunciato che a settembre, quando riapriranno le Camere, voteranno una mozione di sfiducia per revocare le deleghe a Durigon. Dopo Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli, nel governo ieri si è fatta sentire la voce di un altro ministro del M5S, Federico D’Incà: “Le parole di Durigon sono gravissime e spiace che a distanza di giorni, non si sia reso conto dell’inopportunità di quelle dichiarazioni – dice al Fatto – Sarebbe auspicabile un passo indietro, senza arrivare alla mozione di sfiducia, oltre che le sue pubbliche scuse”. L’unico leader degli ex giallorosa che non si è ancora esposto è invece Matteo Renzi che negli ultimi tempi ha più volte condiviso le posizioni di Matteo Salvini: per ora il capo di Italia Viva tace.

Ma Durigon è accerchiato anche all’interno: di fronte al silenzio di Matteo Salvini che spera di far cadere la questione nel vuoto, nella Lega iniziano a emergere le prime voci critiche nei confronti del sottosegretario all’Economia. E il fronte “nordista” che fa riferimento a Luca Zaia e Giancarlo Giorgetti non vedrebbe di cattivo occhio la caduta di Durigon, fedelissimo di Salvini e diventato uno dei punti di riferimento nella Lega che si è estesa al centro-sud. E proprio nel giorno in cui viene ufficializzato l’annullamento delle feste leghiste di Pontida e di Alzano Lombardo (la Berghem Fest), non è passato inosservato il silenzio dei governatori di peso del Carroccio, da Massimiliano Fedriga allo stesso Zaia. Per non parlare di Giorgetti, ministro dello Sviluppo Economico, che con Durigon ha sempre avuto un pessimo rapporto. D’altronde a febbraio, quando era uscita la lista dei sottosegretari del governo Draghi, in molti tra i leghisti della prima ora erano rimasti stupiti da quella poltrona da sottosegretario al Tesoro andata a Durigon: “Come si fa a tutelare il mondo produttivo del Nord-Est con un sottosegretario del Lazio?” era la domanda ricorrente tra i leghisti sopra il Po che non hanno mai gradito l’ascesa di Durigon. Parlamentari di peso come Massimo Bitonci, Raffaele Volpi, Gianpaolo Vallardi, Stefano Candiani ed Edoardo Rixi erano rimasti tagliati fuori. E sono loro oggi quelli che, secondo i rumors interni, hanno storto la bocca di fronte all’uscita dell’ex sindacalista dell’Ugl di Latina. Ancor di più se si considera che durante il governo Conte 1 proprio gli allora sottosegretari Rixi e Armando Siri avevano dovuto lasciare la propria poltrona su pressione dell’esecutivo gialloverde: “Perché loro sì e invece Durigon è intoccabile?” chiede polemico un big leghista.

E dunque, di fronte al silenzio di Salvini, emergono le prime voci critiche. Nessuno chiede apertamente le dimissioni di Durigon ma diversi parlamentari ed esponenti di peso stanno iniziando a prendere le distanze. Il primo è il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni che, sebbene molto vicino al segretario, ha spiegato: “Io un parco a Mussolini non lo intitolerei, a Borsellino e Falcone sì”. Il ligure Rixi, invece, che nel 2019 si dimise dopo una condanna in primo grado a 3 anni e 5 mesi per le “spese pazze” in Liguria e poi è stato assolto, spiega che Durigon non si dovrebbe dimettere perché “esiste la libertà di pensiero” e “siamo in campagna elettorale” ma poi attacca il suo compagno di partito: “Ciò detto io non condivido l’uscita di Durigon ed è anche incomprensibile – spiega al Fatto il deputato del Carroccio – io non farei mai una battaglia su questo e tra il ‘parco Mussolini’ e il ‘parco Falcone e Borsellino’ scelgo senza dubbio Falcone e Borsellino”.

Nell’inner circle di Salvini, invece, la posizione è chiara: “Polemica strumentale e ridicola”. Insomma, si difende il sottosegretario sperando che la polemica si sgonfi in pochi giorni. Ma anche tra i fedelissimi del segretario l’imbarazzo e l’irritazione ci sono: Durigon, dopo il primo scandalo di maggio (parlando dei 49 milioni della Lega disse: “Quello che indaga lo abbiamo messo noi”), adesso sta diventando ingombrante. Tant’è che a via Bellerio si fa già un nome per sostituirlo: quel Bitonci che al Mef era già stato da sottosegretario durante il Conte 1. Un modo per placare i brusii interni.

A che serve un giornale

La nostra petizione al premier Mario Draghi perché allontani dal governo il sottosegretario fascioleghista all’Economia Claudio Durigon ha raccolto, in mezza giornata di un giorno d’agosto, 25 mila firme. L’ennesima prova del fatto che non c’è vacanza, vittoria pallonara o medagliere olimpico che riesca a distrarre la nostra comunità di lettori e sostenitori dai valori che contano davvero: trasparenza, legalità, antifascismo, disciplina e onore, scolpiti nella nostra Costituzione ma quotidianamente calpestati dal Governo dei Migliori. Un governo senza opposizione, con tutte le lobby e i poteri in cabina di regia e tutta la presunta informazione sdraiata ai suoi piedi, che non riesce a liberarsi di un piccolo e agguerrito giornale, un po’ come il Giulio Cesare di Goscinny e Uderzo non riesce a espugnare il villaggio di Asterix. E, ogni volta che prova ad allungare le mani, l’indomani trova quel che si merita sulle nostre pagine. Ci hanno provato col presunto esperto di Covid, tal Gerli, nel Cts: beccati e costretti a farlo dimettere. Ci hanno provato con l’uomo dei Benetton alle Fs: colpiti e affondati. Ci hanno provato coi subappalti liberi nelle grandi opere: sgamati e indotti e alla retromarcia. Ci hanno provato con la schiforma Cartabia che di fatto aboliva la giustizia: smascherati e forzati a un (pur parziale) dietrofront. Ci hanno provato con l’agente Betulla “consigliere giuridico” di Brunetta: scoperti e respinti con perdite. Ora provano a silenziare lo scandalo del sottosegretario all’Economia che prima annette alla Lega il generale della Guardia di Finanza che indaga sui 49 milioni fregati dalla Lega e poi vuole intitolare al fratello del duce il Parco Falcone e Borsellino di Latina: la campagna del Fatto e le firme dei nostri lettori terranno desta l’attenzione finché il Parlamento voterà la mozione di sfiducia dei 5Stelle, cui han già aderito Pd, Leu e SI, oltre all’Anpi e a una miriade di associazioni antimafia.

Immaginate che accadrebbe se tutti i giornali facessero i cani da guardia della democrazia, anziché i cani da compagnia: avremmo già sventato tante vergogne dell’ultimo semestre e magari ci saremmo risparmiati la Fornero consulente di Draghi sulle pensioni, i turboliberisti a menare le danze della politica e il fisioterapista di Malagò nello staff dirigenziale dell’ad di Cassa depositi e prestiti Dario Scannapieco. Basterebbe che, nelle conferenze stampa di Draghi, anziché scambiare la trasparenza per lesa maestà e complimentarsi per quanto è bravo e bello, tutti i giornalisti gli chiedessero conto e ragione di ogni scandalo. Magari il premier resterebbe sulle sue posizioni. Ma almeno sarebbe costretto a spiegarle. O ad abolire le conferenze stampa.

Il posto delle favole: le avventure di Camilla e del micio Godzilla

Immaginate gli editori italiani alle prese col mondo del fumetto che si aggirano sui social alla ricerca del nuovo “fenomeno del web” da lanciare in libreria sperando che diventi “fenomeno editoriale”. Spoiler: l’operazione raramente riesce. Ma c’è un ma. A volte può capitare tra le mani un esemplare particolare, magari non enorme in termini di vendite, ma con un Dna unico che gli permette di funzionare nel passaggio dal digitale al cartaceo e di funzionare rimanendo se stesso.

È il caso di Davide Caporali (si firma Dado e lo trovate su Instagram come @dado_stuff): ecco, Dado – classe 1989 – non è un esordiente: ha collaborato con editori come Bonelli e Shockdom e autori come Sio (Scottecs) e Bevilacqua (A panda piace, Attica), ha un grosso pubblico che ama le sue strip di trentenne alle prese con la paternità, di cui è protagonista insieme alla compagna e al figlio quattrenne. Niente di originale, ok, e infatti a rendere Dado irresistibile è la sua stessa identità. E quando un autore ha questo Dna il passaggio sulla carta riesce se si reinventa senza cancellarsi: una mutazione.

Nel suo ultimo libro, Il Gatto, il Kaiju e il Cavaliere edito da Feltrinelli comics, Dado non abbandona del tutto l’ambito familiare e racconta una favola che ha per protagonista una bimba che si chiama Camilla (che potrebbe essere l’alter ego del suo figlio a fumetti, a sua volta alter ego del suo vero figlio) e un gatto che si chiama Godzilla (a sua volta alter ego del gatto delle sue strip, a sua volta alter ego e vabbè ci siamo capiti). In questo gioco di specchi tra realtà e finzione, l’autore ci racconta una storia più per bambini che per adulti, semplice ma con una malinconia che la corrode lentamente fin quasi all’osso. L’umorismo, sempre così presente nel Dado online, sulla carta quasi scompare: ci sono disegni dai colori brillantissimi, tavole ardite e mostri il cui concept pesca nell’immaginario fiabesco e terribile di Miyazaki. Ma la risata lascia il posto a un sorriso un po’ amaro. Quello che viene fuori è un autore con un’identità riconoscibile graficamente e narrativamente, una delle scommesse vinte della collana Feltrinelli comics, e adesso ci aspettiamo una nuova mutazione, un altro salto di specie, magari verso il mondo adulto. Il Dna è stato sequenziato, vedremo come evolverà.

Delitto e castigo di Sid: morta la sua Nancy, si ammazza di eroina

Il signore e la signora Ritchie alloggiano nella stanza n. 100. Si sono registrati come “coniugi”, ma non lo sono: meglio identificarli come il “Criceto e la Puttana”. Il “Criceto” è John Simon Ritchie, detto “Sid Vicious”, ex bassista dei Sex Pistols. Il Vicious originario è il roditore malevolo che si estenua nella gabbia in cui l’ha rinchiuso il padrone Johnny Rotten, leader della punk band. La “Puttana” è Nancy Spungen, una ventenne arrivata da Philadelphia a Manhattan, dove spaccia droga e colleziona musicisti, una di quelle groupie che conquista il camerino della star dopo aver gratificato tutto lo staff. Gravita attorno allo scenario sordido di Bowery St., nel palmarès vanta una storia con Johnny Thunders degli Heartbreakers.

Nancy non è una di quelle per cui ti gireresti in strada: si è già lasciata andare, sui suoi capelli biondi unti aleggia un’aura di autodistruzione. Però ha un Qi sopra la media e sa mille trucchetti sul sesso. È perfetta per quell’imbranato di Sid. Lui ha già alle spalle – dicono per le ingerenze di Nancy, novella Yoko Ono – il fallimento dei Sex Pistols, che lo avevano accolto quando non sapeva neppure impugnare un basso. Vicious ha un’anima fragile come un cracker: è l’incrocio fra una madre eroinomane, Anne Beverley, e una guardia di Buckingham Palace che aveva scosso la testa, nel giugno del ’77, vedendo i Pistols “omaggiare” il Giubileo d’Argento della Regina. Risalendo il Tamigi a bordo di un battello noleggiato avevano suonato la velenosa God Save the Queen, dove si profetizzava la fine del “regime fascista” degli Windsor e “nessun futuro” per il Paese. Pessimo vaticinio: Lilibeth è ancora sul trono, ai Sex Pistols restava un anno di carriera. Tutto finisce nell’estate del ’78, dopo una lite fra Rotten e Vicious. Questi, sempre più soggiogato dalle seduzioni tossiche di Nancy, parte con la fidanzata per New York.

La stanza n. 100 è in un albergo della 23ma Strada. Il Chelsea Hotel. Quando Sid e Nancy la occupano, nell’edificio è già successo di tutto. Lì dentro, 25 anni prima, è morto il poeta Dylan Thomas; Jack Keroauc vi ha scritto febbrilmente On the road e Arthur C. Clarke la sceneggiatura di 2001 Odissea nello spazio. Anche Twain, Bukowski, Arthur Miller e Tennessee Williams hanno spostato più in là la storia della letteratura e del teatro proprio nel fatiscente Eden dei bohémien. Al Chelsea Jackson Pollock ha imbrattato tele, Leonard Cohen ha rimorchiato Janis Joplin davanti a un ascensore, Bob Dylan ha conquistato la starlette di Warhol, Edie Sedgwick, e poi l’ha umiliata con la caustica Like a Rolling Stone. Lì due ragazzi illuminati, Patti Smith e Robert Mapplethorpe, si sono amati senza cerniere e Jimi Hendrix ha esplorato l’universo in una chitarra. Keith Richards sentenzia: “Vuoi fare il fattorino al Chelsea? Devi essere un pusher con regolare licenza”. Una battuta? Mica tanto, a giudicare dal viavai di spacciatori al primo piano, dove la notte del 12 ottobre 1978, accanto al “Criceto” e alla “Puttana”, spunta l’Ombra. Potrebbe essere quella del vero assassino di Nancy, oppure no. Di certo, nel buio si dà un gran daffare l’ambiguo Michael Morra, noto tra gli sballati come “Rockets Redglare”. Ti serve roba? Chiamalo e paga. Come sa bene un altro cliente vip, il pittore Jean-Michel Basquiat. Rockets è l’occasionale guardaspalle di Vicious: chi meglio di lui per procurare le 40 dosi di Dilaudid chieste da Miss Spungen? Ma anche Sid oscilla su un equilibrio instabile, stanotte: ripete di voler uccidere qualcuno con il coltello che gli ha donato la fidanzata. Intanto si imbottisce di Tuinal e stramazza sul letto. All’alba alcuni ospiti sentono il suono metallico di qualcosa che cade. E i gemiti di una donna. È proprio Sid ad avvisare la portineria. Urla sconvolto: “L’ho ammazzata ma non posso vivere senza di lei!”. Nancy giace in bagno, il petto squarciato da una lama. Quel coltello. È stato lui, Vicious, stabilisce la polizia. Lo arrestano, lo rilasceranno dietro un’onerosa cauzione. Ma Sid è sull’orlo del burrone. Una sera sfregia in faccia, con una bottiglia rotta, Todd Smith, fratello di Patti. Lo rinchiudono a Rikers Island, ma ne uscirà presto. La libertà sarà la sua condanna a morte.

A Londra il manager dei Pistols, Malcolm McLaren, fa stampare magliette con l’immagine di Sid con un coltello e la scritta: “Lei è morta, io sono vivo, sono vostro”. Un successone. Nessuno ha voglia di indagare più a fondo sull’omicidio della Spungen, malgrado un testimone avesse dichiarato di veder uscire dalla stanza 100, nelle ore cruciali, Rockets. Che nel gennaio del ’79 si sarebbe vantato, in una serata alcolica, di aver ucciso lui la ragazza: lo aveva sorpreso mentre le stava rubando denaro. Il mafioso Redglare si porterà nella tomba, nel 2007, la sua verità. Il “Criceto” era forse innocente, ma era tardi perché risalisse sulla ruota. Il 2 febbraio 1979 mamma Anne gli organizza un party a casa della nuova fidanzata, l’attrice Michelle Robinson. Anne procura e inietta l’eroina al figlio, che si sente male. Le due donne lo mettono a letto. Il “Criceto” non si sveglierà più.

Nel 1986, Sid & Nancy diventa un film diretto da Alex Cox. La stanza n. 100 è stata rinumerata come 101. Il Chelsea Hotel sarà trasformato in una residenza di lusso.