Il Green pass in mostra. App in tilt, code, pochi tamponi

A un estremo c’è Pompei, che ha offerto a tutti i visitatori non dotati di Green pass la possibilità di fare un tampone rapido gratuito in un presidio dell’Asl all’ingresso di porta Anfiteatro. Il direttore Gabriel Zuchtriegel lo rivendica con orgoglio: nella giornata di domenica, 363 visitatori ne hanno usufruito per poter accedere. Un servizio utile a tanti: alle famiglie con figli adolescenti non ancora vaccinati, a chi ha fatto il vaccino da meno di 15 giorni, ai russi e ai cinesi immunizzati con vaccini non riconosciuti dall’Ue. All’altro estremo la Biennale di Venezia, che ha deciso autonomamente di richiedere il Green pass non solo ai visitatori, come richiesto dal decreto, ma anche a tutte le centinaia di lavoratori ivi impiegati, sia dalla fondazione, sia esternalizzati. Senza prevedere un punto tamponi rapidi all’ingresso. Conseguenza: da venerdì ci sono circa 150 lavoratori che, per non restare alla porta, devono recarsi a fare un tampone rapido ogni 48 ore. Molti di loro sono vaccinati, ma per i tempi tecnici, o piccoli disguidi, non hanno ancora un pass attivo. Nel mezzo, gli oltre quattromila musei italiani, molti piccoli o piccolissimi, che da venerdì devono richiedere il certificato verde a chiunque voglia accedere alle sale.

Il primo weekend di “musei, altri luoghi della cultura e mostre” (secondo la dicitura usata nel decreto del 23 luglio) con obbligo di Green pass è scivolato via senza clamorosi intoppi, seppur con qualche prevedibile disguido: app che non leggevano bene il Qr code, persone che erano convinte di avere un pass che si rivelava non valido. Le guide turistiche di Agta, una associazione di categoria, in una nota spiegano di aver “notato soprattutto una grande confusione in chi ha fatto solo il tampone, perché tutti davano per scontato di poter accedere con il certificato rilasciato dal laboratorio, che invece non equivale alla Certificazione verde (quella specifica di 48 ore post-tampone) e non avevano idea di come scaricare il Green pass partendo dal certificato di laboratorio. Non ne parliamo degli italiani residenti e vaccinati all’estero, per i quali è uscita una specifica circolare del ministero della Sanità solo il 4 Agosto e che quasi nessuno conosce”.

La realtà dei casi è stata ampia. Al Colosseo gli operatori turistici hanno lamentato grossi ritardi: il controllo dei Qr code e dei certificati ha creato code anche di due ore, per persone che avevano già prenotato i biglietti a orari prestabiliti. Quarantacinque minuti di coda anche per entrare al Pantheon, ad accesso libero, e lungaggini in molti dei siti più visitati, con qualche eccezione (i Musei Vaticani, che però rispondono a un’altra amministrazione, registravano accessi veloci).

In assenza di dati ufficiali sui visitatori del weekend, sembra che il calo ci sia stato, ma senza i crolli che si temevano, anche se le differenze nell’utenza contano: chi lavora soprattutto con le famiglie, spesso con figli non ancora vaccinati, ha faticato di più. Dalle Gallerie degli Uffizi, dove si sono registrati numeri in linea coi weekend precedenti, fanno sapere che le proteste sono state poche, pochi quelli rimasti fuori, segno che chi non era dotato di certificato probabilmente aveva già desistito. Spesso, qui come altrove, ai visitatori senza Green pass sono state segnalate le farmacie più vicine dove effettuare il tampone rapido: ma ciò sta già mettendo sotto stress il sistema. E per chi non è potuto entrare a causa delle nuove norme, nel caso degli Uffizi il concessionario ha concesso un rimborso, in voucher, a chi aveva prenotato la visita prima del 22 giugno. Purtroppo però la normativa nazionale non prevede nulla di simile, e in tanti rischiano di trovarsi senza rimborso.

Lontano dai musei meno noti e ricchi, invece, il controllo è spesso stato meno rigido: l’attrezzatura necessaria a controllare i Qr code non era arrivata, o il personale non era formato per utilizzarla. Per entrare bastava un documento, con buona pace dei certificati falsi o dei pass ancora non attivi. Anche le norme, vaghe, sono applicate in modo diverso a seconda dei luoghi, lamentano le guide. Per esempio per le chiese, dove il Green pass non è richiesto, in alcuni casi, come quello di San Petronio a Bologna “chiedono il pass ai visitatori che fanno parte di gruppi con guida”, ma non se entrano da soli.

Tanti piccoli vuoti che si andranno a chiarire nelle prossime settimane, rischiando però di creare un ulteriore varco tra i musei e il pubblico, o meglio i non-pubblici, quelli che non li frequentano ancora: nel 2019 erano il 68 per cento degli italiani. Tanti hanno attaccato sui social i musei che hanno rivendicato con orgoglio e ironia la richiesta del Green pass all’ingresso: “Non ci vedremo più”. Ma i musei, come servizi al pubblico e alla cittadinanza, hanno il dovere di non perderli di vista. Anche, e soprattutto, negli anni in cui il turismo straniero non c’è più: a Pompei domenica i visitatori erano 7 mila, ma nell’agosto del 2019 erano in media 15 mila al giorno, con picchi di oltre 30 mila nei weekend.

Augusta, l’ultima battaglia del “prete verde” don Palmiro

“Uscirò libero da questa parrocchia, che fa parte di una chiesa, in cui l’ipocrisia sembra prevalere sempre di più”. Il “romanzo ecclesiastico”, come ieri lo ha definito il suo protagonista su Facebook, si è concluso. Almeno per ora. Padre Palmiro Prisutto ha salutato con un post. Dopo 8 anni di battaglie contro l’inquinamento prodotto dal più grande polo petrolchimico d’Europa, il “prete verde” di Augusta ha perso quella contro l’arcidiocesi che lo ha rimosso dal suo incarico per la “mancanza di comunione tra i fedeli e il clero”. È la decisione dell’arcivescovo di Siracusa Francesco Lomanto che nelle scorse settimane ne aveva chiesto le dimissioni, respinte per due volte dallo stesso sacerdote.

“Quando il progresso mira solo al profitto diventa un’immensa macchina di morte”. Prisutto ama citare Raoul Follerau, scrittore che raccontò la vita e la morte dei malati di lebbra, per raccontare la sua terra, il “quadrilatero della morte” – 4 raffinerie, una fabbrica di cloro a celle di mercurio e un’altra di magnesio, un inceneritore, un cementificio, 3 centrali termoelettriche e un depuratore – che si estende tra i comuni di Augusta, Priolo Gargallo e Melilli fino alle porte di Siracusa, famosa “per il numero impressionante di tumori maligni che colpiscono soprattutto gli uomini al colon retto e le donne ai polmoni”, si legge nel libro Preti verdi – L’Italia dei veleni e i sacerdoti-simbolo della battaglia ambientalista, scritto da Mario Lancisi (Edizioni Terra Santa, 2021). Fin dagli anni 90, dopo l’esplosione dell’Icam di Priolo, padre Palmiro ha fatto battaglie per la tutela della salute, del lavoro e dell’ambiente. Più volte ha chiesto l’intervento delle istituzioni, con lettere indirizzate ai diversi capi di Stato, premier e politici perché intervenissero sulle mancate bonifiche e sull’inquinamento.

Venerdì è finito tutto. Quel giorno all’arcidiocesi aretusea c’è stato l’ultimo incontro con l’arcivescovo. La curia gli contesta gli articoli canonici 1740 e 1741, perché avrebbe “arrecato grave danno o turbamento alla comunione ecclesiale”, “la perdita della buona considerazione da parte di parrocchiani”, “grave negligenza o violazione dei doveri parrocchiali”, e la “cattiva amministrazione delle cose temporali con grave danno della Chiesa”. Per questo padre Palmiro dovrà lasciare la guida della chiesa madre. “Ho capito subito le intenzioni di Lomanto – spiega Prisutto –, si è infilato in un vicolo cieco, da cui può uscire solo rimuovendomi”.

Dall’arcidiocesi preferiscono non commentare, mentre lui ieri su Facebook si sfogava con amarezza: “Una diocesi, una serie di gravi scandali, una città, una parrocchia, sette confraternite, un parroco, due vescovi, un vicario, una curia fatta di preti senz’anima, un prete che aspira a ‘fare carriera’, un gruppuscolo di persone che cerca solo la propria visibilità sfruttando la chiesa, quattro laici diffamatori che tengono in ostaggio il clero di una città, un clero senza coraggio, una chiesa incapace di difendere la Verità, quale futuro avrà una Diocesi così?”. Sulla rimozione, infatti, non peserebbero denunce e battaglie ambientaliste, ma le liti tra il prete e alcuni esponenti delle confraternite cittadine, sfociate in una causa per diffamazione presentata dal sacerdote.

Impossibile cavargli qualcosa di più: “Che ci possa essere una pressione dell’area industriale sulla mia rimozione nessuno lo può escludere, anche perché all’interno delle confraternite ci sono elementi legati al petrolchimico – spiega padre Palmiro –. D’altra parte la mia attività sui temi ambientali è notoria, ma esula dal mio impegno pastorale. Faccio solo la messa del 28 e nella mia parrocchia viene sia chi si lamenta dell’inquinamento, sia chi lo produce”. Parla di una messa speciale, don Palmiro: ogni 28 del mese, durante la funzione legge i nomi dei morti di tumore: “Musumeci Rosaria, anni 5, tumore ai polmoni. Giudice Emma, 12 anni, leucemia. Leoluca Graziano, 27 anni, tumore al colon…”, e così via. La lista ormai supera gli 800 nomi.

Alla richiesta di dimissioni, molti fedeli hanno manifestato in piazza ad Augusta e raccolto le firme per sostenerlo. “L’arcivescovo ha avuto una risposta della città – dice ora il sacerdote –, perché in poco meno di una settimana sono state raccolte più di 3 mila firme, ma l’ha interpretata a suo modo, dicendo che 30 mila persone non hanno firmato, come se avessi solo una minoranza al seguito”.

Una frattura che si era già palesata tra il 2015 e 2016, quando l’allora arcivescovo Salvatore Pappalardo aveva tentato di rimuovere il parroco, per poi ripensarci. “Che motivo ha l’arcivescovo Lomanto di riprendere questa vicenda, già chiusa con Pappalardo, facendo riferimento a eventi passati per agire nel presente? – aggiunge Prisutto – Non c’è una contestazione precisa, ma un elenco di possibili violazioni. Mi è stato detto di lasciare per il bene del popolo di Dio, quale Popolo di Dio? Bisognerebbe capire se si parla dei quattro confrati o della città”.

Andrew, la peggior difesa è il silenzio

Londra

Silenzio, ancora silenzio. Il principe Andrew, il terzogenito 61enne della Regina Elisabetta, ha per ora risposto con il silenzio all’annuncio della causa che gli ha intentato Virginia Roberts Giuffre. I legali della donna, 38 anni, hanno depositato lunedì alla Corte federale di Manhattan una denuncia contro il principe per “violenza sessuale e percosse”, che le avrebbero provocato danni gravi e duraturi. Gli stupri, facilitati dal finanziere miliardario Jeffrey Epstein e dall’ereditiera britannica Ghislaine Maxwell – per quest’ultima, che si trova in carcere, il processo è slittato al prossimo novembre – sarebbero avvenuti in tre diverse occasioni fra il 2001 e il 2002, quando la Giuffre aveva solo 17 anni, sempre in proprietà che erano nella disponibilità del miliardario americano, che è poi morto in carcere: la versione ufficiale ha stabilito che si è trattato di un suicidio. “Venti anni fa la ricchezza, il potere, la posizione e le sue conoscenze hanno consentito al principe Andrew di abusare di una bambina spaventata e vulnerabile” si legge nella denuncia. Causa annunciata nei giorni scorsi, in base a una legge dello stato di New York che ha esteso la prescrizione per i reati sessuali, e depositata prima della scadenza del 14 agosto, termine ultimo per ottenere la collaborazione di Andrew. “Ma non volevamo aspettare l’ultimo minuto” ha spiegato uno dei legali di Virginia. “Voglio che il principe paghi per quello che mi ha fatto. I ricchi e potenti non sono esenti dalle conseguenze delle loro azioni. Spero che altre vittime vedano che è possibile vincere il silenzio e la paura, riprendersi la propria vita e chiedere giustizia” ha chiarito la Giuffre ad ABC News. Andrew aveva promesso di collaborare ma, secondo l’ex procuratore capo dello Stato di New York Geoffrey S. Berman, avrebbe ignorato ogni richiesta degli investigatori almeno fino al marzo 2020. Più volte l’Fbi lo aveva invitato ad andare negli Stati Uniti per fornire una sua versione dei fatti. Opposta la versione degli avvocati britannici: Andrew avrebbe “offerto assistenza in almeno tre occasioni”. La versione ufficiale, rilanciata da Buckingham Palace, è che nulla di quanto descritto dalla Giuffre sia mai accaduto, così come lo stesso principe Andrew disse durante una intervista alla Bbc: negò di aver mai conosciuto Virginia Giuffre nonostante vi sia una foto, pubblicata più volte dai media di tutto il mondo, in cui Andrew cinge con un braccio la vita della ragazza. Accanto a loro, sorridente, Ghislaine Maxwell. Allora di certo gli organizzatori di quel giro di minorenni buttate in pasto a miliardari ed esponenti del jet set non immaginavano che quella foto sarebbe diventata una prova in tribunale.

Cuomo, l’ultimo show in Tv. “Accuse ingiuste, ma lascio”

Il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo si è dimesso: l’inchiesta avviata per accuse di molestie sessuali nei suoi confronti e la minaccia di impeachment molto concreta, dopo che tutta la leadership democratica, compreso il presidente Joe Biden, lo ha scaricato, lo hanno dunque indotto a lasciare l’incarico che teneva da dieci anni: era stato eletto nel 2010 e rieletto due volte. Ad accusare il governatore, le cui dimissioni saranno operative fra due settimane, sono 11 donne, fra cui alcune sue dipendenti, che lamentano commenti e comportamenti inappropriati. Il suo posto sarà preso dalla sua vice, Kathy Hochul, un’avvocatessa di 62 anni, che sarà la prima governatrice donna dello Stato di New York.

Nella primavera del 2020, appena 16 mesi or sono, quando la candidatura di Biden suscitava più dubbi che entusiasmi, molti pensavano che l’anti Donald Trump democratico potesse essere proprio quel governatore italo-americano dalla faccia spigolosa, capace di fare molto meglio del presidente nella lotta alla pandemia e di tenergli mediaticamente testa nei loro briefing giornalieri. Ora invece la carriera di Cuomo, 64 anni, ministro nell’Amministrazione Obama, pare al capolinea, per una vicenda cresciuta nel solco di #Metoo, ma dove c’è pure l’eco delle antipatie suscitate sia dai suoi modi spicci sia dalle polemiche sulle vittime da Covid nella Grande Mela sottostimate, specie nelle case di riposo per anziani. Si direbbe che una sorta di maledizione pesa sui Cuomo: quando s’avvicinano alla Casa Bianca, inizia il loro declino. Accadde pure a Mario, il padre di Andrew, anch’egli governatore dello Stato di New York – a tre riprese, dal 1983 al 1995 – candidato ‘in pectore’ alla nomination democratica nel 1988 e nel 1992, ma mai sceso in lizza (si ipotizzò che nel suo armadio potessero esserci scheletri tipici della sua generazione di italo-americani). Andrew Cuomo ha annunciato le dimissioni in tv in diretta: “Amo New York e amo i newyorchesi – ha detto – e non farei nulla per creare loro problemi. Credo che a questo punto, date le circostanze, la cosa migliore sia fare un passo indietro e lasciare che il governo torni a governare”. Trattenendo a stento le lacrime, il governatore non ha ammesso nessuna responsabilità: “Mi scuso profondamente se ho offeso qualcuno, se sono stato troppo familiare con le persone, uomini e donne, ma non ho mai superato il limite con nessuno”. E ha tacciato di faziosità i suoi accusatori: “Attenzione!, la faziosità può colpire chiunque … Le accuse hanno motivazioni politiche: sono certo che i newyorchesi capiranno”. La legale di Cuomo, Rita Glavin, continua a puntare il dito sulle donne che lo accusano di molestie, contestando punto per punto le loro versioni, che “non sono credibili” perché “il governatore non ha mai toccato in modo inappropriato nessuno”. La Glavin chiama in causa pure “la frenesia dei media”, ma ce l’ha soprattutto con la procuratrice generale Letitia James, il cui rapporto “contiene errori e omette elementi chiave”: “Gli inquirenti hanno agito come se fossero pubblica accusa, giudici e giuria”.

Le sfuriate della legale di Cuomo rischiano di peggiorare una situazione giuridica compromessa, senza più incidere su quella politica. La pietra tombale ce la mette la Casa Bianca: “È una vicenda di donne coraggiose che hanno raccontato la loro storia”, dice la portavoce di Biden, Jen Psaki. Tanto più che, come spesso accade quando la nave affonda, saltano fuori vecchi episodi, come quello narrato da Ronan Farrow sul New Yorker. Nel 2014, Cuomo chiamò la Casa Bianca, cercando sponde contro il procuratore di New York Preet Bharara che indagava su di lui: potrebbe essere un abuso di potere, roba da impeachment. La cosa preoccupò la consigliera presidenziale Valerie Jarrett, che riferì la telefonata al Dipartimento della Giustizia. Non se ne seppe e non se ne fece nulla, ma la storia esce ora, che il governatore è un uomo politicamente morto.

I mercenari ci sono ancora, Haftar pure: è la Libia, bellezza

Ancora una volta Russia e Turchia, su fronti opposti, continuano a sabotare gli sforzi dell’Onu e dell’Unione europea per stabilizzare la Libia. Nonostante l’adesione alla richiesta di ritirare i loro mercenari, avanzata al termine della seconda Conferenza di Berlino dello scorso giugno, sulla base dei precedenti negoziati di Ginevra e quindi di Tunisi, per ora i mercenari inviati da Mosca e Ankara continuano a scontrarsi sulla sabbia libica al fianco dei due eserciti rivali: i turchi e i siriani con quello di Tripoli, i russi della compagnia privata Wagner con l’Esercito nazionale libico del rais della Cirenaica. Proprio il generale Khalifa Haftar, basato a Bengasi, da dove decide con il figlio Saddam gli obiettivi dell’Esercito nazionale libico (Lna), ieri è tornato a parlare in occasione di una parata per l’81mo anniversario della costituzione dell’esercito libico.

L’uomo forte della macro regione orientale della Libia (nota per i suoi vasti giacimenti petroliferi e di gas) ha affermato che l’esercito libico “non è sottoposto ad alcuna autorità” e che “non soccomberà a ‘inganni’ in nome di una ‘vita civile’”. In un discorso di cui dà conto il The Libya Observer, Haftar ha affermato che le sue forze continueranno a combattere i terroristi e di voler collaborare con qualsiasi partito che voglia ottenere giustizia e pace, dicendo che non riconoscerà “accordi di umiltà” e che il suo esercito ha spianato la strada alla realizzazione della road map che dovrà traghettare il Paese verso le elezioni calendarizzate per il prossimo 24 dicembre. “Senza il nostro esercito non potranno esserci né un governo di unità né elezioni”. Haftar, che nei mesi scorsi aveva dato il suo sostegno al governo ad interim di unità nazionale, ha anche sottolineato che le sue forze “non sono mai state uno strumento di aggressione od oppressione contro i libici”. Si tratta di una delle tante menzogne di Haftar, che dal 2014, dopo aver fatto scoppiare la guerra civile, ha ordinato gli omicidi e la carcerazione di centinaia di oppositori. L’ufficio stampa dell’operazione “Vulcano di rabbia” lanciata da Tripoli intanto ha diramato la notizia che la Brigata 604 di Haftar è stata posizionata in un checkpoint a ovest di Sirte, espellendo le forze del ministero degli Interni (del governo ad interim riconosciuto dall’Onu, ndr) dopo aver confiscato i loro mezzi militari. Nella nota si legge che un tale atto da parte della Brigata è contrario ai termini dell’accordo di cessate il fuoco, firmato dalla Commissione militare congiunta 5+5 a Ginevra nell’ottobre 2020 e anche ai termini di riapertura delle strade costiere. Sirte è la linea rossa essendo la città spartiacque tra Tripolitania e Cirenaica.

Un’altra notizia conferma, peraltro, come i termini degli accordi vengano puntualmente disattesi dai due eserciti rivali. Il sito web siriano Suwayda 24 ha rivelato che tre combattenti siriani e un russo del gruppo Wagner, compagnia di sicurezza privata vicina al Cremlino, sono stati uccisi dall’esplosione di una mina antiuomo. Il sito ha riferito dalla città di As Suwayda, in Siria, che uno degli uccisi era il venticinquenne Daniel Barka. Una fonte vicina al mercenario russo ucciso ha detto che si era recato in Libia due mesi fa attraverso la base siriana di Hmeimim, controllata dalla Russia, dopo aver firmato un contratto con una affiliata locale del Gruppo Wagner, Al-Sayad. “Daniel è stato mandato poi a Jufra. Lui e altri due combattenti siriani, Hama e Homs, sono morti mentre altri combattenti sono stati feriti e portati in ospedale”. La fonte ha quindi detto ad As Suwayda 24 che Daniel è il secondo uomo proveniente da questa città siriana a essere rimasto ucciso dall’inizio del reclutamento russo di siriani per combattere in Libia nel 2020. Ma era stato il vice rappresentante permanente russo alle Nazioni Unite, Dmitry Polonsky, ad affermare solo 10 giorni fa che Russia e Turchia concordano pienamente sulla necessità che tutte le forze e i mercenari stranieri si ritirino dalla Libia. Anche la Turchia a parole afferma di voler ritirare i proprio mercenari, la maggior parte siriani. In realtà per il presidente turco Recep Tayyip Erdogan mantenere i propri miliziani sul terreno libico è fondamentale per rimanere l’attore principale, tanto che il premier Abdul Hamid Dbeibah ha sottolineato la necessità di rimuovere gli ostacoli che bloccano l’operazione delle società turche in Libia, in particolare lettere di garanzia e debiti accumulati. I due leader, appartenenti alla Fratellanza Musulmana hanno concordato una serie di misure. La ricostruzione della Libia devastata la vuole fare Erdogan, e nessun altro. Roma rifletta.

Stampubblica e le “Folli” manovre sul Quirinale

La dietrologia è un “male oscuro” del giornalismo italiano. E in particolare di quei notisti politici che hanno impiegato la loro vita professionale negli ambulacri del Parlamento o delle segreterie di partito. Il caso di Stefano Folli, assurto dalla Voce repubblicana di Giovanni Spadolini al Corriere della Sera del medesimo Spadolini, approdato poi in età di pensione a Repubblica e oggi in forza a “Stampubblica”, è forse quello più sintomatico ed esemplare. Nel suo Il punto di ieri, l’immarcescibile notista ha registrato l’articolo a mia firma pubblicato sabato scorso sotto il titolo “Tutti gli errori di Mattarella” e l’intervista del politologo Piero Ignazi (“Tempesta d’autunno: la scialuppa di Draghi va verso il Quirinale”), apparsi entrambi sul Fatto Quotidiano, per rivelare “Chi manovra contro Mattarella”. La tesi è che dietro tutto questo ci sia la figura di Giuseppe Conte, neo-presidente del M5S, ansioso di andare a votare “per evitare lo stillicidio di un altro anno a bagnomaria”. E il commento, se così si può definire, recita: “Colpisce che il giornale ufficioso dell’ex premier abbia appena pubblicato una pagina sugli errori di Mattarella”. Detto da uno che ha lavorato nel quotidiano ufficiale del Pri e ora lavora in quello grand’ufficiale della Fiat, è quasi un complimento. Le manovre politiche per il Colle, come si sa, ci sono sempre state e sarà così anche questa volta. A noi, non risulta finora che Conte le stia orchestrando. Certamente, non attraverso questo giornale. Prova ne sia che degli errori di Mattarella il sottoscritto parlò già il 5 maggio 2018, in un articolo intitolato “Il Quirinale, i partiti e l’impossibile esecutivo-enigma”. Quanto al professor Ignazi, ex editorialista del giornale su cui Folli pubblica le sue follie, c’è francamente da dubitare che spenda la propria autorevolezza accademica per partecipare alle manovre per il Quirinale.

Mail box

 

I limiti del nostro sistema sanitario

Sappiamo che se si deve accedere a una visita o esame, nel nostro sistema sanitario, ci sono tempi di attesa di mesi e mesi. Eppure nelle medesime strutture pubbliche o private, negli stessi orari, con gli stessi medici e attrezzature, si accede a uguali prestazioni, ma a pagamento. Come si spiegano, quindi, questi tempi di attesa? Nei siti delle varie Asst sono indicati brevi tempi di attesa, ma non sono reali!

Ho chiesto spiegazioni ma, dopo due mesi, hanno risposto: “Ci scusiamo per il tempo trascorso sperando che nel frattempo lei abbia risolto il problema”, senza rispondere alla domanda. A quel punto ho inviato una missiva a Speranza e altri due parlamentari: zero risposte. Il dlgs 124/98, art. 3, comma 13 prevede che il cittadino in certi casi (prenotazioni oltre i 30 giorni per visite specialistiche e oltre 60 per esami strumentali), possa chiedere la visita pagando in caso, solo il ticket. Gli ospedali non applicano la norma: è un grosso problema per chi ha scarse risorse. Il governo dovrebbe esprimersi su questo andazzo o no?

Claudio Giordani

 

Ponte sullo Stretto: Montanari ha ragione

Gentile redazione, non so se queste righe saranno riportate, ma con vero piacere voglio ringraziare il professore Tomaso Montanari sempre puntuale e pungente. Mi riferisco all’articolo “La ministra Teresa Bellanova chiede la mia testa”. Condivido in pieno le argomentazioni sulla costruzione del ponte sullo Stretto, essendo un mascherato progresso infrastrutturale lodato dal sistema mafioso. È evidente che quando si mette il dito nella piaga c’è sempre qualcuno che si indispettisce, perché vuole mantenere lo status quo e una certa ideologia per piantare la propria bandierina. Ma se una persona come lo stimatissimo professore non può dire la sua, allora, siamo a un passo dal regime.

Roberto Mascherini

 

Leggere Massimo Fini è un grande beneficio

Da giorni acquisto il Fatto in cerca di notizie da Massimo Fini, spero sia solo in vacanza. Mi manca. Credo farebbe bene a molti leggerlo di più. Grazie.

Monica Gheduzzi

 

Massimo è in ferie, ma ogni tanto anche lì gli prudono le mani.

M.Trav.

 

Immigrazione, grazie a Colombo per la sintesi

Gentile redazione, voglio ringraziare quel grande giornalista che è Furio Colombo per l’articolo sull’immigrazione pubblicato sul Fatto dell’8 agosto. Finalmente una sintesi lucida e oggettiva di quello che è successo in Italia negli ultimi trent’anni in materia di immigrazione. Fa venire tanta tristezza se si pensa che negli anni 80 eravamo partiti dall’Italia, con le nostre piccole navi per soccorrere i cosiddetti Boat people che fuggivano dal Vietnam dopo la ritirata degli Usa e ora siamo finiti in questo miserabile modo. Grazie a Furio Colombo e a tutti voi.

Roberto Napoletani

 

Auditorium della Laga: i romani usino la Salaria

Leggo il Fatto da alcuni anni e ricordo questa bellissima iniziativa che è arrivata a compimento con l’inaugurazione dell’Auditorium della Laga. Allora scrissi nel dicembre 2019, poco prima di Natale, che Amatrice e i comuni del centro Italia attraversati dalla Salaria (SS4), oltre che della ricostruzione, finalmente avviata con un certo piglio, hanno bisogno soprattutto di un collegamento a scorrimento veloce, che colleghi questi territori nella direttrice più corta Tirreno e Adriatico. È stato nominato un commissario per questa opera strategica per tornare a far rivivere le comunità di Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto e i comuni che vivono su questo antico tracciato (forse per far utilizzare la A24 deserta e costosa). Plauso al Fatto, a noi lettori e agli altri con la raccomandazione che la Salaria possa essere finalmente “moderna” e utile per far connettere Amatrice e gli altri comuni e non far rimanere l’Auditorium una “cattedrale nel deserto”.

Stefano Marozzi

 

Nessuno parla più dei centri commerciali

E Green pass sia… ma non ho più sentito nominare gli affollatissimi centri commerciali: ingresso libero?

Donatella Berton

 

Sulla scuola la politica fa solo propaganda

Gentile redazione, sono uno studente napoletano che quest’anno affronterà la maturità. Alla luce delle ultime scelte e avvenimenti relativi alla scuola, condivido delle riflessioni personali in vista di un anno che si prospetta complicato. La sensazione è che i nostri politici siano estranei alla realtà scolastica – ma d’altro canto il ministro è un universitario… – e non percepiscano – o forse non vogliono farlo – i gravi e numerosi problemi che affliggono la scuola, ma agiscano per mero interesse di propaganda. Sono un lettore assiduo del Fatto perché lo reputo un giornale critico e oggettivo, per queste ragioni ho deciso di scrivervi. Spero che possiate dare risalto a queste parole: è importante in questo momento far sentire la voce degli studenti.

Matteo Celentano

“La città è di nuovo nel caos: pochi servizi e trasporti, troppi turisti”

Gentile redazione, Venezia ha sempre avuto il trasporto pubblico più preciso d’Italia con vaporetti ogni 10 minuti o a orari ben definiti: i veneziani ci rimettevano l’orologio. Con la pandemia e l’assenza di turisti, i trasporti sono stati ridotti e in questa stagione estiva, sia per il pendolarismo verso le spiagge sia per l’aumento dei turisti, la città è nel caos più totale. Non sono stati assunti i soliti stagionali né avviate le consuete corse estive con la scusa che non ci sono fondi. In compenso vengono fatti contratti a guardie giurate armate, presso gli imbarcaderi, per sedare le risse causate da assembramenti e attese estenuanti e contratti con ditte di trasporto privato del tutto inadeguate. L’altro giorno sono stata fermata col carrello della spesa con la scusa che le mega valigie dei turisti che pagano 7,50 euro a corsa sono più importanti delle esigenze dei residenti che pagano un “misero” euro e 50. Dopo il Mose, questi sono i prodromi del progetto regionale “Venezia capitale mondiale della sostenibilità” (per le tasche di qualcuno). Non vi stupite se la comunità veneziana del centro storico è in via di estinzione e la città continua a essere solo un parco giochi logorato dallo sfruttamento della bellezza, sua unica risorsa.

Daniela Costantini

 

Gentile signora Costantini, i vaporetti della municipalizzata Actv (che naviga in cattive acque dopo il crollo dei biglietti causa lockdown) si diradano e sono, anche a tarda ora, sempre più pieni (per non parlare dei frequenti, e purtroppo sacrosanti, scioperi più o meno bianchi: alle aggressioni ai marinai si dà una risposta securitaria, mentre la Regione se ne lava le mani). Intanto le Grandi navi (dopo lo scandaloso foraggiamento delle compagnie affinché attracchino per qualche mese a Ravenna o Trieste) verranno reimmesse in Laguna scavando e stravolgendo canali e approntando banchine sui terreni di Marghera (già inani campi da bonificare, ora d’un tratto miniere d’oro: a chi apparterranno…?). Il Mose venuto a miracol mostrare si scopre arrugginito, costoso, ingestibile; ditte e ingegneri se ne vanno. Ma l’Unesco ci promuove, il governo tutela la Laguna, il sindaco veglia sul benessere collettivo e Zaia candida la città-simbolo della monocoltura turistica a “capitale mondiale della sostenibilità”. A Venezia arriva sempre un bastimento carico di balle.

Filippomaria Pontani

Breve apologo sulla “deontologia” (e l’agente Betulla)

Siamo stati recentemente raggiunti, insieme a molti altri colleghi, da un allarmante avviso dell’Ordine dei giornalisti, così ufficiale da richiedere la Pec. La comunicazione contiene una severa censura per non aver assolto all’obbligo di frequentare i corsi organizzati dall’ordine stesso per assicurare la “formazione continua” imposta anche ai giornalisti da una legge del 2011. Dirà il lettore: ma come, voi che al Fatto siete così attenti al rispetto delle regole, vi fate prendere in castagna? In teoria è un ragionamento giusto, dura lex sed lex. Per essere sinceri, noi contestiamo l’obbligo in sé e soprattutto ci rifiutiamo di perdere tempo prezioso occupandoci di sciocchezze (“la gestione della comunicazione di crisi attraverso i social network” “quali sfide pongono alla professione giornalistica le piattaforme”) o di cose serie insegnate da sconosciuti con discutibili titoli. Sarebbe poi interessante capire come e quanto abbiano assolto l’obbligo della formazione le grandi firme, i direttori dei giornali e via dicendo. Resta il fatto che qui ci siamo costituiti: siamo inadempienti e inscusabili (perché le leggi si rispettano anche quando non ci convincono).

Detto ciò la nostra intenzione sarebbe quella di farci espellere dall’Ordine dei giornalisti. O quanto meno di litigarci.

Perché? Per esempio perché quando il presidente Napolitano ci attaccò con una irrituale nota del Quirinale che faceva nome e cognome di chi scrive (una cosa mai vista) l’Ordine si guardò bene dal dire una parola di difesa: più forte è il potere da cui difendersi, più scarso è il coraggio di certi “colleghi”. Oppure perché è lo stesso ordine (proprio lo stesso, quello della Lombardia) che nel 2014 ha riammesso (all’unanimità!) Renato Farina nell’albo dei giornalisti professionisti. Quel Renato Farina che ha appena dovuto dimettersi (grazie a questo disgraziato giornale) da consulente giuridico (siamo un Paese che non ha paura del ridicolo) del ministro Brunetta. L’ex vicedirettore di Libero aveva subito un procedimento disciplinare dopo che lui stesso aveva ammesso la collaborazione con il Sismi e il suo coinvolgimento nel sequestro dell’imam egiziano Abu Omar. L’agente Betulla aveva pure patteggiato sei mesi di reclusione, poi convertiti in una pena pecuniaria; era stato sospeso dall’Ordine per 12 mesi, il Procuratore generale di Milano aveva impugnato la decisione e ne aveva chiesto la radiazione. Che non c’è mai stata perché Farina a quel punto si era cancellato volontariamente dall’albo, dove poi è stato riaccolto a braccia aperte (e comunque ha sempre scritto, in qualità di opinionista, sui quotidiani). Dimettendosi da consigliere di Brunetta ha tenuto a sottolineare che il suo gesto “non è affatto un riconoscimento alle ragioni dei cultori del ‘fine processo mai’ che da quindici anni mi inseguono per negarmi il diritto ad ogni espressione pubblica, dopo che ho pagato quanto i giudici hanno stabilito”.

Ma la questione non è penale. La questione è di opportunità, la stessa che avrebbe dovuto impedire la riammissione all’ordine di un uomo che ha ammesso di avere spacciato false notizie per fini altri rispetto a quello di informare i cittadini. Poi si fa, a quotidiani unificati, la battaglia contro le fake news, alla faccia della credibilità! Forse l’agente Betulla ha compilato il questionario deontologico (vale 15 crediti) della formazione continua (o forse ha addirittura tenuto un corso, chissà). Dunque non gli sarà arrivata nessuna “censura”. Ed è esattamente per questo motivo che continueremo a essere inadempienti.

 

Il governo gioca a scaricabarile coi vaccini: “La colpa è dei cittadini”

Tomo tomo, cacchio cacchio, come direbbe Totò, il senso di realtà si insinua nelle maglie della propaganda ed erode un po’ alcune delle certezze acquisite che si direbbero più o meno obbligatorie. Le ultime giravolte sul Green pass, per dirne una, rivelano alcuni problemi, detti tra le righe e furbescamente attribuiti – per comodità e per creare un nemico – solo alle destre più stupide. È un buon trucco, vecchio come il mondo: se sei critico sul Green pass e avanzi qualche dubbio sulla gestione della pandemia, eccoti subito arruolato in CasaPound, o con Salvini, e giù giù nei bassifondi della politica. “Ecco, voti come i fascisti!”, ci dissero ai tempi del referendum renzista. Il meccanismo è identico.

Ma sia: i gestori di locali non dovranno chiedere i documenti, gli basterà vedere il Green pass (anche se è della zia). Lo ha detto chiaro, chiarissimo, il ministro dell’Interno, smentendo clamorosamente le istruzioni del governo. Non solo. Lamorgese ha detto anche che la polizia non passerà le sue giornate a controllare le pizzerie, perché – si capisce – ha altro da fare. Ci saranno “controlli a campione”, cioè degli agenti potranno entrare in un ristorante a caso e controllare i documenti degli avventori. Dunque si introduce un obbligo (che presenta oggettivamente qualche scricchiolio costituzionale) ma lo si lascia di fatto alla responsabilità del singolo. Se funzionerà, bene, altrimenti si giocherà il gioco solito di colpevolizzare il cittadino, una cosa che funziona perfettamente da quasi due anni a questa parte.

Vedremo con il tempo se il Green pass sarà la nuova app Immuni, cioè un fallimento, oppure se porterà qualche vantaggio. Nel frattempo, mettere in discussione la gestione dell’emergenza pandemica in Italia sembra ancora un tabù, anche se le circonvoluzioni, gli arabeschi e i comma 22 si sprecano. Basta pensare all’odissea di AstraZeneca, prima ai vecchi, poi a tutti, poi a tutti ma non alle donne incinte, poi a quelli coi baffi, poi no, solo ai biondi, poi di nuovo solo agli over 60. Insomma un circo, ma dirlo è sacrilegio e reato di leso-Draghi.

L’ultima gag è quella relativa agli studenti. Il generale Figliuolo si affanna a dire che il prossimo obiettivo sono i giovanissimi, cioè gente che – statistiche alla mano – non ha motivi di temere il virus, mentre rallenta la “caccia” agli ultracinquantenni – soggetti a rischio – che non si sono vaccinati. Riassumo: bisogna vaccinare i giovani per (motivo ossessivamente ripetuto) proteggere gli anziani, quattro milioni e mezzo dei quali non si sono vaccinati, e non si riesce a convincerli. Sui giornali, accanto alle prediche, si susseguono testimonianze e interviste, quasi tutte sul tenore “Mi vaccino perché non voglio infettare il nonno”, e nessuno che chieda mai perché il nonno – che è, lui sì, a rischio – non sia ancora vaccinato. Ancora una volta, insomma, si ribalta sulle persone la responsabilità e la soluzione del problema, mentre basterebbe una legge per imporre l’obbligo vaccinale per fasce d’età – subito tutti gli over 50, per esempio. Una responsabilità che il governo non vuole o non può prendersi, e così lo scaricabarile finisce sui cittadini: è colpa loro, punto e basta. In più, limitazioni e divieti nuovi non sembrano sostituire limitazioni e divieti vecchi. Esempio: se salgo su un treno dove è obbligatorio il Green pass devo supporre che quelli che stanno a bordo lo posseggano tutti, come me. Posso togliere la mascherina? No, eh? Che stranezza, però!