Intrighi & conflitti: l’anno nero delle toghe

Ci ha provato Silvio Berlusconi per un paio di decenni a indebolire la magistratura, per ridurre il controllo di legalità sulla politica. Con scarsi risultati. I danni peggiori, la magistratura se li sta procurando da sola. La crisi è esplosa con il caso Palamara. Indagato per corruzione e dunque intercettato, Luca Palamara, ex membro del Consiglio superiore della magistratura, ha svelato nelle sue conversazioni un sistema di accordi e di potere per la spartizione delle nomine negli uffici giudiziari. Nell’indagine di Perugia è finito anche l’ ex pm romano Stefano Fava ora imputato per rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio. Inizia così l’annus horribilis, con Palamara che alla fine viene radiato. Poi da Milano si innesca un nuovo scandalo. I verbali segreti in cui l’avvocato Piero Amara rivelava l’esistenza di una (presunta) “loggia Ungheria”, sono consegnati, in maniera informale, dal pm Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo: legittima tutela di fronte a un’inerzia investigativa della Procura, spiegano Storari e Davigo; rivelazione di segreto che ha impedito la possibilità d’indagare sulla loggia, ribatte il procuratore Francesco Greco. Alla fine interviene la Procura di Brescia, che indaga Storari e Davigo per rivelazione di segreto, Greco, per ritardata iscrizione, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro per omissione d’atti d’ufficio. Il conflitto continua…

 

Luca Palamara Ex num.1 Anm oggi radiato

È stato il presidente dell’Anm ai tempi duri di Berlusconi. Da pm romano è stato eletto consigliere del Csm e tra il 2014 e maggio del 2019 è stato il re delle nomine, le chat con toghe questuanti cantano. Dal 4 agosto, però, Luca Palamara non è più neppure un “semplice” pm. È stato definitivamente radiato dalla magistratura perché le Sezioni Unite civili della Cassazione hanno respinto il suo ricorso contro la sentenza del Csm. Ma i guai giudiziari non sono finiti. A luglio, è stato rinviato a giudizio a Perugia con l’accusa di corruzione, per “l’esercizio delle sue funzioni e poteri” di consigliere Csm che ha favorito l’imprenditore Fabrizio Centofanti, il quale ha patteggiato. Nella sua nuova vita, Palamara aspira a diventare deputato: corre, con un suo simbolo, alle suppletive per la Camera, a Roma, collegio Primavalle. È stato espulso dalla magistratura per lo scandalo nomine, che ha avuto il suo epilogo nell’ormai famoso dopo cena per la nomina del procuratore di Roma: hotel Champagne, 9 maggio 2019, l’ex pm incontra i deputati Cosimo Ferri, toga in aspettativa, Luca Lotti, imputato a Roma per Consip e 5 ex consiglieri del Csm, ora a rischio sospensione disciplinare dalle funzioni. Il Pg della Cassazione ha chiesto 2 anni per Spina, Lepre e Morlini, un anno per Criscuoli e Cartoni.

 

Paolo Storari Il pm che ha diviso milano

È per anni il sostituto procuratore che si occupa a Milano, insieme a Ilda Boccassini, delle più complesse indagini sulla mafia in Lombardia. Negli ultimi anni si è impegnato, insieme al procuratore aggiunto Laura Pedio, sulla più dirompente inchiesta avviata dalla Procura milanese: quella su un complotto intentato prima alla Procura di Trani e poi a quella di Siracusa per tentare di azzerare le indagini di Milano sugli affari di Eni in Algeria e in Nigeria. Il regista del complotto, l’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, sostiene di averlo realizzato su mandato della compagnia petrolifera, che invece addebita a lui ogni responsabilità. L’inesauribile avvocato Amara tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 rivela a Storari e Pedio le gesta di un supposto gruppo massonico segreto, la loggia Ungheria. Storari insiste per avviare le indagini e procedere alle iscrizioni sul registro degli indagati. Entra in conflitto con il procuratore Greco e la collega Pedio, poi con i pm De Pasquale e Spataro. Affida a Piercamillo Davigo affinché lo tuteli davanti al Csm, dice, le copie “apocrife” dei verbali di Amara. Queste “tornano” a Milano, portate dal Fatto a cui sono arrivate in un plico anonimo. Storari per 6 mesi non dice nulla, solo ad aprile scorso racconta al procuratore Greco di averli dati a Davigo un anno prima. È indagato a Brescia per rivelazione di segreto ed è sotto procedimento disciplinare. Il Pg della Cassazione Salvi aveva chiesto il provvisorio trasferimento, i pm milanesi lo difendono con una lettera, il Csm lo lascia al proprio posto.

 

Francesco Greco Procuratore capo verso l’addio

A novembre andrà in pensione e, dopo una carriera iniziata sotto il segno di Mani pulite, lascerà la guida di una Procura, quella di Milano ora divisa a causa dei conflitti in corso. Greco era il pm più giovane del pool Mani pulite quando, nel 1994, prese il posto di Antonio Di Pietro come rappresentante della pubblica accusa nel processo Enimont sulla “madre di tutte le tangenti”. Nel 2005 è lui a coordinare le indagini che bloccano le scalate dei “furbetti del quartierino” ad Antonveneta, a Bnl, a Rcs-Corriere della sera. Da procuratore capo mette sotto inchiesta i big della web economy, da Google a Facebook, che pagavano all’estero (in percentuali omeopatiche) le tasse per le attività realizzate in Italia. Risponde all’Ocse costituendo un dipartimento che indaga sulla corruzione internazionale, affidato all’aggiunto Fabio De Pasquale: sconfitto da una sentenza che assolve in primo grado tutti gli imputati del processo Eni-Nigeria. Così viene investito (come De Pasquale) dai conflitti: finisce la sua carriera accusato da Storari di aver rallentato le indagini sulla loggia Ungheria e di non aver fatto depositare prove favorevoli a Eni.

 

Sebastiano Ardita “La loggia Ungheria e la calunnia”

Il caso Amara-Milano deflagra al plenum del Csm il 29 aprile, quando il consigliere Nino Di Matteo rivela di essere stato mesi prima alla Procura di Perugia per consegnare un plico ricevuto in forma anonima che conteneva “una copia informale, priva di sottoscrizioni, di un interrogatorio di un indagato (Piero Amara, ndr)… L’indagato menzionava, in forma diffamatoria se non calunniosa e come tale accertabile, circostanze relative a un consigliere di questo organo”. Cioè Sebastiano Ardita, anche lui testimone a Perugia. È stato tra i fondatori di Autonomia e Indipendenza con Piercamillo Davigo, i due, però, avevano rotto prima che scoppiasse questa “spy story”. Amara ai pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari dichiara che Ardita farebbe parte di una presunta loggia denominata Ungheria, salvo poi dire alla trasmissione di La7 Piazzapulita che “certamente è stato un oggetto di dossieraggio”. Il consigliere al Fatto dichiara: “Ritengo che si sia tentato di colpirmi perché in tutti gli incarichi istituzionali che ho ricoperto, compreso quello attuale, mi sono battuto perché non ci fossero santuari inviolabili”. Sui verbali non firmati finiti da Storari a Davigo, è categorico: “Non si possono estrarre copiacce di atti segreti e farli circolare. Le istituzioni operano con atti formali”.

 

Piercamillo Davigo L’ex “dottor sottile”

È stato il “Dottor Sottile” di Mani pulite, quello che dava forma giuridica alle prove raccolte da Antonio Di Pietro che tra il 1992 e il 1994 portano alla dissoluzione di Tangentopoli. Poi è il combattivo protagonista della lotta contro l’illegalità e l’impunità dei potenti. Combatte una battaglia solitaria per il rinnovamento anche delle associazioni dei magistrati, uscendo dalla corrente di Magistratura indipendente (egemonizzata da Cosimo Ferri) e fondando il nuovo gruppo di Autonomia e indipendenza. Nella primavera 2020, da consigliere del Csm, Davigo riceve dal pm di Milano Paolo Storari i verbali segreti, in formato non ufficiale, di Piero Amara su una presunta loggia. Intende proteggere Storari dall’asserita inerzia investigativa dei suoi capi. E sostiene che il segreto non è opponibile a un consigliere del Csm. Cerca di sbloccare l’indagine, parlando dei conflitti di Milano con i vertici del Csm: in maniera informale, senza rapporti ufficiali, perché questi avrebbero messo in pericolo la segretezza dell’indagine. Una volta uscito dal Csm, la sua segretaria invia (a sua insaputa) copie dei verbali a un paio di giornali e al consigliere Di Matteo. Risultato: l’indagine è bruciata, lui è indagato dalla Procura di Brescia, con Storari, per rivelazione di atti segreti.

 

Carlo Maria Capristo Finito nei guai a Potenza

“Per gli amici, i favori. Per gli altri la legge”. Secondo la Procura di Potenza così Carlo Maria Capristo, ex procuratore capo di Trani e di Taranto, gestiva la sua funzione. Classe 1953, originario di Gallipoli (Lecce), finisce ai domiciliari il 19 maggio 2020 con l’accusa di aver fatto pressioni su una pm di Trani affinché portasse avanti l’azione penale nei confronti di un uomo che tre imprenditori ritenuti vicini a Capristo avevano denunciato per usura. Il processo di primo grado è attualmente in corso. Ma la grana più grossa per Capristo esplode un anno più tardi quando nuove indagini della Procura di Potenza svelano la sua gestione dell’affare Ilva. Per Capristo il gip dispone l’obbligo di dimora, ma in carcere (poi sostituiti con i domiciliari) finiscono l’avvocato Piero Amara – lo stesso che proprio a Capristo aveva consegnato anni prima i falsi dossier per depistare le indagini milanesi sull’Eni – e Filippo Paradiso, ex poliziotto e parte dello staff di ministri e alte cariche dello Stato. Entrambi hanno messo a disposizione la loro rete di contatti quando Capristo cercava nuovi incarichi dopo Trani. Alla fine Capristo diventa capo degli inquirenti a Taranto e con lui sbarcano anche i suoi uomini: Amara ad esempio come consulente di Ilva in As. L’inchiesta sulla gestione Ilva è ancora in corso.

 

Nino di Matteo Lo scontro sul dap con Bonafede

È la sera del 2 maggio 2020, domenica, che avviene uno scontro via tv, tra Nino Di Matteo, allora pm alla Procura nazionale antimafia e Alfonso Bonafede, allora ministro della Giustizia. Oggetto: la mancata nomina di Di Matteo a direttore del Dap, posto ricoperto da Francesco Basentini fino alle dimissioni chieste da Bonafede per gli errori legati alla gestione dei boss mafiosi al 41 bis. Proprio dell’operato di Basentini si sta parlando a Non è l’Arena di La7. Massimo Giletti tira in ballo la mancata nomina di Di Matteo e cita vecchie intercettazioni di boss in carcere, preoccupati perché circolava la voce della nomina del pm. Il retropensiero è che Bonafede non dà il Dap a Di Matteo per quelle conversazioni. Sono le intercettazioni rivelate dal Fatto un anno prima, nell’indifferenza generale, il 27 giugno 2019: “Vogliono fare Di Matteo capo delle carceri. Questi so’ pazzi…”. Il ministro ne è informato prima di fare una doppia proposta al magistrato. Di Matteo interviene durante la trasmissione, racconta che fu Bonafede a chiamarlo e a offrirgli o la nomina a direttore del Dap “o in alternativa, quella di direttore generale degli Affari penali”. Due giorni dopo Di Matteo andò da Bonafede a dirgli che sceglieva il Dap, “ma il ministro mi disse che avevano pensato fosse meglio il ruolo di direttore generale al ministero (in quel momento occupato, ndr). Il ministro aveva cambiato idea o era stato indotto a ripensarci perché al telefono mi aveva detto ‘Scelga lei’”. Replica di Bonafede: “Gli dissi che tra i due ruoli sarebbe stato meglio quello di direttore degli Affari penali, che era il ruolo di Falcone, lo vedevo di più di frontiera nella lotta alla mafia”.

 

Michele Prestipino I ricorsi per la guida di Roma

La nomina delle nomine, quella del procuratore di Roma, che ha portato agli inferi il Csm nel 2019, con lo scandalo Palamara, è ancora irrisolta. Il Consiglio di Stato, infatti, ha annullato la nomina di Michele Prestipino a procuratore della capitale, decisa dal plenum del Csm con una maggioranza risicata e persino dopo un ballottaggio con il procuratore di Palermo Franco Lo Voi, a marzo 2020. Il Cds ha annullato la nomina, accogliendo il ricorso del Pg di Firenze Marcello Viola, escluso dai candidati proposti in plenum dalla Quinta commissione, mentre prima dello scandalo era stato il più votato, nonostante sia emerso dalle indagini e dalle chat di Palamara che nulla sapeva del dopo cena dell’hotel Champagne del 9 maggio 2019, quando fu il prescelto di quell’incontro extraistituzionale (presenti oltre Palamara, i deputati Lotti e Ferri e 5 consiglieri Csm). Si attende anche l’esito di un altro ricorso al Cds, quello di Lo Voi. E ancora. Il Cds ha respinto la richiesta di Prestipino di sospensione cautelare dell’annullamento della sua nomina, in attesa che entri nel merito della sua richiesta di “revocazione” dell’annullamento, improbabile secondo diversi esperti. Dunque, spetterà ancora alla Quinta del Csm formulare nuove proposte di nomina a procuratore di Roma. A meno che il Csm nomini Viola procuratore di Milano e Lo Voi Pg di Palermo.

Israele: record di casi, gravi curati a casa

In chi ha avuto il vaccino anti Covid-19 in gennaio la protezione dalle infezioni è scesa al 16%, mentre dopo lo stesso periodo di tempo il vaccino continua a dare una protezione molto alta da ricoveri e dalle forme gravi della malattia: nel primo caso fra l’82% e il 91% e nel secondo fra l’86% e il 94%: lo indicano i dati del ministero della Salute di Israele.

Per quanto riguarda la protezione dalle infezioni, le tabelle pubblicate dal ministero indicano con chiarezza che i valori tendono a decrescere con l’aumentare del tempo trascorso dalla vaccinazione. Di conseguenza per chi si è vaccinato in gennaio la protezione dall’infezione è scesa al 16%, al 44% nei vaccinati in febbraio, al 67% nei vaccinati in marzo e al 75% per i vaccinati in aprile. Facendo la media quindi, il livello di protezione dalle infezioni è sceso al 39%.

Analoghi i valori per l’efficacia del vaccino contro le infezioni con sintomi, scesa al 16% nei vaccinati in gennaio, al 44% (febbraio), al 69% (marzo), al 79% (aprile), con un valore medio del 41%.

Molto diverse le percentuali sull’efficacia per quanto riguarda la protezione dai ricoveri: per i vaccinati in gennaio è pari all’82% e poi del 91% (febbraio), 89% (marzo), 83% (aprile), per una media dell’88%.

Valori simili, infine, per l’efficacia dei vaccini anti Covid-19 contro la forma grave della malattia: 86% (gennaio), 91% (febbraio), 94% (marzo), 84% (aprile), per una media del 91%.

Per questo motivo il governo di Tel Aviv ha già cominciato con le somministrazioni delle terze dosi, già inoculate a seicentomila persone, come ha spiegato il premier Naftali Bennett: “Lo Stato di Israele è impegnato in una campagna contro la variante Delta: siamo l’unico Paese al mondo che offre già alla propria popolazione anziana la possibilità di ricevere una terza dose, di richiamo”.

Intanto è record di contagi: Israele ieri ha registrato oltre 6.000 nuovi casi di Covid-19 e si tratta del dato più alto rilevato dall’inizio di febbraio. Il numero di casi gravi si è avvicinato a quota 400. Fra le nuove misure lo Stato ebraico nel tentativo di alleviare la pressione negli ospedali sta organizzando ricoveri domiciliari per i malati medio-gravi di Covid.

Inoltre da ieri chi arriva in Israele da una trentina di Paesi a rischio, fra cui l’Italia, deve osservare una quarantena obbligatoria nella propria abitazione, anche se è stato vaccinato o se è guarito del Covid, e ciò indipendentemente dall’età. La lista dei Paesi a rischio include anche Regno Unito, Spagna, Russia, Turchia e Cipro. E il governo Bennett ha anticipato che nuove restrizioni saranno adottate a partire da lunedì 16 agosto.

Come vaiolo e polio. “Possibile eliminare del tutto SarsCov2”

Eradicare completamente il SarsCov2 è possibile, e sarebbe più facile rispetto alla polio, anche se più difficile rispetto al vaiolo, che rimane l’unico virus debellato nella storia dell’umanità. Lo afferma uno studio neozelandese pubblicato dalla rivista Bmj Global Health, basato sul confronto di diversi fattori scientifici e socioeconomici legati ai tre virus.

Gli esperti dell’università di Otago, in Nuova Zelanda, hanno infatti analizzato diciassette diversi parametri, dalla disponibilità di vaccini efficaci alla durata dell’immunità data dalla malattia, all’efficacia dei governi nel gestire i messaggi sul controllo dell’infezione, dando un punteggio da uno a tre ad ogni aspetto. Il punteggio medio è risultato 2,7 per il vaiolo, 1,6 per il Covid e 1,5 per la polio. “Anche se la nostra è un’analisi preliminare – scrivono gli autori dello studio – l’eradicazione del Covid-19 sembra possibile, almeno dal punto di vista tecnico”.

Il SarsCov2, sottolinea lo studio, ha però dei problemi in più rispetto agli altri due virus: fra questi c’è la scarsa accettazione del vaccino e il rischio dell’arrivo di varianti più trasmissibili, che potrebbero mettere a rischio i programmi di vaccinazione globale.

Dal 16 Sicilia gialla, rischio per Sardegna e Calabria

Dopodomani il verdetto: la prossima cabina di regia deciderà se Sardegna, Sicilia, a rischio pur se meno immediato anche la Calabria, torneranno in zona gialla già dopo Ferragosto con milioni di turisti in vacanza proprio in quelle regioni.

La Sicilia è la regione messa peggio col record di positivi, di ospedalizzazioni, di decessi ed è ultima nella graduatoria delle vaccinazioni in quasi tutte le fasce d’età. Un fallimento totale per il governo Musumeci. Con il tasso di occupazione dei posti letto ospedalieri al 14 per cento (il limite è 15 per cento) basta un punto percentuale in più per tornare a indossare obbligatoriamente le mascherine in pubblico, mentre per quanto riguarda le attività di bar, pub e ristoranti, viene permesso di rimanere aperti, anche a cena, ma con un limite di quattro persone per tavolo (se non conviventi) sia all’aperto sia al chiuso. Regola valida anche per le feste e i ricevimenti di matrimonio. Nessun problema per gli spostamenti tra Regioni, che rimarranno in ogni caso liberi. “Tutte le regioni a vocazione turistica rischiano di lasciare la zona bianca – corre ai ripari giustificandosi il discusso assessore alla Salute della Regione Siciliana Ruggero Razza –. Fino alla fine della stagione in Sicilia fra turisti e siciliani che tornano sull’Isola per le ferie avremo due milioni di presenze in più”.

D’altra parte i nuovi dati Agenas, diffusi ieri, parlano chiaro rispetto ai tre indicatori che fanno scattare le restrizioni: 50 o più casi settimanali di nuovi contagi per 100 mila abitanti; 10% per cento dei posti occupati in terapia intensiva; 15% per cento dei posti occupati in area medica. La Sicilia ha 306 positivi su 100 mila abitanti, 7% terapia intensiva e 14% in area medica. La Sardegna 414 positivi su 100 mila abitanti, 11% in terapia intensiva e 7% in area medica. La Calabria 152 positivi su 100 mila abitanti, 2% in terapia intensiva, 11% in area medica. “Se le condizioni epidemiche rimanessero invariate, la Sicilia potrebbe raggiungere nell’arco di 10 giorni i requisiti per essere classificata come zona gialla, mentre la Sardegna potrebbe avviarsi a un esito analogo in 17 giorni”, a seguire la Calabria: lo indica l’analisi dell’andamento dei ricoveri condotta dal matematico Giovanni Sebastiani del Cnr.

Intanto, dopo la scelta di Israele di inoculare le terze dosi, anche in Italia gli esperti cominciano a discuterne. Due giorni fa era stato Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità e coordinatore del Cts, a dirsi favorevole per chi ha “un’alterata funzionalità del sistema immunitario, come chi ha una patologia oncologica o oncoematologica”. E ieri dagli Stati Uniti è intervenuto sul tema anche l’immunologo Guido Silvestri: “Suggerirei al Cts di preparare il Paese a fare una terza dose di vaccino nei soggetti a rischio nel periodo settembre, ottobre. E usiamo solo vaccini a Rna, quelli più mirati sulla Delta e altre varianti. La situazione è sotto controllo. Però non bisogna sottovalutare la possibilità che l’immunità indotta dal vaccino cali nel tempo in persone molto anziane e o con quadri di immunodeficienza. Se questo calo coincidesse con l’arrivo dell’inverno potremmo trovarci a scherzare col fuoco”.

Intanto il garante per la privacy ha stabilito che i ristoratori possono chiedere al cliente il documento di identità insieme al green pass come previsto, eventualità che, cortocircuito, il giorno prima la ministra dell’Interno Lamorgese aveva escluso: “Non sono poliziotti”.

Nel segno di Draghi: insieme FI, dem, M5S e i reduci dc di Gava

Piccoli Draghi crescono nel nome dei Migliori. Accade a Gragnano (Napoli), dove il Draghi del paese sarebbe il sindaco uscente, di area Pd, Paolo Cimmino. E i Migliori sarebbero quelli del M5S e di Forza Italia in salsa lattara – la deputata Teresa Manzo e il consigliere regionale Luigi Cirillo, pentastellati, e la consigliera regionale azzurra Annarita Patriarca – che, insieme ai dem, vorrebbero riproporre qui lo schema del governissimo.

L’annuncio proviene dal sindaco in persona: “Il gruppo che sostiene la mia ricandidatura si arricchisce dell’ingresso del M5S. Con Manzo e Cirillo ci siamo confrontati. L’adesione alla coalizione anche del Movimento rafforza la filiera istituzionale con gli Enti sovracomunali”.

Le cronache locali riferiscono che la regista dell’operazione è stata Annarita Patriarca, già sindaco di Gragnano dal 2009 al 2012, primo cittadino di un’amministrazione sciolta quell’anno per le infiltrazioni camorristiche del clan Di Martino. Lei si era già dimessa dopo l’arresto del marito, il sindaco azzurro di San Cipriano d’Aversa Enrico Martinelli, accusato di collusioni con il clan dei Casalesi, “era sotto controllo del boss cugino omonimo” secondo gli inquirenti che ascoltarono le intercettazioni degli affiliati. Testimone di nozze fu l’allora potente sottosegretario azzurro Nicola Cosentino.

Sono passati quasi dieci anni e la situazione è la seguente: Patriarca, che finì nel mirino della Procura di Torre Annunziata per gli appalti del servizio di trasporto scolastico, è stata assolta da tutte le accuse; Martinelli è stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione camorristica a 3 anni e 6 mesi; Cosentino ne rischia 10, inflitti a luglio in Appello a Napoli.

Acqua ne è passata sotto i ponti e l’incensurata Patriarca l’anno scorso ha conquistato lo scranno regionale. Prima eletta del centrodestra con 11.162 preferenze. Non è stato difficile. Buon sangue non mente. Non c’è stata famiglia di Gragnano che negli anni 80 non abbia chiesto favori al padre, Francesco Patriarca, senatore di osservanza gavianea e capo di un potentato locale di stampo democristiano. Soprannominato Ciccio “la promessa” (intuitivo il perché), Patriarca senior fu uno di quelli che trattò, attraverso i suoi fedelissimi, con la camorra di Raffaele Cutolo per la liberazione dell’assessore campano Ciro Cirillo, rapito dalle Br.

Francesco Patriarca concluse ingloriosamente la sua carriera: nel 1992 dovette lasciare il collegio sicuro di Castellammare di Stabia al segretario della Dc Flaminio Piccoli, poi fu imputato nel processo Maglio sulle collusioni tra la Dc partenopea e il clan Alfieri, e infine morì nel dicembre 2007, pochi mesi dopo che la Cassazione rese definitiva la sua condanna a nove anni per concorso esterno in associazione camorristica.

Forse è per questo che la notizia dell’inciucione di Gragnano ha fatto arrabbiare l’ala legalitaria degli ex Cinque Stelle. Il presidente dell’Antimafia, Nicola Morra, ha linkato un articolo sul caso Gragnano e ha postato, riferendosi alla sua uscita dal MoVimento: “Poi capita che leggi questo e capisci che hai fatto 100 volte bene. Anzi no. 100 miliardi di volte”. Toni simili dalla testimone di giustizia Piera Aiello: “Ormai il M5S non ha più alcun pudore e si presta ad alleanze con FI in una delle zone più critiche del Paese”.

Manzo per la verità ha assunto in passato posizioni meno giustizialiste. È di Lettere, vicino Gragnano. E quando l’ex sindaco di Lettere, il deputato di FI Antonio Pentangelo, fu raggiunto da una richiesta di arresto per corruzione intorno al progetto di riqualificazione dell’ex Cirio di Castellammare di Stabia, scrisse parole di solidarietà: “Sono certa che avrà modo di chiarire”. Pentangelo è coindagato con l’imprenditore stabiese Adolfo Greco. Quarant’anni fa Greco fu l’anello di congiunzione tra Patriarca e Cutolo nelle trattative per liberare Cirillo, entrò con una tessera dei Servizi nel carcere di Ascoli dove era recluso il boss. Quanti corsi e ricorsi storici, intorno ai Migliori di Gragnano.

Calabria: giallorosa avanti. Bruno Bossio nella lista Pd

LLa Calabria è terra in cui il centrosinistra ha spesso mostrato una tendenza al suicidio. A confortare la coalizione, a cui in vista del voto per le Regionali di ottobre partecipa anche il M5S, c’è però un sondaggio WinPoll secondo cui la candidata giallorosa Amalia Bruni sarebbe in vantaggio sia sul forzista Roberto Occhiuto sia su Luigi de Magistris. Secondo i dati, la scienziata sostenuta da Pd e 5 Stelle avrebbe il 36,3 per cento, poco più del 35,8 di cui è accreditato il deputato berlusconiano e ben staccata dal sindaco di Napoli, fermo intorno al 20 per cento. Questo nonostante gran parte dei calabresi non sappia nulla della neurologa: Bruni è conosciuta solo dal 46 per cento degli intervistati, mentre Occhiuto raggiunge il 72 per cento e De Magistris l’85.

Dalle parti di Forza Italia, però, non sembrano preoccupati, complice il fatto che altre rivelazioni darebbero la destra vicina alla maggioranza assoluta. Motivo per cui Occhiuto può permettersi di dire qualche no al suo partito e agli alleati in fase di compilazione delle liste. Un controllo che di certo la civica Bruni non potrà avere sulla sua coalizione, tanto è vero che il Pd ha dovuto fare i conti col ritorno dell’ex governatore Mario Oliverio – furioso e in procinto di annunciare la corsa solitaria – e con l’attivismo di Enza Bruno Bossio, deputata dal passato controverso pronta a mollare il seggio alla Camera per un posto in Consiglio regionale. Difficile infatti che nel 2023 Bruno Bossio possa tornare in Parlamento e dunque è bene prepararsi un piano B, tornando in quella Calabria in cui il marito Nicola Adamo è già stato vicepresidente di Regione. Entrambi hanno passato brutti guai con la giustizia, indagati e poi prosciolti per corruzione. Circostanza in cui la deputata dem aveva attaccato il procuratore Nicola Gratteri: “Gratteri arresta metà Italia! È giustizia? No, è solo uno show!”. I nomi della Bruno Bossio e di Adamo compaiono anche – da non indagati – nell’inchiesta sull’ex procuratore aggiunto di Catanzaro Vincenzo Luberto, il quale – ha sostenuto l’accusa – “ometteva di iscrivere nel registro degli indagati e di proseguire le indagini nei confronti di Nicola Adamo e Enza Bruno Bossio” per “avvantaggiare” l’ex parlamentare Pd Ferdinando Aiello.

Ora la Bruno Bossio sa che tornando in Consiglio regionale potrebbe avere un peso anche in caso di sconfitta, ritagliandosi un ruolo consociativo nella gestione Occhiuto col placet del commissario del Pd calabrese Stefano Graziano. Un paracadute ben più forte del margine d’errore di ogni sondaggio.

Altri morti: la strage non si ferma

Ancora due morti sul lavoro. Si muore nelle campagne, nell’edilizia, nell’industria. Da inizio anno sono diverse centinaia i morti totali per infortuni sul lavoro.

Ieri mattina ha perso la vita un operaio indiano di 36 anni precipitato da un’altezza di 8 metri mentre mentre stava rimuovendo dei pannelli di amianto nel Bergamasco: ha messo un piede sopra un lucernario, che ha ceduto, la rete di protezione, posizionata sotto, non ha retto. La causa è ancora da chiarire. Una morte “orribile, una situazione incresciosa che reclama interventi urgenti per intensificare i controlli e sanzionare pesantemente le aziende che non rispettano le norme su sicurezza e tutela della vita”, ha commentato a caldo il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra.

Parole superate che si sarebbero potute usare identiche poche ore dopo. Ad Asti un uomo di 56 anni è rimasto ustionato ed è morto al momento del ricovero in ospedale: stava eseguendo alcuni lavori di manutenzione all’interno di un negozio di surgelati, quando si è sentito un forte scoppio.

Di lavoro, dunque, si continua a morire: tre vittime al giorno nei primi 6 mesi dell’anno per Inail, oltre 4 per l’Osservatorio indipendente di Bologna. Partiamo dall’istituto pubblico che assicura i lavoratori: dal 1° gennaio al 30 giugno ha registrato 538 denunce di infortunio con esito mortale. Si tratta di 32 morti in meno rispetto alle 570 registrate nei primi sei mesi del 2020 (-5,6%), ma il confronto tra il 2020 e il 2021 richiede cautela. I numeri vanno contestualizzati alla luce della pandemia: i primi sei mesi dell’anno scorso furono quelli dei morti per Covid, specie negli ospedali, fatto che può spiegare l’apparente paradosso dell’avere più vittime sul lavoro nonostante chiusure e lockdown.

In realtà va tenuto conto che i tempi delle denunce non coincidono con quelli dell’incidente. L’Osservatorio indipendente di Bologna, che conta le vittime basandosi su fonti aperte come la stampa, ha contato 864 morti complessivi per infortuni sul lavoro: 438 sui luoghi di lavoro, i rimanenti sulle strade e in itinere e quelli morti per Covid e in particolare 88 medici e 80 gli infermieri (il contagio dei sanitari è automaticamente considerato infortunio sul lavoro).

La classifica per settori vede al primo posto l’agricoltura con oltre il 30% dei morti sul lavoro, seguita da edilizia, autotrasporto e industria. “Serve un piano nazionale di salute e sicurezza sul lavoro. Abbiamo chiesto al governo di attivare subito un tavolo di confronto”, ha detto il segretario della Cgil Maurizio Landini che ha (ri)proposto la patente a punti per le imprese: chi non rispetta le norme, non può partecipare alle gare. Resta ferma in Senato la proposta del M5S di istituire la Procura nazionale per i reati su igiene e sicurezza sul lavoro.

“Senza nuovi ammortizzatori serve lo stop ai licenziamenti”

“Se la riforma degli ammortizzatori sociali non fosse pronta entro fine settembre, andrebbe prorogato il blocco dei licenziamenti al 31 dicembre”. Per l’ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, senatrice M5S, il divieto oggi fissato al 31 ottobre per piccole imprese, servizi e i settori più in crisi tipo la moda va prorogato se non sarà entrata in vigore la cassa integrazione universale: difficile, l’incontro dell’altroieri tra ministro e parti sociali s’è limitato alle “linee guida”. Nel frattempo, dice, va difeso il Reddito di cittadinanza: la prima proposta di legge sul tema portava la sua firma.

Gli attacchi al Rdc si moltiplicano: la vostra misura bandiera corre rischi?

Ho ascoltato dichiarazioni, soprattutto di Italia Viva, che ne chiedono l’abolizione: assurdo e inaccettabile. Lo strumento esiste in Germania, Francia e in tanti Paesi Ue: l’Italia semmai lo ha introdotto in ritardo. Ha avuto una funzione utilissima nella pandemia: secondo l’ultimo rapporto Inps aiuta 3,7 milioni di persone, 1,3 milioni dei quali minori. Bisogna stare attenti quando si gioca con la vita di persone con figli.

Dove va migliorato?

Le Regioni sono in ritardo sul rafforzamento dei centri per l’impiego: meno di mille assunti su 11.600. Un processo che va agganciato alla riforma delle politiche attive, alla Garanzia per l’occupabilità dei lavoratori (Gol) – che avevo già inserito nel Pnrr – e al rafforzamento della formazione. Quest’ultima, a sua volta, va collegata ai Centri per l’istruzione degli adulti, per i beneficiari senza licenza media, o a percorsi come “Industry Academy”, partenariati pubblico-privati che partono dalla richiesta delle imprese e costruiscono percorsi per l’inserimento lavorativo. E poi per i giovani gli Istituti tecnici superiori, etc etc.

Come si smonta la narrazione, falsa, per cui il Rdc disincentiva il lavoro?

Chiedendo alle imprese se nel momento in cui cercano un lavoratore stagionale si rivolgono ai centri per l’impiego. Se lo fanno, arriva una rosa di candidati e se c’è un eventuale rifiuto scatta la condizionalità. Secondo: spero che le imprese facciano offerte congrue. Quella narrazione l’hanno smontata le stesse aziende, ad esempio quando Sammontana ha cercato lavoratori con salari adeguati e si sono presentati in 2.500 per 350 posti.

C’è chi, dall’altro lato, dice che il reddito sia debole per le famiglie numerose…

Sì, la cosiddetta “scala di equivalenza” si ferma a 2,1 e penalizza le famiglie numerose. In altri paesi d’Europa è più alta: se volessimo rafforzarlo dovremmo intervenire su quello. Un’altra parte da potenziare è il “sostegno all’abitare”, i famosi contributi di 150 euro per il mutuo o 280 per l’affitto che però non tengono conto dei componenti del nucleo: una casa per un single ha un prezzo diverso di una per cinque.

Parliamo di salario minimo. Sindacati e Confindustria sono entrambi contrari: discussione chiusa?

Mi sembra un paradosso che proprio in Italia non lo si voglia portare avanti: a settembre mi auguro che entri a pieno titolo nel dibattito politico. È assurdo che i sindacati non lo vogliano: il primo punto che affronta il ddl a mia firma è il dumping contrattuale, definiamo criteri per la rappresentatività sindacale e datoriale e stabiliamo i contratti leader. Poi bisogna individuare una soglia minima inderogabile, la Germania addirittura l’ha aumentata in piena pandemia: è inverosimile che ci siano contratti nazionali, tipo i servizi fiducia, con salari minimi a 4,60 euro l’ora. Una questione non solo di dignità della persona, ma anche economica: con 5 milioni di lavoratori poveri, la spesa in consumi diminuisce e c’è un impatto negativo sul Pil…

Ha letto le linee guida del ministro Orlando sui nuovi ammortizzatori sociali?

No, ma ho letto alcune dichiarazioni. Quando ero ministra avevamo un documento definito, è stato inviato anche a Orlando, mi pare di capire che alcune di quelle proposte non ci siano più: mi pare resti la Dis-Coll (il sussidio di disoccupazione per i collaboratori, nda) che noi pensavamo di abolire e collegare alla Naspi. Certo, una riforma del genere ha bisogno di risorse, non si può far pesare tutto sulle imprese. Mi auguro non si rimandi troppo anche perché abbiamo un appuntamento importante a fine ottobre (lo sblocco dei licenziamenti per le imprese senza Cig ordinaria, nda), che io avrei prorogato fino a fine dicembre.

Se la riforma dovesse slittare ancora potrebbero aprirsi spiragli per una ulteriore proroga?

Dovrebbe, anzi a quel punto sarebbe necessario.

Nel frattempo in Italia si continua a morire di lavoro, cosa si può fare in concreto?

La Procura nazionale sui reati in materia di sicurezza sul lavoro è un punto importante, oltre al rafforzamento dell’Ispettorato, che avevo portato avanti con 2 mila ispettori da assumere. Servono formazione e informazione. Stavamo lavorando anche sulla patente a punti prima che cadesse il governo. Infine il coordinamento tra le competenze di ministeri, ispettorato, Regioni e Asl.

“Arnaldo non è affatto il fratello buono: era corrotto e liberticida”

Mauro Canali, allievo di Renzo De Felice e uno dei più importanti storici del Fascismo, si è a lungo occupato di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce a cui il sottosegretario leghista Claudio Durigon vorrebbe intitolare un giardino a Latina, manco fosse ancora Littoria.

Professore, Arnaldo Mussolini passa per essere il fratello buono. È così?

È una memoria falsa, tramandata prima da Benito, che gli ha dedicato una biografia in cui ne ha fatto un santo, e poi dai fascisti. Nell’agiografia che Benito ha scritto sul fratello, morto prematuramente nel ’31, il duce ha mistificato moltissimi episodi, dai sospetti di corruzione alle infedeltà. Per dirne una: Arnaldo in pubblico era un moralista, tutto casa e chiesa, ma ha avuto per anni un’amante a cui comprò anche degli appartamenti.

Chi era allora Arnaldo Mussolini?

Non un agitatore da prima linea, ma un uomo che operava dietro le quinte. Attenzione però: Arnaldo si è assunto, pubblicamente, tutte le responsabilità del duce. Nel delitto Matteotti ha difeso a spada tratta il fratello, reclamando la sua estraneità all’omicidio pur sapendo che non era così. Uomini fedeli ad Arnaldo hanno avuto parte nel delitto: è il caso del direttore del Corriere italiano, Filippo Filippelli, che fornì l’auto ad Amerigo Dumini per sequestrare Matteotti e ucciderlo. Gli esecutori del delitto sono tutti ex arditi milanesi che operavano in città su indicazioni di Arnaldo.

Poi c’è l’increscioso affare della tangente pagata dagli americani, le cui prove si sarebbero trovate nella borsa di Matteotti.

Arnaldo, già prima della marcia su Roma, cercava fondi per Il popolo d’Italia. Lo Stato italiano stipulò una convenzione con l’americana Sinclair Oil per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi in Emilia e in Sicilia. Nell’affare erano coinvolti i principali gruppi finanziari di New York, tra cui la banca di Rockefeller, presidente e fondatore della Standard Oil, la società per cui operava in Italia la Sinclair. Per questo affare fu pagata una maxi-tangente ad Arnaldo, che poi depositò i soldi nelle casse del Popolo d’Italia.

Qualcuno ha detto che i soldi furono per finanziare il giornale, non per uso personale.

Già, ma Il popolo d’Italia era di proprietà della famiglia Mussolini! Del suo affarismo si parlò molto anche per la vicenda della costruzione della Stazione centrale di Milano, città in cui Arnaldo era un vero e proprio ras. Il capitale americano che servì per finanziare la stazione fu gestito direttamente da Arnaldo. Del resto fu lo stesso Farinacci ad accusare Arnaldo di corruzione. Ma c’è un altro aspetto importante e riguarda la fascistizzazione della stampa durante gli anni Venti. È Arnaldo il responsabile dell’acquisizione al regime di tutte le testate registrate in Italia, con le buone o con le cattive. Lui si definisce “il più destro tra i destri nel regime fascista”; di nuovo: è lui a coniare la frase “per il Fascismo chi tradisce perisce”. Altro che fratello buono, è il costruttore dello Stato totalitario.

Togliendosi i panni dello storico e indossando quelli del cittadino: che pensa di questa trovata di Durigon?

Credo ci sia un elemento speculativo legato ai rapporti interni al centro-destra, un modo per rivendicare la propria posizione da parte della Lega rispetto a Fratelli d’Italia. Ma c’è anche il desiderio di vellicare i sentimenti della città, Latina, che per altro nulla ha a che fare con Arnaldo Mussolini: questo è vergognoso. Se ci aggiungiamo il fatto che il giardino è intitolato a Falcone e Borsellino, il gesto fa accapponare la pelle. È una provocazione che è andata oltre.

Durigon si dovrebbe dimettere?

Draghi dovrebbe intervenire: o costringerlo a ritrattare o indurlo a dimettersi. Non è tollerabile che un membro del governo offenda così i valori etici fondanti della nostra democrazia. Credo che come membro del governo abbia giurato sulla Costituzione democratica e antifascista, quindi…

Anche 3 ministri contro Durigon. Petizione del “Fatto” per cacciarlo

Ora Claudio Durigon diventa un caso per il governo Draghi. Con la maggioranza che si spacca a metà: i giallorosa – Pd, M5S e LeU – chiedono le dimissioni immediate del sottosegretario leghista all’Economia minacciando di votare una mozione di sfiducia a settembre, mentre il centrodestra sceglie il silenzio. Nel mezzo c’è il presidente del Consiglio Draghi che, dalle vacanze a Città della Pieve, preferisce tacere. Da Palazzo Chigi la risposta è lapidaria: “No comment”. Matteo Salvini invece, sempre loquace su tutto, non ha detto una parola sulla questione e ha imposto il silenzio ai suoi: “Nessuno parli”. Il Fatto da oggi lancia una petizione sul suo sito per far dimettere il sottosegretario leghista.

Dopo le richieste di dimissioni di Giuseppe Conte e di Enrico Letta al Fatto, ieri intanto è stato il giorno degli attacchi dei ministri che hanno messo nel mirino l’esponente della Lega, reo di aver proposto di intitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini (fratello del duce) invece che a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In linea con le parole del leader Conte, il più duro è il ministro dell’Agricoltura e capodelegazione del M5S Stefano Patuanelli: “Ciò che ha detto Durigon è intollerabile e non è compatibile con la sua permanenza al governo”. Anche il ministro degli Esteri del M5S Luigi Di Maio all’Ansa attacca: “Le parole di Durigon sono molto gravi, deve fare un passo di lato”. La renziana Teresa Bellanova, viceministra alle Infrastrutture, parla di proposta “irricevibile”: “L’apologia di fascismo nel nostro Paese è reato – twitta – Bruttissima pagina di politica”.

La pressione per le dimissioni del sottosegretario leghista diventa un problema politico per Draghi: se il premier deciderà di far cadere la cosa e Durigon di non dimettersi spontaneamente, il fronte giallorosa minaccia di calendarizzare e di votare a settembre la mozione di sfiducia già presentata dal M5S. Posizione ribadita ieri dal segretario Pd Letta secondo cui Durigon “è incompatibile con il suo ruolo di rappresentante delle istituzioni che ha giurato sulla Costituzione” e quindi “starebbe a lui fare un passo indietro”. “Per quanto ci riguarda – ha concluso Letta – faremo il possibile perché questo avvenga”. Dal Nazareno confermano l’intenzione di votare la mozione del M5S, anche se Patuanelli spera che non ci si arrivi nemmeno: “Durigon faccia un passo indietro prima” dice il ministro. Stessa posizione di LeU e SI che si schierano contro il leghista: il senatore Francesco Laforgia parla di “totale inadeguatezza”, mentre Nicola Fratoianni spinge la mozione per “ridare un minimo di dignità”. Il senatore del Misto Sandro Ruotolo invece attacca: “Anche oggi non è successo nulla. Il silenzio del presidente Draghi è inspiegabile: gli tolga subito le deleghe da sottosegretario”.

Imbarazzi e silenzi invece dal centrodestra, di governo (Lega e Forza Italia) e di opposizione (Fratelli d’Italia). L’unica voce fuori dal coro è quella del deputato di FI Elio Vito, ormai battitore libero nel partito, che annuncia il suo voto favorevole alla mozione del M5S perché “l’antifascismo è un valore fondante della Repubblica e perché non possiamo pubblicare foto di Falcone e Borsellino e poi restare indifferenti. Spero di non essere il solo in FI”. Nella Lega, invece, Salvini ha imposto il silenzio sperando che il caso si sgonfi a breve. Dal suo staff difendono Durigon parlando di “polemica ridicola e strumentale” ma l’imbarazzo c’è perché nel Carroccio in molti ricordano di quando, solo poche settimane fa, Salvini si era presentato in tribunale a Palermo con la mascherina di Falcone e Borsellino. Il segretario però preferisce spostare l’attenzione alzando i toni contro la ministra Luciana Lamorgese sui migranti. Ma nella Lega emergono le prime voci critiche: “Io un parco a Mussolini non lo intitolerei, a Borsellino e Falcone sì” dice il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni. Che il caso Durigon sia un problema per la maggioranza lo dice anche Osvaldo Napoli di “Coraggio Italia” secondo cui la vicenda potrebbe avere ricadute sul governo: “Letta e Salvini scambiano l’esecutivo per l’asilo Mariuccia”.