Hombre vertical

Prematuramente interrotta la liaison con Renato Farina, l’altro Renato, Brunetta, non s’è preso neppure un giorno di riposo e ha subito preso a tubare con un altro bel bocconcino: il professor Cassese. Il quale, da quando sono arrivati i Migliori, si dedica anima e corpo a scrivere sempre lo stesso pezzo: tutto ciò che fa Draghi è meraviglioso, adorabile, stupefacente, anche quando si tratta delle stesse cose che, quando le faceva Conte, erano spaventose, detestabili, orribili. L’altroieri l’arzillo giureconsulto un tanto al chilo, che un anno fa paragonava Conte a Orbàn per la proroga di tre mesi dello stato di emergenza, s’è prodotto nel suo quotidiano peana a Draghi che l’emergenza l’ha prorogata di cinque mesi. In particolare era tutto eccitato perché SuperMario convoca ogni tanto il Consiglio dei ministri: evento eccezionale, mai visto prima. Poi ha criticato il Parlamento, che s’è permesso di emendare un decreto del governo, cioè di fare il Parlamento. Siccome il decreto è di Brunetta, questi lo ha rassicurato sul Corriere: gli emendamenti non pregiudicano “la necessità di ristabilire il merito nella gerarchia della società italiana”. È l’essenza della sua riforma, sempre tesa alla “mobilità verticale”, ma anche “orizzontale” nell’ambito di un “sistema di selezione moderno, trasparente, efficace e finalmente adeguato agli standard internazionali”. Diciamolo: era ora che arrivasse lui a “privilegiare le esperienze e i risultati raggiunti e non le appartenenze politiche e di casta” (senz’offesa per la nidiata di Cassese- boys sparsi nella Pa e nelle anticamere dei Migliori). Poche balle: occorrono “élite competitive”, e lui modestamente lo nacque, “che sostituiscano le oligarchie castali” affinché “prevalga il merito rispetto alle cooptazioni”. Bene, bravo, bis.

A questo punto ci saremmo aspettati qualche esempio concreto della Nuova Meritocrazia Brunettiana. Tipo la nomina, purtroppo sfumata sul più bello, del “consulente giuridico” Farina-Betulla che, lungi dall’essere cooptato per appartenenze politiche (era deputato di FI) o castali (è di Cl), era il frutto di una lunga e rigorosa selezione in base agli standard internazionali per le sue competenze giuridiche acquisite sul campo: alla Procura di Milano, durante la finta intervista ai pm per depistare le indagini sul rapimento di Abu Omar, poi in Tribunale, durante il patteggiamento di sei mesi di reclusione per favoreggiamento in sequestro di persona. Un caso tipico di ripristino della meritocrazia, che però Renatino s’è lasciato sfuggire l’occasione di vantare al cospetto del prof. Cassese. E noi non ci diamo pace per cotanta modestia. A meno che, parlando di “mobilità verticale”, non sia scappato da ridere anche a lui.

“C’era una volta la showgirl” e la tv delle ragazze desnude

E venne il tempo delle icone. Abbe Lane, Rita Hayworth incarnavano “quel ‘posare’ nel movimento tra eros e thanatos che Aristotele chiamava phantasmata e attribuiva ai grandi interpreti della danza”. C’era una volta la showgirl. L’arte della seduzione di Renato Tomasino (Odoya) è la fenomenologia di un “mito” cresciuto insieme al tubo catodico. Dalle gambe peccaminose esibite con pruderie delle gemelle Kessler in Studio Uno alle maggiorate di Drive In sino alla volgarità dei corpi siliconati di oggi.

È la Rai a cercare per prima la soubrette perfetta, Corrado vuole Raffaella Carrà per Canzonissima 1970-1971: “Abile in tutto, dotata di una silhouette invidiabile che aveva il suo esibito centro di gravità in quell’ombelico mostrato scandalosamente nudo per la prima volta da una conduttrice tv. Nell’ormai celeberrimo numero del Tuca Tuca Alberto Sordi dirige più volte l’indice teso proprio ben dentro”. La metamorfosi della figura della showgirl è ben rappresentata da Mina, dall’aria sbarazzina e innocente di Nessuno alla malizia e sensualità di L’importante è finire: apre e chiude un ciclo nel quale la classe non è mai stata un dettaglio tra le protagoniste della Rai. Con la tv privata arrivano le “bombe sexy” Carmen Russo, Pamela Prati, Valeria Marini, Lory Del Santo, Carmen Di Pietro. Ci salva l’ironia e l’intelligenza di Amanda Lear, protagonista assoluta di uno dei più intriganti show realizzati dalla tv di Stato, Stryx, con la regia di Enzo Trapani, trasmesso da Rai 2 nel 1978. Provocatorio e intriso di erotismo, lo show ha pure sdoganato il seno di Patty Pravo, intenta a cantare “fammi la festa” durante la performance di Johnny.

Non tutto l’oro luccica dietro le quinte: un posto a parte merita Stefania Rotolo, frequentatrice del mitico Piper con Renato Zero e Loredana Bertè e protagonista di Piccolo Slam nel 1977, creato per celebrare il periodo d’oro della disco music. Morirà a trent’anni stroncata da una malattia; resterà per sempre la “ragazza uragano”, così soprannominata per la sua energia e la sua immagine romantica. Dal 1987 al 1992 su Italia 7 arriva come un fulmine Colpo grosso, ambientato in un casinò con ragazze più svestite che vestite. Umberto Smaila e, successivamente, Maurizia Paradiso, riuscirono a portare il programma prodotto da Fininvest da zero a due milioni di spettatori. Per alcuni cult, per altri la degenerazione di ciò che resta del varietà.

Vita di “Meo” Venturelli che non divenne Fausto Coppi

Ferragosto del 1956, Milano-Vignola, terza prova del campionato italiano. Fausto Coppi fora. Gli avversari lo mollano appiedato. L’auto dell’Unione sportiva Pavullese lo affianca: “Signor Fausto, ha bisogno?”. Coppi annuisce. Piazza la bici sul tetto, sale a bordo. Filano dritti al traguardo dove è sfrecciato primo Pierino Baffi. “Chi siete, che fate, avete dei ragazzi in gamba?”, chiede Coppi. Trento Montanini, il direttore sportivo, risponde senza esitazioni: “Uno in particolare: Romeo Venturelli”.

Un giovanotto di 18 anni, alto un metro e 82 per 76 chili, 42 pulsazioni al minuto quando è a riposo. Corridore selvatico dall’energia sconfinata. Pedalata a volte esplosiva. Forte passista in pianura. Buono in salita. Spunto da velocista. Un campione naturale. Per virtù innate, capace di qualsiasi impresa. È di Sassostorno, frazione di Lama Mocogno nel Frignano, sull’Appennino modenese, uno di quei paesi raccontati da Francesco Guccini. In Meo volava. Avventure e sventure di Venturelli, Marco Pastonesi ricorda che è nato povero, cresciuto povero, destinato alla povertà, “finché non sale su una bici e la bici diventa un cavallo magico, alato, capace di trasportarlo nella favola: ogni desiderio sembra potersi esaudire”. “Meo”, infatti, ha una carriera folgorante.

Per questo Coppi lo vuole alla neonata San Pellegrino Sport. Lui è il capitano, Gino Bartali il direttore sportivo: spera che Fausto faccia da balia, nella sua ultima stagione da corridore, al promettente ma anarchico Venturelli destinato a essere al centro di un ambizioso progetto: “L’è un campiùn”, l’aveva rassicurato Fausto. In Romeo vedeva il suo erede.

Coppi lo stimava al punto che il 18 dicembre del 1959, al rientro dal safari in Alto Volta, vuole che sia Romeo a riportarlo a casa, con la sua 1100 nuova (Giulia Occhini, la Dama Bianca, indispettita, si era rifiutata di farlo). E lo invita a cena, nella Villa Carla, tra Serravalle e Novi Ligure. Romeo assiste, imbarazzatissimo, a un litigio tra Giulia e Fausto. Il che aggiunse una sorta di alone leggendario alla sua “investitura”. Perché pochi giorni dopo, il 2 gennaio del 1960, la malaria uccide Coppi: “Il grande Airone ha chiuso le ali”, scrisse l’addolorato Orio Vergani. La morte di Fausto sconvolge l’Italia. Venturelli è distrutto.

Ha perso il mentore. La guida. L’unico che credeva in lui. Vuole dimostrare che la fiducia di Coppi non era mal riposta. A colpi di pedale, il linguaggio del ciclismo.

Il 14 marzo alla Parigi-Nizza, nella crono da Vergèze a Nîmes, stacca i fuoriclasse della specialità Roger Rivière e Jacques Anquetil. Otto giorni dopo, a Reggio Emilia, tappa della Genova-Roma, batte in volata Guido Carlesi detto il Coppino, ma anche il campione del mondo André Darrigade. Il 12 maggio, al Tour de Romandie, nella Noyon-Crans Montana parte a 5 km dall’arrivo e vince con 42” di vantaggio su Anquetil. Il 19 maggio è al 43esimo Giro d’Italia. Si parte da Roma, si arriva a Milano il 9 giugno dopo 3481,2 km. In gara, 140 corridori di 14 squadre. Venturelli è il capitano della San Pellegrino.

Vince la prima tappa Dino Bruni. Il giorno dopo c’è la cronometro di Sorrento. Su e giù dal monte Faito, 13 chilometri di ascesa severa sino a 465 metri, poi 12 chilometri di discesa. Venturelli parte prima di Nino Defilippis. Il popolare “Cit” lo piglia in giro: “Bada, ti prendo!”. Meo parte a razzo. A metà salita, tuttavia, perde 15” da Anquetil. In cima, è staccato di 36”. Tanto che al traguardo, il francese è invitato a salire sul podio, sicuri che abbia già vinto. Gli consegnano la maglia rosa. Le miss lo baciano.

Ma Meo si scatena in discesa. Vola a tomba aperta. Piomba sul traguardo di Sorrento: “Venturelli miglior tempo!”, grida lo speaker Proserpio. Sei secondi meno dello sconcertato Anquetil. Bartali acchiappa Romeo, lo trascina sul palco perché indossi la maglia rosa. Lui la dedica a Coppi. Ha vinto la sua sfida impossibile.

Solo che la notte sclera. Si ubriaca. Fa le ore piccole. I bagordi lasciano il segno. È stanco ancor prima di cominciare la terza tappa col Terminillo. Per darsi la carica, mischia champagne e limone. Follia: “Nello stomaco – confesserà – mi si è fatto il formaggio”. L’ultimo ad abbandonare il capitano è Nunzio Pellicciari, un contadino ossuto, “con il senso della famiglia, dunque del dovere, dunque gregario”.

Anquetil gli sfila la maglia. Nel momento della gloria, Meo ha mostrato i suoi limiti. Molla tutto a Popoli, quarta tappa. Consuma la sua “veloce allegoria del destino” (copyright Bruno Raschi, Gazzetta dello Sport): “Romeo Venturelli nacque, visse e sparì nel giro di pochi giorni”. Renitente alla fatica. Al sacrificio.

Vincerà a ottobre il Trofeo Baracchi, in coppia con Diego Ronchini, poi più nulla. E cinque anni dopo, un Giro del Piemonte. Smise malinconicamente nel 1971: “Dal collo in giù sei una Ferrari. Dal collo in su sei tutto sbagliato, tutto da rifare”, fu il lapidario commiato di Bartali. Gli rinfacciano d’aver dissipato il talento in donne, gola e motori (Maserati). Fuoriclasse di un solo giorno, il 20 maggio del 1960. Poi, mai più. Per i cinquant’anni della scomparsa di Coppi, depone sulla tomba una corona: “A Fausto, il tuo allievo mancato”, la dedica. Lo raggiungerà, un anno dopo, il 2 aprile del 2011.

“Il coyote è povero e sfigato. Ma non vive coi genitori”

Circa un’ora dopo la colazione vedemmo le prime tane dei cani della prateria, la prima antilope e il primo lupo. Se ricordo bene, quest’ultimo è in realtà il vero coyote (si pronuncia co-iò-te) del deserto e vi posso garantire che non si tratta certo di una creatura graziosa o rispettabile: in seguito ebbi modo di conoscere bene quella specie e posso parlarne con cognizione.

Il coyote è un lungo, magro, emaciato e malandato scheletro, ricoperto dal manto grigio di un lupo, con una coda moderatamente folta che tiene perennemente abbassata in un’espressione disperata di abbandono e miseria, uno sguardo furtivo e maligno e un muso lungo e appuntito, con il labbro leggermente sollevato e i denti in vista. È, in ogni aspetto, una bestia dall’aria furtiva e circospetta. Il coyote è un’allegoria vivente della Miseria. Ha sempre fame. È sempre povero, sfortunato e senza amici. Anche la creatura più abbietta lo disprezza e persino le pulci gli preferirebbero un velocipede. È così privo di spirito e codardo che, persino quando i denti si atteggiano a un moto di sfida, gli occhi sembrano scusarsene. Ed è così sgraziato! Così ossuto, emaciato, con il pelo arruffato e lo sguardo patetico. Quando vede qualcuno, solleva il labbro e lascia intravedere i denti, poi devia un momento dal percorso che stava seguendo, abbassa la testa e inizia a trotterellare piano lungo la sterpaglia, dando ogni tanto un’occhiata all’avventore, finché non è fuori dalla portata di un’eventuale arma, poi si ferma e guarda di nuovo con attenzione; cammina ancora per una cinquantina di metri e si ferma, altri cinquanta e si ferma di nuovo; infine, quando il grigio del manto si confonde con quello della sterpaglia, sparisce. Tutto questo, se non si attenta alla sua incolumità; ma se ci si prova, sviluppa immediatamente un grande interesse per i suoi spostamenti e all’istante i suoi talloni si elettrizzano, ponendo una tale distanza tra se stesso e l’eventuale aggressore che, prima che si riesca ad alzare la pistola, ci si rende conto che si ha bisogno di un fucile; quando gli si punta il fucile contro, ci si accorge che serve un cannone; quando lo si ha finalmente nel mirino, si capisce chiaramente che neanche un fulmine potrebbe raggiungerlo. Se poi gli si sguinzaglia dietro un cane veloce, garantisco che c’è molto da divertirsi – soprattutto se si tratta di un cane con una buona opinione di sé, cresciuto confidando nelle sue doti di velocista. Il coyote procederà inizialmente con quel suo ingannevole trotto ciondolante e, di tanto in tanto, rivolgerà un fallace sorriso all’inseguitore; il che infonderà nel cane coraggio e ambizione, spingendolo ad abbassare ancora di più la testa, a portare il muso ancora più in avanti, ad affannarsi senza posa, a tenere la coda ancora più dritta e a imprimere alle sue zampe una spinta ancora maggiore, lasciando dietro di sé una nuvola di sabbia sempre più ampia, più alta e più densa, come una lunga scia sulla superficie del deserto!

E per tutto quel tempo il cane è rimasto a soli sette metri dal coyote, ma non capisce come mai non riesca ad avvicinarsi di più; inizia così ad affaticarsi e a perdere la pazienza alla vista del coyote che continua a scivolare dolcemente sulla sabbia, senza mai affannarsi, né sudare, né smettere di sorridere. E si infuria sempre di più nel rendersi conto di come sia stato vergognosamente messo nel sacco da un perfetto estraneo e che ignobile inganno sia quel lungo, calmo e leggero trotto. Poi si accorge di essere esausto e che il coyote in realtà deve addirittura rallentare un po’ il passo per evitare di distanziarlo troppo; allora quel cane di città perde la testa e si affanna, piange, impreca e spinge sempre più in alto la sabbia con le zampe, cercando disperatamente di arrivare al coyote, con tutte le energie che gli restano. Questo “sprint” finale porta il cane a due metri dal rivale e a ormai dieci chilometri dai suoi padroni. E poi, nel momento in cui un ultimo, vivo bagliore di speranza si accende nei suoi occhi, il coyote si gira, gli rivolge un altro dei suoi blandi sorrisi e sembra dirgli: “Bene amico, ora ti devo lasciare – ho da fare e non posso restare qui a perdere tempo tutto il giorno”…

Il coyote vive principalmente nei deserti più desolati e remoti, insieme alla lucertola, alla lepre e al corvo; le sue provvigioni sono incerte e precarie, ma bisogna dire che se le guadagna. Sembra che la sua sussistenza derivi essenzialmente dalle carcasse di buoi, muli e cavalli caduti dalle carovane degli emigranti e poi morti, dalle carogne trovate fortunosamente, e dalle occasionali donazioni di frattaglie da parte di uomini bianchi abbastanza ricchi da mangiare qualcosa di meglio del bacon avariato fornito all’esercito… Al coyote non importa di percorrere cento chilometri per la colazione e centocinquanta per la cena, perché sa che tra un pasto e l’altro trascorreranno comunque tre o quattro giorni, quindi tanto vale viaggiare e ammirare il panorama anziché sdraiarsi a terra senza fare nulla, vivendo sulle spalle dei propri genitori.

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Cdu, l’uomo che deve sostituire la Merkel non piace ai tedeschi

L’ultimo sondaggio Insa per Bild am Sonntag a un mese e mezzo dalle elezioni mostra che diminuisce ancora il consenso per l’Unione dei conservatori Cdu-Csu. La scorsa settimana era al 27% ora è al 26%. In questo contesto, Armin Laschet è sempre più impopolare. Secondo il barometro politico della Zdf, la televisione pubblica tedesca, solo il 35% degli elettori valuta il leader della Cdu capace di succedere ad Angela Merkel. Il suo gradimento è caduto di 12 punti in due settimane. L’ultimo tonfo di Laschet è stato nel fango, di nuovo. A due settimane dalle alluvioni che hanno devastato l’ovest del paese, il candidato della Cdu è tornato nell’area del disastro. I cittadini lo hanno accolto con dure critiche. Laschet non ha perso la calma sorridendo a favore di telecamera, ma di preoccupazioni ne ha parecchie.

Uno studioso austriaco, Stefan Weber, ha denunciato un plagio fatto da Laschet su un libro del 2009 dal titolo La repubblica emergente – Immigrazione come opportunità. In quel periodo era vice-ministro presidente della Renania settentrionale-Vestfalia, con le deleghe alla famiglia e alla migrazione. Nella pubblicazione – secondo la versione dello studioso – usa passaggi di un volume di Hans Meier, politologo ed ex ministro della cultura bavarese. Dopo le accuse Laschet ha ammesso “ci sono errori, come la mancanza di citazione delle fonti, per i quali mi scuso”.

Il numero uno della Csu, la sorella bavarese della Cdu ha chiesto un cambio di passo per la campagna elettorale di Laschet: “Rischiamo che l’Unione finisca all’opposizione dopo le prossime elezioni”. Markus Söder è il ministro presidente della Baviera e per tutta la primavera si è conteso l’eredità di Angela Merkel con Laschet. Il bavarese, etichettato come populista, è più giovane, spigliato, con posizioni più nette e gode di maggiore popolarità. Ma Laschet è considerato il candidato naturale, l’uomo della continuità. Il partito ha perso molti consensi nei Länder orientali, a favore di Afd. Inoltre l’uscita di scena della Merkel peserà non poco sulle prossime elezioni. La Cdu ha voluto un uomo di sistema, forse grigio, ma affidabile, almeno sulla carta: ora aumentano i dubbi che non lo sia per gli elettori. La scalata di Laschet al partito inizia da lontano. Nato ad Aquisgrana sessant’anni fa, cresce in una famiglia cattolica francofona e di origine vallona. Suo padre era un minatore. Frequenta il coro della chiesa dove, da bambino, conosce la moglie. Anche lei è francofona e vallona, figlia di un imprenditore e nipote parlamentare.

La coppia ha avuto tre figli, due maschi e una femmina, il maggiore Johannes è un influencer di moda uomo. Laschet studia per fare il giornalista e diventa capo redattore di un giornale ecclesiastico. Nel 1994 viene eletto al Bundestag e poi all’Europarlamento. Torna in Renania settentrionale-Vestfalia e negli anni ricopre diverse posizioni di governo fino a diventare ministro presidente nel 2017. Intanto viene eletto come uno dei cinque vicepresidenti della Cdu, con lui c’è anche Ursula von der Leyen. In gennaio è scelto come presidente, ma il partito si spacca a metà. Laschet con la sua linea moderata ottiene il 52% dei voti, il suo avversario Friedrich Merz, considerato il Trump tedesco, il 48. Laschet è europeista, conservatore, vicino ai verdi, con posizioni aperte verso l’immigrazione e contrario ai matrimoni tra persone dello stesso sesso. In primavera, dopo aver vinto anche il confronto con Söder, Laschet si presentava come il candidato silenzioso che procedeva inesorabile verso la cancelleria. Non appena la campagna elettorale ha illuminato lui e non le sue idee, ha inanellato una gaffe dietro l’altra e perso consenso a ogni sua uscita.

Andrew, pochi giorni per dire la sua verità su orge e minorenni

Potentissimi e bambine. I circoli più esclusivi dell’élite globale, politica, intellettuale, economica, inclusa la famiglia reale britannica. Ricchezza, abusi, silenzi, insabbiamenti. Un’ereditiera, Ghislaine Maxwell, forse abusata essa stessa da un padre padrone, e un predatore sessuale. La storia dell’ascesa e caduta di Jeffrey Epstein non si è ancora chiusa, e ora torna a stanare dal suo castello uno dei grandi presunti orchi: Prince Andrew. Andiamo per gradi.

C’è un cadavere ingombrante: il fantasma di Jeffrey Epstein, miliardario americano, amico dei più potenti del mondo, morto il 10 agosto di due anni fa, suicida secondo l’autopsia ufficiale, in una cella del Metropolitan Correctional Center, uno dei carceri più duri di New York, dove scontava una infamante condanna per traffico sessuale di minori.

C’è la grande accusatrice: Virginia Roberts Giuffre, oggi adulta ma che non ha mai dimenticato di essere stata una delle 36 minorenni, alcune appena 14enni, finite nel giro di sfruttamento sessuale e pedofilia gestito da Epstein. Secondo l’accusa, attirate dalla ex compagna di Jeffrey, la Maxwell, tuttora in carcere, abusate, “prestate” ad amici potenti per i loro piaceri sessuali. Virginia, amministratrice dell’associazione di denuncia Victims Refuse Silence, è da anni alla testa di una battaglia legale per ottenere giustizia. E c’è, in impossibile fuga dal passato, il Principe Andrew: terzogenito di Elisabetta d’Inghilterra, noto per essere (stato) il figlio preferito della sovrana.

Accusato con dovizia di dettagli da Virginia, che giura di essere stata costretta ad avere rapporti sessuali con lui in tre occasioni: a Londra, nella casa di Ghislaine vicino ad Hyde Park; a New York, nel palazzo, quello sí principesco, di Epstein nell’Upper East Side; e in un’orgia nell’isola caraibica di Little St James, sede di molti dei festini di Epstein con il suo giro di vip. Era il 2001: lei 17enne, maggiorenne per le leggi britanniche ma non per lo Stato di New York. Lui di anni ne aveva più del doppio, 41; le due figlie Eugenie e Beatrice erano appena più giovani della Roberts. L’ennesimo colpo di scena in una storia già estrema per i reati, i nomi, gli eccessi, gli abissi in cui è intessuta: il tempo di Andrew sta per scadere. Ha fino a sabato 14 agosto per acconsentire alle richieste dei legali di Virginia, sempre ignorate, di collaborare alla ricostruzione dei fatti. Una richiesta avanzata per la prima volta più di sei anni fa, nel gennaio 2015. In una lettera resa pubblica nel corso di uno dei processi, a New York, proponevano un “colloquio sotto giuramento quando e dove voglia il Principe”. Lettera mai arrivata a destinazione, perché respinta da Buckingham Palace, già trincerato dietro la difesa della versione di Andrew, che ha sempre negato categoricamente ogni rapporto sessuale con Virginia e, in una disastrosa intervista con la Bbc, il 16 novembre 2019, ha detto di non avere nessun ricordo di quegli incontri e di non riconoscere le foto che li ritraggono insieme. Altrimenti, rivela il Times, la Giuffre procederà con una causa civile contro di lui nello Stato di New York. Il reato contestato: “violazioni sessuali e danni fisici ed emotivi”. Significa, per Andrew, un interrogatorio sotto giuramento e l’obbligo di consegnare lettere ed email relative a quegli incontri e alla sua lunga amicizia con Epstein. Gli anni di silenzio e la scomparsa dalla scena pubblica non sono bastati: ora il bivio è collaborare con le buone o collaborare con le cattive.

Se non si presenta all’annunciata convocazione, rischia una sentenza sfavorevole e il pagamento dei danni, che si possono presumere sostanziosi. Comunque vada, a quanto pare, il Principe non potrà più evitare di essere tirato dentro a una vicenda da cui ha tentato invano di prendere le distanze, sfruttando la protezione diplomatica accordata al suo stato di membro della famiglia reale. Un paradosso: Buckingham Palace ha sposato la sua versione dei fatti ma lo ha cancellato da ogni ruolo ufficiale, patronato, evento di rappresentanza, persino dall’album foto ufficiale del matrimonio della figlia Beatrice, il 17 luglio 2020, quando era già un appestato in abito di gala. Non è stato privato ufficialmente dei titoli reali, ma perfino nelle comunicazioni ufficiali di corte non è più indicato come Duke of York, il suo sito personale cancellato. Ai privilegi materiali con cui è cresciuto e che, dicono i biografi, hanno fatto di lui un bullo viziato, ha ancora accesso.

Versione vellutata di una totale damnatio memoriae. Ammesso che scampi alla giustizia Usa, non verrà mai riabilitato, nemmeno dopo la morte di Elisabetta: dietro alla sua caduta pare ci sia un Carlo disgustato, deciso a salire al trono di una Corona ripulita da ogni scoria. Lo difende solo la ex moglie Sarah Ferguson: sono divorziati da vent’anni ma vivono nello stesso palazzo, l’amore di un tempo trasformato in mutuo sostegno. Giorni fa ha parlato del caso Epstein. “Sono sicura al 100% che Andrew non abbia fatto niente di male”.

“Il pizzo? Il clan Di Lauro lo chieda a me…”. Così Lady Ricciardi regnava sulla camorra

Consapevole che la ‘pax camorristica’ le avrebbe consentito di far prosperare i business dell’Alleanza di Secondigliano di cui era indiscussa boss, ma non per questo disposta ad arretrare di un millimetro. “Vai a dirglielo a quelli della Vinella che vogliono i soldi, dissi mandaci l’imbasciata (…) ha detto così la Signora Maria che lei non li vuole cacciare i soldi, se se li vogliono venire a prendere, se li vengono a prendere da me”. Parlava così, Maria Licciardi, intercettata pochi mesi fa dalle cimici dei carabinieri del Ros mentre discuteva della sorte di un appartamento di Secondigliano finito al centro di un’asta giudiziaria. Quelli della Vinella sono gli uomini del clan Di Lauro, che volevano lucrarci una cresta da 5000 euro, ma rinunciano quando capiscono che la casa è di un parente di Maria ‘a peccerella’, che ha ispirato il personaggio di Scianel nella serie Gomorra. E che ieri nell’udienza di convalida del fermo notificatole sabato, ha deciso di non parlare.

“Dai dialoghi captati emerge l’autorevolezza della Licciardi nei rapporti con gli altri gruppi malavitosi”, si legge a pagina 34 del decreto di fermo firmato dai pm di Napoli Celestina Carrano, Giuseppina Loreto e Antonella Serio che ha impedito a “Mamma Camorra” di prendere il volo da Ciampino verso Malaga, dove l’attendeva la figlia Regina. Fermo convalidato ieri dal Gip di Roma che ha disposto il carcere: Licciardi si è avvalsa della facoltà di non rispondere. “Non abbiamo avuto tempo sufficiente per leggere gli atti” spiega l’avvocato di Licciardi, Edoardo Cardillo, “ritengo insussistente, quasi una forzatura, il pericolo di fuga basato esclusivamente sulla circostanza che la signora Licciardi non è stata trovata in possesso di un biglietto di ritorno in Italia”.

Il 15 marzo 2021 Licciardi viene intercettata mentre commenta con una sodale, che glielo legge, un articolo de l’Espresso a firma Francesca Fagnani che ne descrive le gesta e la carriera criminale. C’è un passaggio in cui la giornalista riporta un’analisi del procuratore capo Giovanni Melillo. “Il numero degli omicidi di camorra risulta chiaramente indicativo del raggiungimento di un sostanziale equilibrio mafioso. Se oggi a Napoli si spara meno che in passato è solo perché i cartelli camorristici sempre più potenti hanno bisogno della pace per fare affari”, scrive Melillo. “Bravo”, commenta Licciardi ad alta voce. In pratica gli dà ragione.

“Contratto troppo gravoso”: Poste multata da Agcm

L’Antitrust (Agcm) ha sanzionato per 11 milioni di euro Poste Italiane per abuso di dipendenza economica dal 2012 al 2017. Secondo l’Autorità, il gruppo postale avrebbe imposto clausole gravose nei contratti con Soluzioni, una società che ha svolto per Poste il servizio di distribuzione e raccolta di corrispondenza a Napoli. Poste, infatti, avrebbe adottato un insieme di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose tenendo condotte abusive che hanno prodotto un consistente squilibrio nel rapporto negoziale con Soluzioni, costretta, tra l’altro, a sopportare il divieto di trasporto e consegna congiunti dei prodotti di Poste e quelli di terzi, nonché a consentire a Poste di ridurre, a proprio piacimento, i quantitativi minimi e di modificare la tipologia dei prodotti. In pratica, secondo l’Antitrust, Poste ha ostacolato la concorrenza, perché con la sua condotta abusiva ha escluso un operatore che avrebbe potuto prestare la propria attività a favore di operatori postali alternativi e costituire un potenziale vincolo concorrenziale a livello locale.

“Dai mafiosi querele temerarie anche per ciò che dico”: il cronista dà addio alle conferenze

Troppe querele temerarie. Che ora gli arrivano anche per le ricostruzioni che fa del fenomeno mafioso durante le conferenze a cui partecipa in giro per l’Italia. Cesare Giuzzi, cronista del Corriere della Sera, ha detto basta con un post su Facebook: “Ci pensavo da mesi – spiega –. Ora ci denunciano non solo per quello che scriviamo, ma per quello che diciamo in pubblico. Prima non accadeva, e succede sempre di più”. “Fa parte del gioco prendere una querela per un articolo – prosegue il giornalista –. In media, ne ho una decina l’anno. Per un vecchio articolo del 2016 sulle società svizzere gestite dai Papalia ne ho ricevute 6, da 6 persone diverse: il boss, la zia, il genero, la moglie e i prestanome”. E fin qui l’ordinaria amministrazione.

Adesso “l’ultima frontiera è quella dei dibattiti – racconta Giuzzi – Nel 2017 ero a un incontro con Alessandra Dolci, capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano, si parlava delle infiltrazioni nei locali e nella ristorazione. In quell’occasione citai il nome di un ex sindacalista di locali da ballo spiegando che aveva avuto un processo per presunte autorizzazioni illegittime ed era stato prosciolto, e dissi che aveva un socio, tale Silvano Scalmana, che era stato in seguito arrestato nell’inchiesta ‘Platino’, la cui società era gestita da persone vicine alla cosca Barbaro-Papalia di Buccinasco ed era stato condannato. Questo signore ha visto il video dell’incontro e mi ha querelato. Lì si era posto il problema. Cosa dovevo fare? Evitare di citare l’episodio? Non pronunciare il nome? In questo caso, il nostro dovere di cronisti che fine fa?”. “Il nostro problema non è la possibilità di finire in carcere, che è assai remota, ma le querele temerarie – prosegue Giuzzi –. Serve una riforma: bisogna eliminare l’opposizione all’archiviazione, cioè la possibilità per chi querela di opporsi in via preventiva all’archiviazione del procedimento in modo da portare il denunciato comunque davanti al Gip. È una stortura perché se il pm ha chiesto l’archiviazione ha valutato che ci sono gli estremi per farlo”. Il fenomeno è diffuso, “ci sono decine di colleghi nella mia condizione”. Ma la querela temeraria colpisce soprattutto i freelance, “che spesso non sono tutelati dai giornali: devono prendere l’avvocato e pagarlo di tasca propria. Senza contare le cause civili: le richieste di risarcimento toccano chi è meno tutelato lì dove è più debole: nel portafogli. E lo rendono ancor più vulnerabile”.

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La cassa integrazione è sospesa. E la politica tace

Vorrei porre una domanda al governo dei “migliori”, che sembrava così sensibile al rilancio dell’economia: è al corrente che le persone mangerebbero tutti i giorni? Il governo Conte ha affrontato situazioni mai viste e vi ha fatto fronte con dignità, seppur con qualche pecca. Il governo Draghi, peraltro esperto di economia, sta affrontando problemi ben noti: quindi perché la cassa integrazione è sospesa? Mi risulta sia ferma da aprile. In questi mesi i lavoratori come sono sopravvissuti? Con prestiti che dovranno restituire con gli interessi, indebitandosi sempre più? Il governo dei “migliori” intende sostenere banche e strozzini al posto dei lavoratori? Una volta decisa la necessità della cassa, perché non pagarla regolarmente? I partiti della “sinistra” non hanno nulla da dire? Letta invece di proporre il voto per i sedicenni, perché non chiede puntualità per tali pagamenti?

Albarosa Raimondi

 

No ai compromessi: M5S lasci il governo

Non sono d’accordo con la prima pagina del 30 luglio: “Conte limita i danni”. La riforma chiedeva cento per ottenere novanta, non interessava mafia, delitti sessuali o altro, ma far in modo che i colletti bianchi (attraverso avvocati di grido), allungassero i processi per arrivare all’improcedibilità. Per la destra missione compiuta. Bisognava far una cosa sola, uscire dal governo. Auguri ai 5S per le prossime politiche, non vedo nulla di buono.

Francesco Magnetti

 

Caro Francesco, senza quel compromesso i processi d’appello morirebbero in 2 anni. Invece ora ci sono 4 anni per quelli ordinari, 6 anni per quelli sui reati con aggravante mafiosa e nessun termine per quelli di mafia, terrorismo, voto di scambio, stupro e narcotraffico. Le pare poco?

M. Trav.

 

Montanari, ottima risposta alla Bellanova

Complimenti vivissimi a Tomaso Montanari per la risposta intelligente data alla viceministra Teresa Bellanova, che si è arrogata il diritto di chiedere le sue dimissioni da Rettore dell’Università per stranieri di Siena. L’ignoranza è una cifra distintiva dell’arroganza… l’Università può essere molto utile per superare sia l’una che l’altra. Viceministra prego, “non è mai troppo tardi” .

Roberto Biagianti

 

Buongiorno, ho letto l’articolo di Tomaso Montanari e non posso che rinnovargli tutta la mia stima e ammirazione. Per quanto riguarda la Bellanova si può dire solo: “La verità ti fa male lo so”, come una vecchia canzone e di Caterina Caselli. Complimenti a voi tutti e saluti.

Isabella lamonica

 

Le “manovre” di Monti ci hanno affossato

Nell’articolo di Arrigo ho letto ciò che penso da anni: le scelte del governo Monti hanno peggiorato la situazione economica del Paese. Scelte che vengono sempre lette in riferimento al Pil o al debito pubblico. Sarebbe meglio rammentare, ad esempio, come dal 2012 gli effetti dell’aumento delle tasse sugli immobili abbia azzerato il valore commerciale delle seconde case, coinvolgendo chi in quelle località vive e lavora, non solo le immobiliari e i benestanti che se la cavano sempre. Tali manovre hanno effetto solo per il primo anno: dopo i maggiori introiti vengono progressivamente assorbiti dalle riduzioni di valore degli immobili stessi, non occorre essere un dottore commercialista per prevederlo. O forse l’obiettivo di quel governo era di breve durata? Far contenta Bce, Commissione Ue e Fmi e acquisire titoli da riscuotere negli anni successivi? Vedi Quirinale, rettorati, incarichi internazionali…

Roldano Spampinati

 

Giuseppe vs Mario, che differenza di stile

Leggendo le prime pagine del Fatto del 6 agosto, sono tornate in mente queste parole: “sono qui senza maschere”. Le disse l’allora premier Giuseppe Conte nel novembre 2019, davanti agli operai di Taranto, stremati dalla situazione (nota a tutti) e per poco non gli misero le mani addosso. Ora, apprendo che il presidente del Consiglio nella giornata del 5 agosto, non si è presentato in sala stampa per comunicare le ultime misure approvate in Cdm (non è mio intento né competenza esprimermi sulla loro utilità e – speriamo tutti – efficacia, ma piuttosto puntualizzare che, visto lo spaccato delle opinioni in proposito, creeranno diatribe) adducendo la volontà di dare “maggiore visibilità ai Ministri”. A me, a pelle, piace chi ci mette la faccia sempre e comunque, anche correndo il rischio di “impopolarità”. Voi che dite?

Alex Gasperi

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo pubblicato sabato sul Fatto a firma Lorenzo Giarelli e Giacomo Salvini, dal titolo “Puglia, Calabria, Lazio & C.: blitz per il malloppo”, ci tengo a precisare che l’emendamento di cui si parla si è reso necessario a seguito di verifiche effettuate sulla situazione di ex consiglieri regionali titolari anche del trattamento che ricevono dalle altre istituzioni. Si è infatti visto come il taglio applicato dalla legge regionale fosse maggiore rispetto all’emolumento percepito. La misura intende tutelare il diritto pensionistico pur nel rispetto dello spirito della norma che ha introdotto il taglio dell’ammontare dei trattamenti previdenziali.

Daniele Leodori,
Vicepresidente Regione Lazio