Rincari. La lunga scia della pandemia si abbatte su carburanti e alimentari

 

Gentile redazione, sicuramente ve ne siete accorti anche voi, i prezzi di carburanti, generi alimentari e medicinali è cresciuto in modo abnorme. Ma nessuno pare darci peso, neppure il Fatto. Ora, da pensionato quale sono, la cosa è di enorme importanza e condiziona le scelte spicciole: mi curo o mangio? Oppure, quanti giorni di vacanza posso permettermi, dove, quale albergo prenoto? Sicuramente non sono l’unico in questa condizione eppure nessuno ne parla. Vi invito ad approfondire l’argomento. Grazie.

Paolo Antolini

 

Gentile Antolini, impossibile non accorgersi degli aumenti. La crescita dei prezzi al consumo continua a salire mese dopo mese, come ha certificato anche l’Istat la scorsa settimana. Ma non è l’inflazione generale a essere preoccupante: sono i dati sui prezzi di lungo periodo che stanno creando un solco sociale. La causa è la lunga scia della pandemia: con un calo del Pil nel 2020 di quasi 9 punti percentuali e un mercato del lavoro sostanzialmente bloccato, i redditi degli italiani si sono ridotti, facendo aumentare le famiglie povere (+20%). Così diventa sempre più difficile riempire il carrello della spesa che ha subìto piccoli rincari nel corso dell’ultimo anno tra gelate e precipitazioni nel periodo di fioritura e il caldo torrido che sta bruciando frutta e verdura nei campi. E ora, a complicare tutto, c’è anche l’aumento vertiginoso del settore energetico: luce, gas e carburanti. La situazione provocata dal tracollo dei prezzi del petrolio ha fatto impennare i prezzi dei prodotti e dei servizi a esso collegati. E così, a ridosso delle partenze estive, si è costretti a spendere di più anche per il rifornimento: da inizio anno, un pieno da 50 litri è aumentato di 10 euro per verde e diesel. Sul fronte dei farmaci, invece, gli unici possono riguardare solo quelli da banco (sugli altri vigila l’Aifa): se però riscontra dei rincari, può cambiare farmacia. Gli aumenti, comunque, sono innegabili e le conseguenze pesantissime per tutte le famiglie. E questo avviene in un contesto politico dove si attacca un sostegno economico come il Reddito di cittadinanza che non solo è stato per anni una delle indicazioni all’Italia della Commissione Ue, ma è l’unica forma di sussidio anti-povertà.

Patrizia De Rubertis

Il riapparir del pinocchietto solitario molce cuore (e sguardo)

Sto aspettando di compiere il mio dovere quotidiano di portaborse, della spesa, e intanto spendo chiacchiere con un amico davanti a un lago verde smeraldo con larghe striature marroni. Ed ecco che mi scappa detto, Chi non muore si rivede!. L’interlocutore si guarda in giro per capire chi sia comparso per strapparmi simile esclamazione, caso mai fosse un vecchio conoscente da tempo sparito e finalmente tornato a respirare l’aria del paesello. Ma a parte facce note e altre del tutto ignote non ne viene a capo. Quindi mi chiede chi abbia visto per generare tanta meraviglia. Non chi, rispondo, cosa. E cosa allora?, ribatte lui. Ci gioco un po’. Guarda bene, lo invito. Tuttavia, per quanto lui rotei lo sguardo di qua e di là niente riesce a sorprenderlo. Tanto che dopo un po’ mi guarda con prognatica espressione che vale molto più di una domanda. Non cedo subito, lo tengo ancora un po’ attaccato all’amo che ho lanciato. Era da tempo che non lo vedevo, comunico. E infine, prima che lui si lasci andare a un gesto di nervoso, svelo l’arcano. Ma il pinocchietto, no! chiarisco. Il fantomatico pantalone che arriva a mezza gamba e non più giù, che svela candori di polpacci ipotonici, tristanzuoli calzini malleolari bianchi o neri, e che dona a chi li indossa, segnatamente uomini, un’aura desolata, come se fossero in cerca d’un perché. Perché tanti mi guardano, cos’ho che non va ? Ma il pinocchietto, tesoro, che non è né carne né pesce, un compromesso senza senso, una via di mezzo che non porta da nessuna parte. Ti guardano perché l’hai resuscitato dopo che parecchi, come il sottoscritto, l’avevano dato per morto e sepolto, e per fortuna, a tutto vantaggio del decoro dell’essere umano maschio e di una certa età. Coraggioso però, fa il mio interlocutore riferendosi all’indossatore. Lo ammetto. Ma anche varicoso, aggiungo, mentre il pinocchietto si perde tra la folla. Chissà se sarà un fatto isolato o l’inizio di un ritorno come capita a certe mode. Domani è un altro giorno, e si vedrà.

Green pass e #Metoo, chi ci capisce più?

 

“La musica contemporanea mi butta giù”

(Franco Battiato)

 

A me “buttano giù“ altre cose. Non ne posso più degli integralismi che attraversano la nostra società. Il primo è l’integralismo sul Covid o, per essere più precisi, sulle misure anticovid.

Intanto le comunicazioni del governo (mi spiace per il ministro Speranza che è una brava persona) e del suo Comitato scientifico sono così farraginose, complesse e contraddittorie che sfido qualsiasi persona normale a capirci qualcosa. Il Green pass ne è l’ultimo esempio. Se costoro pensano di trascinarci ancora per anni con vaccini, richiami dei vaccini e richiami dei richiami si sbagliano. Lo stress che sopportiamo da due anni non è più sostenibile. Non che noi si abbia la forza di ribellarci in modo attivo, lo faremo per omissione rifiutandoci di farci vaccinare. Oltre tutto è abbastanza chiaro, almeno così a me sembra, che il Covid 19 sfugge ai vaccini, preparati troppo in fretta e sulle cui conseguenze a medio e lungo termine non possiamo saper nulla, perché muta in continuazione. Tra l’altro opponendoci in modo così ottuso al Covid noi in realtà ne prolunghiamo l’esistenza. Se avessimo lasciato fare alla Natura quello che alla natura compete, cioè sfoltire la popolazione quando è in sovrabbondanza, il Covid sarebbe morto per inedia e sarebbe durato un paio di anni. L’epidemia si sarebbe ripresentata in forma diversa dopo qualche decennio com’è stato per tutte le epidemie del passato. Inoltre io non capisco proprio perché per salvare dei settuagenari od ottuagenari, in genere affetti da due o tre gravi patologie, si sia bloccata la vita di intere generazioni a cui il Covid non poteva far nulla. Che muoia chi deve morire e smettiamola con questa farsa tragica. “Settanta sono gli anni della vita dell’uomo” dice la Bibbia e padre Dante fissa il “mezzo del cammin di nostra vita” a 35 anni, il che vuol dire che gli uomini del Medioevo pensavano che una vita media, normale, avesse quella durata. Non ci si deve far fuorviare dal fatto che gli scienziati e gli storici, in perfetta malafede, affermano che la vita media dell’uomo del Medioevo era di trent’anni o poco più. Il dato è falso perché sconta l’alta mortalità natale e perinatale che lasciava in vita solo i più robusti. Il raffronto va fatto non con la vita media ma con l’aspettativa di vita dell’adulto. Da questo punto di vista, è vero, abbiamo guadagnato alcuni anni poiché questa aspettativa, secondo dati del 2016, è di 80,6 per gli uomini e di 85 per le donne. Ma bisogna poi vedere qual è la qualità della vita in questi anni che abbiamo strappato. Fatta ogni debita eccezione, tutti noi abbiamo esperienza di anziani che trascinano una vita che non è più una vita in interminabili e penose agonie cui sarebbe di gran lunga preferibile la morte. In fondo la morte, se non si trascinano le cose oltre ogni limite di decenza, è una cosa pulita. Infine noi stiamo creando, artificiosamente, un mondo di vecchi che pesa sulle generazioni più giovani e vitali. Lo psicoanalista Cesare Musatti, a novant’anni, e quindi al di sopra di ogni sospetto, disse: “Un mondo popolato in prevalenza da vecchi mi farebbe orrore”.

La seconda intollerabile intransigenza è quella del cosiddetto #Metoo. Il reato di molestie sessuali è il solo, mi pare, che prevede un’immediata presunzione di colpevolezza invece della presunzione di innocenza che, dal punto di vista giuridico, è il caposaldo di ogni democrazia che voglia definirsi tale. Adesso sotto il torchio di #Metoo, ma è solo l’ultimo di moltissimi casi analoghi, c’è il governatore di New York, Andrew Cuomo, accusato di “comportamenti inopportuni” e pressioni da undici donne. Il presidente Joe Biden ne ha chiesto le immediate dimissioni e la stessa richiesta l’ha fatta in una conferenza stampa la procuratrice generale di New York, Letitia James, che è un pm non un giudice. Vogliamo almeno aspettare una sentenza? In questi casi, come ho già scritto, io consiglio una querela per diffamazione, perché secondo le regole del diritto è l’accusa a dover provare l’esistenza del reato, non la difesa del presunto colpevole a dover provare la propria innocenza. E poi le “molestie sessuali” hanno assunto contorni sempre più estesi e sempre meno definiti. Che cos’è infatti un “comportamento inopportuno”? Tutto può essere “inopportuno”. Se io seduto sul mio divano abbraccio le spalle della donna che mi sta a fianco è un comportamento “inopportuno”? Se la guardo con troppa intensità è un comportamento “inopportuno”? Ma allora come faccio a farle capire che mi piace e che la desidero? Dovrò forse presentarle una richiesta scritta, come già si fa in America? In quanto a lei ha mille modi per farmi capire che la cosa non le va. Il primo, e il più eloquente, è alzarsi e prendere la porta di casa.

Il direttore dell’Orchestra Reale di Amsterdam, l’italiano Daniele Gatti, nel 2018 è stato licenziato in tronco per “comportamenti inappropriati”. Poi si sono aperte le cateratte che hanno investito, fra gli altri, Depardieu, poi assolto per “insufficienza di prove”, Placido Domingo, Vittorio Grigolo e da ultimo Kevin Spacey eliminato brutalmente dal cast di un film di Ridley Scott, carriera finita. Al ministro gallese, Carl Sargeant, non è bastato dimettersi, investito da una campagna stampa si è suicidato a 46 anni. Fin dove vogliamo arrivare?

Quando io ero giovane c’era tra noi ragazzi un codice non scritto. Faccio il solito esempio del ballo, “il ballo del mattone” come canta Rita Pavone. Se lei ti metteva il braccio sul petto voleva dire che era meglio lasciar perdere, se ti metteva la mano sulla spalla il segnale era neutro, se ti metteva il braccio attorno al collo era incoraggiante ma non aveva nulla di decisivo, sarebbero seguite altre schermaglie. Era l’eterno gioco della seduzione.

Oggi pare che i sessi, o generi, chiamateli come vi pare, non siano più capaci di intendersi. E comincia a diventare sinistramente vera un’affermazione del solito Nietzsche: “L’amore? L’eterno odio tra i sessi”.

 

Il paradosso di Simpson

José Luis Torrecilla, professore presso la Autonomous University of Madrid (Uam), ci riporta a un concetto che spesso ho richiamato nei miei articoli, l’importanza di applicare una statistica corretta per interpretare i dati. L’Autore porta l’ esempio del cosiddetto paradosso di Simpson, o effetto Yule-Simpson, che si ottiene quando l’associazione tra due variabili cambia completamente se ne viene introdotta una terza. Negli ultimi giorni ci sono stati diversi titoli che hanno affermato un aumento dei decessi dovuti a Covid tra le persone che sono state completamente vaccinate. Alcuni media sono persino arrivati ad affermare che “le persone vaccinate hanno sei volte più probabilità di morire a causa delle varianti di Covid-19”. Sebbene l’aumento del numero di persone vaccinate che contraggono l’infezione da SarsCoV2 sia una realtà, queste deduzioni mostrano che l’uso cieco, vale a dire, l’uso senza contesto, dei risultati statistici può portare a conclusioni errate. La maggior parte di questi errori deriva da un’analisi parziale o distorta dei dati offerti da studi scientifici, come quello pubblicato da Public Health England (Phe) il 9 luglio che addirittura afferma che “le persone vaccinate hanno sei volte più probabilità di morire”. Queste affermazioni sono errate e derivano da un’interpretazione non corretta e dannosa delle informazioni disponibili. Infatti tengono conto solamente dei parametri di infettati vaccinati e infettati non vaccinati e poi valuta l’incidenza dei decessi. In realtà, le conclusioni sono completamente opposte se si introduce un altro importante parametro, che ha un forte nesso causale con il problema: la fascia d’età di appartenenza. In effetti, contrariamente a quanto affermato tenendo conto solo di due variabili, se dividiamo la popolazione in giovani e ultracinquantenni, la percentuale di decessi tra i vaccinati nel primo gruppo è dello 0,036% e nel secondo del 2,2%, mentre tra i non vaccinati si sale al 3% e al 5,6%, rispettivamente. Come ripetuto, forse invano, prima di “dare i numeri”, bisognerebbe conoscere la statistica.

direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

L’omaggio felpato di Cassese per SuperMario: “Stile einaudiano”

Ritorna con tutto il suo entusiasmo e la sua memoria selettiva l’esimio Sabino Cassese, il giurista più draghiano del reame, con un intenso editoriale sul Corriere della Sera. “C’è del metodo nell’azione del governo Draghi”, esordisce Cassese, assertivo. Prosegue con piglio da Istituto Luce: “Affronta i problemi uno per volta, ma speditamente, ispirandosi all’einaudiano ‘conoscere per deliberare’. Si muove di buon passo, consultando, ma senza farsi bloccare dai troppi contrasti tra le forze politiche, né da troppo lunghe negoziazioni”.

Draghi va come un treno. “Un misto – scrive Cassese – di realismo, di pragmatismo e idealismo”. Del quale “gli italiani sono soddisfatti” dopo tanti governi del “non fare”, Sabino si permette di sottoporre 8 modeste proposte all’attenzione di chi governa, per continuare l’eccellente lavoro. Tanto siamo in ottime mani, malgrado i gufi che ancora non partecipano al coro, populisti residuali: “La classe politica era nemico da combattere, – infierisce – ora è la meta alla quale si aspira”.

La scappatella del “Chierico” Bettini contro la Giustizia

Penso che riusciremo a sopravvivere alla notizia, da lui medesimo annunciata con enfasi, che Goffredo Bettini firmerà per i referendum promossi da Radicali e Lega in tema di giustizia. Certo, chi ci capisce è bravo. Non era Bettini il più fiero e loquace ideologo dell’asse Pd-M5S? Non voglio pensare che su quell’alleanza egli scommetta per mere ragioni quantitative, anziché di qualità delle rispettive proposte politiche, per affinità tra esse. Essendo noto che una visione legalitaria è tuttora un tratto identitario non revocato del M5S.

Nel motivare la sua firma, Bettini muove da un giudizio francamente tirato: e cioè che la legge Cartabia non si discosterebbe sostanzialmente dalla sua bozza originaria (“un compromesso che non cambia la sostanza del testo varato dal governo Draghi”). Tesi doppiamente ardita. Sia perché trascura le correzioni sostanziali strappate da Conte (dalla esclusione dall’improcedibilità per i reati più gravi alla norma transitoria che ne differisce l’entrata in vigore. Già gli effetti della Bonafede erano differiti!). Sia perché misconosce così l’esordio della leadership di Conte, del quale Bettini continua a professarsi estimatore. Ma la cosa sorprende anche per altre ragioni. Discostandosi dalla linea del Pd e anche dalla sua cultura parlamentarista, egli esorcizza la contraddizione tra leale partecipazione a maggioranza e governo e scorciatoia referendaria. Minimizzando la partnership di Salvini. Palesemente strumentale ma che imprime ai referendum un sigillo politico decisivo. Con la puntuale ed eloquente adesione di Renzi, che, come su altri fronti, occhieggia a Salvini e da sempre, strategicamente, si adopera per spezzare l’asse Pd-M5S.

Bettini è troppo scafato per non intendere, al di là del merito del giudizio sia sulla legge Cartabia che sui referendum, come essi abbiano una allure (e anche qualcosa in più) in senso lato berlusconiana. O che, comunque, molti si applicano a concepirli e interpretarli così. Essi si inscrivono in una narrazione, da più parti veicolata, che fa leva sulla smemoratezza, secondo la quale la stagione delle leggi ad personam ce la saremmo inventata noi. Una guerra ai fantasmi, una nostra ossessione. Difficile negare il segno ostile alla magistratura inscritto nei referendum radicali. Non da oggi. Ma tanto più oggi: troppi vivono questa stagione come l’occasione propizia per dare una lezione alla magistratura, profittando della crisi e delle divisioni che l’hanno investita. Non basta, come fa Bettini in un inciso, evocare retoricamente l’eroismo di taluni magistrati per smentire il segno palese di quei referendum. Singolare altresì l’assenso all’abrogazione della legge Severino, varata da una larga maggioranza (comprendente il Pd) quale prezioso segnale di un’inversione di tendenza in tema di incandidabilità dei condannati. Anche questa ritrattazione è un segno dei tempi nuovi che hanno un sapore antico.

Infine: curiosa ancorché non nuova – di più: un classico – la motivazione ossia la preoccupazione di non lasciare alla destra cause che sarebbero della sinistra. Una teoria insidiosa che spesso si risolve nel suo contrario ovvero nell’accodarsi alle iniziative politiche degli avversari, per convincere se stessi e gli altri che non ci si è piuttosto acconciati a una palese subalternità. È questo il tratto della “sinistra innovativa, moderna, critica e libertaria” propugnata da Bettini? Con tutti i suoi limiti, meglio allora la vecchia sinistra che aveva una qualche sensibilità per la questione morale intesa come questione politica.

 

Le sfide di Conte, neo-presidente del (fu) MoVimento

Giuseppe Conte è ufficialmente il presidente del Movimento 5 Stelle. Lo era da mesi, ma le paturnie di Beppe Grillo hanno colpevolmente ritardato la votazione. Qualche considerazione.

Rinascite. Conte parte con un vantaggio e uno svantaggio. Il vantaggio di prendere il M5S nel punto più basso del Movimento in termini di attrattiva, e dunque Conte non potrà che migliorare il tutto. Ma anche lo svantaggio – appunto – di essere il leader di una forza percepita come senza arte né parte. Dovrà metterci molto del suo.

Montesano & Barillari. I due soggetti, benché inconsapevolmente, sono uno dei marker più evidenti del passaggio del M5S dal 33 al 15 per cento. Gente come loro era infatti parte di quell’elettorato complottaro e qualunquista, nonché talora becero e umorale, che ha votato a lungo i 5 Stelle. Barillari, addirittura, fu pure candidato (ed eletto!) col M5S. Ora questi figuri non solo non votano più il M5S, ma lo odiano pure. Ecco: è bene che Conte, con quel mondo lì, chiuda per sempre. E per chiudere non basta stare sulle palle a Montesano o Barillari: occorre perseguire una politica seria, lucida e ben poco furbina. A costo di perdere qualche voto.

Dignità. Conte vuole “restituire dignità alla politica”. Nobile intento, ma così è un po’ vago. Serviranno fatti concreti, coraggiosi e non sempre popolari a breve termine.

Cartabia sì, Cartabia no. Conte è stato bravo a salvare il salvabile sulla schiforma Cartabia, ma il danno era già stato fatto (non per colpa sua). Il bicchiere è ora forse mezzo pieno, ma di sicuro è pure mezzo vuoto. E Conte sa bene che non può spacciare per vittoria una riforma che prima di lui era da 0 e ora è da 4. Infatti non solo non esulta, ma promette di cambiarla radicalmente alle prossime elezioni se i 5 Stelle stravinceranno (uhm…). Si noti poi a margine il paradosso di una tale situazione: Conte non vede l’ora di tornare a votare per cambiare una legge che i 5 Stelle stessi hanno appoggiato. Boh.

Draghi sì, Draghi no. Conte sa di non poter uscire dal governo, come sa che dovrà ingoiare molti altri rospi. Così, un po’ per indole e un po’ per acume politico, gioca al democristiano: da una parte loda Draghi quando difende il reddito di cittadinanza, dall’altra allude a vaghe barricate per difendere battaglie identitarie. Che significa? Che Conte ha le mani legate, e più durerà questo governo al cloroformio più i 5 Stelle si ammosceranno. Con o senza “Giuseppi”.

Tour. Conte farà un tour su e giù per l’Italia, cercando di toccare ogni realtà. È un’ottima idea: dovrebbero praticarla anche gli altri nomi forti del M5S, che proprio sul contatto diretto con la base aveva fortificato il suo consenso.

Classe dirigente. Conte farà sapere a breve chi saranno i leader del suo nuovo M5S. Sarà uno snodo decisivo per valutare e soppesare il neo-segretario 5 Stelle.

Partito Conte. Non pochi osservatori storicamente contrari (a prescindere) al M5S sostengono che quello attuale è già un “Partito Conte”, solo che non si è avuto il coraggio di chiamarlo così. È possibile, ma non è detto che sia un difetto. Una volta entrato nel governo Draghi, il M5S è divenuto esangue, palloso e amorfo. A Conte, per certi versi, conveniva creare una forza totalmente nuova, cercando magari di inglobare anche Articolo 1 e Leu. Così non è stato. Conte resta però molto più forte e popolare degli attuali 5 Stelle. E dunque, poiché il giochino funzioni, dovrà rivoltarlo come un calzino. Senza snaturarlo, ma certo rinnovandolo radicalmente.

 

Olimpiadi, trionfa l’Italia multietnica. E lo ius soli?

Esultiamo. È l’Italia più grande di sempre, in campo sportivo, con le sue 40 medaglie olimpiche conquistate in 19 discipline diverse. Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, l’ha definita un’“Italia multietnica e super integrata”. Come dargli torto? Quel medagliere, oltre che un mosaico di storie di vita straordinarie, è una fotografia del Paese reale, o meglio della sua gioventù al tempo della crisi demografica e della seconda generazione di immigrati: si calcola intorno al 40% la percentuale di vittorie e piazzamenti dovuti al contributo dei nuovi italiani.

Guai, però, a sottolinearlo. Per aver definito il centometrista di colore Marcell Jacobs “un grande bresciano (alla faccia di chi so io)”, mi sono beccato il predicozzo di Salvini e di tanti altri che fino a ieri urlavano contro Balotelli “non ci sono negri italiani”. In effetti Balotelli, come il velocista Eseosa Desalu, ha dovuto aspettare il compimento della maggiore età per ottenere l’agognata cittadinanza. Troppo comodo adesso far passare noi fautori dei diritti dei figli degli immigrati come guastafeste, in nome del finto patriottismo di chi, pur di escluderli, si è trincerato dietro la difesa delle radici, dell’identità e delle tradizioni religiose di un’Italietta che fu. Ebbene sì: l’inno di Mameli ha salutato sul podio olimpico anche il marciatore Massimo Stano, convertitosi all’islam; l’arciera Lucilla Boari che ha dedicato la medaglia alla sua fidanzata; il lottatore Abraham Conyedo naturalizzato italiano solo nel 2019 pur di metterlo in squadra.

Mentre Salvini twittava il suo patriottismo da spiaggia bevendo aperitivi al Papeete, ragazzi italiani di tutti i colori conquistavano record e medaglie scavalcando gli ostacoli da lui stesso frapposti alle loro legittime aspirazioni. Da più di dieci anni aspettiamo invano l’approvazione di una legge – chiamata di volta in volta ius soli o ius culturae – che consenta loro di accedere alla cittadinanza per nascita o al compimento del percorso di studi. Sarà lecito, allora, in questo momento di univoca esultanza nazionale, porsi una domanda: a Tokyo la nuova Italia è andata bene, anzi, benone. Ma quante medaglie in più avremmo vinto se la legge sulla cittadinanza fosse già in vigore, consentendo a tanti altri giovani meritevoli l’iscrizione alle federazioni sportive? Basterebbe guardare il medagliere olimpico: l’Olanda ha meno di un terzo degli abitanti dell’Italia ma ha conquistato lo stesso numero di medaglie d’oro. Vuol dire che ha saputo capitalizzare con una legislazione all’altezza dei tempi la composizione multietnica della sua società.

Il primo a porre la questione è stato il presidente del Coni, Malagò, che ha parlato della necessità di un “ius soli sportivo”. Queste le sue parole: “Oggi in Italia c’è una legge. Ma se tu aspetti 18 anni per fare la pratica, rischi di perdere la persona. Allora farò una proposta: anticipare l’iter burocratico che è infernale. Altrimenti o l’atleta smette, o si tessera con il Paese d’origine, o arrivano altri Paesi che studiano la pratica e lo tesserano loro”. Ben venga, sull’onda delle vittorie olimpiche, lo “ius soli sportivo” proposto da Malagò. Ma poi dovrete spiegarci perché una corsia preferenziale dovrebbe essere riservata ai giovani immigrati meritevoli in campo sportivo, e non a quelli che eccellono negli studi scientifici, nella musica o in qualsiasi altra attività. Solo per confermare lo stereotipo secondo cui lo sport è il nuovo oppio dei popoli, e quindi ogni scusa è buona per rimpinguare il palmarès dei colori azzurri? Assai opinabile, peraltro, resta l’idea che la concessione della cittadinanza debba dipendere da criteri meritocratici anziché da requisiti oggettivi, uguali per tutti. Un conto è verificare l’adesione dei nuovi cittadini ai principi e alle regole della Costituzione, sia attraverso la formazione scolastica, sia con il giuramento. Ben altro è mascherare calcoli di convenienza col fasullo richiamo alla meritocrazia.

Al contrario, lo sport italiano oggi può fare da apripista, chiamando un Paese galvanizzato dal successo di quaranta giovani sconosciuti fino a ieri, e di tutto l’ambiente tricolore-multicolore in cui sono cresciuti, per fare breccia nelle paure e nei pregiudizi che hanno paralizzato la politica. Approfittiamo di questo momento magico. Ci sono tante altre madri come la badante Veronica, madre di Eseosa Desalu, impegnate in una vita di sacrifici, che vorrebbero vedere i loro figli andare in gita scolastica all’estero con i loro compagni di classe, e risparmiargli le lunghe file per il rinnovo del permesso di soggiorno, essendo nati in Italia o arrivati qui da bambini.

Il 23 settembre prossimo, quando riceverà la squadra azzurra al Quirinale, il presidente Mattarella potrebbe spendere la sua moral suasion in favore di tutti i figli degli immigrati, giovani promesse di un’Italia migliore.

 

Pompa, Farina, Brunetta e gli squadristi invidiosi che scrivono sui giornali

Gli squadristi facevano così. Andavano in sette otto, prendevano un avversario solo solo e lo bastonavano con ferocia. I giornalisti del “Fatto” e di “Repubblica” hanno fatto la stessa cosa con Renato Farina. Per invidia, credo: Farina è molto migliore di loro (Piero Sansonetti, 8 agosto).

L’arruolamento di Giacomo Matteotti in qualità di “consulente giuridico” nello staff di Renatino Brunetta, ministro forzista del governo in carica (nonostante Matteotti l’avesse duramente attaccato all’insediamento: “Meno male che c’è Brunetta. È un numero primo. Il migliore ministro che sia capitato all’Italia nel settore. Un professore di rilievo internazionale, la stampa internazionale l’aveva individuato nel campo dell’economia del lavoro come un potenziale Nobel. Uno dei pochi giganti del pensiero in circolazione”), è un segnale desolante. Matteotti violò la legge prendendo soldi dai servizi segreti come informatore a libro paga e agente provocatore, ruoli svolti entrambi con incredibile sprezzo del ridicolo. Perfino Vittorio Feltri gli diede del “vigliacco” quando Matteotti non volle ammettere di essere l’autore di un articolo che poteva costare il carcere a un collega della ghenga, Alessandro Sallusti. Vanno ricordate alcune faccende. La prima riguarda Enzo Baldoni, il reporter italiano morto in Iraq per mano di al Qaeda. Matteotti raccontò per filo e per segno la sua morte, vista in un video: s’era divincolato, ribellato e perciò fu ucciso; i nostri servizi segreti stavano per liberarlo, ma Baldoni, “un pirlacchione”, la pagò cara. Tutto falso; il video, inesistente. Era una manipolazione, una versione ispirata – lo si seppe tempo dopo – da Pio Pompa, gestore dell’ufficio di disinformazione aperto a Roma da Niccolò Pollari, il boss di un Sismi che voleva “disarticolare, anche con operazioni traumatiche”, i “nemici” del governo Berlusconi. E veniamo alla seconda faccenda perversa. Maggio 2006, tre anni dopo il sequestro a Milano, organizzato dalla Cia, di Abu Omar. Matteotti telefona come giornalista ai magistrati che indagano, Spataro e Pomarici, e chiede un’intervista: vuole rubare i segreti dell’inchiesta. Racconta loro alcune panzane, cerca di coinvolgere il pm Dambruoso (per spostare la competenza a Brescia) e quando esce chiama Pio Pompa: “È stata durissima, ma ce l’ho fatta”. Matteotti non immaginava di essere già intercettato, che il suo arrivo al palazzo di giustizia fosse atteso, e che sotto la scrivania dei magistrati ci fossero le microspie. Veniamo alla terza faccenda: per compiacere Pompa, Matteotti scrive il falso contro Romano Prodi, assicurando che da presidente del Consiglio fosse d’accordo con gli americani e i nostri servizi per il rapimento di Abu Omar (Pompa ottiene lo stesso piacere da Stefano Cingolani, all’epoca direttore del Riformista, che titola “Per la Ue erano removals. E pure Clinton disse ok”). Al processo, Matteotti patteggia una condanna a sei mesi per favoreggiamento. Poi entra in Parlamento, eletto in Forza Italia; e giocando tra dimissioni e reintegri è riammesso nell’Ordine dei giornalisti. Matteotti si sbuccia la lingua intervistando Berlusconi; annuncia attentati di al Qaeda mai esistiti; insulta gli ostaggi italiani in Iraq (Pari e Torretta “le vispe terese”, Sgrena rapita dai “suoi amici terroristi”); si considera un patriota della “quarta guerra mondiale”. Anche contro Ilda Boccassini Matteotti verga numerose infamie, accusandola di “rapire bambini”. Brunetta dice che Matteotti ha già pagato il conto per il suo passato. Ma come si fa a chiamare come consulente uno con quel curriculum!

Processo di Chieti, 1926: Dumini, Volpi e Poveromo condannati per omicidio preterintenzionale e invidia.

 

Vite dei Santi: sul “Foglio” la dragheide

Attenzione: per tutta la settimana sul Foglio c’è la vita di Mario Draghi a puntate. Già assurto allo status di venerabile, gli si dedicano biografie mentre è ancora tra di noi. Anzi: mentre è all’apogeo della sua carriera politica. Nel primo episodio pubblicato ieri – sulla genesi dell’epico “whatever it takes” – si inizia a tratteggiare il ritratto di un uomo ovviamente straordinario. “La narrativa dominante ne sottolinea la competenza, il carisma, il coraggio”. Ma non dimentichiamoci che Draghi è anche belloccio: “Il pubblico femminile gli riconosce un certo charme” e “lui lo sa”. È un “servitore dello Stato di levatura pari alla sua imperscrutabilità”, che “rifugge dai luoghi e dagli appuntamenti mondani, se deve andare a vedere la Roma, la sua squadra del cuore, va in curva” (e in effetti ce lo vediamo in Sud, nella parte bassa della gradinata, abbracciato ar Brasiliano o al nazista Giuliano Castellino). “Per chi conosce la sua sobrietà, Draghi è forse il primo a non apprezzare la retorica celebrativa”. Insomma a lui non piace che i giornali gli lecchino il culo in questa maniera e Il Foglio lo sa, ma se ne frega. Ai suoi lettori, insieme alla Dragheide, regalerà un rosario.