Santa Irene che ci hai dato i soldi europei

Un po’ come alle Olimpiadi, anche in politica ci sono grandi atleti misconosciuti. Prendiamo Irene Tinagli, vicesegretaria del Pd e presidente della commissione Affari economici dell’Europarlamento: l’accordo europeo sul Pnrr, pare, è merito suo. “Una trattativa storica: così abbiamo convinto i governi del Nord”, ci ha raccontato ieri su La Stampa. Ma chi sono questi noi? “In quanto presidente della Commissione Econ negoziavo col collega della Bilancio” e poi c’era pure “una squadra negoziale molto determinata” e non meglio definita, ma si capisce che il lavoro grosso l’ha fatto lei, Tinagli, tipo “l’aumento dell’acconto che abbiamo strappato l’ultima notte”. Meno male che Irene c’è e ha lasciato Montezemolo e Monti per tornare nel Pd e che Gualtieri è stato fatto ministro, sennò lei non diventava presidente a Bruxelles e oggi non avremmo il Pnrr. Voi dite che alla trattativa partecipò anche qualcun altro? Mah, può essere… L’unico altro nome citato da Tinagli è Draghi: sarà stato lui a trattare a Bruxelles?

Cambiamenti già irreversibili

Se nel 2018 il Gruppo intergovernativo dell’Onu sul cambiamento climatico (Ipcc) aveva stimato che c’era tempo fino al 2030 per impedire al pianeta di raggiungere la soglia cruciale di 1,5 gradi sopra i livelli pre-industriali, ora il “Climate change 2021” va oltre.

Dice che limitare il riscaldamento a 1,5 o 2 gradi sarà “un obiettivo fuori da ogni portata” se non si ridurranno subito e su larga scala le emissioni di gas serra. E, comunque, se tali riduzioni porterebbero senza dubbio rapidi benefici per la qualità dell’aria, potrebbero essere necessari tra i 20 e i 30 anni perché le temperature globali si stabilizzino. D’altro canto pandemia e lockdown hanno fatto ridurre del 7% le emissioni globali di CO2, ma non la concentrazione di anidride carbonica e, quindi, non hanno prodotto “nessun apprezzabile effetto sulla temperatura del pianeta”. Di fatto, la temperatura globale dovrebbe raggiungere o superare 1,5°C di riscaldamento già nei prossimi 20 anni. L’ultimo rapporto Ipcc dice anche che le emissioni provenienti dalle attività umane sono responsabili di circa 1,1°C di riscaldamento rispetto al periodo 1850-1900. Gli esperti rilevano che molti dei cambiamenti nel clima della Terra registrati sono “senza precedenti in migliaia, se non centinaia di migliaia di anni”. Il livello dei mari sale a ritmo triplo rispetto al XX secolo. Nel 2019, le concentrazioni atmosferiche di CO2 sono state le più alte degli ultimi 2 milioni di anni, quelle di metano e protossido di azoto le più alte degli ultimi 800 mila anni. C’è una probabilità di oltre il 50% che un riscaldamento di 1,5°C venga superato negli anni immediatamente successivi al 2030, in anticipo rispetto a quanto valutato nel 2018. Rimanere sotto la soglia di 1,5°C sarà possibile solo con un’immediata diminuzione delle emissioni di gas serra, raggiungendo emissioni nette di CO2 pari a zero a metà del secolo.

Cosa ci aspetta? Con 1,5°C di riscaldamento, un incremento del numero di ondate di calore, stagioni calde più lunghe e stagioni fredde più brevi. A 2°C, si raggiungerebbero più spesso soglie di tolleranza critiche per agricoltura e salute. In alcune regioni, piogge e inondazioni più intense, in molte altre a essere più intensa sarà la siccità. Su scala globale, gli eventi estremi di precipitazione giornaliera si intensificheranno di circa il 7% per ogni grado di riscaldamento. Quelli riferiti al livello del mare che prima si verificavano una volta ogni 100 anni, entro fine secolo potrebbero verificarsi ogni anno. Un ulteriore riscaldamento, poi, intensificherà lo scioglimento del permafrost, dei ghiacciai e della calotta polare.

Per salvare il clima infuocato ora facciamo causa agli Stati

IIl nuovo rapporto Ipcc sullo stato del clima globale non stupisce gli addetti ai lavori: non fa altro che certificare con il timbro delle Nazioni Unite la drammatica situazione del riscaldamento globale, attraverso l’analisi di 14.000 pubblicazioni di settore uscite negli ultimi anni, da parte di centinaia di esperti climatologi, idrologi, glaciologi, fisici dell’atmosfera e oceanografi. Non stupisce nemmeno i lettori del Fatto, in quanto buona parte di queste pubblicazioni sono state commentate su queste pagine via via che uscivano. E le notizie incalzanti sugli eventi climatici estremi che punteggiano il globo, dai 50 gradi in Canada alle alluvioni tedesche, forniscono ormai anche al non esperto un allarme percepibile e traumatico sulla coerenza con la realtà degli scenari climatici di cui si parla da trent’anni. Tutti sanno e nessuno agisce.

Ogni tanto una sirena suona un po’ più forte, come questo nuovo rapporto fatto di urgenza, di irreversibilità, di “tante cattive notizie con piccole pepite di ottimismo” ma poi, passato qualche giorno, tutto torna come prima. Perfino quando la soglia del panico è stata superata con l’irruzione della pandemia nelle nostre vite, e durante i confinamenti sanitari abbiamo esclamato che la lezione del virus andava appresa e applicata anche al clima e all’ambiente, abbiamo fallito. Tutto è tornato infatti come prima e più di prima, visto che le emissioni di CO2 hanno ripreso i livelli del 2019 annullando la breve flessione del 7 per cento del 2020.

Assistiamo impotenti alla nostra cottura a fuoco lento, tra rapporti ufficiali, vertici politici tipo G20, conferenze internazionali sul clima – ce ne sono state 25 dal 1992, anno di approvazione a Rio de Janeiro della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la prossima sarà a Glasgow in novembre –, e accordi non vincolanti sulla riduzione delle emissioni, da Kyoto a Parigi. Ma è tutto terribilmente lento e vischioso, mettere d’accordo Paesi ricchi e poveri è difficile, tassare l’energia fossile è economicamente scorretto, chiedere rinunce ai cittadini non si può fare, minacciare la crescita del Pil è un’eresia. Quindi si inventano palliativi che tentano a parole di attenuare il rischio climatico, come il Green deal europeo o la transizione ecologica italiana, ma si tratta di scelte parziali, che hanno come primo obiettivo non quello di curare la soffocante patologia climatica, bensì di salvaguardare l’economia di mercato e l’impossibile crescita economica infinita in un mondo finito. Si aggiungono un po’ di pannelli solari, pale eoliche e auto elettriche ma non si ha il coraggio di togliere nulla di ciò che i danni li provoca ogni giorno.

Un esempio emblematico perché tutto giocato nelle istituzioni è il tunnel Tav in Val di Susa: emetterà almeno 10 milioni di tonnellate di CO2 per la sua costruzione nei prossimi dieci anni, non riuscirà probabilmente a recuperarla con il risparmio sui nuovi transiti, comunque sia dopo il 2050, e quindi è in palese violazione dello stesso programma europeo di decarbonizzazione urgente con prima scadenza del 55% al 2030, eppure viene ipocritamente sostenuto dalla Commissione e dai governi francese e italiano come opera “ecologica”.

Ci aggiungiamo ora il redivivo ponte sullo Stretto, dipinto di verde, senza un solo numero che lo certifichi tale. È questa contraddizione di fondo tra le parole ecologiche e i fatti distruttivi che porta all’ennesimo allarme della scienza: una conferma di quelli precedenti con in più l’elenco di estremi climatici nel frattempo avvenuti e il timore che il tempo per correre ai ripari non basti. Di fronte a questa ulteriore verifica di inefficacia metodologica – trent’anni di avvertimenti perduti, trent’anni che sarebbero stati utili per avviare una transizione che ora si fa sempre più ardua –, tocca interrogarsi se non sia opportuno ricorrere ad altre strategie. Se il buon senso non basta, se le pressioni economiche l’hanno sempre vinta sul principio di prudenza sostenuto dalla scienza, se il sentire popolare preferisce evitare il confronto con i rischi a lungo termine, se la politica del consenso immediato non vuole imbarcarsi in dolorose rinunce che non pagano in termini di voti, forse non resta che il ricorso alla giurisprudenza.

Per il disastro climatico incombente è venuto il tempo di citare in tribunale i responsabili dell’inadempienza. Lo hanno già fatto con successo alcune cause come Urgenda nei Paesi Bassi, l’Affaire du Siècle in Francia o Friends of the Irish Environment in Irlanda. Le supreme corti hanno dato ragione ai cittadini: gli Stati inadempienti nei confronti dell’emergenza climatica minacciano la vita delle generazioni più giovani e sono stati condannati a fare di più. In Italia la causa climatica è stata depositata a giugno con il nome di “Giudizio Universale” e vedremo se avrà gli effetti sperati. Curiosamente gli umani non sono capaci di decidere in termini razionali ma preferiscono uniformarsi, anche con la forza, a delle regole. Basterebbe la termodinamica come regola naturale assoluta a cui rispondere, ma i suoi effetti, gravi e irreversibili sul lungo periodo, sono inizialmente percepibili solo dagli scienziati che urlano inascoltati. Usiamo allora le più familiari regole del diritto per convincere tutti a fare qualcosa per salvarci. Sperando che la riforma Cartabia non cassi anche il nascente reato di ecocidio.

Liguria, controlli e lavori finti. Fuorilegge il 75% delle gallerie

Quattro gallerie su cinque fuori legge. Controlli che dovevano essere effettuati a vista sostituiti da giri in macchina e occhiate sfuggenti date dagli ispettori passando in autostrada a 60 chilometri all’ora. Senza mai interrompere il traffico, spesso al buio. Le onduline, lamiere pensate come rimedio temporaneo per tamponare le perdite d’acqua, che diventavano soluzioni semi definitive, dimenticate per decine d’anni. Ecco perché, secondo gli inquirenti, anche i rapporti sulla sicurezza dei tunnel erano inevitabilmente e sistematicamente falsi. È il quadro che emerge dalla consulenza tecnica depositata pochi giorni fa dai tre esperti incaricati dalla Procura di Genova all’indomani del crollo della galleria Berté, sulla A26, il 30 dicembre del 2019. Un incidente che, un anno e mezzo dopo il crollo del Ponte Morandi, ha rischiato di riportare la morte sulla rete controllata da Autostrade per l’Italia. Secondo il collegio di esperti – formato da Franco Bontempi, Paolo Galli e Maria Migliazza –, fino al 2020 erano fuori norma il 75% delle gallerie autostradali del tronco ligure, che costituiscono circa un terzo dei tunnel italiani.

Nel nuovo filone di indagine sulle infrastrutture gestite da Aspi la Procura aveva iscritto inizialmente 21 indagati. Nell’ultima informativa depositata negli ultimi giorni dal Primo Gruppo della Guardia di Finanza i nomi sono saliti a una quarantina. Il fascicolo è destinato a confluire in quello che si appresta a diventare un secondo maxi-processo, che seguirà quello per i 43 morti travolti dal crollo del Morandi.

Il fascicolo comprende anche le falsificazioni sui viadotti e la vicenda delle barriere fonoassorbenti fallate e pericolose, che aveva portato lo scorso autunno all’arresto dell’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci. Il nome di Castellucci è il più noto fra quelli coinvolti nel dossier gallerie, insieme all’ex numero tre della società Paolo Berti e all’ex capo delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli. I reati contestati sono a vario titolo di disastro e crollo di costruzioni, falso, attentato alla sicurezza dei trasporti, violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, omissione d’atti d’ufficio, violazione dei contratti di pubbliche forniture e della concessione, per non aver adeguato la rete alle norme di sicurezza Ue. Nell’elenco figurano anche gli ex dirigenti Mario Bergamo, Sandro Fusari, Mauro Moretti e Matteo De Santis; l’attuale direttore del tronco ligure Mirko Nanni, il suo predecessore Stefano Marigliani.

Sono indagati anche manager e tecnici di Spea Engineering, società controllata da Aspi che avrebbe dovuto monitorarne le opere: l’ex Ad Antonino Galatà; i quadri Massimiliano Giacobbe, Fabio Sanetti, Giampaolo Nebbia; i tecnici Marco Vezil, Antonio Valenti, Serena Alemanni, Andrea Arado, Christian Cappelletti, Giorgio Melandri, Roberto Palumbo, Giovanna Pischedda.

Gli accertamenti sulle gallerie – coordinati dal procuratore Francesco Pinto e dai pm Walter Cotugno, Daniela Pischetola e Stefano Puppo – si sono sviluppati con uno schema molto simile a quello seguito per i viadotti: dall’analisi di una singola opera, i magistrati hanno ricostruito un sistema. Il tunnel Berté, sul passo del Turchino, era stato certificato da un’ispezione di due mesi prima come in buona salute. Un voto secondo cui non sarebbero state necessarie manutenzioni per altri cinque anni. Sulla carreggiata, quel giorno, sono crollate due tonnellate e mezzo di cemento. Gli investigatori hanno raccolto elementi che dimostrerebbero un quadro sistemico di falsificazione e una situazione generale forse persino più compromessa di quanto scoperto sullo stato di salute dei viadotti. Particolarmente significativa, secondo i finanzieri diretti dal colonnello Ivan Bixio, una mail del 15 marzo 2010 inviata dall’ex dirigente Spea Massimiliano Nebbia ad alti manager del gruppo: “È problematico dire rispetto ai nostri impegni contrattuali che le ispezioni in galleria non vengono fatte”.

Il quadro che emerge dalla consulenza depositata nei giorni scorsi conferma sostanzialmente quanto emerso dai rilievi dell’ispettore del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti Placido Migliorino. A partire dal 2020, la Liguria è stata costretta ad aprire cantieri per tamponare l’emergenza. Chiusure e lavori stanno provocando traffico e disagi. Al punto che, nelle scorse settimane, un gruppo di sindaci liguri ha minacciato proteste clamorose, come la revoca dei permessi ad allestire i cantieri. “Il problema è che molte infrastrutture in Italia sono a fine vita – spiega Migliorino – dove i concessionari hanno effettuato più manutenzione, la situazione è un po’ migliore. Ma se si posticipano tutti gli interventi si finisce per dover fare tutto insieme”.

Dopo il rinnovamento dei vertici, Aspi ha silurato Spea e sottolinea di aver varato “una progressiva e radicale ridefinizione dei modelli di sorveglianza dell’infrastruttura” e di aver varato “un piano straordinario di manutenzioni che ha portato a spendere “400 milioni di euro nel 2019, 650 nel 2020 e a programmare 650 milioni di investimenti per il 2021”.

Figliuolo punta ai giovanissimi: con buona pace degli over 50

Sono 71.876.858 le dosi di vaccino anti Covid somministrate in Italia, alle 17 di oggi. Lo comunica il ministero della Salute. Sono invece 34.560.348 gli italiani che hanno ricevuto la doppia dose e sono immunizzati, il 64% della popolazione over 12. E dopo Ferragosto, spiega il commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo, la campagna vaccinale punterà soprattutto sui giovani in vista della riapertura delle scuole.

L’annuncio della nuova strategia governativa è arrivato ieri nel corso della visita di Figliuolo all’hub vaccinale di Senise, in provincia di Potenza: “Da dopo Ferragosto inizieremo con un’attività mirata per i più giovani senza dimenticare gli over 50, perché è una categoria che oggi ha bisogno di incrementare il numero dei vaccinati e che, con le varianti, rimane a rischio”. Infatti, negli ultimi due mesi grossi progressi sugli over 50 non se ne sono fatti, mancando all’appello ancora 4,4 milioni di persone. “Dobbiamo pensare alla riapertura delle scuole in sicurezza – ha continuato il militare – e il Comitato tecnico scientifico ha posto come obiettivo sufficiente quello di raggiungere il sessanta per cento degli studenti vaccinati prima dell’inizio delle scuole. Per fare questo, vista la molto buona propensione di questa categoria a vaccinarsi, il pensiero è quello di fare un piano che possa, a partire appunto da dopo Ferragosto, permettere a questi giovani di arrivare presso gli hub con corsie preferenziali, praticamente senza prenotazioni. Questo lo faremo in tutta Italia”.

Un’operazione alla portata secondo Figliuolo, perché “dal 16 agosto in avanti avremo, rispetto a quello che pensavamo, tre milioni di dosi in più, grazie all’azione del presidente del Consiglio, Mario Draghi, con la Commissione europea. Quindi dal 16 agosto fino a fine mese, avremo circa 10 milioni di dosi a livello nazionale che ci permetteranno di continuare con un ottimo passo”.

Ai ristoratori basterà vedere il Green pass

“Andare al ristorante con il green pass è come andare al cinema e mostrare il biglietto”. È questo il paragone della ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, a proposito delle proteste dei ristoratori e degli esercenti per quanto riguarda i controlli del certificato verde. “Certo non sono tenuti a chiedere la carta d’identità – ha spiegato ieri la ministra nel corso di una diretta sul sito de La Stampa – e faremo una circolare come Viminale per spiegare che non sono tenuti a farlo. Nessuno pretende che gli esercenti chiedano i documenti, i ristoratori non devono fare i poliziotti”.

Sul fronte scuola, col conto alla rovescia al ritorno tra i banchi, anche i presidi prendono posizione sui “controlli”. Di fronte al nuovo compito, assegnato loro dal governo, di verificare il possesso di green pass del personale scolastico, son pronti ad alzare gli scudi soprattutto perché rischiano una multa fino a mille euro qualora non assolvessero all’obbligo previsto. Il primo a opporsi è il presidente dell’Associazione nazionale presidi Antonello Giannelli che chiede ottomila assunzioni nelle segreterie per poter garantire il controllo: “Noi siamo favorevoli al green pass ma chiediamo strumenti per i presidi. Serve un’unità di personale di segreteria in più in ogni scuola ed è necessaria una banca dati per consentire di conoscere chi non è in possesso del green pass. È normale che la violazione di un obbligo sia sanzionata. Accade anche per chi omette di vigilare sul divieto di fumo o per chi omette di trasmettere tempestivamente all’Inail la segnalazione degli infortuni sul lavoro. Trovo però inaccettabile che ai dirigenti scolastici non siano assegnate le risorse umane che chiediamo da tempo, ovvero più personale di segreteria e quadri intermedi, che sono assolutamente necessarie per assolvere i compiti, sempre più numerosi, che ci vengono richiesti. La politica dovrà ricordarsi dei presidi anche al momento del rinnovo contrattuale”.

I dirigenti del Lazio chiedono che sia la Regione e non loro, a occuparsi della verifica dei “passaporti” vaccinali. Chi sta in trincea e tra poche settimane dovrà provvedere anche a controllare docenti, bidelli ed educatori spera che il governo faccia un passo indietro: “Ovviamente – spiega Fabiola Martini, preside dell’istituto secondario di primo grado “Diaz” di Olbia – si aggiunge un’incombenza in più alle tante altre. È stato fatto uno scaricabarile su di noi. Questo controllo lo dovrebbe fare l’Asl, chiedendo gli elenchi e verificandoli. Vediamo come si evolve la situazione. Se ci toccherà pure questa faremo una ricognizione prima dell’inizio delle lezioni ma conto di non avere docenti no vax”.

Giovanna Mezzatesta, preside del liceo “Bottoni” di Milano non ha problemi a dire che si tratta di “una sciocchezza. Già mi immagino il primo settembre davanti alla scuola a verificare ogni persona con il mio telefono. La cosa più buffa è che dal 26 al 31 ci saranno i corsi di recupero ma nessuno ci ha chiesto di verificare il green pass”. Intanto la sottosegretaria all’Istruzione ha definito le sanzioni ai presidi e al personale scolastico “un accanimento”.

Nel frattempo negli ultimi trenta giorni sono state trecento le persone decedute con diagnosi da Covid-19 e 113.131 i contagiati, di cui 1.313 tra gli operatori sanitari. È quanto emerge dalla Sorveglianza integrata sul portale dell’Istituto superiore di sanità all’8 agosto. I dati sono in rialzo rispetto a una settimana fa (relativa ai trenta giorni precedenti), quando si contavano 260 morti e 81.714 contagiati, di cui 915 tra gli operatori sanitari. I decessi sono stati fino a oggi 127.399 da inizio pandemia, il 2,9% del totale dei contagiati; i casi totali 4.386.372, di cui 139.795 tra sanitari, 4.011.252 i guariti; 46 anni l’età media dei contagiati, negli ultimi 30 giorni 27 anni.

Anti-Covid: paese che vai, strategia che trovi

Sono nuovi i record di contagi e le varianti che serpeggiano valicando i confini nazionali, ma antiche le paure che si diffondono veloci come il virus da un lato all’altro del mondo e diverse le strategie adottate per combattere il SarsCov2.

 

Lockdown soltanto per i soggetti fragili

L’Islanda troneggia al primo posto delle classifiche delle vaccinazioni globali, ma non è immune dalla pericolosa variante Delta. Nell’isola di soli 350 mila abitanti il numero di morti per Covid nel 2021 è preciso: solo uno e risale al maggio scorso. In totale i decessi per il virus, dall’inizio della pandemia, sono stati trenta e i contagi totali poco più di 8 mila. Nonostante i soggetti fragili siano sottoposti a misure d’isolamento (per tutti gli altri ogni restrizione è finita il 21 giugno), oltre il 90% degli over 16 abbia ricevuto la prima iniezione e tra una settimana anche i 12enni verranno protetti con il siero, il Paese, con l’85% della popolazione già vaccinata con doppia dose, registra un aumento di contagi: sono solo poche decine, ma quelle cifre in aumento sono un segnale d’allarme per gli scienziati nel resto del mondo, perché l’Islanda dimostra che anche quei Paesi che possono vantare il successo della loro campagna vaccinale, non sviluppano l’immunità di gregge: si evita il collasso delle strutture sanitarie e si salvano vite, ma non la diffusione del virus, che contagia anche chi ha ricevuto una doppia dose. La guerra pandemica non è finita, è solo “iniziato un nuovo capitolo della battaglia” contro il Covid, ha detto il responsabile capo dell’emergenza Thorolfur Gudnason.

 

Si ritorna in fila per la 3ª puntura

Invece gli israeliani tornano in fila per la terza dose di vaccino e in 420 mila l’hanno già ottenuta. E come a Reykjavik, anche a Tel Aviv la campagna vaccinale ha raggiunto la maggior parte della popolazione: quasi il 70% dei giovani e quasi il 90% degli adulti aveva già completato il ciclo vaccinale delle due dosi. Adesso, con quasi 5 mila positivi al giorno Israele rispetto ai contagi è ritornato al marzo scorso, quando però i nove milioni di abitanti non erano ancora protetti dal siero. D’altra parte un recente studio del ministero della Sanità di Tel Aviv ha rilevato che il vaccino, pur perdendo con la variante Delta efficacia nel contrasto del contagio, resta efficace al 93% (era del 97% contro il ceppo originario e la variante inglese) nel prevenire i ricoveri e le forme gravi di malattia da Covid-19.

 

Pochi vaccinati e si chiude tutto

Nelle Filippine, dove solo il 10% della popolazione è vaccinata, c’è un primato funesto di cifre al rialzo: oltre 10 mila nuovi casi nelle ultime 24 ore e 287 morti negli ultimi due giorni. Sono questi i numeri che hanno spinto il presidente Rodrigo Duterte a dichiarare un maxi lockdown fino al prossimo 20 agosto nel Paese che ha oltre un milione e mezzo di infetti e un aumento velocissimo delle ospedalizzazioni. La causa della diffusione, secondo le autorità, è il mancato rispetto di protocolli e restrizioni che ora sono obbligati a osservare 13 milioni di filippini in 16 città. La capitale Manila, megalopoli da 14 milioni di persone, rimane afflitta dalla variante Delta nonostante le file ai centri vaccinali di quanti hanno avuto paura dalle parole del capo di Stato che ha minacciato di arrestare quanti non si presentino per l’iniezione.

 

I no vax all’assalto della sede Bbc

A Londra decine di manifestanti no vax ieri hanno tentato di assaltare la sede della Bbc di White city, accusando la tv di Stato di fare disinformazione. Nel Regno Unito i positivi sono oltre 25 mila al giorno, la copertura vaccinale è all’89% per la prima dose, al 75% per la seconda: la campagna è rallentata dalla resistenza al vaccino della fascia 18-24, che però viene affrontata con soluzioni creative, come biglietti omaggio per eventi musicali, un concorso con premi in denaro per studenti dell’Università del Sussex, sconti sui taxi o sui take away al ristorante. Il governo ha dato il via all’immunizzazione del milione e quattrocentomila 16-17 enni in Gran Bretagna, mentre quella per i minori fra i 12 e i 15 anni sarà offerta solo in caso di particolare vulnerabilità al Covid. E il ministro della Salute Sajid Javid ha chiesto alla Competition and Markets Authority di indagare sull’eccessivo costo dei test necessari per viaggiare, in risposta alla pressione pubblica per calmierare i prezzi dei tamponi privati, gli unici accettati dalle compagnie aeree.

 

L’allarme da Wuhan: “Nuove varianti in arrivo”

In Cina, oltre un miliardo di abitanti, solo 125 nuovi casi confermati nelle ultime ore, ma la velocità con cui infetta la variante Delta preoccupa Pechino che sanziona oltre 30 funzionari nelle province più colpite per non aver saputo gestire l’emergenza. Nella “culla del virus”, Wuhan, undici milioni di cittadini sono stati testati in meno di una settimana: solo nove i casi di Covid riscontrati. Shi Zhengli, a capo del laboratorio di virologia della città, ha però lanciato l’allarme: “Nuove varianti sono in arrivo”. In tutto, le dosi di vaccino somministrate nel Dragone superano il miliardo e mezzo.

 

Un continente del tutto abbandonato a se stesso

L’Africa è un gigante malato: su un miliardo e mezzo di persone solo 65 milioni di dosi sono state somministrate. L’Oms riferisce che nel continente è dell’89% l’aumento dei decessi nelle ultime quattro settimane e la tragicità della terza ondata è “senza precedenti” ha riferito Phionah Atuhebwe, responsabile dell’organizzazione per il continente africano. Sono sei i milioni di persone infettate, ma il numero aumenta per l’alta trasmissibilità della variante Delta. Quasi 160 mila persone hanno già perso la vita per carenza di medicine, ossigeno e vaccini con la pandemia.

 

Continua il negazionismo dei trumpiani negli Usa

Dalla scorsa settimana, i casi di contagio da Covid negli Usa superano di nuovo i 100 mila al giorno, non accadeva da febbraio. Anche la media dei ricoveri è aumentata in una settimana di oltre il 40% mentre i decessi restano contenuti. La recrudescenza della pandemia, largamente dovuta alla variante Delta, compromette la ripresa dell’economia e il ritorno alla normalità delle scuole. Quasi tre americani su cinque, il 58%, hanno avuto almeno una dose di vaccino. Nella lotta al Covid, la discriminante politica resta netta: i governatori trumpiani osteggiano l’uso della mascherina dalla Florida al Texas, dove è stata vietata ai funzionari pubblici, e snobbano gli inviti alla prudenza del presidente Biden.

“Impedire con una legge questi sfregi alle vittime”

“La proposta di Durigon di intitolare il parco di Latina a Arnaldo Mussolini rispetto a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino è uno sfregio alle 560 vittime innocenti di Sant’Anna di Stazzema”. Maurizio Verona sa di cosa parla: è il sindaco Pd di Stazzema, piccolo comune di 2 mila abitanti sulle Alpi Apuane in provincia di Lucca, dove il 12 agosto 1944 avvenne uno dei più terribili eccidi nazifascisti. Quel giorno una truppa di soldati delle SS, come rappresaglia contro i partigiani, accerchiarono il paese per fermare ogni via di fuga sulle montagne e fucilarono chiunque incontravano davanti a sè, compresi circa 70 bambini.

Oltre all’annuale ricorrenza per evitare che la memoria venga dispersa, Verona negli ultimi mesi ha raccolto le firme per una proposta di legge di iniziativa popolare contro la propaganda fascista e nazista, e in particolare per vietare che vie, strade e piazze delle nostre città vengano intitolate a personaggi del Ventennio. Proprio quello che vorrebbe fare il leghista Durigon. In un anno le firme raccolte sono state 250 mila e la legge è stata depositata alla Camera e a settembre la Commissione Giustizia inizierà a discuterla.

Sindaco, cosa ne pensa delle parole del sottosegretario leghista Claudio Durigon?

Non sono rimasto sorpreso, questi soggetti ormai fanno quasi quotidianamente questo genere di esternazioni. Non bisogna sottovalutare e rimanere indifferenti di fronte questi atteggiamenti. Dire una cosa del genere significa riaccreditare un fascista rispetto a due uomini di Stato come Falcone e Borsellino che hanno dedicato la loro vita a combattere un cancro come la mafia.

Cosa significano quelle parole per la comunità di Sant’Anna di Stazzema?

Una frase di quel genere è uno sfregio alle vittime di Sant’Anna, di Marzabotto e di tutti gli eccidi nazifascisti. Ma non solo: lo è anche per le nostre comunità e per le nuove generazioni. Se un membro del governo fa una proposta del genere si fa portavoce di un esempio molto negativo e crea disorientamento nei giovani. Per questo il presidente del Consiglio Mario Draghi dovrebbe dire a Durigon di chiedere scusa e poi di farsi da parte.

Quindi il leghista deve dimettersi?

Un rappresentante del governo che dice: “Meglio Mussolini che Borsellino e Falcone” va rimosso. Ha giurato sulla Costituzione che dice che l’Italia è un Paese antifascista, quindi l’ha tradita. Dunque deve lasciare.

E se non lo fa?

Deve essere Draghi a imporglielo.

Come nasce l’idea della proposta di legge contro la propaganda nazifascista?

Nasce proprio per evitare comportamenti e proposte come quelle di Durigon. Io quotidianamente cerco di ricordare ai giovani ciò che è successo a Sant’Anna ma serve una legge. La raccolta firme ha avuto molto successo e a settembre sarà discussa in Parlamento.

Qual è lo scopo della sua proposta di legge?

È un tema culturale: i giovani devono crescere e formarsi sapendo che chi ha liberato l’Italia lo ha fatto in base a determinati valori. Quelli della libertà e dell’eguaglianza contro l’oppressione del totalitarismo nazifascista. Adesso non possiamo permettere che qualcuno, a partire da qualche partito politico che vuole parlare alla pancia di un pezzo di Paese rimasto indietro, ci faccia tornare a quel periodo.

Lega e Fratelli d’Italia secondo lei la voteranno?

Spero di sì perché chi fa il parlamentare dovrebbe sostenere una legge come questa che è perfettamente in linea con la nostra Costituzione. Ma se Lega e FdI non la votassero non sarei sorpreso.

Zinga blinda Gualtieri ed è tentato dal seggio di Roma 1 alla Camera

C’è un politico corteggiatissimo da Roberto Gualtieri, candidato sindaco di Roma per il Pd: Alessio D’Amato, assessore alla Sanità del Lazio. Frontman della campagna vaccinale nella Regione, con tanto di efficientismo e velocità universalmente riconosciuti, noto anche per qualche scelta scivolosa (vedi gli Open day di Astrazeneca) e per un’apertura che non è passata inosservata, nei mesi scorsi, al siero russo, Sputnik. Uno che nelle fasi più difficili della lotta alla pandemia era capace di fare più interviste alla settimana.

A D’Amato Gualtieri e i suoi hanno chiesto più volte di candidarsi come capolista per Roma. Raccontano che gli sia stato offerto di tutto, a partire da un ipotetico assessorato al Giubileo. Lui ha detto di no e per ora è rimasto fermo su questa scelta.

Nonostante le insistenze, che arrivano anche da Nicola Zingaretti. D’Amato a questo punto ha un certo peso, che si può facilmente trasformare in consenso elettorale. Ma il motivo non è solo quello. In gioco ci sono altre elezioni, altri patti, altre ambizioni. Non è un mistero per nessuno che l’assessore alla Sanità abbia l’ambizione di correre per la guida della Regione (dove si vota nel marzo del 2023). All’epoca della scelta del candidato dem per la Capitale, sembrava si trattasse di una successione favorita dall’attuale presidente. O forse, visto che Zinga fino all’ultimo ha pensato di presentarsi lui, era solo una moneta di scambio, nella trattativa complessa (e poi naufragata) con il M5S per non far cadere la giunta. Ma sono mesi che si rincorrono le voci secondo le quali Zingaretti sarebbe tentato di lasciare la Regione in anticipo. Adesso, quelle stesse voci sostengono che vorrebbe candidarsi alle suppletive di Roma 1 (nel seggio di Gualtieri). E che sarebbe disposto a stringere un patto con il Movimento, per scambiarsi gli elettorati. Da sempre, in casa Pd si fa il nome di Roberta Lombardi, che però non convince troppo il Movimento. Tutto questo, sempre che i tempi coincidano e tutti i tasselli vadano a posto: nei veleni di queste settimane, c’è anche chi per quel seggio indica Giuseppe Conte. Ovviamente da via della Pisana smentiscono categoricamente questa ricostruzione e semplicemente ribadiscono che adesso si lavora per Roma.

Quel che è certo, è che l’atteggiamento di Zingaretti nei confronti di Gualtieri è cambiato sempre di più, andando avanti. In un primo momento, c’era stato un suo evidente disinteresse rispetto alla campagna elettorale per Roma. C’è voluto Enrico Letta, dopo le primarie, per convincerlo a dare una mano. E le cose sono in parte cambiate.

Zinga, però, oltre a entrare in campo con la sua popolarità, ha riempito il comitato Gualtieri con dei suoi fedelissimi. C’è Maurizio Venafro, già suo capo di gabinetto (entrato nell’inchiesta Mafia capitale, ma assolto in Cassazione), che ha un ruolo di primo piano, di supervisione, di controllo a tutto tondo. E poi Mario Ciarla, anche lui ex vice capo di gabinetto di Zinga, e Andrea Cocco, storico portavoce di Goffredo Bettini (un altro che a Roma è imprescindibile) e poi nello staff del presidente del Lazio. Non manca neanche Antonio Rosati, amministratore delegato di Eur Spa, che sa però di avere i giorni contati.

Gualtieri sa bene che l’appoggio di Zingaretti è essenziale e dunque accoglie con disposizione favorevole l’inevitabile condizionamento. È proprio lui un altro che non si dimentica mai di citare durante le iniziative. E mentre lavora anche a migliorare le sue uscite e a costruire un’immagine pubblica più empatica, un’altra variabile appare sulla sua strada: le uscite infelici del candidato del centrodestra Enrico Michetti stanno portando consenso a Carlo Calenda. Con vista ballottaggio. Ma questa è un’altra storia.

Letta: “Durigon se ne vada, voteremo la mozione M5S”

“Chi parla di parco Mussolini semplicemente deve dimettersi”. Dopo Giuseppe Conte e l’Anpi anche il segretario del Pd Enrico Letta usa parole durissime contro il sottosegretario leghista all’Economia Claudio Durigon, fedelissimo di Matteo Salvini, che mercoledì in campagna elettorale a Latina ha proposto di cambiare il nome del parco cittadino da “Falcone e Borsellino” a “Mussolini” (inteso come Arnaldo, il fratello del duce). Parole molto gravi che hanno portato alla richiesta di dimissioni prima di Conte sul Fatto di ieri e ora di Letta: “Quelle di Durigon – dice il segretario dem al Fatto Quotidiano – sono affermazioni che in un colpo solo infangano l’antifascismo da cui è nata la nostra Repubblica e la memoria di due eroi civili come Falcone e Borsellino”. Per questo, secondo Letta, Durigon deve dimettersi o, nel caso in cui non decida di farlo autonomamente, dovrà essere il premier Mario Draghi a ritirargli le deleghe da sottosegretario al Tesoro: “Sono parole incompatibili per la sua permanenza nell’esecutivo” conclude il segretario del Pd. Sul caso Durigon i giallorosa si compattano: dopo Conte e Letta anche LeU ci va giù durissimo con il capogruppo alla Camera Federico Fornaro secondo cui le dichiarazioni del sottosegretario del Carroccio “rendono incompatibile la sua presenza al governo con i valori fondanti della nostra Repubblica”. E quindi, conclude Fornaro, Durigon “si dimetta subito togliendo tutto il governo dall’imbarazzo”.

Al momento da Palazzo Chigi preferiscono fare orecchie da mercante visto che rimuovere il sottosegretario significherebbe aprire una crisi con la Lega, di cui Durigon è uno dei principali esponenti. E così, se la pressione dei giallorosa non porterà alle dimissioni nell’immediato, la battaglia diventerà parlamentare. A settembre Pd, M5S e LeU hanno intenzione di coordinarsi per presentare una mozione di sfiducia individuale – la cosiddetta “mozione di censura” per i sottosegretari – per chiedere formalmente al premier Mario Draghi di rimuovere Durigon. E non servirà scriverne una nuova visto che una mozione parlamentare c’è già ed è stata presentata il 6 maggio dai deputati del Movimento 5 Stelle delle commissioni Economia e Affari Costituzionali alla Camera a prima firma Cosimo Adelizzi dopo l’inchiesta di Fanpage in cui il sottosegretario leghista parlava così, intercettato, dell’inchiesta sui 49 milioni della Lega: “Il generale della Guardia di Finanza che indaga, Zafarana, lo abbiamo messo noi”. I deputati del M5S, in base a quei fatti, chiedevano a Draghi di “avviare la procedura di revoca” delle deleghe nei confronti di Durigon. In un question time degli ex 5 Stelle di “L’Alternativa C’è” già in quell’occasione Draghi aveva glissato sulla vicenda. Adesso però la mozione del M5S sarà aggiornata con la richiesta di calendarizzazione a settembre, quando riaprirà il Parlamento. “Chiedevamo le dimissioni di Durigon già a maggio e per noi quell’atteggiamento era già inaccettabile – spiega il vicecapogruppo alla Camera del M5S Riccardo Ricciardi – oggi, dopo le parole su Mussolini, lo è ancora di più. Penso che sia tutto a vantaggio del governo levare le deleghe a un personaggio così inappropriato e spero che anche Pd e LeU sostengano con forza la nostra posizione”.

Il sostegno arriverà dal Pd: dal Nazareno, se Durigon non dovesse lasciare prima, l’orientamento è quello di sostenere la mozione. Anche LeU farà lo stesso. “Su un tema come quello dell’antifascismo non transigo – dice il deputato Pd Emanuele Fiano – e per questo Durigon va rimosso”. Di fronte alla pressione dei giallorosa per far dimettere il sottosegretario leghista, resta il problema politico nella maggioranza. Perché fonti vicine a Salvini spiegano che per la Lega il caso non esiste e un esponente molto vicino al segretario minaccia apertamente: “Se cade Durigon, noi ce ne andiamo dal governo”. D’altronde Salvini non può permettersi di mollare colui che ha messo in piedi il partito in Lazio, portando tessere e voti dal mondo del sindacalismo di destra dell’Ugl (di cui è stato vicesegretario generale) e diventando il punto di riferimento del Carroccio nel centro-sud. Uomo, come ha dimostrato Fanpage, dalle relazioni spericolate a Latina e che nella Lega è considerato il “mediatore” tra l’ala del partito di lotta e quella di governo tanto che, si dice nel partito, potrebbe essere il ministro del Lavoro in un governo di centrodestra. A meno che non cada prima.