I nuovi ammortizzatori sono ancora in alto mare

Cinque mesi ad aspettare un testo scritto, promesso entro la fine di luglio, ma tutto quello che è arrivato in extremis sulla riforma degli ammortizzatori sociali sono appena sei pagine di linee guida: il ministro del Lavoro Andrea Orlando le ha inviate la scorsa settimana alle parti sociali.

Un documento che non riporta cifre né – di conseguenza – fornisce alcuna indicazione sulle durate e sugli importi delle future tutele “universali” per i lavoratori: dalla cassa integrazione per tutti ai sussidi di disoccupazione da rendere più inclusivi e generosi di quelli attuali. C’è di più: anche quelle diciture generiche contenute sono comunque state, in alcuni passaggi, ritenute insufficienti da Cgil, Cisl e Uil che ieri hanno incontrato il ministro in video-conferenza, prima di salutarsi e darsi appuntamento a dopo le vacanze.

Tradotto: la riforma degli ammortizzatori sociali ancora non esiste. Non c’è un articolato, non ci sono costi né coperture. Tant’è che il segretario Cgil Maurizio Landini ha definito pure quello di ieri un incontro “interlocutorio”. Il crono-programma non è stato centrato e tutto sarà rimandato – come previsto negli scorsi giorni – alla legge di Bilancio, in pieno autunno. Le tempistiche qui non sono secondarie: il 31 ottobre, infatti, è prevista la fine del blocco dei licenziamenti per tutti i settori che non beneficiano di ammortizzatori sociali ordinari. Arrivarci con la riforma fatta era l’obiettivo, ma ormai ci sono poche possibilità di riuscirci. “Il governo ha accolto alcune nostre richieste – ha detto il segretario Uil Pierpaolo Bombardieri – ma restano ancora altre questioni da affrontare”.

La bozza circolata prevede l’estensione della cassa integrazione ordinaria a tutti i lavoratori, a prescindere dall’inquadramento (quindi anche apprendisti e lavoratori a domicilio) e dall’anzianità. E soprattutto la protezione anche di chi lavora in piccole aziende: a questo proposito, però, si dice che la durata dei trattamenti sarà differenziata a seconda delle dimensioni, senza specificare il numero di mesi. Dovrebbe poi essere istituito un meccanismo di premialità per le imprese che usano meno cassa e restano salvi i fondi bilaterali, molto cari sia ai sindacati sia alle associazioni di datori. Fin qui sono tutti d’accordo, ma era scontato.

Sugli ammortizzatori per chi perde il lavoro, la promessa è di alleggerire i requisiti per i sussidi di disoccupazione e intervenire sul cosiddetto “decalage”: oggi l’assegno viene decurtato a partire dal quarto mese, l’impegno di Orlando è di posticipare la data in cui l’importo comincia a scendere (si ipotizza il sesto mese, ma anche qui le linee guida non dicono nulla). Sarà poi allungata la durata della Dis-coll, sussidio di disoccupazione per i collaboratori, che oggi può essere percepita per massimo sei mesi (l’ipotesi è un anno, ma pure su questo non c’è nulla di nero su bianco), si prevede però un beneficio pari al numero di mesi lavorativi (oggi, invece, dura la metà): per Naspi e Dis-coll, dice Bombardieri, “restano necessità di miglioramento”.

“Senza conoscere gli importi e le disponibilità finanziarie che il governo destinerà – ha ovviamente fatto notare il leader Cisl Luigi Sbarra – è impossibile per noi fornire un giudizio compiuto”. Il nodo delle risorse ha una doppia valenza. Oltre a definire il quanto, sarà cruciale stabilire chi dovrà farsi carico delle nuove tutele. Le imprese non vogliono aumenti contributivi: “Restiamo in attesa di poter valutare l’impatto sul costo del lavoro”, ha chiarito la Confartigianato. Su questo ha insistito pure l’Alleanza delle Cooperative. Porre la cassa integrazione universale a carico della fiscalità generale potrà essere una via da percorrere nei primi anni, poi bisognerà creare un meccanismo assicurativo: finché non c’è accordo su questo, la riforma resterà ferma al palo.

“Procura nazionale sugli incidenti: troppi i morti sul lavoro”

Ieri mattina, a San Giovanni Rotondo (Foggia), Alessandro Rosciano, un operaio di 47 anni, è morto schiacciato da una lastra di cemento in un cantiere. Un altro nome, l’ennesimo, s’è aggiunto all’elenco dei morti sul lavoro, dei morti di lavoro. L’emergenza sicurezza non è emergenza, è la normalità, specie ora che il Covid ha portato un nuovo fattore di rischio, facendo schizzare ancora più in alto i numeri del 2020 (+16,6% rispetto al 2019). Nel frattempo, però, in Senato si fatica a calendarizzare in commissione la proposta di istituire la Procura nazionale per i reati su igiene e sicurezza sul lavoro: “Speriamo di riuscirci a settembre”, dice Susy Matrisciano (M5S), presidente della commissione Lavoro di Palazzo Madama.

Senatrice Matrisciano, a che punto è il disegno di legge sulla Procura nazionale?

La proposta porta la prima firma del senatore Iunio Valerio Romano e la mia come seconda. La stiamo spingendo perché pensiamo sia necessaria. In origine il ddl per istituire la Procura era stato assegnato solo alla commissione Giustizia, noi della Lavoro abbiamo chiesto alla presidenza di assegnarlo a entrambe e la nostra richiesta è stata accolta: io stessa avevo proposto ad Andrea Ostellari (presidente leghista della commissione Giustizia, nda) di incardinarla a luglio, poi tra la legge Zan e altri provvedimenti non è successo.

Ci sono resistenze? Forse la proposta non è gradita a una parte delle imprese?

A oggi c’è stata unanimità su questo argomento, poi quando inizieremo l’esame vedremo. Ho lanciato un appello a tutte le parti sociali di sostenere questo ddl perché è importante. Anche in questa ampia maggioranza ci sono temi che non possono rappresentare bandierine politiche.

Passando ai contenuti, a che cosa servirebbe una Procura specializzata?

Le indagini hanno bisogno di un organo specializzato, con competenze specifiche, e anche di magistrati che abbiano consapevolezza e siano preparati su aspetti molto tecnici. E la Procura non dovrebbe intervenire solo dopo, ma anche in fase di prevenzione: gli ispettori stessi chiedono che ci sia un organo di riferimento. Anche sulle malattie professionali, oggi si rischia di trattarle in modo diverso a seconda del territorio: persino la stessa malattia professionale, in una azienda che abbia più sedi, viene trattata in maniera diversa a seconda di dove si trova.

A proposito di ispettori, sta per insediarsi il nuovo capo dell’Ispettorato Bruno Giordano: è noto, però, che bisognerà assumere personale…

Ad oggi sono previste oltre 2 mila assunzioni. Dai dati del 2020, l’80% delle aziende controllate non è risultato in regola e c’è bisogno di più risorse umane. L’età media degli ispettori è di 52 anni e questo fa capire che in passato non si sia fatta molta attenzione su questo fronte. C’è poi un altro aspetto importante che va rafforzato: la condivisione delle banche dati tra i vari enti che devono effettuare i controlli; in un Paese che punta alla digitalizzazione mi auguro che ognuno faccia la sua parte.

Nei prossimi mesi la priorità sarà far ripartire l’economia, lo stesso governo punta molto sui cantieri. C’è il rischio che la fretta faccia passare in secondo piano la sicurezza?

Il numero di cantieri è già aumentato con il Superbonus al 110% e tenderà a crescere con il Pnrr: la condizione imprescindibile deve essere la sicurezza. Un messaggio che deve passare è che la sicurezza non deve essere considerata un costo, ma un investimento: se i cantieri sono sicuri prima di tutto non muoiono le persone, ma questo fa bene anche all’azienda. Noi come Movimento Cinque Stelle abbiamo portato avanti il concetto per cui la sicurezza deve essere una cultura. Formazione e informazione, queste due cose non devono mancare. La sanzione in sé serve, ma anche il controllo ispettivo non va visto come solo un rischio di essere puniti, ma anche come un accompagnamento verso il comportamento corretto.

L’indice dei posti vacanti è stabile: nei dati Istat l’effetto divano non esiste

Ancora una volta, la realtà che emerge dai dati si premura di fare a pezzi la narrazione dei titolari di alberghi e ristoranti per cui i sussidi avrebbero reso impossibile reperire persone disposte a lavorare. Una narrazione, spesso ripresa da politici che non sanno di cosa parlano, che diventa un pretesto per rendere ancor più precari e semplificati i contratti di lavoro: non a caso la scorsa settimana, proprio per favorire una presunta ondata di assunzioni bloccata da norme e burocrazia, il Parlamento ha reso meno stringenti i vincoli del decreto Dignità del 2018 sul lavoro a termine.

Torniamo ai dati. Mentre i due Matteo, Salvini e Renzi, cantano in nutrita e prestigiosa compagnia la canzone dei camerieri introvabili, l’Istat venerdì ha diffuso la sua stima sui posti vacanti nelle imprese. Sarà dunque vero, come ha detto ieri il capo leghista, che “in tutta Italia imprenditori di ogni tipo lamentano la difficoltà a trovare manodopera anche per colpa del Rdc, che invece di creare nuove opportunità di lavoro sta ottenendo il risultato opposto, creando lavoro nero e disoccupazione”?

La risposta è no: nel secondo trimestre 2021 – periodo da cui le lamentele padronali si sono particolarmente acuite – l’indice dei posti vacanti non ha registrato significativi aumenti rispetto al pre-Covid, né rispetto ai tempi precedenti all’arrivo del Reddito di cittadinanza. Nella primavera di quest’anno sembra essersi ristabilita la “normalità” che conoscevamo quando ancora non era arrivata la pandemia, con una sola anomalia data dall’aumento di posizioni non coperte nei servizi non di mercato, forse dovuta alla richiesta di operatori sanitari. Almeno per il momento, invece, non appare un peggioramento nell’altro gruppo, di cui fa parte il turismo.

Il tasso di posti vacanti misura le ricerche di personale iniziate da parte delle imprese e non ancora concluse, cioè le opportunità che il mercato del lavoro non ha ancora coperto: più è alto questo tasso, più significa che si fa fatica a incrociare domanda e offerta. Se fosse vero che il Reddito di cittadinanza spinge le persone all’inattività, avremmo dovuto vedere un costante aumento nell’ultimo biennio e un’esplosione ora che si sono aggiunti i sussidi Covid. Invece siamo solo tornati alla situazione del 2019 e – come detto – l’aggravamento è solo nei servizi non di mercato.

Nel periodo tra aprile e giugno 2021, il tasso generale si è attestato all’1,3%: vale a dire che i posti vacanti sono l’1,3% della somma tra gli stessi posti vacanti e tutte le posizioni lavorative esistenti in Italia: nel secondo trimestre 2019 era persino più alto (1,4%). Scindendo il dato, abbiamo un tasso dell’1,4% nell’industria e dell’1,6% nei servizi.

A far notare come questi numeri si pongano in contrapposizione con quello che da mesi urlano i datori del turismo è Andrea Garnero, economista del lavoro dell’Ocse: “Settimane a intervistare Gianna la barista e Pippo il bagnino – ha scritto su Twitter –, a dire che non si trovano lavoratori, che i giovani sono pigri, che il reddito di cittadinanza… poi finalmente arrivano i dati Istat sui posti vacanti (non proprio in linea con la narrativa dominante) e nessuno se li fila”.

C’è un altro dato molto recente che ha smentito il luogo comune sul “reddito di nullafacenza” caro a politici e imprenditori. Lo contiene uno studio dell’Irpet, cioè l’Istituto per la programmazione economica della Regione Toscana: i beneficiari del Reddito, ora che prendono il sussidio, lavorano più di quando non lo prendevano. Il numero di giornate lavorate è aumentato di 0,6 giorni al mese: un incremento contenuto, ma comunque positivo. “Una attenta analisi di valutazione condotta sui beneficiari del Reddito di cittadinanza in Toscana – conclude il report – ovviamente per la sola porzione di quelli inseriti in un percorso di attivazione tramite i centri per l’impiego, rileva l’inesistenza di un effetto divano”.

Questo se interessano i dati, sennò c’è Teresa Bellanova: “Per sconfiggere la povertà non serve il Reddito di cittadinanza ma un nuovo modello di welfare”. S’è visto.

Mica so’ Mario, io!

E se il rag. Claudio Durigon lo facesse apposta? Mettetevi nei suoi panni (tanto ci state larghi). Siete di Latina, venite dal sindacato dei fasci (Cisnal-Ugl) che voi, da vicesegretario generale, consegnate chiavi in mano a Salvini. Il quale nel 2018 vi nomina deputato e sottosegretario al Lavoro. La vostra campagna elettorale nel Pontino la seguono certi galantuomini inseguiti dalle Procure. Dopo 15 mesi quel genio del vostro capo rovescia il Conte-1 e vi lascia a piedi. Sei mesi fa nasce il Governo dei Migliori e voi vi sentite subito esclusi: come potrebbe mai farne parte, anche come addetto alle pulizie, uno col vostro curriculum? Invece, miracolo: diventate sottosegretario all’Economia, cioè vice del migliore Franco, a sua volta vice del migliorissimo Draghi. Però, da vecchi fasci amanti della goliardia, scappa da ridere persino a voi. Così iniziate a combinarne di tutti i colori per vedere quanto impiegano i Migliori a sgamare l’intruso. A Fanpage confessate di farvi offrire cene da tipi “legati ai servizi segreti” che “fanno paura” e, casomai i Migliori non avessero udito bene, aggiungete un carico da undici sui 49 milioni fregati dalla Lega: “Quello che fa le indagini, il generale della Guardia di Finanza, l’abbiamo messo noi”. Per vedere di nascosto l’effetto che fa. Ma non fa nessun effetto. M5S e SI chiedono la vostra testa, ma i giornaloni dimenticano subito, Franco che con voi controlla la Gdf tace e Draghi – anziché cacciarvi a pedate, avendovi nominato lui – lo assolve in conferenza stampa con una supercazzola.

Ma voi, tignosi, alzate il tiro. In un comizio a Latina, scaldando il pubblico per Salvini, sparate che il Parco Falcone e Borsellino andrebbe dedicato ad Arnaldo Mussolini, il fratello tangentaro del Duce. Che c’è di peggio – pensate – che offendere in un colpo solo la memoria di due martiri dell’antimafia e i valori dell’antifascismo su cui si fondano la Repubblica e la Costituzione? Non solo Draghi e Franco, ma pure Mattarella (fratello di un martire dell’antimafia) insorgeranno come un sol uomo. Invece nisba, a parte le solite richieste di dimissioni da Conte e dalla sinistra. Come se toccasse a voi dimettervi e non ai presidenti della Repubblica e del Consiglio cacciarvi. Ora, mentre preparate la prossima mossa, vi domandate che deve fare di peggio un membro del governo per esser licenziato. Spalancare l’impermeabile ai giardinetti? Proporre un doppio monumento equestre a Hitler e a Riina a Palazzo Chigi? Fatica sprecata. La Legge dei Migliori l’anticipò Totò nello sketch del tizio che viene pestato ogni mattina da uno sconosciuto che lo chiama Pasquale, ma non reagisce mai perché “chissà ‘sto stupido dove vuole arrivare” e poi “che mi frega a me? Mica so’ Pasquale, io!”.

“Sul palco con i miei miti Coldplay, l’intesa speciale”

Ha iniziato a suonare con i Mau Mau, poi le collaborazioni con i Casino Royale, Afterhours sino ad approdare a Robert Fripp e i Goldfrapp. E poi sono arrivati i Coldplay con i quali è compositore di molti brani. E ancora Beck, Rihanna, Dido, Natalia Imbruglia, Siouxsie, Gorillaz, Verve, Röyksopp, Alicia Keys, Trentmøller, Brian Eno. Non di solo Måneskin vive l’orgoglio italiano all’estero: Davide Rossi da Torino ha conquistato il gotha degli artisti internazionali con il suo violino e gli arrangiamenti per archi.

Lei è co-autore di “Coloratura”, il nuovo brano dei Coldplay dalla durata di dieci minuti, un epitome di bellezza.

Sembra quasi un brano dei Pink Floyd, ci sono tanti spunti. Loro provano sempre cose diverse, dal pop estremo alla musica ricercata. Io e Chris Martin siamo molto amici, ho vissuto anche a casa sua a Londra. Non ci sentiamo quotidianamente ma quando scriviamo o vogliamo parlare di musica; in quel momento si crea l’alchimia. Li ho conosciuti nel 2006 essendo i Goldfrapp i supporter dei Coldplay dal vivo: mi hanno invitato in studio per cambiare il loro suono, si sentivano bloccati artisticamente ed è nato Viva La Vida.

Il suo contributo si sente in modo determinante per gli archi.

I primi demo sono serviti per conquistarmi la loro fiducia e quella del loro manager. Viva La Vida è stato il primo numero uno in classifica, sia in Inghilterra che negli Stati Uniti ed ha fatto da traino per iniziare i tour negli stadi. E da quel momento ho collaborato ad ogni loro nuovo album compreso il nuovo Music Of The Spheres in uscita ad ottobre.

“Church” è un brano commovente, di una sensibilità sottile e inebriante.

L’ho composta a quattro mani con Chris. Lui, secondo me, è a dei livelli altissimi di scrittura nella musica contemporanea.

Ha lavorato a stretto gomito con una leggenda quale Brian Eno.

È un filosofo, solo la sua presenza in studio ti invoglia a dare il massimo. Avendo collaborato a lungo con Robert Fripp avevo già una sorta di preparazione, soprattutto sapevo molto della collaborazione “tedesca” con David Bowie. Eno è un artista poliedrico, sembra un moderno Leonardo Da Vinci: fa il fotografo, il pittore, il musicista. Porta soprattutto grandi idee.

È diventato produttore, autore e arrangiatore e uno dei musicisti più ricercati.

La mia palestra di vita è stata lavorare 13 anni con i Goldfrapp, stimatissimi in Inghilterra. Subito dopo ho capito di voler fare l’arrangiatore.

Tra i tanti ha collaborato con Siouxsie, la regina del punk.

Sì, per il suo disco da solista Mantaray. L’avevo vista la prima volta a 14 anni a Torino, per me i Banshees erano un mito. Con Budgie mi sento continuamente, ci sono delle idee in cantiere.

Sono più i suoi miti che l’hanno contattata o ancora vorrebbe incontrane uno?

Con Beck vorrei approfondire, ho fatto solo piccole cose. Stimo tantissimo i Radiohead e Kate Bush e pure gli Air che seguo da tanto tempo.

Gli Air in una intervista mi spiazzarono: “noi non abbiamo bisogno di droghe, la musica già ci fa arrivare a un’altra dimensione”.

Quando entro in studio di registrazione è come andare in chiesa: c’è un rispetto del silenzio, è come andare in trance. La droga la usa chi non riesce a mantenere la pressione del successo, è escapismo. È l’opposto della creatività.

La musica è profondità d’animo, l’ha dimostrato il cantante dei Verve quado lei ha perso suo padre.

Con loro ho collaborato all’album Forth, peccato che abbiano avuto problemi tra i vari componenti. Dal vivo erano una potenza senza eguali. Stavo andando a Glastonbury per suonare con loro e ho appreso al telefono della morte di mio padre. Appena sul palco Richard Ashcroft – in un momento di generosità – mi ha detto “suona e dedichiamo il concerto a tuo padre”.

Nel prossimo futuro oltre al suo progetto “Søren Lorensen” ci sono le colonne sonore?

Facendo l’arrangiatore mi sto appropriando della scuola romana: Morricone – ovvero la punta di diamante – ma pure Alessandroni, Sorgini. Sono un tesoro per i compositori. Mi piacerebbe che diventasse il mio futuro orizzonte. E porterò avanti il sodalizio con Matt Hales degli Aqualung.

Oltre a “Higher Power” e “Coloratura” come saranno le canzoni del prossimo album dei Coldplay?

Nelle altre canzoni ci sono suoni vintage ma con una impronta riconoscibile del gruppo. E ci sarà la loro consueta visione positiva della vita, questa good vibration che in un momento così difficile è fondamentale.

“Immagini d’Italia”: libri estivi per viaggiatori con la bussola

Tra gli ultimi doni di Roberto Calasso editore, ecco il secondo volume delle Immagini dell’Italia di Pavel Muratov (Adelphi). Un viatico perfetto per il viaggiatore che, in questa estate segnata dalla quarta ondata del virus (e dall’incompetenza dei peggiori al governo) voglia evitare gli aerei, e regalarsi la riscoperta del nostro Paese.

Qualcuno dei miei venticinque lettori rammenterà che un anno e mezzo fa, all’inizio del 2020, parlammo in questa pagina del primo volume che raccoglie le riflessioni italiane di questo sensibile viaggiatore russo del primo Novecento. Se in quelle pagine a trionfare era Firenze, qua sono invece Napoli, la Sicilia e soprattutto Roma a conquistare Muratov. Non con la descrizione minuta ed erudita dei loro monumenti (cui intere biblioteche erano già state dedicate), ma grazie alla rabdomantica capacità di respirare la loro aria: a Roma, per esempio, “l’odore di candele e incenso che spira dalla porta socchiusa di una chiesa; l’andatura dei religiosi e i grossi limoni gialli sul carro di un venditore di bevande rinfrescanti”. Particolari apparentemente inconferenti di un’atmosfera che, un secolo dopo, possiamo ancora tentare di inseguire: “bisogna percorrere queste vie nelle sere d’estate, che portano con sé la placida letizia del riposo, la rigenerante brezza di mare, le canzoni e le lucerne sui tavolini per strada, davanti alle osterie”.

Non una Roma per turisti: “gli abitanti di Parione vanno fieri e hanno grande considerazione della loro Piazza Navona. La sera il parlottio della gente stenta ad acquietarsi e fino a mezzanotte sulle panche coperte di spruzzi davanti alla fontana del Bernini si avvicendano silenziose coppie di innamorati, miti mendicanti, bambini raminghi come uccelli e forestieri di passaggio, presi d’amore per l’ovale, le case, il mormorio dell’acqua, i pipistrelli svolazzanti nell’aria, le fiammelle che si spengono, a una a una, alle finestre, il blu profondo della notte estiva”.

In un’estate di sessant’anni più tardi sarà Cesare Brandi a sostare in quella stessa piazza Navona, con una disposizione d’animo ancora perfettamente assonante, e riuscendo così a definire con straordinaria precisione la funzione di una piazza storica italiana: “Ecco la mia giornata, arrivata a sera col vestito grinzoso, le scarpe impolverate, la camicia sudata: giungo qua e mi siedo, guardo la piazza e quasi non la vedo è come se fossi in un’infusione di riposo. Questo riposo mi penetra e il silenzio mi fascia di bende invisibili. Torno a vedere, e vedo Sant’Agnese del Borromini (…), vedo quello che sopravvive dell’uomo che vive nell’uomo, senza corrompersi e senza tradimento. Sento il mio cuore come se battesse non in me, ma al centro della piazza. E i suoi battiti mi giungessero come vibrazioni terrestri e il mio respiro fosse quasi l’aria che mi sforza respirarla entrando dentro di me come l’acqua che si rovescia in una cascata. Ritrovo l’unisono con una natura che è passata attraverso l’uomo e attraverso la storia, odo il respiro di questa natura perché non odo nulla, e non vedo che l’aria limpida e serena”.

Come è difficile spiegare oggi a sindaci e assessori che le piazze non sono contenitori da riempire di eventi, di parcheggi, di gazebo: ma isole di vuoto capaci di restituirci tutti (dal più colto viaggiatore all’ultimo dei mendicanti) alla nostra umanità e al rapporto tra uomo e natura. Il legame profondo e viscerale tra la città e la natura: ecco ciò che Muratov più di ogni altra cosa cerca: “L’Aventino e il Celio sono propaggini della campagna in città, luoghi dove l’odore dei campi si mischia con l’umidore delle antiche mura di pietra, i suoni del lavoro nei giardini e nei vigneti con il frastuono del traffico stradale e del commercio che arriva fin qui (…) l’eterna vegetazione che incorona i colli e le rovine di Roma turba e incanta il cuore della gente del Nord, proprio come le parole di un mito classico, o l’epifania di divinità primeve. La metamorfosi di Dafne diviene affatto comprensibile al cospetto dei fusti di lauro, vivi e quasi umani che crescono accanto alla Casina Farnese sul Palatino o dentro il tempio del Divo Giulio al Foro”.Una simile educazione sentimentale ha oggi un incalcolabile valore politico: perché solo recuperando il senso della nostra storia, cioè di noi stessi, potremmo trovare la forza di resistere agli ultimi scempi che una classe dirigente corrotta fin nel midollo si prepara a compiere.

Attraversando lo Stretto di Messina, vinto dalla bellezza di un luogo unico al mondo per storia e natura, Muratov si angoscia all’idea di vedere le rovine di una Messina appena distrutta dal terremoto: “un lutto che appartiene all’intera umanità, poiché l’Italia è quella gioia per la quale ancora vale la pena vivere”.

E noi, italiani indegni di oggi, vorremmo ora distruggere proprio quel luogo con un ponte utile solo alla mafia, ai palazzinari e ai politici finiti che ci si aggrappano. Svegliamoci, finché siamo in tempo.

13 agosto 1961: il Muro, la pietra della Grande Paura

Die Mauer. Il Muro. Il 13 agosto saranno giusto 60 anni da quando si cominciò a costruirlo. E quasi 32 da quando venne abbattuto, il 9 novembre del 1989. Un sisma repentino. Il simbolo della Guerra Fredda cancellato all’improvviso, come fu improvvisa e inaspettata la sua creazione. Una ferita epocale nella memoria non solo dei tedeschi. Pensammo d’essere, in entrambi i drammatici casi, alla fine della Storia, come al suo nuovo inizio. Superare questo trauma collettivo è stato molto più difficile di quanto si pensasse. Il Muro rappresentò l’irrisolta “questione tedesca”. E nessuno potrà mai dimenticare quella sofferta estate del 1961, la stagione della Grande Paura.

I motivi non erano campati per aria. Stati Uniti e Urss si stavano confrontando a un alto livello di tensione. Punto focale, proprio Berlino, occupata dalle quattro Potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale. All’inizio di giugno l’Unione Sovietica aveva infatti lanciato un pesante ultimatum a Usa, Francia e Gran Bretagna, chiedendo il ritiro delle loro forze militari. Gli occidentali rifiutarono. Germania ed Europa temettero lo scoppio di una nuova devastante guerra, stavolta senza scampo per via degli arsenali atomici.

I russi non tolleravano che Berlino Ovest continuasse ad essere la “vetrina” dell’Occidente opulento e libero, per di più esibita nel cuore strategico del Patto di Varsavia. Né che rappresentasse il fulcro della sfida politica lanciata dalla Repubblica Federale di Bonn che puntava alla riunificazione. Incombeva pure una grossa crisi interna alla Germania Orientale, causata dalla pessima gestione nella direzione economica e politica. Le fughe all’Ovest erano sempre più numerose, in 100 mila erano scappati dal “paradiso socialista” nei primi mesi del 1961, un esodo inquietante e imbarazzante. A marzo, Walter Ulbricht, presidente della Germania Orientale, aveva proposto a una riunione del Patto di Varsavia, di costruire una grande barriera di filo spinato per dividere Berlino. L’ungherese Janos Kadar e il rumeno Gheorghiu Dej, col tacito veto di Nikita Kruscev, dissero di no. Ma la situazione internazionale precipitava, e il Cremlino cambiò parere il 6 luglio, sollecitando Ulbricht affinché costruisse rapidamente uno sbarramento di frontiera invalicabile. In realtà, il progetto era già operativo. Nome in codice, “Rose”. Supervisore, Erich Honecker, allora Segretario alla Sicurezza. Sotto di lui, otto alti dirigenti della Ddr. Il 7 luglio Erich Meise, capo della famigerata Stasi, supportata dal Kgb, convocò Honecker e gli altri otto per i dettagli del piano “Rose” e le misure indispensabili nell’attuare i blocchi delle frontiere. Intanto, il maresciallo sovietico Andrej Gretzko, comandante supremo del Patto di Varsavia, ordinava il 15 luglio che le forze armate della Ddr (la Nationale Volksarmee) passassero sotto il suo comando.

L’Ovest prese tempo, non dette seguito agli allarmi dei servizi segreti. Scelse la strategia politica. Il 25 luglio John Kennedy annunciò in un celebre discorso alla tv i three essentials, punti irrinunciabili per gli Stati Uniti: il diritto degli Alleati a mantenere la presenza militare; il diritto di accesso della Repubblica Federale tedesca a Berlino Ovest; il diritto degli abitanti di Berlino Ovest all’autodeterminazione e alla libertà. La crisi di Berlino sarebbe diventata il “banco di prova del coraggio e della volontà occidentali”. Il Cremlino non si lasciò impressionare, anzi. Rilanciò l’ultimatum e minacciò una guerra nucleare tale da “distruggere la civiltà”. Parole che sconvolsero l’opinione pubblica mondiale. Il 3 agosto, convocò a Mosca i segretari comunisti del Patto che tre giorni dopo approvarono l’operazione “Rose”, vincolata al segreto. Il 9 agosto Honecker aveva definito i particolari. Ad aiutarlo, ci pensò l’Urss, inviando il 10 a Berlino il maresciallo Ivan Stepanovic Konev, per assumere il comando delle forze sovietiche schierate nella Ddr e allestire la disinformazione. Fu imposta la massima segretezza ai giornalisti, come appurato dalla desecretazione dei documenti Ddr.

Il 12 agosto vennero stampati i manifesti con gli avvisi delle autorità sulla chiusura della frontiera e tutti i divieti relativi, compreso quello di non poter più recarsi a Berlino Ovest. Alle dieci di sera, nella sua residenza di campagna di Doelinsee, dove aveva invitato i membri del Politburo e del governo, Ulbricht comunicò la decisione di costruire il Muro. Nessuno obiettò. A mezzanotte, Heinz Hoffmann, comandante in capo della Nationale Volksarmee, schierò l’ottava divisione motorizzata, con 7200 uomini, e alcuni reparti della Prima divisione motorizzata, nel centro di Berlino Est e lungo l’anello esterno di Berlino Ovest per formare una “cintura di sicurezza” larga un chilometro. All’una e trenta del 13 agosto, un annuncio speciale radiofonico avverte la popolazione che è si sta costruendo l’Antiimperialisticher Schutzwall, una barriera per contrastare le mire imperialistiche destabilizzanti.

Il Muro nasce così. Un piano meticoloso, accurato, in cui ingegneria civile e repressione poliziesca s’intrecciavano: dei 167,3 chilometri previsti, 55,7 erano costituiti da rete di metallo, intervallata da apparecchi di tiro automatico. Nei circa 43 km che separavano le due Berlino, il Muro superava in centro l’altezza di 4 metri, mentre era più basso in periferia. Ma all’inizio, fu solo filo spinato, disposto alle due di notte da unità di “pionieri”, le Brigate di Costruzione (sorvegliate dalla Volkspolizei). Migliaia di berlinesi corsero verso il confine, per protestare. La polizia occidentale fu costretta a mettere barricate nei punti più critici, come al Checkpoint Charlie e alla porta di Brandeburgo. Il 15 agosto il filo spinato fu sostituito da barriere di cemento armato. Il 17, la prima vittima. Si chiamava Paul Fechter, aveva 18 anni. Morì dissanguato nella terra di nessuno. Il cancelliere Konrad Adenauer visitò Berlino solo il 22 agosto: lo accolsero cittadini furiosi. Il 20 settembre finì la prima parte dei lavori: il Muro era lungo 12 km, il resto del confine era serrato da fortificazioni di filo spinato. Cresceva lento: “Mancavano i materiali”, confessò Hagen Koch, uno dei cartografi di “Rose”. Nell’autunno del 1963, Kennedy andò a Berlino poco prima d’essere assassinato. Proclamò “Ich bin ein Berliner”. Lo fummo in tanti, allora.

Cosmetici, il brand curato dalle donne

Made in Gaza. Non è una trovata per un nuovo brand ma una realtà che, lentamente, in una drammatica situazione, si sta facendo strada. Perché un gruppo di donne sta creando cosmetici dalle profumate erbe locali. Nell’enclave sul Mediterraneo gestita da Hamas un’azienda finanziata a livello internazionale utilizza erbe esclusivamente provenienti da aziende agricole gestite da donne della Striscia, per creare prodotti come shampoo e creme idratanti, che vengono venduti in 50 negozi – tra questi 30 farmacie – in tutta Gaza. Un territorio devastato, che nel suo biglietto di presentazione potrebbe scrivere: quattro guerre in 12 anni, diecimila morti, cinquantamila handicappati gravi, città semidistrutte senza elettricità, acqua inadatta all’uso umano.

Eppure in una realtà così difficile per anni, gli agricoltori palestinesi hanno esportato erbe aromatiche in Europa, dove sono state trasformate in cosmetici e prodotti di bellezza di fascia alta. Adesso in una fabbrica a Gaza City è partita una nuova sfida, viene utilizzata la distillazione a vapore per estrarre gli ingredienti da piante tra cui rosmarino, basilico, menta, timo e camomilla, erbe acquistate esclusivamente da fattorie gestite da donne.

La gamma offerta da questa company comprende già 17 prodotti, tra cui detergenti e bagnoschiuma, con il marchio “GG” – che sta per oro verde, come i coltivatori di Gaza chiamano la menta – sta avendo un certo successo di mercato, visto anche il prezzo concorrenziale con altri prodotti importati nella Striscia (dopo aver passato un attento controllo da parte di Israele che controlla i confini dell’enclave).

Il progetto, finalizzato all’emancipazione delle donne e al rilancio dell’economia, è sostenuto dall’Australia e dall’organizzazione umanitaria Oxfam. Sebbene finora su piccola scala, le donne coinvolte, affermano che “GG” ha già iniziato ad avere un impatto a Gaza, dove la disoccupazione si aggira intorno al 50% e, secondo l’Ufficio centrale di statistica palestinese, quella femminile è superiore al 62%.

 

Libano, un crollo inarrestabile. Beirut senza cibo, corrente e nemmeno un governo

Sono già tre settimane che Roula non ha quasi più l’elettricità nella sua casa di Ashrafieh, un quartiere elegante di Beirut. “Da diversi mesi le interruzioni di corrente sono molto frequenti, ma da qualche settimana la situazione è peggiorata. Sono rimasta al buio anche tre giorni di seguito. Negli ultimi tempi abbiamo sì e no un’ora e mezza di corrente al giorno”. Nel caldo soffocante del luglio libanese, Roula, 50 anni, docente universitaria, trascorre giorni e notti senza poter accendere il condizionatore d’aria. “Ma il problema più grosso – dice – è il cibo, dal momento che non possiamo conservare nulla in frigo”. Stando alla Banca mondiale, il Libano sta sprofondando in una delle peggiori crisi economiche e finanziarie al mondo mai registrate dal 1850.

Da maggio la carenza di elettricità si sta ancora aggravando. Sul web si moltiplicano foto e video che mostrano come questi tagli stanno incidendo sulla vita quotidiana dei libanesi. In uno si vede un paziente asmatico costretto a attaccare il suo respiratore alla presa di corrente della moschea. Tante famiglie dormono sul balcone alla ricerca di un po’ di fresco. All’origine del problema c’è la carenza di combustibile destinato ad alimentare le centrali del Libano, in un contesto di grave crisi di liquidità che dura ormai da due anni. L’importazione del carburante è garantita dagli anticipi del Tesoro, versati dalla Banca del Libano. Ma quest’ultima sta ritardando l’apertura di linee di credito destinate a finanziare l’approvvigionamento di carburante per salvare le sue magre riserve in dollari. La situazione ha costretto l’Elettricità del Libano (EDL), l’ente pubblico responsabile della fornitura di energia elettrica, a razionare fortemente la sua produzione. EDL riesce a malapena a produrre 700 megawatt (MW), ovvero tra due e tre ore di elettricità al giorno, mentre il suo parco energetico ha una capacità di produzione di circa 1.900 MW. Di fronte al razionamento statale, sono subentrati i generatori di corrente privati. Non è del resto la prima volta che in Libano è necessario ricorrere ai privati per far fronte ai tagli statali: il deficit di produzione di EDL risale a molto prima della crisi attuale. Secondo la Banca mondiale, nel 2018, il razionamento quotidiano variava già da tre a undici ore, con importanti disparità tra una regione e l’altra. Nelle ultime settimane, i generatori privati funzionano a pieno regime, ma non riescono a soddisfare il fabbisogno crescente e i proprietari sono costretti a loro volta a razionare la produzione. Anche l’approvvigionamento in olio combustibile è diventato complicato. Il problema non colpisce solo i privati, ma anche, e molto duramente, le aziende, i ristoratori e gli ospedali. “La situazione è catastrofica”, conferma Sami Rizk, direttore esecutivo del Lebanese American University Medical Center-Rizk Hospital (LAUMC-RH). La fornitura di elettricità ormai dipende quasi esclusivamente dai generatori dell’ospedale. A causa della scarsità di carburante, l’ospedale è costretto a ricorrere in parte al mercato nero, dove però i prezzi sono raddoppiati. Ma anche sul mercato nero l’olio combustibile è una merce rara. Al di là della questione strettamente finanziaria, l’approvvigionamento in energia è diventato una lotta quotidiana per evitare il rischio di un blackout. “Il nostro stock ha raggiunto la soglia critica di una settimana. Per questo abbiamo dovuto ridurre il consumo in alcuni reparti amministrativi. Per fortuna, per ora, i reparti destinati ai pazienti sono risparmiati”, continua Sami Rizk. A luglio, dopo diversi mesi di trattative, il Libano è riuscito a ottenere un accordo con l’Iraq: in cambio di aiuti sanitari, il paese riceve un milione di tonnellate di carburante iracheno, che corrisponde ad una decina di ore di energia al giorno per quattro mesi.

Una soluzione che permette di non attingere ai preziosi dollari conservati nelle riserve della banca centrale libanese. Ma che solleva altre questioni, e non meno importanti, dal momento che il carburante iracheno, carico in zolfo, non è adatto alle centrali elettriche libanesi. La penuria di dollari pone anche problemi alla remunerazione dei fornitori, che viene garantita dalla Banca del Libano per conto di EDL. Così, a maggio, Karpowership, una filiale dell’operatore turco Karadeniz, da cui il Libano acquista il 25% della produzione nazionale tramite navi generatrici di elettricità ormeggiate alle sue coste, ha interrotto la sua produzione per quasi un mese e mezzo. L’azienda reclamava, tra le altre cose, i 170 milioni di dollari di arretrati accumulati dallo Stato libanese nell’ultimo anno e mezzo. La situazione attuale riflette in realtà disfunzioni strutturali più profonde. Per più di dieci anni i diversi ministri dell’Energia hanno promesso ai libanesi, oggi costretti a vivere al buio, che avrebbero avuto accesso all’elettricità ventiquattro ore su ventiquattro. La verità è che, a distanza di anni, quasi nessun investimento è stato realizzato per poter mantenere questa promessa. Gli affari lucrosi legati alla costruzione di nuove centrali elettriche, in preda ad un continuo braccio di ferro politico, si sono impantanati in procedure contrattuali opache. Questa inazione dello Stato si spiega anche perché allo fine lo status quo avvantaggia alcuni interessi privati, in particolare, quelli dei proprietari dei generatori, come nel caso del mercato dei combustibili, che secondo la Banca Mondiale rappresentava 2 miliardi di dollari nel 2019, e nel quale alcuni partiti politici posseggono delle parti importanti. “Le soluzioni tecniche esistono. A bloccare la riforma del settore sono esclusivamente fattori politici”, spiega Marc Ayoub, ricercatore in politiche energetiche presso l’Issam Fares Institute for Public Policy and International Affairs dell’Università americana di Beirut (AUB). Di fatto i governi non hanno fatto nulla per mettere in atto soluzioni durature, continuando a privilegiare soluzioni costose, come l’acquisto di elettricità dalle navi generatrici di corrente di Karpowership, di cui, lo scorso marzo, alcuni responsabili sono stati citati in un’inchiesta giudiziaria in Libano per corruzione e riciclaggio di denaro. Il noleggio di queste navi-centrali è costato al Libano più di 1,5 miliardi di dollari dal 2013: una somma con la quale il paese avrebbe potuto costruire quasi tre centrali termiche.

I costi di produzione del parco energetico libanese sono dunque altissimi: “Si va dai 13 centesimi per kilowattora (kWh) per le navi, fino ai 21 centesimi/kWh per alcune strutture ormai obsolete che, in assenza di alternativa, non sono mai state smantellate. A titolo di confronto, i costi di una centrale nuova ammontano a 7 centesimi/kWh”, spiega Marc Ayoub. A questi costi vanno aggiunte le spese legate ai problemi tecnici che emergono sulla rete, causati da infrastrutture fatiscenti, ma anche i furti e le fatture non incassate. Con un prezzo di vendita dell’elettricità fissato a 9,5 centesimi/kWh, EDL registra un deficit colossale. Secondo un rapporto della Banca Mondiale, i trasferimenti di fondi accordati all’organismo per coprire le perdite rappresentano quasi il 40% del debito pubblico accumulato dal 1992. La situazione è diventata insostenibile in un paese in bancarotta, inadempiente sul proprio debito in valuta estera nel marzo 2020. Il settore è dunque al centro di un piano di riforme a cui la comunità internazionale condiziona l’attribuzione di un piano di assistenza finanziaria da parte del Fondo monetario internazionale (FMI). Ma questi aiuti sembrano per il momento ancora lontani: il Libano sta ancora aspettando la formazione di un nuovo governo, a quasi un anno dalle dimissioni dell’esecutivo di Hassane Diab, dopo la terribile doppia esplosione nel porto di Beirut.

(Traduzione di Luana De Micco)

Il trillo con le labbra: l’arte reietta di celebrare l’attimo (o bocciare senza appello)

Una volta si fischiava, o meglio si fischiettava, ci si svegliava con un motivetto in testa e si andava in giro fischiettandolo. Quel fischietto era sinonimo di serenità, la celebrazione minima di un attimo scevro da pensieri e preoccupazioni. Durava quel che durava, ma era piacevole e rilassante, un modo per sorridere alla vita modulando una canzoncina scacciapensieri.

Addirittura fino agli anni ’50 e già dagli anni ’30, la radio che prima della guerra si chiamava Eiar (Ente italiano audizioni radiofoniche) aveva tra i suoi scritturati dei fischiatori professionisti che partecipavano al lavoro dell’orchestra proprio come dei veri musicisti. Insomma, il fischietto era uno strumento in più. Poi, quel ruolo è sparito, perché vedere un musicista fischiante non era considerata un’immagine nobile, come uno che suona il violino o il pianoforte. Peccato! Il fischio è diventato sinonimo di disapprovazione o addirittura di totale bocciatura. Uno spettacolo che non piace viene fischiato; fischio diventa sinonimo di fiasco, almeno da noi, perché in America invece il fischio va di pari passo con gli applausi, e in Italia noi non capiremo mai il perché. E allora, Il fischio è buono o cattivo? Dipende.

Un politico che dice una castroneria – capita spesso – viene fischiato, almeno così dovrebbe essere, un arbitro che assegna un rigore inesistente viene subissato di fischi. Invece, un’allegra canzoncina viene fischiettata, non fischiata, e in quel vezzeggiativo c’è tutta la differenza dei due mondi.

Per quanto mi riguarda, io appena posso fischietto volentieri, e se qualcuno scambia quel piccolo trillo emesso dalle mie labbra per una critica, un giudizio morale, o chissà che altro, io non ci faccio caso e continuo il mio concertino spensierato, “… e Pippo Pippo non lo sa, ma quando passa ride tutta la città…”. Chissà, forse L’Eiar potrebbe offrirmi una scrittura!