Il documentario finanziato dall’Eni del regista olandese Yoris Ivens L’Italia non è un Paese povero (1960) mostrava le contraddizioni di un Paese in cui convivevano le grotte di Matera, dove bimbi e animali domestici condividevano il sonno, e le futuristiche città industriali come Metanopoli. Gli idrocarburi italiani, specialmente il metano, sono stati cruciali per la crescita industriale del Paese e per l’espansione della società dei consumi. Oggi l’Italia è il più grande produttore di petrolio dell’Unione europea, nonché l’unico che aumenta la produzione di idrocarburi mentre gli altri (vedi la Danimarca) hanno deciso di abbandonarli definitivamente.
Il metano è stato all’origine di quella che ancora oggi è una delle due maggiori aziende del Paese. Creata nel 1953 l’Eni godeva di una “riserva originaria” su idrocarburi e vapori della Val Padana e dell’off-shore Adriatico che poteva estrarre e trasportare in regime di monopolio, senza essere gravata da alcuna tassazione. Enrico Mattei e la Dc sapevano che questo enorme privilegio avrebbe dotato l’ente della forza finanziaria necessaria per crescere, svilupparsi e adempiere il mandato di garantire la sicurezza energetica italiana e fornire energia a prezzi abbordabili. Questa “rendita metanifera” venne stigmatizzata in una celebre inchiesta in tre puntate di Indro Montanelli sul Corsera nel 1962. Montanelli ironizzò su Mattei, che definì un “petroliere senza petrolio” (petrolio poco, metano tanto), e accusò Eni di avere conti così opachi “che perfino gli Accounters di Londra abbiano rinunciato a raccapezzarsi”.
Grazie alla generosità della Val Padana, all’ingegnosità dei tecnici e alla visione del suo presidente, Eni si proiettò all’avanguardia delle tecnologie per l’estrazione e il trasporto di idrocarburi, per poi espandersi in altri settori, come il tessile con la Lanerossi e nella meccanica col Nuovo Pignone. Negli anni 60 e 70 la rendita metanifera non bastò da sola ad alimentare gli investimenti di Eni nel Mezzogiorno, in particolare nel petrolchimico e lo Stato dovette dare ulteriore fiato all’azienda con “fondi di dotazione”.
Alla vigilia della trasformazione in società per azioni nel 1992, l’Eni era una delle maggiori società petrolifere al mondo, si era accollata con Enichem tutta la chimica italiana, impiegava 155mila lavoratori, godeva di rapporti privilegiati con Russia e Paesi africani. I suoi utili continuavano a provenire però solo dalla produzione e distribuzione del gas italiano attraverso Agip e Snam, nonché dalla vendita del gas russo e, in misura minore, di quello algerino. Nel 1992 Goldman Sachs definì Eni come una “blue chip gas company” (all’ingrosso una società di punta nel suo settore e finanziariamente stabile) .
Nell’ansia di privatizzare una holding che nel 1992 ancora produceva utili, la nuova dirigenza di Eni, in collaborazione con le banche d’affari internazionali, puntò tutto sul “core”: gas e petrolio, unici settori che generavano utili da redistribuire agli azionisti. Seguirono migliaia di licenziamenti; vendita per ridurre il debito di aziende che oramai erano eccellenza mondiale come la Nuova Pignone; razionalizzazione di rami secchi (incluse le partecipate che si occupavano di ambiente e rinnovabili).
C’era però un problema: avendo perduto la sua “funzione pubblica”, Eni Spa non poteva mantenere l’esclusiva sugli idrocarburi in alcune zone del Paese e l’esenzione dalla fiscalità. Avrebbe subito gli strali della normativa sulla concorrenza dell’Ue. La brillante soluzione fu quella di allargare a tutti gli operatori petroliferi in Italia un regime fiscale talmente vantaggioso che, secondo uno studio del 2010 del più prestigioso centro studi internazionale sull’energia, avrebbe garantito ai petrolieri italiani i profitti più alti al mondo. L’Eni spinse ancor più sul gas naturale in Italia, contribuendo al progressivo esaurimento delle riserve, iniziò a pompare petrolio in Basilicata, per poi aumentare la produzione in Africa. Le risorse naturali italiane giungevano questa volta in soccorso dei profitti della nuova Eni Spa.
Con una produzione di gas naturale in declino da tempo, alcuni celebrano oggi la Basilicata come il Texas petrolifero d’Italia. Qui si estrae l’80% del petrolio italiano: una produzione aumentata nel 2020 e che dovrebbe aumentare ulteriormente nel 2021, specie con la messa a regime del nuovo giacimento di Tempa Rossa di proprietà della francese Total. Dopo le vigorose proteste per i danni ambientali a seguito degli sversamenti dall’impianto di Viggiano di almeno 400 tonnellate di petrolio vicino al bacino idrico del Pertusillo (il maggiore dell’Italia meridionale), l’Eni ha firmato recentemente un nuovo accordo con la regione Basilicata. Esso prevede una royalty aggiuntiva fissa (dunque ingiusta) di 1,05 euro per barile di petrolio e un, più serio, impegno a fornire ai lucani una quantità significativa di gas naturale. Come prezzo per far dimenticare i danni all’ambiente e confermare l’Italia come unico Paese Ue che aumenta la produzione di petrolio si tratta di un prezzo irrisorio.
La linea di chi spinge a massimizzare ancora lo sfruttamento delle risorse naturali è un relitto ideologico del passato. Se si vuole ridurre la “bolletta energetica” italiana occorre piuttosto far leva sulla diminuzione dei consumi (già in atto) e l’aumento delle rinnovabili. Se si vogliono maggiori risorse per enti regionali e lo Stato vi sono buoni margini per aumentare la fiscalità, riducendo all’osso i profitti delle società petrolifere ed evitando incrementi di produzione.
Il petrolio della Basilicata non ha cambiato di una virgola il suo posto come una delle economie più povere d’Italia, dunque più della stessa medicina (entrate che alimentano la spesa corrente) non sembra essere l’approccio giusto. “Transizione ecologica” significa qualcosa solo se modifica un modello incentrato sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali per inaugurarne un altro basato da un lato sulla loro conservazione, dall’altro sulla loro effettiva valorizzazione.