Dall’Eni pubblica alla svendita delle risorse naturali: breve storia

Il documentario finanziato dall’Eni del regista olandese Yoris Ivens L’Italia non è un Paese povero (1960) mostrava le contraddizioni di un Paese in cui convivevano le grotte di Matera, dove bimbi e animali domestici condividevano il sonno, e le futuristiche città industriali come Metanopoli. Gli idrocarburi italiani, specialmente il metano, sono stati cruciali per la crescita industriale del Paese e per l’espansione della società dei consumi. Oggi l’Italia è il più grande produttore di petrolio dell’Unione europea, nonché l’unico che aumenta la produzione di idrocarburi mentre gli altri (vedi la Danimarca) hanno deciso di abbandonarli definitivamente.

Il metano è stato all’origine di quella che ancora oggi è una delle due maggiori aziende del Paese. Creata nel 1953 l’Eni godeva di una “riserva originaria” su idrocarburi e vapori della Val Padana e dell’off-shore Adriatico che poteva estrarre e trasportare in regime di monopolio, senza essere gravata da alcuna tassazione. Enrico Mattei e la Dc sapevano che questo enorme privilegio avrebbe dotato l’ente della forza finanziaria necessaria per crescere, svilupparsi e adempiere il mandato di garantire la sicurezza energetica italiana e fornire energia a prezzi abbordabili. Questa “rendita metanifera” venne stigmatizzata in una celebre inchiesta in tre puntate di Indro Montanelli sul Corsera nel 1962. Montanelli ironizzò su Mattei, che definì un “petroliere senza petrolio” (petrolio poco, metano tanto), e accusò Eni di avere conti così opachi “che perfino gli Accounters di Londra abbiano rinunciato a raccapezzarsi”.

Grazie alla generosità della Val Padana, all’ingegnosità dei tecnici e alla visione del suo presidente, Eni si proiettò all’avanguardia delle tecnologie per l’estrazione e il trasporto di idrocarburi, per poi espandersi in altri settori, come il tessile con la Lanerossi e nella meccanica col Nuovo Pignone. Negli anni 60 e 70 la rendita metanifera non bastò da sola ad alimentare gli investimenti di Eni nel Mezzogiorno, in particolare nel petrolchimico e lo Stato dovette dare ulteriore fiato all’azienda con “fondi di dotazione”.

Alla vigilia della trasformazione in società per azioni nel 1992, l’Eni era una delle maggiori società petrolifere al mondo, si era accollata con Enichem tutta la chimica italiana, impiegava 155mila lavoratori, godeva di rapporti privilegiati con Russia e Paesi africani. I suoi utili continuavano a provenire però solo dalla produzione e distribuzione del gas italiano attraverso Agip e Snam, nonché dalla vendita del gas russo e, in misura minore, di quello algerino. Nel 1992 Goldman Sachs definì Eni come una “blue chip gas company” (all’ingrosso una società di punta nel suo settore e finanziariamente stabile) .

Nell’ansia di privatizzare una holding che nel 1992 ancora produceva utili, la nuova dirigenza di Eni, in collaborazione con le banche d’affari internazionali, puntò tutto sul “core”: gas e petrolio, unici settori che generavano utili da redistribuire agli azionisti. Seguirono migliaia di licenziamenti; vendita per ridurre il debito di aziende che oramai erano eccellenza mondiale come la Nuova Pignone; razionalizzazione di rami secchi (incluse le partecipate che si occupavano di ambiente e rinnovabili).

C’era però un problema: avendo perduto la sua “funzione pubblica”, Eni Spa non poteva mantenere l’esclusiva sugli idrocarburi in alcune zone del Paese e l’esenzione dalla fiscalità. Avrebbe subito gli strali della normativa sulla concorrenza dell’Ue. La brillante soluzione fu quella di allargare a tutti gli operatori petroliferi in Italia un regime fiscale talmente vantaggioso che, secondo uno studio del 2010 del più prestigioso centro studi internazionale sull’energia, avrebbe garantito ai petrolieri italiani i profitti più alti al mondo. L’Eni spinse ancor più sul gas naturale in Italia, contribuendo al progressivo esaurimento delle riserve, iniziò a pompare petrolio in Basilicata, per poi aumentare la produzione in Africa. Le risorse naturali italiane giungevano questa volta in soccorso dei profitti della nuova Eni Spa.

Con una produzione di gas naturale in declino da tempo, alcuni celebrano oggi la Basilicata come il Texas petrolifero d’Italia. Qui si estrae l’80% del petrolio italiano: una produzione aumentata nel 2020 e che dovrebbe aumentare ulteriormente nel 2021, specie con la messa a regime del nuovo giacimento di Tempa Rossa di proprietà della francese Total. Dopo le vigorose proteste per i danni ambientali a seguito degli sversamenti dall’impianto di Viggiano di almeno 400 tonnellate di petrolio vicino al bacino idrico del Pertusillo (il maggiore dell’Italia meridionale), l’Eni ha firmato recentemente un nuovo accordo con la regione Basilicata. Esso prevede una royalty aggiuntiva fissa (dunque ingiusta) di 1,05 euro per barile di petrolio e un, più serio, impegno a fornire ai lucani una quantità significativa di gas naturale. Come prezzo per far dimenticare i danni all’ambiente e confermare l’Italia come unico Paese Ue che aumenta la produzione di petrolio si tratta di un prezzo irrisorio.

La linea di chi spinge a massimizzare ancora lo sfruttamento delle risorse naturali è un relitto ideologico del passato. Se si vuole ridurre la “bolletta energetica” italiana occorre piuttosto far leva sulla diminuzione dei consumi (già in atto) e l’aumento delle rinnovabili. Se si vogliono maggiori risorse per enti regionali e lo Stato vi sono buoni margini per aumentare la fiscalità, riducendo all’osso i profitti delle società petrolifere ed evitando incrementi di produzione.

Il petrolio della Basilicata non ha cambiato di una virgola il suo posto come una delle economie più povere d’Italia, dunque più della stessa medicina (entrate che alimentano la spesa corrente) non sembra essere l’approccio giusto. “Transizione ecologica” significa qualcosa solo se modifica un modello incentrato sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali per inaugurarne un altro basato da un lato sulla loro conservazione, dall’altro sulla loro effettiva valorizzazione.

È in arrivo l’euro digitale? Ecco cos’è e a cosa serve

L’euro digitale potrebbe diventare realtà in pochi anni. Il messaggio lanciato il 14 luglio dalla Banca centrale europea è chiaro: nei prossimi due anni sarà condotta una “investigazione” accurata su questo progetto. Ma di che parliamo? L’espressione “moneta digitale” fa pensare i più ai bitcoin o all’app della nostra banca. I più informati potrebbero ricordarsi di Diem, il progetto di moneta di Facebook. I nerd potrebbero giustamente sottolineare che moneta digitale sono anche i “crediti” utilizzati come mezzo di pagamento nei videogiochi. L’euro digitale, però, è qualcosa di diverso: non è un “oggetto digitale” che viene “minato” attraverso potenti computer, come i bitcoin; non è nemmeno il debito di una banca commerciale o di un intermediario finanziario; è invece, come il contante e le riserve bancarie, una passività della banca centrale. Insomma, con l’euro digitale, ogni cittadino potrebbe fare acquisti usando una moneta pubblica – come fa oggi col cash – ma dematerializzata (la Bce ha già spiegato che non sostituirà le banconote, le affiancherà). La vera questione sul tavolo è un’altra: i rischi posti dalle soluzioni monetarie private, come le criptovalute e le stable coins (ad esempio Tether e Diem). Se queste monete si diffondessero nell’economia potrebbero mettere a repentaglio la sovranità monetaria e la capacità degli attori pubblici di vigilare sul sistema dei pagamenti: l’euro digitale è la risposta della Bce a queste sfide.

Come funzionerebbe concretamente? Le soluzioni tecnicamente possibili sono molte, ma la più probabile oggi sembra una partnership fra banca centrale e attori privati. La Bce emetterebbe l’euro digitale in forma “grezza” e sarebbero poi gli intermediari a metterlo in circolazione presso il pubblico, arricchendolo di servizi e funzionalità aggiuntive. Perciò, l’utente finale disporrebbe di un portafoglio digitale personalizzato, con il quale gestire pagamenti e altre operazioni finanziarie.

Mentre le soluzioni monetarie private sono ovviamente rivolte solo a chi se le può permettere, una moneta digitale pubblica è per natura e per missione accessibile a tutti. Inoltre, se opportunamente disegnata, può dischiudere possibilità inedite. Se tutti i cittadini avessero un conto presso la banca centrale, durante una crisi basterebbe un clic per dare a tutti integrazioni di reddito (realizzando la cosiddetta helicopter money o “quantitative easing per il popolo” di cui si è molto parlato in questi anni). Oppure si potrebbe iniettare denaro in modo mirato nei settori che hanno più bisogno di liquidità. La moneta digitale, infatti, è per sua natura programmabile: può essere fatta a scadenza o limitata a specifiche operazioni. Insomma, apre la porta a innovazioni monetarie adatte a una società complessa e frammentata come la nostra, cambiando potenzialmente il modo in cui la moneta funziona.

La Bce non è la prima a pensare a un progetto del genere. L’euro digitale è la versione europea delle cosiddette Cbdc, Central bank digital currencies (valute digitali di banca centrale). Una corsa in cui la Cina è già avanti, essendo la prima grande economia ad aver lanciato un progetto pilota: uno yuan digitale potrebbe aiutare il Dragone a diffondere la sua moneta in giro per il mondo, aumentando la sua proiezione globale. È forse il timore per la minaccia cinese al ruolo del dollaro ad aver spinto anche gli Usa nella mischia. La questione, dunque, è anche geopolitica: la moneta non è solo un mezzo di scambio, ma anche uno strumento di potere. Anzi, un asset strategico.

In questa sfida l’Ue non vuole rimanere indietro, dato che le altre sue armi nel contesto geopolitico sono spuntate. Una moneta digitale potrebbe non solo innescare innovazioni dentro i confini, ma anche aprire opportunità di internazionalizzazione per l’euro. I toni sono solenni: “Non esiteremo a scrivere questa nuova pagina del progresso europeo”, ha detto Fabio Panetta, membro del comitato esecutivo della Bce.

Certo, i punti interrogativi non mancano. L’euro digitale potrebbe mettere in difficoltà la raccolta del risparmio da parte delle banche, dato che i cittadini potrebbero convertire molto più facilmente i loro depositi in moneta di banca centrale. Per prevenire tale rischio si potrebbe decidere un limite alla detenzione di euro digitale o operare rifinanziamenti mirati alle banche. Anche la privacy resta una questione aperta, come pure la crescita del potere delle banche centrali. Come al solito, un cambiamento non è mai solo tecnologico, ma anche sociale e politico: se avviene per un’istituzione fondamentale come la moneta va discusso apertamente con l’opinione pubblica e i corpi intermedi, non sperimentato e basta.

Addio “vicino ma sotto al 2%”: la rivoluzione Bce è un brodino

Era il 2003 l’ultima volta che la Banca centrale europea ha rivisto la propria strategia di politica monetaria. L’obiettivo di inflazione “vicino ma sotto al 2%” è durato quasi 18 anni, superando indenne i cambiamenti che sono avvenuti con la grande crisi globale del 2008 e con quella dell’euro del 2011/2012.

Alla luce di questi cambiamenti, dopo 10 anni passati con un’inflazione mai stabilmente vicino all’obiettivo, nel 2020, poco prima dell’arrivo della pandemia, si era deciso di avviare una revisione della strategia della Bce ed adeguarla alle sfide più attuali. I risultati di questa revisione sono stati presentati lo scorso 8 luglio, un po’ in anticipo rispetto alle attese.

Sono principalmente tre i cambiamenti su cui la presidente Christine Lagarde ha focalizzato l’attenzione presentando la nuova strategia di politica monetaria. La prima novità, quella forse più chiara da comprendere, è aver definito l’obiettivo di inflazione con un numero preciso: il 2%. Aver eliminato il riferimento al “vicino ma sotto” significa non solo una comunicazione più efficace e semplice, ma anche la possibilità di un approccio simmetrico alle misure da adottare per raggiungere l’obiettivo. Stando alle parole della presidente, un’inflazione troppo bassa non sarà trattata in modo più accondiscendente rispetto a una troppo elevata. Continueranno però ad esser tollerati scostamenti transitori dell’andamento dei prezzi, perché l’obiettivo rimane di medio termine.

La seconda novità riguarda l’inserimento nell’indice dei prezzi, attraverso cui è misurata l’inflazione, dei costi relativi alle abitazioni per tener conto anche di come le spese legate alla casa incidono sui redditi reali della popolazione. L’ultima principale novità riguarda invece una maggiore sensibilità della banca centrale verso la tematica del cambiamento climatico, favorendo l’impiego di una struttura di funzionamento a minor impatto ambientale e modificando la regolamentazione degli intermediari finanziari e dei loro rapporti con la Bce per favorire le attività economiche più green.

Questo processo di revisione doveva giungere ad un risultato che fosse soddisfacente per tutti i membri del Consiglio Bce perché avrebbe dovuto esser approvato all’unanimità: per questa ragione però quello che neè venuto fuori non è una spinta decisa in una particolare direzione, quanto piuttosto il minimo comune denominatore tra le varie anime che compongono il Consiglio.

Si è andati incontro alle richieste delle colombe aumentando il target d’inflazione, ma allo stesso tempo si è modificato il paniere secondo le richieste dei falchi. La sensazione di gran parte degli osservatori è che il risultato raggiunto non sia stato quel gran cambiamento e anche il mercato ha reagito in modo piuttosto tiepido.

Nei fatti, considerando l’introduzione dei costi legati all’abitazione, l’obiettivo numerico da raggiungere non è molto differente da quello che era in precedenza. Quanto all’obiettivo simmetrico era già scontato da diversi anni: Draghi ne aveva parlato per la prima volta nel 2016 e da vari trimestri è inserito già nella formula di introduzione che precede la conferenza stampa sulle decisioni di politica monetaria.

Insomma, nonostante i paragoni con il modo nel quale si è evoluta la strategia della Banca centrale americana, l’approccio simmetrico della Bce rimane qualcosa di diverso: più timido rispetto alla media d’inflazione che da settembre guida la Fed.

Di cosa stiamo parlando esattamente? Avere un obiettivo di media di inflazione significare basarsi sul fatto che se l’inflazione è troppo bassa o troppo alta, il rapporto tra creditori e debitori viene ad esser alterato a favore dell’una o dell’altra categoria. Fare una media vuol dire fare in modo che non ci siano benefici strutturali a favore di creditori o debitori. Questo non avviene se si ha un approccio simmetrico, perché l’inflazione fuori dal target non è compensata. La simmetria riguarda l’intensità dell’intervento non la compensazione della redistribuzione avvenuta nei periodi di inflazione fuori dall’obiettivo.

Un’altra differenza con la Fed riguarda il ruolo, ancora di secondo piano, che la Bce attribuisce alla disoccupazione. Mentre la banca centrale Usa riconosce la necessità di perseguire una politica monetaria che consenta il raggiungimento della massima occupazione, perché proprio grazie ad un elevato livello di occupazione si è in grado di ripartire tra tutti gli strati della società, anche quelli più bassi, i benefici della crescita economica, la Bce considera il livello di occupazione come una variabile di secondo piano rispetto alla stabilità dei prezzi. Anche questa differenza, che può trovar giustificazione nel fatto che il lavoratore è meno tutelato nel sistema economico americano rispetto a quello europeo, segna però come la Bce rimanga ancorata a concetti di difficile misurazione (e sempre più dubbia rilevanza) quali il “Pil potenziale” e la “disoccupazione non inflazionistica”.

Se la delusione di molti osservatori riguarda la timidezza con cui è evoluta la nuova strategia, altrettanta delusione si è avuta per una serie di silenzi a proposito degli insoddisfacenti risultati del passato. Nessun accenno è stato fatto sulle ragioni per le quali in questi 10 anni non si è mai raggiunto, per un periodo di tempo sufficientemente duraturo, l’obiettivo di inflazione. Non sappiamo quale sia il giudizio di Francoforte su cosa stia all’origine della bassa inflazione, se dovuta a cause strutturali (demografia, invecchiamento, indebitamento) o se ad errori di politica monetaria o di politica economica. Non è stato menzionato in che modo l’impatto della politica fiscale ha condizionato la capacità di raggiungere il 2%. Se ed in quale modo pensano che una eventuale collaborazione tra politica monetaria e politica fiscale possa permettere di superare queste difficoltà. Nessun accenno al modo nel quale la politica monetaria distribuisce i benefici della stabilità monetaria e se siano necessari correttivi per favorire una più equa redistribuzione dei redditi e della ricchezza.

Tutti interrogativi che dopo un anno e mezzo di lavoro, di riflessione e di ascolto non hanno trovato alcun posto. In conclusione, nonostante l’attenzione riservata alle varie istanze provenienti dai settori dell’economia e si sia cercato di cambiare la strategia di politica monetaria per venir incontro a queste istanze, il cambiamento concreto è meno evidente di quello che la presidente Lagarde ha voluto enfatizzare. E non avendo affrontato esplicitamente le ragioni alla base degli scarsi risultati del passato, rimane il dubbio su quanto la nuova strategia sia adeguata ad affrontare le sfide che il futuro post- pandemia ci metterà davanti.

La sai l’ultima?

 

Ostuni Disturbato dalla musica alle 4 di notte scende in strada e prende lo stereo a bastonate

L’eroe della settimana è l’ex assessore di Ostuni, il fuoriclasse sceso di casa alle 4 di mattina per fracassare lo stereo dei giovani che ascoltavano musica a tutto volume in piazza, disturbando il suo riposo. Per grazia ed eleganza ha ricordato la scena di Animal House in cui John Belushi spacca la chitarra di un improvvisato e molesto cantautore incrociato su una rampa di scale. Il vendicatore solitario della città brindisina si chiama Matteo Tanzarella, in passato ha ricoperto la carica di assessore alla Polizia locale, e in effetti si riconosce nel suo tocco delicato la gentilezza d’animo di certi uomini d’ordine. “Io domattina devo lavorare, sembra di essere in discoteca. Ma da dove venite, cazzo?” sbraita imbufalito, mentre infierisce con un bastone sulla sorgente del suo fastidio. Nessuno dei numerosi giovani raggruppati in piazza ha il coraggio di affrontarlo o di obiettare alcunché. Sarebbe bastato un Tanzarella per sciogliere qualsiasi genere di assembramento.

 

Arezzo Ruba l’auto a un benzinaio ma poi va a fare il pieno al suo distributore. E alla fine manda i poliziotti all’ospedale

C’è del metodo e della genialità in certi furti d’auto. Un benzinaio di Terranuova Bracciolini, comune in provincia di Arezzo, ha osservato attonito un cliente chiedergli il pieno di benzina alla guida dell’automobile che gli era stata rubata pochi giorni prima. Il ladro era andato a rifornirsi esattamente dallo stesso esercente a cui aveva fregato la macchina. “Il commerciante lì per lì non si era accorto di niente – scrive il sito locale Qui news Valdarno – poi guardando meglio la vettura a cui l’uomo stava facendo il pieno si è reso conto che era la sua. Vistosi scoperto l’automobilista è fuggito via. Immediatamente il benzinaio ha chiamato la polizia di Montevarchi raccontando agli agenti che qualche minuto prima un cliente si era presentato al suo distributore per rifornire la autovettura che gli era stata rubata”. È finita maluccio: il ladro è stato fermato dalla polizia e si è scagliato “contro gli agenti colpendoli con calci e pugni”. Lui arrestato, loro al pronto soccorso.

 

MIlano Indossano 12 paia di pantaloni ed escono dal negozio facendo finta di niente. Arrestata una coppia di taccheggiatori

Ancora a proposito di brillanti operazioni criminali, le cronache locali ci regalano la notizia di una coppia latinoamericana che ha provato a rubare 12 paia di pantaloni nel modo più semplice e intuitivo: indossandoli tutti insieme. I due geni hanno provato ad allontanarsi dal centro commerciale di Peschiera (Milano) come se nulla fosse, gonfi come omini Michelin, con un passo evidentemente un po’ impacciato per la spropositata quantità di indumenti sulle gambe. Chi l’avrebbe mai detto? Sono stati beccati dai carabinieri. “A finire in manette per furto aggravato un 38enne peruviano e una 42enne colombiana, entrambi con precedenti specifici – scrive Milano Today -. I due malviventi sono stati notati mentre camminavano fuori dal centro commerciale dalla Radiomobile di San Donato che si è insospettita per loro strana andatura. In totale avevano sottratto merce del valore di 240 euro”.

 

Australia Paperon de’ Paperoni mangia da McDonald’s: ordina 304 panini e riesce a spendere più di 2mila euro

Un conto da 3.400 dollari australiani, l’equivalente di oltre duemila euro. Non per mangiare in un ristorante stellato, ma per svaligiare la cucina di un McDonald’s. È la prodezza di un cliente supersize raccontata dal Mirror. Il fuoriclasse ha ordinato – come riporta Today.it – “304 hamburger, tra cui 70 Angus Clubhouse e 29 McFamily Boxes, 39 confezioni da 20 McNuggets ciascuna, e poi 69 porzioni di patatine fritte e molto altro ancora”. Nella stessa ordinazione ovviamente sono finite oltre 100 bevande. E poi piccola aggiunta geniale, quasi situazionista, per completare l’ordine: oltre ai vari menù sono stati chiesti a parte anche una coca cola piccola al gusto di vaniglia (senza ghiaccio) e un cheeseburger senza cetriolini. Le immagini che testimoniano questa ordinazione pantagruelica sono state condivise da un impiegato di McDonald’s in un gruppo Facebook dello staff, poi l’impresa è diventata pubblica.

 

Scozia La triste avventura del gatto Barry, disperso: è rimasto rinchiuso per dodici giorni nella tazza del bagno del vicino

Panico e angoscia per la famiglia Mc Neil, scozzesi di Dalkeith, a causa della scomparsa dell’amato gatto Barry. Il micione aveva fatto perdere le sue tracce per due settimane e pareva fosse introvabile, nonostante la ricca ricompensa da mille sterline stanziata dai suoi proprietari per chi glielo avesse riportato. Alla fine, miracolo, si è scoperto che Barry era rimasto incastrato nella tazza del bagno di una vicina. Un’avventura poco epica, anzi piuttosto straziante, che ci è stata raccontata dal sito Lazampa.it: “Probabilmente spaventato da un temporale, Barry aveva trovato rifugio in un bagno di una casa in ristrutturazione. E lì rimasto intrappolato per tutti i 12 giorni, senza cibo e acqua perché l’asse del water era abbassato. Il proprietario pensa che sia riuscito a idratarsi leccando l’acqua di condensa. Per sua fortuna la proprietaria dell’abitazione, che era andata in vacanza per permettere i lavori, è tornata e lo ha trovato”. Tutto è bene quel che finisce bene.

 

Lazio Barillari si fa un video in consiglio regionale con una pistola puntata su di sé: “Vaccinarsi è suicida”

Davide Barillari, what else? Il consigliere regionale espulso dai Cinque Stelle regala l’ennesima perla della sua psicotica carriera nelle istituzioni. Si registra all’interno del suo ufficio alla Pisana con una pistola puntata contro il suo stesso braccio. È un’intensa allegoria dell’azione suicida a cui si sottopone chi si vaccina, secondo questo raffinato esponente del pensiero occidentale. “Questa è una roulette russa e sei proprio tu a premere il grilletto. Se sei fortunato hai solo febbre e mal di testa. Se sei sfortunato ictus cerebrale, trombosi e morte. Vogliamo verità sul vaccino sperimentale”. L’effetto è comico e raccapricciante al tempo stesso: se l’obiettivo artistico di Barillari è suscitare emozioni, di qualsiasi genere, possiamo ammettere che la performance non lascia indifferenti. La pistola speriamo sia finta, la presenza di Barillari in un’assemblea elettiva della Repubblica italiana invece è vera, verissima. Non smetteremo mai di ringraziare il Movimento Cinque Stelle per questo dono.

 

Alcamo Un 22enne ai domiciliari evade per andare al mare. Al ritorno si costituisce: “Faceva troppo caldo”

Un giovane siciliano ai domiciliari non ha resistito al richiamo dell’estate: è “evaso” dalla sua abitazione ed è andato a farsi un bagno al mare. Al ritorno, con la stessa serena naturalezza, si è presentato in caserma dai carabinieri di Alcamo ancora in tenuta balneare, costume e infradito, e si è autodenunciato per il mancato rispetto della misura cautelare. Lo racconta Il Giornale di Sicilia: “Il 22enne si trova ai domiciliari nel comune di Partinico (Palermo) per una serie di precedenti per furto, ricettazione e riciclaggio. Ieri, però, ha deciso di ‘prendere una giornata di ferie’ e andare al mare. I militari, dopo averlo arrestato e posto di nuovo ai domiciliari, hanno chiesto al giovane il motivo del suo gesto. La risposta è stata tempestiva e sincera: spinto dal troppo caldo, ha deciso di trascorrere una giornata di mare a Trappeto, ma al ritorno, dal momento che l’autobus si fermava ad Alcamo, ha deciso di costituirsi”.

Addio Olimpiadi del coronavirus e del record di medaglie azzurre

“We did it: together!”, esclama Thomas Bach, il presidente del Cio, “ce l’abbiamo fatta: insieme!”, e le sue parole vorrebbero suggellare la fine dei controversi Giochi di Tokyo al tempo del Covid, quasi un invito ad applaudirne il successo, o meglio, il miracolo di averle concluse senza grossi guai, limitando i contagi, stornando polemiche e trappole geopolitiche (solo i bielorussi ci hanno provato a rimpatriare forzatamente una loro atleta dissidente, ma sono stati stoppati e poi espulsi dal Giappone).

L’applauso, tuttavia, è tiepido, remoto. I Giochi della Pandemia hanno attraversato le nostre anime, come possiamo non pensare ai diciotto mesi di tragedie e frustrazioni che li hanno preceduti? Gli spalti dello stadio olimpico di Tokyo sono vuoti. Applaudono solo gli addetti ai lavori, i dirigenti del Cio, i pochi ospiti distanziati, mentre al centro dello Stadio olimpico i quasi cinquemila scanzonati atleti sono distratti dall’irresistibile e umanissima voglia di festeggiare, dopo tutti questi giorni di clausura, nel surreale ambiente covidico dell’inflessibile bolla alla giapponese. Solo atleti o anche qualcos’altro? Perché questi Giochi condizionati dal Covid sono stati un colossale sport reality televisivo, il tentativo di offrire una sorta di tregua, dopo l’assedio del coronavirus e delle sue micidiali varianti. Olimpiadi da set cinematografico. Con copioni strani, spesso imprevedibili. L’imprevedibile stranezza l’abbiamo rappresentata noi italiani con l’irruzione nel sacrario della velocità, i 100 metri, la gara più importante dei Giochi. Marcell Jacobs, due ori alla Bolt, è consapevole della sua impresa, il futuro sarà una sfida continua: “Lo so ma sono tranquillo. Reggere la bandiera alla cerimonia di chiusura mi inorgoglisce, noi quest’anno abbiamo fatto qualcosa di incredibile. Un emozione super essere il rappresentante dell’Italia…”. Una squadra che torna a casa con 40 medaglie, nuovo record: 10 ori, 10 argenti, 20 bronzi. L’ultimo podio arriva dalle leggiadre “farfalle” della ginnastica ritmica, terze dietro Bulgaria e russe. Un’uscita di scena dolcissima, e fiera. Siamo decimi, con gli stessi ori di Olanda, settima, Francia, ottava e Germania, nona. Ma in cima c’è stato il sorpasso in extremis degli Stati Uniti sulla Cina, staccata di un oro. E di nove argenti e 15 bronzi. America first, sebbene per un geopolitico pelo.

Quanto a noi, è già tempo di bilanci. L’atletica leggera, seconda solo agli Stati Uniti, ha conquistato cinque dei nostri dieci ori: è stata la regina della spedizione, molti ragazzi sono entrati in finale. Si sta seminando bene. Gli sport marziali hanno offerto grandi prestazioni, la provincia italiana delle palestre (vedi la boxe, vedi la lotta e il sollevamento pesi) ha dimostrato d’essere competitiva ai massimi livelli mondiali. Il nuoto non ci ha regalato vittorie, ma grandi storie di resilienza ed orgoglio, come la staffetta veloce dello stile libero, argento dietro gli imprendibili Usa o lo straordinario Paltrinieri che è stato più forte della malattia ed ha vinto un argento e un bronzo. Meraviglia Vanessa Ferrari, meritava l’oro, le sue lacrime di gioia valgono di più. Grandioso Filippo Ganna, ha trascinato il quartetto dell’inseguimento all’oro con record mondiale. Pessima, invece, l’Italia del pedale maschile su strada. Tiro inferiore alle attese. E la scherma? Oro della delusione.

I tamponi a prezzi bassi ancora non si trovano

Non più 30 euro come in Lombardia o 22 come nel Lazio, ma i test antigenici rapidi per il Covid-19 in farmacia per la fascia dai 12 ai 18 anni costeranno 8 euro e per tutti gli altri 15 euro: lo ha annunciato venerdì il governo in pompa magna, ma almeno per il primo week end dal provvedimento nazionale è ancora impossibile trovare i prezzi calmierati.

Anche perché sono le Regione a dover dare il via libera dopo essersi accordate con i sindacati, diverse farmacie hanno già fatto sapere di essere favorevoli pur con l’amarezza, in alcuni casi, di non aver ancora ricevuto i ristori sulle mascherine. Dal canto suo l’Ordine dei farmacisti ha preso subito posizione col presidente Andrea Mandelli: “Con la diffusione della variante Delta e l’obbligatorietà del Green pass per accedere a una molteplicità di attività, il ruolo dei tamponi rapidi è sempre più centrale. D’altra parte, già oggi il 50% dei tamponi giornalieri viene effettuato nelle farmacie. Da qui l’accordo tra il governo e le rappresentanze dei titolari di farmacia per stabilire prezzi calmierati. L’auspicio è che le Regioni diano subito piena attuazione al Protocollo per la riduzione dei prezzi”. Insomma, ora la palla passa alle Regioni e ci vorrà ancora qualche giorno prima che tutti si potranno uniformare alla legge nazionale. L’accordo, in ogni caso, per adesso vale fino al 30 settembre, quindi più tardi si parte meno dura.

Intanto in Cina, dove tutto è cominciato più di un anno fa, le autorità di Wuhan hanno dichiarato di aver completato i test su tutti gli 11 milioni di abitanti: l’iniziativa, adottata dopo la scoperta di sette nuovi casi positivi, ha preso il via martedì scorso ha visto la mobilitazione di più di 28.000 operatori sanitari in altrettanti siti. È stata fornita “praticamente una copertura completa” di tutti i residenti a Wuhan ad eccezione dei bambini di età inferiore ai sei anni e degli studenti in vacanza all’estero, ha detto in una conferenza stampa l’alto funzionario di Wuhan Li Tao.

Negli Stati Uniti, invece, dove la preoccupazione per la recrudescenza dei contagi (di nuovo a 100 mila al giorno) adesso è rivolta anche i bambini, con +85 di nuovi casi fra gli under 12 in una settimana, è intervenuto ancora una volta lo scienziato Anthony Fauci, consigliere della Casa Bianca: “Chiunque sia vicino ad un bambino dovrebbe essere vaccinato, e proprio in quello che dovrebbe essere l’ambiente protetto per antonomasia per i più piccoli, ossia la scuola. Per me vaccinare tutti gli adulti vicini ai bambini è senso comune, eppure anche per altre misure come l’uso delle mascherine nelle scuole assistiamo a reazioni e ribellioni come in Florida”. Nello Stato, infatti, il governatore repubblicano Ron DeSantis ha addirittura minacciato di bloccare i fondi alle scuole che richiedano l’obbligo di mascherine. “Non ha senso non voler proteggere i bambini”, ha attaccato Fauci.

E negli Usa, dopo la Delta, adesso dilaga la variante Lambda, scoperta in Perù, con gli esperti che ricordano come la trasmissione tra i non vaccinati favorisca la mutazione del virus in forme sempre più contagiose. Lo riferisce la Cnn; il primo caso di variante Lambda era stata rilevata il mese scorso in Texas.

“Tempesta d’autunno: la scialuppa di Draghi va verso il Quirinale”

“In autunno si alzeranno onde alte ai fianchi del governo e la barca di Mario Draghi sarà investita dall’acqua che i partiti provocheranno. E gli scossoni saranno sempre più decisi”.

Piero Ignazi, come vedetta appostata in cima al monte, annuncia perturbazione insistita e tempesta imminente sul governo dei migliori.

È un dato certo e persino fisiologico. Finora Draghi aveva potuto contare sull’assenza dal dibattito politico della forza più numerosa del Parlamento, annientata tra dissidi interni e mortali rese dei conti. Da domani non sarà più così, tanto più che il leader di questa forza è l’ex premier.

Significa che anche Draghi rischia?

Lui ha governato bene finora e se continuerà a farlo è in grado di reggere anche questo urto. Ma gli conviene proseguire?

Lei auspica che si candidi al Quirinale?

Assolutamente sì. Quel che doveva fare, completare e stabilizzare la campagna vaccinale e incardinare il Recovery è stato fatto. Un altro anno a palazzo Chigi non varrebbe il ruolo e la nuova funzione, l’accresciuto potere che il Colle va sommando. Non c’è paragone e soprattutto non vedo quale potrebbe essere il suo interesse a rinunciare a un ruolo così alto e parimenti pervasivo.

Potrebbe conservare palazzo Chigi e spingere Mattarella a trattenersi un altro po’ sul Colle, per poi procedere alla staffetta.

Penso tutto il male del mondo dell’allungamento del settennato. Lo sfregio alla Costituzione provocato dal bis di Napolitano è ancora così fresco e così doloroso da sopportare. Spero davvero che a nessuno venga in mente di ritentare questa brutta carta.

Draghi è visto come l’onnipotente. Può fare questo quello e quell’altro. Palazzo Chigi, andare a Bruxelles, puntare al Quirinale. Non è già questa sua condizione un problema per la democrazia?

Non la vedo affatto così.

Il Parlamento è divenuto un ornamento. La serenità con la quale si prende atto, in certi casi con gioiose punteggiature, del default della politica non rappresenta in sé il declino civile di un Paese che per andare avanti dev’essere commissariato?

Partiamo da Draghi: è una personalità eccezionale e non se ne vedono in giro altre. Resta una grande risorsa e lecitamente ambisce a diversi ruoli. Ma qual è il pericolo per la democrazia?

Che i partiti siano considerati tappezzeria, che la politica sia buona solo per coprire le sede degli studi televisivi.

Non ho la sua opinione. Da settembre in poi vedrà quanto si mostrerà la politica e come contesterà Draghi.

L’onda alta della campagna d’autunno.

È legittimo che sia così. È legittimo e persino auspicabile che i Cinquestelle ritrovino un ruolo e prospettino una linea. Così come il Pd. Il centrodestra poi era e resta solidissimo.

Se Draghi lascia a febbraio, Meloni e Salvini possono festeggiare in anticipo la conquista di palazzo Chigi.

Sarei meno sicuro di lei. La storia recente ha dato prova che basta un passo falso per rovinarsi carriera e reputazione. Salvini s’è perso in un bicchiere di mojito, ricorda?

A me sembra invece che i leader della destra non paghino mai pegno per le loro prese di posizioni. Altrimenti per quanto Salvini ha detto e poi contraddetto a quest’ora sarebbe dovuto rovinare nei bassifondi della classifica.

Vero, loro hanno questa speciale esenzione perché agli elettori della destra basta che siano contro la sinistra. Non frega nulla del resto.

Essere contro la sinistra? Questo il salvacondotto?

Esatto. L’odio verso la sinistra è tale che Salvini e anche la Meloni possono illustrare la realtà anche attraverso le più fantasiose interpretazioni. Non pagheranno pegno.

E allora perché dice che alle elezioni tutto può ancora succedere?

In politica sei mesi sono un tempo abbastanza lungo in grado di confutare certezze ora granitiche.

Letta e Conte che formano uno squadrone?

Anzitutto Pd e Cinquestelle che formalizzano un’alleanza non provvisoria né precaria nei ruoli e nei volti. Sembra poco ma è molto. E poi quel centro disordinato, che finora pareva guardare a destra, sicuro che finirà di là?

Più sicuro che Draghi saluti tutti a febbraio e si trasferisca al Quirinale.

Sarebbe la mossa perfetta.

L’Anpi: “Nomine che minano il nostro sistema democratico”

Da tempo è in corso una sequenza di atti e di episodi che, considerati singolarmente, sarebbero sufficienti a causare preoccupazione in qualsiasi cittadino sensibile allo spirito repubblicano, ma presi nel loro insieme costituiscono anelli di un’unica catena che mette in discussione i fondamentali del nostro sistema democratico.

Eccone un florilegio: la commissione toponomastica del Comune di Alessandria propone di intitolare una via a Giorgio Almirante. Alessandria è Medaglia d’oro per la Resistenza ed è la città ove ha trascorso la vita Carla Nespolo, compianta presidente nazionale Anpi. Aggiungo che l’attribuzione di strade e piazze al nome di Almirante è già avvenuta e sta avvenendo in altri luoghi.

Recentemente si è svolto a Todi un sedicente festival della cultura promosso da CasaPound col patrocinio del Comune e dell’Assemblea legislativa della Regione Umbria. In alcune località i rappresentanti istituzionali hanno partecipato a cerimonie in memoria dei militi di Salò.

A Gorizia si celebrano sempre in Comune i fasti della X Mas alla presenza dei suoi labari. L’assessore veneta Elena Donazzan, già nota per una performance canora di Faccetta nera in una radio, ha celebrato il 25 aprile nel luogo dove morirono 14 nazisti. Si discuterà prossimamente in Parlamento un disegno di legge che in sostanza equipara le foibe alla Shoah, mentre negli scorsi anni i due Consigli regionali di Friuli Venezia Giulia e Veneto hanno approvato due mozioni che sanzionano la libertà di ricerca storica.

L’assessore siciliano Alberto Samonà, autore di versi inneggianti alle Ss, scrive la prefazione ad un volume dedicato a Leonardo Sciascia (!) e presentato nel centenario della sua nascita.

Sono recentissime le due vicende forse più emblematiche: non per diritto ma per scelta del governo è stato nominato ambasciatore a Singapore il diplomatico Mario Vattani, fascista non pentito, autore in passato di imprese incompatibili con tale carica. È il più elementare dei principi di non contraddizione: un fascista non può rappresentare la Repubblica antifascista.

E ancora: il sottosegretario al Mef Claudio Durigon propone di rinominare a Latina il parco Falcone e Borsellino così: Arnaldo Mussolini. Siamo alla farsa (macabra). Ciò che accomuna tutti questi episodi è che – ciascuno a suo modo – rinviano a una rivalutazione del fascismo e a una presa di distanza dalla Resistenza. Ma ancor più grave è che i protagonisti di tali fatti sono tutti, tutti!, donne e uomini delle Istituzioni.

È questo lo scenario in cui il Forum delle associazioni antifasciste e della Resistenza ha avviato una campagna per intitolare vie, piazze, giardini, parchi, a partigiani, deportati e antifascisti. Ma il quadro rimane allarmante: occorrerebbe subito una modifica della legge sulla toponomastica, affinché si vieti l’attribuzione di nomi di personalità fasciste, razziste e naziste. Ma non basta. È di questi giorni la commistione profonda del movimento no vax e no pass non solo con conclamate organizzazioni fasciste, ma anche con parti dell’estrema destra parlamentare, nel pieno di una crisi sociale di proporzioni inedite in un clima ansiogeno e rancoroso che attraversa una faglia della vita civile.

Si è all’altezza di questa situazione se si risponde colpo su colpo, se ognuno si assume le proprie responsabilità. È il compito primario di tutte le Istituzioni, chiamate a difendere e rispettare il patto costituzionale. Ma in primo luogo è il compito del governo, che può e deve intervenire subito, dal caso Vattani al caso Durigon. La partita è adesso, e la posta è più importante dei giochi di potere in un ministero e degli equilibri di governo.

 

“Io stacco, al M5S servono facce nuove. E stop al dissenso”

Doveva restare in carica un pugno di settimane, il tempo di preparare la successione al dimissionario Luigi Di Maio. Invece è rimasto reggente dal 22 gennaio 2020 a venerdì scorso, il giorno dell’investitura come presidente del M5S di Giuseppe Conte. Forse per questo ora Vito Crimi assicura: “Devo staccare, ho già detto a Conte che non vedo alcun ruolo per me nei nuovi organi del Movimento”.

Lei e gli altri due membri del comitato di garanzia, Roberta Lombardi e Giancarlo Cancelleri, avete rimesso il mandato.

È un passo doveroso quando c’è un cambio di leadership, tutti dovrebbero farlo.

Lei si è trattenuto a lungo come reggente, prendendosi molte critiche…

È normale che le critiche venissero indirizzate su di me: serviva un capro espiatorio, e ci sta. Ma tutte le decisioni che ho preso sono state assunte in base a fatti precisi. Soprattutto, sono rimasto dov’ero per un anno e mezzo perché nel frattempo c’è stata una pandemia, e sarebbe stato impossibile eleggere nuovi vertici. Me ne sarei andato già nel settembre scorso, ma si era posta l’esigenza di tenere gli Stati generali. Poi a inizio di questo anno è caduto il governo Conte II. E Beppe Grillo ha deciso di puntare sull’ex premier come nuovo leader.

Avete detto sì al governo Draghi, che smonta le vostre riforme.

I nostri iscritti avevano votato sì all’entrata nel governo. E vorrei sottolineare come dopo questa scelta, e anche dopo quella di fare un esecutivo assieme al Pd, ci siano state molte nuove iscrizioni al Movimento. Sto elaborando dei dati su questo, da consegnare a Conte.

Tra cashback abolito, controriforma della giustizia e via dicendo non avete fatto un grande affare, no?

Senza di noi non oso immaginare cosa avrebbero fatto sulla giustizia. Siamo al governo con altri, e abbiamo raggiunto il miglior risultato possibile. Dopodiché ricordo che la rinuncia di Ugo De Carolis alla nomina all’Anas e le dimissioni di Renato Farina da consulente sono arrivate anche grazie alle nostre pressioni. Se fossimo all’opposizione saremmo lì a protestare, ma con quali risultati?

Conte al Fatto ha detto: “Per far cambiare la riforma Cartabia nel 2023 votate il M5S”. Condivide?

Certo. Non molleremo mai su certi temi, e se avremo i voti cambieremo la riforma.

Nell’attesa chiederete le dimissioni del sottosegretario della Lega Durigon, secondo cui il parco pubblico di Latina dovrebbe tornare a chiamarsi parco Mussolini invece che Falcone e Borsellino?

Il caso di Durigon è imbarazzante, anche per quanto disse alle telecamere di Fanpage.it sulla Guardia di finanza. Penso che Draghi su questo dovrebbe interrogare i leader di governo.

Dovrebbe chiederne le dimissioni?

Assolutamente sì.

Lei rivendica i risultati sulla riforma Cartabia, ma due deputati hanno votato contro e ora potrebbero essere espulsi. Il loro no non andrebbe compreso?

Queste cose non possono più accadere, e questa autonomia non serve a nessuno. Dobbiamo muoverci come un corpo unito che dice sì o no, altrimenti si riduce il nostro potere di contrattazione e la nostra credibilità presso i cittadini.

Giorni fa però in Senato diversi 5Stelle non avevano votato il Dl Semplificazioni. E tra gli assenti c’era anche lei.

Negli ultimi due mesi sono stato molto impegnato a preparare il nuovo Statuto, la nuova piattaforma e le votazioni sul web, e la mia presenza in Parlamento è stata molto ridotta.

Ora il M5S dovrà dotarsi di una segreteria. Si fanno vari nomi, tra cui il suo.

Io non ci sarò, è tempo di lasciare ad altri. Serve una segreteria di facce nuove, dotate sì di esperienza, ma che mostrino come il M5S abbia una classe dirigente.

E lei?

Io darò il mio contributo, lavorando innanzitutto sulla parte tecnologica.

Quando ha sentito Beppe Grillo l’ultima volta?

Tre o quattro volte questa settimana.

Quella tra lui e Conte è solo una tregua di facciata, no? Gli ha detto di tutto…

Beppe è sempre iperbolico nei toni (sorride, ndr). Ma il tema vero è che lui e Conte dovevano conoscersi meglio, parlarsi. Il Movimento è la creatura di Grillo, e lui aveva dei timori. Ci sono state incomprensioni, che ora sono state superate.

Conte: “Durigon si dimetta. Frasi su Mussolini aberranti”

Sul caso Durigon, Giuseppe Conte sembra pronto a combattere una delle prime battaglie da leader dei Cinque Stelle. Quella per le sue dimissioni: “Trovo grave e sconcertante – dice l’ex premier al Fatto – il proponimento del sottosegretario al Tesoro di cancellare l’intitolazione del parco di Latina a Falcone e Borsellino, con l’aggravante di volerlo restituire alla memoria del fratello di Mussolini. È aberrante voler cancellare anni di lotta alla mafia e il sacrificio dei nostri uomini migliori, per giunta allo scopo di restaurare il ricordo del regime littorio”.

Conte si aspetta che il braccio destro di Matteo Salvini nel Lazio sia allontanato subito dal governo: “
Il Movimento chiede che Durigon si batta pure per questo suo progetto ma dismettendo immediatamente l’incarico di sottosegretario di Stato, che richiede ben altri proponimenti”. Per l’ex premier, le parole di Durigon “mettono a nudo l’ipocrisia di forze politiche che, come la Lega, non hanno alcuna reale intenzione di contrastare il malaffare delle organizzazioni criminali”.

A tre giorni dalla proposta “nostalgica” del leghista, nel perdurante silenzio del premier Mario Draghi e dei suoi ministri, la questione Durigon non si sgonfia. Il centrosinistra si muove nella stessa direzione. Anche il Pd considera “grave” il caso Durigon e la posizione del segretario Enrico Letta – come fanno sapere dal Nazareno – coincide integralmente con quella del deputato dem Filippo Sensi: “Le dimissioni del sottosegretario mi paiono un requisito minimo di dignità, opportunità e senso delle cose”, aveva detto venerdì, a caldo. “Non è un semplice scivolone o una caduta di stile. Si è superato un punto. Va posta la questione della sua permanenza nell’esecutivo”, ha confermato Sensi al Fatto. Parole sottoscritte dal collega di partito Emanuele Fiano: “Un uomo che ha nostalgia di Mussolini, e addirittura ne cita il nome ingiuriando la memoria di Falcone e Borsellino, non può servire la Costituzione con disciplina e onore, non dovrebbe restare al governo”.

Una linea condivisa a sinistra anche da Articolo 1, come ha dichiarato Arturo Scotto: “Durigon ha giurato sulla Costituzione che è antifascista. Mi aspetto che arrivi qualche parola da Palazzo Chigi”. Per Nicola Fratoianni di Sinistra italiana, “il braccio destro di Salvini nel Lazio non dovrebbe stare nel governo Draghi da tempo, da ben prima della genialata di intitolare il parco Falcone/Borsellino a Mussolini, non avendo chiarito alcunché dei rapporti opachi con i clan di Latina.”.

Ma pure il mondo associativo esprime “profondo sconcerto”, con Libera e Anpi che ritengono inaccettabile la presenza del leghista pontino all’esecutivo. Per Salvatore Borsellino, fratello minore di Paolo, “Durigon andrebbe radiato immediatamente, ha dimostrato un’assoluta mancanza di qualsiasi forma di sensibilità. Trovo semplicemente assurdo che una persona del genere possa far parte di un governo”. Ha parlato anche Maria Falcone, sorella di Giovanni: “Dichiarazioni che lasciano allibiti, tanto da credere impossibile che siano state realmente pronunciate. Confidiamo che il premier e i ministri prendano le distanze”.

A maggio il tema della permanenza di Durigon nell’esecutivo era stato oggetto di un’interrogazione parlamentare, in seguito all’inchiesta di Fanpage in cui diceva di aver influenzato la nomina di un generale della Guardia di Finanza che indaga sui soldi della Lega. Draghi aveva liquidato tutto con una replica di un paio di minuti. Stavolta forse sarà più complicato.