L’era del fuoco: caldo record dal Giappone olimpico alla Lituania

In Italia – Agosto è cominciato sulle orme di luglio, tra caldo intenso e incendi al Centro-Sud e piogge sovrabbondanti al Nord. L’ennesima vampata nordafricana ha portato i termometri a 42,3 °C a Bari e a 44,3 °C a Lentini, poi la rinfrescata di venerdì è stata breve e già la calura sta tornando. Le correnti da Sud-Ovest che insistono da un mese e mezzo lasciano sottovento e in siccità estrema tutto il versante orientale della penisola facilitando gli incendi, come a Pescara, mentre hanno continuato a subissare d’acqua le Prealpi intorno a Como e Lecco. Fino a 189 mm di pioggia sono caduti in 16 ore mercoledì 4 agosto nel Triangolo Lariano, altre piene torrentizie, frane e interruzioni stradali dopo quelle del 25-27 luglio, ed esondazione del lago a Como. Timori per la diga di Pagnona (Lecco) come dopo il nubifragio del 12 giugno 2019, evacuato un campeggio a Dervio. Inoltre violenta colata detritica su un hotel edificato in area a rischio a Riva del Garda, e straripamenti dell’Isarco e dell’Adige a neanche un anno dall’episodio del 30 agosto 2020. Degni di memoria anche il furioso scroscio da 115 mm di pioggia in un’ora che il 30 luglio ha allagato Gemona (Udine), e la devastante grandinata del 1° agosto intorno a Pordenone, con chicchi da almeno 8 cm di diametro. Ma nei prossimi giorni tornerà tempo anticiclonico e molto caldo anche al Nord.

Nel mondo – Malgrado la relativa frescura e le grandi piogge in Europa occidentale, il sistema satellitare Eu-Copernicus evidenzia che luglio 2021 nell’insieme del continente è risultato il secondo più caldo dopo quello del 2010 con 1,6 °C sopra la media dell’ultimo trentennio, per effetto della calura straordinaria dal Mediterraneo orientale al Baltico (luglio più rovente mai registrato in Ungheria, Lituania e Lettonia). Inoltre è stato il terzo mese in assoluto più caldo al mondo dopo luglio 2016 e luglio 2019. Canicola infernale e vasti incendi continuano in Grecia e Turchia, 47 °C presso Salonicco, fiamme alle porte di Atene e popolazioni evacuate via mare. Un caldo soffocante insiste pure in Kazakistan (45 °C), nell’Ovest americano (record di 32,6 °C a Yellowknife, Canada), in Messico (50,4 °C, primato nazionale di caldo per agosto), e opprime gli atleti olimpici in Giappone (38,4 °C a Fukushima). Altri roghi forestali dalla California, alla Finlandia, alla Siberia, episodi non nuovi ma sempre più frequenti ed estesi anche a latitudini più nordiche per colpa dell’incremento di temperature, siccità ed evaporazione. Infatti, oltre che di antropocene, ormai gli scienziati parlano di “pirocene”, termine coniato nel 2015 da Stephen Pyne, storico dell’ambiente all’Università dell’Arizona, per identificare l’era verso cui ci incamminiamo, sempre più segnata dal fuoco. Anche la troppa acqua genera crescenti disastri e secondo il team FloodList, sostenuto da Eu-Copernicus, luglio 2021 è stato particolarmente funesto con 124 eventi alluvionali e oltre novecento vittime nel mondo. Il caldo non ha risparmiato la Groenlandia con punte anomale di 20 °C e una massiccia fusione glaciale pari a 8,5 miliardi di tonnellate d’acqua nella sola giornata del 28 luglio, che sarebbero sufficienti a ricoprire l’Italia con uno strato di quasi 3 cm! Questi enormi apporti d’acqua dolce nel Nord Atlantico instabilizzano la circolazione oceanica di cui la Corrente del Golfo è parte, rendendola suscettibile di futuro collasso con gravi alterazioni globali del tempo atmosferico, sostiene, su Nature Climate Change, Niklas Boer del Potsdam Institute for Climate Impact Research. Notizie preoccupanti mentre si attende l’uscita, domani, della sintesi del primo volume (Climate Change 2021: The Physical Science Basis) del sesto rapporto Ipcc sui cambiamenti climatici, frutto della migliore scienza mondiale sul tema.

 

Gesù è un rebus: la gente mormora perché non lo capisce

La gente mormora contro Gesù. Facilmente possiamo immaginare il sussurro, il bisbiglio, il pettegolezzo, il chiacchiericcio. La gente è stata miracolata e nonostante questo mormora. Infatti, stiamo parlando della folla che aveva beneficiato della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Ed era la stessa folla dalla quale Gesù era fuggito perché volava farlo re, incoronarlo di onore e gloria perché capace di saziare lo stomaco, di placare i borborigmi. La gente invece ora – come leggiamo nel Vangelo di Giovanni – mormora perché Gesù aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: ‘Sono disceso dal cielo’?”. Chi si crede di essere questo Gesù?

Ma, d’altra parte, questo è proprio quel Gesù che fugge per non essere re, e che dunque non vuole né onore né potere né gloria. Il trono terrestre gli sta scomodo. Eppure, insinua di essere Dio. Un Dio senza onore e senza potere. Un Dio fallato. Un Dio fallito? Allora: o questo Gesù è un matto o è un millantatore o è Dio. Gesù è sempre un rebus. Si chiude così la prima scena: la reazione della folla.

Gesù intima: “Non mormorate tra voi”. Bisogna capire: Gesù non vuole potere, afferma la condivisione. Agisce contro la logica della compravendita: il pane non si compra, ma si moltiplica gratis. Si pone su un piano completamente diverso dalla logica della potenza. Anzi afferma che persino il miracolo non basta a garantire salvezza. Infatti, parla di un pane, la manna – frutto anch’esso di un miracolo per il popolo in esodo dall’Egitto –, che si mangia ma poi non salva dalla morte. Dice: I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti. Gesù parla di un pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Ma questo pane “è la mia carne per la vita del mondo”. Gesù dice di essere questo pane, nella sua carne, cioè nella sua umanità concreta. Ma il pane che noi conosciamo non viene mai dal cielo. Il cielo non si addenta. E poi non si campa d’aria. Il pane non è un orizzonte alto e aperto, ma un cibo di assoluta e concreta materialità. Deve esserlo per sfamare. Un pane disceso dal cielo è, dunque, un ossimoro di evidenza scandalosa. Così come lo è il Figlio di Dio con la sua origine umana. Ma è in questa contraddizione che si palesa la divinità. Si chiude così la seconda scena, cioè la risposta di Gesù alla mormorazione.

Ma come si fa a riconoscere questo pane? Gesù, a questo punto, afferma: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. Non basta, dunque, conoscere Gesù o essere convinti dalle sue parole, dalle sue idee o dalla sua teologia. Non basta vedere un miracolo compiersi. Non basta neanche essere saziati da lui. Non basta la volontà. È necessaria una attrazione. È qui che c’è il nodo. Qui comprendiamo che il discorso di Gesù funziona solo per chi sperimenta questa forza attrattiva. Dopo aver scardinato la logica della potenza (denaro, regalità), adesso Gesù scardina quella della volontà. Non basta più volere. Neanche per credere. Bisogna fare un’esperienza che è simile a quella amorosa perché in essa c’è un fascino che ci supera e ci accompagna. E se non la si prova? Allora bisogna desiderarla, chiederla, come ci suggerisce sant’Ignazio di Loyola. Allora ecco il terzo momento chiave del brano: Gesù rivela che la fede non è credere in una potenza che sazia (materialmente o spiritualmente), ma è fidarsi di una attrazione, che è istinto di vita. È solamente dentro questa attrazione che si può capire Dio.

 

 

Immigrazione, l’Italia non ha politica estera

L’Italia era un Paese normale in armonia con la Storia. Arrivava gente come in tutti i secoli e come in tutti i secoli creava tensione e armonia, nel senso di un reticolato di accordi pratici e di convenienze che in tanti modi diversi rafforzavano le regioni e i commerci. Non è mai esistita in Italia la stagione dei respingimenti. C’erano difese locali e accoglimenti voluti. L’importante era produrre, portare, trasportare e proteggere i raccolti dalle battaglie che non avevano per merce né prodotti né persone, ma tutta un’altra scala di valori, signorie, principati, vastità delle terre, potere. Poi improvvisamente abbiamo incontrato un’Italia sconosciuta, quasi subito ottusa e semi-cieca, che aveva bisogno di molte più persone per le sue attività e i suoi raccolti, ma faceva di tutto per lasciare annegare in mare chi tentava di venire, senza armi o aggressioni, solo con piccole barche. Un gruppo politico detto Lega di cui non ci sarà traccia quando si tenterà la storia di questi anni e un piccolo partito (parliamo degli inizi), entrambi persuasi dal vigore della razza, avevano inventato “i negri” come pericolosi vagabondi della periferie italiane mentre finiva il 900 e iniziava il 2000. Non è cominciato così. Appena il mare si è popolato di barche cariche di gente in fuga dalla siccità totale del Sahel, dalla crudeltà organizzata contro donne e bambini nel Sud Sudan, appena la guerra nell’area di Siria e Yemen si è fatta feroce, appena la Somalia ha cominciato a restare senza governo, appena le guerriglie hanno cominciato a varcare tutti i confini, facendo in modo che non ci fosse pace per una famiglia africana, nel mondo zitto la gente è fuggita. Qualcuno ha capito subito che lo strumento giusto per tenere a bada simili arrivi era la paura, anzi il terrore, che poteva provocare il più spietato antagonismo. Politici che non avevano una ragione al mondo per esistere, l’hanno trovata nell’odiare i “negri” (che spesso sono anche islamici), “fa in modo che non diventino i tuoi vicini di casa e lasciali annegare”. Avrebbero potuto essere troppi, si diceva con la stentorea sicurezza dei bene informati.

Non è mai stato provato. Tutte le cifre sull’emigrazione che ci fa paura sono false. I morti per mancato soccorso nel Mediterraneo sono migliaia, non centinaia di migliaia come anche autorevoli fonti ci avevano preannunciato. Noi italiani avevamo cominciato in modo nobile con una flotta chiamata “Mare Nostrum” che ha lavorato per un anno con la bandiera italiana e non ha lasciato vittime in mare. Eppure le strade italiane non sembrano affollate di “stranieri” e la Confindustria lamenta la mancanza di manodopera (un buco di almeno centomila all’anno). Mare Nostrum è stato improvvisamente abolito. Pare che salvasse troppo e costasse troppo. E quando ci si è accorti che l’unica salvezza restata in mare erano le Ong (le navi del volontariato) si è aperta una guerra feroce e colma di argomenti falsi (compresi processi mai iniziati e mai finiti, ma ripetutamente annunciati come una denuncia) per mettere economicamente in pericolo gli armatori e indurli al ritiro. Da allora le agenzie fotografiche si scambiano le più tristi fotografie di ogni guerra. Il luogo è qui, in Italia, nel mare italiano affollato di cadaveri di giovani donne incinte, di bambini morti a centinaia. Questo non è il mondo che emigra, sia pure con un legittimo progetto di vita migliore, ma il mondo che fugge. Se intercettate, barche italiane con armi italiane nelle mani dei libici, i libici aprono il fuoco sui fuggitivi, o tentano lo speronamento dei barchini. Perché, allora, la nostra ministra dell’Interno Lamorgese è andata due giorni fa ancora una volta in Libia, da un loro primo ministro (non si sa mai chi sia quello giusto)? È stata mandata a chiedere che cosa, se i libici possono sparare su disperati con le nostre armi e vengono ringraziati per “salvataggi” che non avvengono mai, salvo quando formano, con le risorse umane catturate, carovane di prigionieri da installare a tempo indeterminato nelle loro famose prigioni?

La visione non umana, ma astuta della Lega e di Fratelli d’Italia (che del resto è CasaPound più quel che resta del fascismo) ha fatto dell’Italia un Paese isolato ed estraneo a tutti. Una volta ottenuto successo nella vendita dello straniero nero e islamico come pericolo per tutti, se la veda chi ha più coste da difendere. Gli altri non hanno mare da proteggere, morti sulla spiaggia e non c’entrano. Tutto il resto della politica italiana ha consentito alla liquidazione della dignità e rispettabilità del Paese Italia, che non ha una politica estera o una visione del mondo, e ha permesso che la lotta agli “stranieri”, persino se in fuga dalla Siria o dallo Yemen, sarà la vera, unica politica estera italiana. Non una parola dai partiti e un po’ di pietà dalla Chiesa.

 

Renzi è al governo con chi disprezza

“Questi sono i miei principii e se non ti piacciono… be’, ne ho altri”.

Groucho Marx

Confesso che per colmare le vistose lacune della mia cultura di base mi ripromettevo di dedicare l’estate alla “Recherche” di Marcel Proust. Poi, però, non ho retto alla tentazione di immergermi nella lettura di Matteo Renzi. Della sua ultima fatica dal titolo “Controcorrente” non anticiperò nulla per rispetto dei nostri lettori, ma anche di coloro a cui non voglio sottrarre neppure una stilla di curiosità per un autore ben piazzato nella classifica dei più venduti. Tuttavia, se potessi rivolgere una sola domanda a Renzi, senza il rischio di essere querelato seduta stante, gli chiederei: senatore, ma come può Italia Viva, il partito da lei fondato e guidato, rimanere un secondo di più nella maggioranza che sostiene il governo Draghi, accanto al Movimento 5 Stelle a cui lei dedica pagine e pagine di assoluto disprezzo politico? A maggior ragione da ieri, da quando il M5S ha eletto formalmente come presidente quel Giuseppe Conte a cui lei dedica capitoli e capitoli di assoluta disistima politica e anche umana (per usare un eufemismo)? Conosco la probabile obiezione: l’emergenza sanitaria ed economica del Paese ci ha richiesto questo sacrificio a cui non ci siamo sottratti, eccetera. Facciamo finta di crederci, ma proprio in nome di quella grave emergenza eccetera un minimo di decenza (mi permetta questa strana parola) non doveva suggerirle di soprassedere prima di espettorare qualunque cosa sul suo vicino di banco? Magari per quel rispetto delle istituzioni con cui lei spesso si sciacqua la bocca, essendo stato l’oggetto di tanto dileggio il premier di questo Paese? Un’altra ipotesi poteva essere quella di dare alle stampe il libro e, contestualmente, annunciare il ritiro dal governo della delegazione di Iv (ma qui siamo nell’angolo del buon umore). Mi rendo conto che la stessa domanda potrebbe valere per Conte. Come possa, cioè, il leader dei 5 Stelle restare in una maggioranza insieme all’autore di espressioni che, per dire, neppure accesi oppositori come Salvini o la Meloni nei momenti di più aspra polemica hanno mai detto o scritto sul conto dell’ex presidente del Consiglio. Già, come si fa?

 

Le colombe di Smirne, gli usignoli di Pergamo e la vergine dormiente

Dai racconti apocrifi di Aulo Gellio. Lo schiavo Strobilo è felicissimo di prendere servizio presso la dimora del vecchio mercante di stoffe Euclione: la figlia, Fedria, è di una bellezza straordinaria. Lui deve, fra le altre mansioni, accompagnarla al mercato, in modo che i malintenzionati le stiano alla larga; e farle da tutore negli studi. Se i pensieri galoppano verso di lei, Strobilo li frena, poiché non ha intenzione di assaggiare lo staffile, e ambisce a diventare liberto. Un giorno, però, quando Strobilo va ad annunciarle che la cena è pronta, Fedria si fa trovare distesa sul letto ben lavorato, come sfinita dallo studio. A lui sembra che dorma, e le sue labbra formulano una preghiera: “Venere immortale, tessitrice d’inganni, concedimi di baciare questa ragazza in sonno. Domani le donerò una colomba di Smirne. Purché il mio bacio non la risvegli”. E Fedria, curiosa come ogni vergine in età da marito, continua la finzione premeditata, permettendo a Strobilo di rubarle parecchi baci. Il giorno dopo riceve una colomba di Smirne, e il pomeriggio stesso finge di nuovo il sonno, dopo aver indossato un peplo di seta dai ricami d’oro, con fermagli a spirale, che rivela agli occhi di Strobilo tesori fino a quel momento sognati. La preghiera è leggermente diversa: “Venere eterna, artefice d’inganni, concedimi di accarezzare questa ragazza in sonno. Domani le donerò due usignoli di Pergamo. Purché il mio tocco non la risvegli”. A queste parole, Fedria quasi si accoccola addosso a lui, sempre fingendo di dormire. La mano di Strobilo è leggera come un’ombra su quei seni provocanti, mentre lei simula di non provare nulla: ma non è convincente, pensa Strobilo, notando che i capezzoli si drizzano. Il giorno dopo, il canto degli usignoli di Pergamo rallegra padre e figlia. Anche quel pomeriggio Fedria finge di dormire, e Strobilo offre una nuova preghiera alla dea: “Venere potente, concedimi di rubare il piacere supremo a questa ragazza in sonno. Domani le donerò un cavallo di Macedonia dal rapido passo. Purché i miei abbracci non la risveglino”. Mai una ragazza ha dormito più profondamente, anche se i respiri di Fedria sono più veloci di quanto uno si aspetterebbe da una ragazza assopita: sembrano sospiri di piacere; e le sue forme incantevoli si muovono come se stesse sognando le onde del mare. Strobilo può togliersi lo sfizio tanto vagheggiato, e lascia la stanza quando già rosseggia l’aurora. Pensa però che un cavallo di Macedonia insospettirebbe il vecchio Euclione, e stavolta si astiene dal dono promesso. Fedria gli tiene il broncio tutto il giorno. La notte, appena il vecchio russa, Strobilo penetra nella camera della ragazza e le chiede perdono. Fedria fa la sdegnata: “Esci, o lo dico a mio padre!”. Nell’indicargli la porta, però, con una mossa scaltra delle gambe e del busto mette in evidenza le forme superbe: pare una dea. Più tardi, quando il servo, spossato, scioglie l’abbraccio, Fedria si ribella al distacco; gli rimprovera il regalo ippico di cui è debitore; esige la riparazione! Strobilo, nonostante il vigore non sia quello di un tempo, riesce a trottare una seconda volta, dopo la quale si addormenta di un dolce sonno sereno. Ma Fedria, golosa come ogni ragazza in età da marito, brucia di voglia, e presto con mille baci risveglia lo stallone, e gli sussurra: “Ancora una volta”. Strobilo non si tira indietro: anche se quasi non solleva le membra, esaudisce quel desiderio, un prodigio a vedersi, finché un sonno profondo non cola nel suo corpo stanco. Ma, dopo meno di un’ora, un pizzicotto di Fedria lo risveglia di nuovo: “Ancora una volta!”. E a Strobilo, estenuato, non resta che sbuffare: “Dormi, o lo dico a tuo padre!”.

 

Il fedele Rosato in corsa senza rivali

“A conte piace vincere facile!”. Suona zelante il tweet di Ettore Rosato, che può vantare l’altisonante carica di coordinatore nazionale di Italia Viva. Argomenta costui: “Non metto in dubbio la sua popolarità nel partito dei 5 stelle, ma esultare del risultato quando a correre era da solo mi sembra un po’ tanto, perfino per loro”. Quale arguta notazione per uno che è giunto ai vertici del partitino di Matteo Renzi, senza che si ricordi una benché minima competizione. Ma d’altra parte, a contare, in quel caso, è stata solo la vicinanza al Capo. E anche stavolta, l’ex dem non ha evitato di compiacerlo: notoriamente il senatore di Scandicci ha per Conte un astio che lo ha portato a provocare la crisi di governo. La fedeltà – però – ha i suoi gravi effetti collaterali: Rosato avrebbe voluto essere ministro in quel Conte ter che non c’è mai stato. Ma gli è toccato piegarsi e ingoiare. E continuare a fare il lavoro sporco. Anche quella per il più fedele, in fondo, è una competizione.

Legge elettorale e leader. La sfida di noi progressisti

Lasciare il risultato del referendum costituzionale sulla riduzione dei parlamentari al terreno dell’anti politica sarebbe un errore molto serio. Non vi è dubbio che nel pronunciamento degli elettori abbiano pesato valutazioni negative o addirittura veri e propri risentimenti verso il sistema politico. Un processo riformatore non riesce a consolidarsi se non affonda le proprie radici in una visione sistemica. Io ho votato Sì e ho sostenuto con convinzione il quesito.

Ma ero consapevole del rischio che si correva a modificare aspetti cruciali della vita istituzionale, come appunto il numero degli eletti, senza un completo e organico ridisegno degli equilibri. Non vi erano alternative poiché senza il grimaldello referendario probabilmente nulla si sarebbe mosso. A quasi un anno dal voto, il bilancio è fortemente negativo. Non si è messo mano neanche ai regolamenti parlamentari. Il combinato disposto di riduzione dei parlamentari e attuale legge elettorale rischia di essere un peggioramento radicale. Non c’è più molto tempo per porvi rimedio. Ma non è una partita chiusa definitivamente. Senza più alcun indugio bisogna aprire il confronto tra tutte le forze politiche e trovare i punti di equilibrio. Bisogna avere il coraggio di guardare alle esperienze che hanno funzionato in primis l’elezione diretta di sindaci e presidenti di Regione. La strada di un rafforzamento politico della figura del presidente del Consiglio attraverso un rapporto diretto con gli elettori non è una concessione al populismo.

Con i giusti correttivi in termini di pesi e contrappesi ai poteri di un premier eletto dai cittadini si entrerebbe in uno scenario di forte rafforzamento della democrazia. So bene che la proposta del cosiddetto Sindaco d’Italia è già vissuta nella nostra storia recente senza approdare a nulla di concreto. Oggi, durante la pandemia, siamo approdati a una singolare sospensione della dialettica democratica.

Abbiamo dovuto ricorrere a una figura di assoluto prestigio nazionale e internazionale che aiutasse il Paese a uscire dalla crisi. La Politica ha il dovere di produrre una risposta molto forte a tutto questo senza restare impelagata in tatticismi infiniti. Indicare la leadership a cui affidare la guida dei processi politici e far scegliere agli elettori diventa un modo semplice ma quasi obbligato per provare a tirar fuori dalle sabbie mobili il nostro sistema politico. Il fronte progressista dispone di una figura che ha sul campo mostrato una decisa e coerente capacità di Governo. Al di là della scelta effettuata di mettersi alla guida di un partito Conte resta una opportunità per un campo molto largo di forze. Dopo la elezione del nuovo presidente della Repubblica bisognerà aver già tracciato un nuovo schema istituzionale. A fine legislatura i progressisti possono vincere se sapranno innovare e affidarsi in maniera unitaria a una leadership radicata in tutto il Paese.

 

L’incredibile esclusiva di Repubblica (o forse no?)

Dobbiamo per una volta complimentarci con Repubblica e le sue professionalità, questa volta ben rappresentate da Piero Colaprico. Ieri abbiamo infatti potuto leggere sul quotidiano degli Elkann una notizia sconvolgente: “Torna Betulla Farina: il giornalista spia nello staff di Brunetta”. Per poco non saltiamo sulla sedia. Ci siamo spinti oltre con la lettura. E l’articolo era davvero esauriente: si racconta che “Brunetta ha nominato consulente” Farina, “informatore a libro paga e agente provocatore”. Colaprico snocciola le imprese del personaggio, già controverso protagonista del racconto dell’uccisione di Enzo Baldoni e poi del caso Abu Omar. Sempre per “compiacere Pompa”, fino a che non “patteggiò una condanna a sei mesi per favoreggiamento”. Insomma roba forte, con Repubblica che finalmente batte i pugni sul tavolo per la chiamata al governo di “uno che, con protervia, non ha mai chiesto scusa a chi ha infangato, ferito, umiliato”. Al termine delle lettura eravamo sì sconvolti, ma anche pensierosi. Un dubbio ci ha infatti subito assillato: ma tutte queste cose noi dove le avevamo già lette? Uno strano déjà vù che non ha trovato spiegazione se non dopo una disperata ricerca. Ma certo! Sul Fatto! La notizia era infatti uscita il giorno prima sul nostro quotidiano. Eppure nessuno, dalle parti di Rep, si è ricordato di citarci. Sarà per la prossima.

Non sostituì il fratello: ne superò il ruolo

“Maria Licciardi nel 1994 non sostituisce semplicemente il fratello. Ne supera il ruolo”. Marcello Ravveduto (nella foto) è docente Digital Public History alle Università di Salerno e di Modena e Reggio Emilia, ed è componente del comitato scientifico della “Biblioteca digitale sulla camorra”. Nel descrivere la statura criminale di “A piccerella”, il professore racconta come, alla morte del fratello Gennaro “’a scigna”, Maria sia diventata il “punto di riferimento non di un singolo clan, ma di un intero cartello, l’Alleanza di Secondigliano”, diventandone mente e guida, così potente da “non subire mai un agguato”. Ravveduto parla del ruolo delle donne nella camorra. E fa una similitudine significativa: “La prima donna boss è stata Anna Moccia, che inventò la strategia della dissociazione per combattere i pentiti”. Anna Moccia, prosegue Ravveduto, “aveva un potere diretto, autonomo. E come lei Maria Licciardi”. Non fu così in altri casi: “Rosetta Cutolo, ad esempio, era solo una luogotenente, il suo potere era demandato dal fratello Raffaele Cutolo che era sì in carcere, ma in un carcere ‘aperto’, dal quale poteva continuare a comandare e impartire ordini”. Stesso discorso per Pupetta Maresca, “che viene fuori in altri contesti”. “A Napoli – afferma il docente – il ruolo della donna è centrale, non come nelle tradizioni rurali di mafia e ‘ndrangheta. In Campania quando si presenta la donna anziana e saggia della famiglia, la si definisce ’a boss. In Sicilia e in Calabria non lo direbbero mai”.

Arrestata Mamma Camorra. La boss dei boss non vola più

’Apiccerella l’hanno presa in aeroporto, a Ciampino. All’alba. Stava per volare verso la Spagna, dalla figlia Regina. Per dileguarsi, secondo la Procura di Napoli, che le ha notificato un decreto di fermo fondato sul pericolo di fuga. Non ha opposto resistenza, Maria Licciardi, classe 1951, boss dell’Alleanza di Secondigliano, accusata di associazione camorristica, estorsione, ricettazione, turbativa d’asta, la “mente” di un cartello potente, sanguinario e litigioso, che ha attraversato diverse stagioni dopo aver scatenato nel millennio scorso una guerra contro la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.

Un cartello capace oggi di controllare il territorio palmo a palmo e di infiltrarsi nell’economia legale con una forza che non ha eguali. Una spa del crimine che ha accumulato profitti da capogiro con il traffico di droga proveniente dal Sudamerica attraverso l’Olanda, la vendita internazionale di capi contraffatti, le scommesse clandestine, il racket. Quando ha capito che su quell’aereo per Malaga non sarebbe più salita, la signora Licciardi si è consegnata ai carabinieri del Ros senza fiatare. Chissà se avrebbe fatto lo stesso Scianel, il personaggio della serie Gomorra liberamente ispirato alla figura e alle gesta della sorella di Gennaro Licciardi detto ‘a scigna’, il fondatore dell’associazione malavitosa, morto in carcere a Voghera nel 1994.

Maria ’a piccerella (“la mamma della camorra”, mise a verbale uno che della camorra sapeva tutto e ne era stato un leader, Luigi Giuliano) aveva altri due fratelli, che però, tra latitanza e detenzione, furono costretti a farsi da parte. Di qui la scalata al vertice del sodalizio, visto che la camorra è l’unica mafia dove le donne riescono a fare carriera. E che carriera. Maria, minuta, decisionista, dal carattere forte e dai nervi saldi, accanto a Ciccio Mallardo ed Edoardo Contini aveva guidato l’Alleanza di Secondigliano già nella guerra sanguinosa contro il clan Mazzarella della zona orientale di Napoli, tra il 1998 e il 1999.

Arrestata nel 2001, era tornata in libertà nel dicembre 2009. Per riprendere saldamente la guida della cosca il cui potere parte dalla Masseria Cardone e si estende nei rioni Don Guanella, Berlingieri e Vasto. I Licciardi, rispetto ad altri clan napoletani, possono vantare ottimi rapporti con altri clan di camorra, come i Mallardo, i Di Lauro, il gruppo della Vinella Grassi, i Polverino. Maria Licciardi non ha subìto mai un agguato. Un segno di grande autorevolezza. Merita di essere raccontata la vicenda della ritrattazione del boss Costantino Sarno. Si era pentito e le sue rivelazioni avrebbero potuto abbattere il clan Licciardi. Pare avesse chiesto un miliardo di lire per porre fine alla sua collaborazione con la giustizia. E Maria Licciardi venne trovata dalla polizia in possesso di 300 milioni in contanti, probabilmente una tranche del pagamento. Poco dopo, Sarno fece marcia indietro e il clan continuò a rafforzarsi.

Maria Licciardi era riuscita a passare sotto la pioggia di numerose inchieste senza bagnarsi troppo. Prudente, accorta, ha ostacolato le indagini imponendo l’abitudine di bonificare i locali e i veicoli usati dal clan. Capace di fiutare il vento contrario un attimo prima che si scatenasse la bufera, scappava appena in tempo, ma stavolta non c’è riuscita. Nel 1998 era già stata inserita nella lista dei 30 criminali più ricercati d’Italia (fu latitante per un paio di anni) e il 26 giugno 2019 lady Camorra era sfuggita a un blitz che aveva portato al sequestro di beni per 130 milioni e all’arresto di 126 affiliati dell’Alleanza. In quelle carte c’erano le tracce degli interessi del clan nella sanità. L’ospedale San Giovanni Bosco di Napoli era “la sede sociale” dell’Alleanza di Secondigliano, spiegò il procuratore capo Giovanni Melillo. Alleanza che controllava il funzionamento dell’ospedale, le assunzioni, gli appalti, le relazioni sindacali. “L’ospedale era diventato la base logistica per trame delittuose, come per le truffe assicurative attraverso la predisposizione di certificati medici falsi”. Nel frattempo Maria Licciardi prolungava la sua latitanza per due mesi, fino alla revoca dell’ordinanza dal Tribunale del Riesame. Così era tornata libera.

Libera di coordinare i suoi affari. Di comandare le sue truppe. Di radicare ulteriormente il suo potere. Senza essere coinvolta in altre guerre e faide. E senza subire defezioni, grazie a una gestione oculata della “cassa comune”. Era lei, ’a piccerella, a provvedere al sostegno delle famiglie degli affiliati detenuti. Un esercito si tiene unito anche così.

A sottolineare l’importanza dell’operazione ci ha pensato il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, secondo cui l’arresto di Maria Licciardi da parte dei carabinieri “è un segnale forte dello Stato” nella lotta alla criminalità organizzata.

Segnale al quale si aggiunge l’arresto a Napoli da parte della Polizia dei minorenni presunti autori della sparatoria che lo scorso 16 giugno ha provocato il ferimento di due persone innocenti nei quartieri Spagnoli.