Venezia, se c’è l’acqua alta il Mose non si può tirar su

Il Mose è davvero in cattive acque. La monumentale opera che dovrebbe salvare Venezia dalle maree affonda in un mare di debiti, i cantieri sono fermi, in tribunale è stata presentata la richiesta di concordato preventivo e soltanto per fare una prova di innalzamento delle barriere si è dovuto ricorrere alla buona volontà di chi aziona il sistema manualmente. Come non bastasse, tutti i dipendenti sono stati messi in ferie coatte da domani, lunedì 9 agosto, e al ritorno comincerà la cassa integrazione.

Le ferie forzate riguardano i dipendenti del Consorzio Venezia Nuova, concessionario dell’opera, Thetis (società di ingegneria controllata) e Comar, la struttura creata per la gestione degli appalti. La misura serve per contenere i costi. I cento dipendenti Thetis lavoreranno poi a singhiozzo, usufruendo del Fondo di integrazione salariale fino al 31 dicembre, ovvero la data in cui i lavori del Mose avrebbero dovuto essere conclusi. Ma il cronoprogramma è ormai saltato e Venezia rischia di restare indifesa per l’autunno e l’inverno. Gli stipendi di luglio dei dipendenti Comar non saranno pagati e non vi sono certezze per quelli futuri.

Due anni fa il Mose sembrava vicino a una rapida conclusione. Dopo l’Acqua Granda del 12 novembre 2019, che raggiunse i 187 centimetri sul medio mare, l’architetto Elisabetta Spitz venne nominata commissaria per velocizzare i cantieri. Nell’autunno 2020 un primo risultato sembrava ottenuto, visto che il Mose è entrato in funzione una ventina di volte, anche se in via sperimentale, e in quelle occasioni Venezia è rimasta all’asciutto. Con la nomina del commissario liquidatore Massimo Miani e l’uscita di scena degli amministratori straordinari del Consorzio (erano stati insediati nel 2014 dopo gli arresti per lo scandalo delle tangenti), sono invece venuti al pettine i nodi economici, ovvero 200 milioni di debiti. I pagamenti sono stati bloccati e i cantieri si sono fermati.

Un esempio di come la struttura del Mose si stia svuotando giorno dopo giorno, la si è avuta con le prove di sollevamento previste per il 5 e 6 agosto alle bocche di porto di Malamocco e Chioggia. Inutilizzabile la sala di controllo gestita da Abb, società di impiantistica e informatica, che non è stata pagata. Così le barriere sono state alzate (solo a Chioggia) con procedura d’emergenza, praticamente a mano. Hanno lavorato una quindicina di tecnici interni, senza imprese esterne. Nell’organigramma tecnico si stanno già creando buchi importanti, per le dimissioni di alcuni ingegneri che cercano un’occupazione altrove.

L’annuncio di richiesta di concordato preventivo (120 giorni per presentare il piano di gestione) e di cassa integrazione ha portato alla mobilitazione sindacale, con stato di agitazione. Il 24 agosto si terrà un’assemblea, nel frattempo sono stati chiesti tavoli di crisi in Regione e in Prefettura. I sindacati chiedono anche ai ministeri una risposta sulla costituzione dell’autorità della Laguna di Venezia, varata formalmente un anno fa, ma mai istituita.

“Al di là delle inaccettabili ricadute sui lavoratori, questo vuole dire il blocco totale del completamento dei lavori del Mose – scrivono in una nota congiunta i segretari Cgil, Cisl e Uil – nonché la mancanza dei controlli sull’inquinamento della Laguna di Venezia. Cresce il rischio che vengano meno le condizioni, all’avvicinarsi dell’autunno, per la alzata in sicurezza delle paratoie con gli immaginabili e inaccettabili pericoli per la città. Le responsabilità vanno addebitate a chi ha gestito negli anni le aziende e a chi non è intervenuto in tempo per risolvere i problemi”.

A San Marco si è vissuta intanto una notte di allerta, con una previsione di marea a 105 centimetri sul medio mare, quota inconsueta per un sabato di agosto. Oltre gli 88 centimetri la Basilica (con o senza Mose) viene allagata, perché i sistemi interni non bastano e l’acqua entra dalla piazza. Ma i progetti per una difesa in vetro provvisoria davanti alla facciata, vecchi di tre anni, si sono arenati a causa di burocrazia e beghe di palazzo. Così ogni notte in ammollo fa invecchiare di qualche anno i preziosi mosaici bizantini dei pavimenti.

Engineering ora ammette: “Forse ci hanno rubato dei dati”

“Abbiamo rilevato una possibile compromissione di credenziali di accesso ad alcune Vpn di clienti”. Engineering Spa, uno dei gruppi di servizi informatici più importanti d’Italia, ammette quanto trapelato da fonti investigative e riportato mercoledì dal Fatto in relazione all’inchiesta sull’attacco hacker nel Lazio. La tesi della Polizia postale è che i “pirati” abbiano prima “bucato” in parte la società – service di molte amministrazioni pubbliche e grandi aziende italiane – rubato le credenziali e poi, grazie alla fragilità della rete regionale, fatto ingresso nei software del Lazio inserendo il virus RansomExx che ha criptato tutti gli archivi dell’Ente, in particolare quelli sanitari e legati al piano vaccinale. Engineering (che, va ribadito, in questa vicenda è estranea alle inchieste se non parte lesa) smentisce qualsiasi collegamento fra il “possibile” furto di dati e quanto accaduto nel Lazio. Le indagini sono ancora in corso, con la Procura di Roma che indaga per accesso abusivo a sistema informatico, estorsione e con l’aggravante del terrorismo.

Intanto, fanno sapere fonti della Regione Lazio, si è concluso il countdown apparso qualche giorno dopo l’accesso degli hacker. La distruzione dei file non è avvenuta, la Postale è in cerca sul dark web di un’eventuale traccia di furto degli archivi, anche se al momento non ci sarebbe evidenza. Continuano a lavorare al fianco degli investigatori italiani anche Fbi ed Europol, che hanno gestito i contatti con gli hacker. “Molto gettonati – spiega un agente – potrebbero essere i dati dei certificati vaccinali dei romani, abbastanza facili da convertire per falsificare i green pass”. Regione al lavoro per ripristinare i servizi, dopo che i tecnici hanno “trovato” i backup “miracolosamente” intonsi. Entro il 13 agosto sarà riattivato il nuovo sistema della Centrale unica di prenotazione (Cup) per la gestione delle prenotazioni di esami e visite mediche.

Mps, Milano avvia una nuova indagine: nel mirino finiscono i fondi per i rischi legali

Mentra va in scena l’ultima tappa del disastro Monte dei Paschi di Siena – lo spezzatino e la cessione a UniCredit – il filone giudiziario si arricchisce di un nuovo capitolo. La Procura di Milano ha infatti avviato un’indagine sui fondi per i rischi legali di Mps. I reati ipotizzati dal pm Paolo Filippini, secondo quanto riferisce Repubblica, sono false comunicazioni sociali e manipolazione del mercato. La Procura intende capire se i fondi per affrontare le cause e pagare gli eventuali risarcimenti – dopo l’accordo con la Fondazione Mps, tacitata nei giorni scorsi con 150 milioni a fronte di richieste per 3,8 miliardi, le richieste sono calate a circa 6,2 miliardi – siano o meno adeguati. In linea, quindi, con le possibili previsioni e non sottostimati. Le ipotesi di reato riguarderebbero l’esercizio di bilancio dello scorso anno e, in particolare, la semestrale del 30 giugno 2020 e la trimestrale del 30 settembre. L’inchiesta, che ha mosso i primi passi a gennaio, nasce dai sette esposti presentati dal finanziere Giuseppe Bivona, a capo del fondo Bluebell. Nel marzo scorso la Consob indicava in 5,2 miliardi la somma che teoricamente Mps avrebbe potuto pagare per varie richieste di risarcimento, a fronte di 225 milioni accantonati. Somma che però la Commissione di vigilanza presieduta da Paolo Savona, interpellata dal magistrato così come l’Esma (l’Autorità europea che vigila sui mercati), ha considerato coerente con i principi di contabilità internazionale.

Ai bilanci del Monte sono legati altri filoni giudiziari: a Milano, con il processo agli ex vertici della banca (Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, condannati in primo grado, sono ricorsi in appello) per le perdite sui crediti deteriorati; a Brescia dove – sempre su segnalazione di Bivona – i pm milanesi, Giordano Baggio, Stefano Civardi e Mauro Clerici sono indagati dalla Procura milanese per le vicende relative all’inchiesta Mps condotta dai tre magistrati sempre in relazione agli Npl. L’ipotesi di reato è l’omissione di atti d’ufficio. E su questi procedimenti si inserisce l’ultimo esposto di Bivona che è tornato a prendere di mira il procuratore di Milano, Francesco Greco. Dopo le accuse del pm Paolo Storari sul caso Amara, Greco è iscritto nel registro degli indagati a Brescia con l’ipotesi di “indagini ritardate”. La segnalazione di Bivona riguarda le inchieste per la falsa contabilizzazione di derivati e crediti deteriorati nelle quali “a dispetto del granitico compendio probatorio – scrive – la Procura di Milano ha svolto inspiegabilmente il ruolo di ‘pubblica difesa’ con una serie di richieste di archiviazione, non luogo a procedere e assoluzione puntualmente respinte”.

Snia, costruttore diffida i consiglieri: “Vi chiedo i danni”

Offensiva legale preventiva da parte del costruttore Antonio Pulcini, che venerdì ha inviato una diffida ufficiale ai consiglieri capitolini e alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, dopo l’approvazione in commissione della bozza di delibera sull’esproprio dell’ex Snia Viscosa, nel quartiere Prenestino di Roma. “Una intimidazione in piena regola”, osservano i comitati dei cittadini, ormai da anni in lotta per restituire l’area – un ex complesso industriale circondato da una meravigliosa area verde denominata Parco delle Energie – alla cittadinanza. “Si tratta di un provvedimento evidentemente viziato per eccesso di potere per sviamento – si legge in una missiva dell’avvocato Nicola Lais – in quanto la evidente finalità dello stesso è quello di arrivare ad un esproprio degli immobili di proprietà della mia assistita con dei valori più bassi rispetto a quelli che l’Amministrazione dovrebbe corrispondere”. Quindi la chiosa: “La mia assistita non potrà restare inerte, dovendosi attivare per la tutela di tutti i suoi interessi e diritti, non ultimi quelli patrimoniali”. Per i comitati si tratta di un atto “intimidatorio”. “È nei diritti del costruttore impugnare la delibera, svolgere un’azione di diffida preventiva, dopo aver pesantemente attaccato i consiglieri durante le riunioni di commissione, è un’azione totalmente da censurare”, spiegano ancora i comitati. A favore del nuovo intervento passaggi decisivi: il rafforzamento dei vincoli in seguito dell’annuncio della Regione Lazio di ampliamento del perimetro del monumento naturale del lago Ex Snia. C’è una sorta di corsa contro il tempo per l’approvazione della delibera voluta da Eleonora Guadagno (M5S) con l’ausilio di Stefano Fassina (Sinistra x Roma): a breve l’Assemblea capitolina sospenderà i lavori in attesa delle elezioni, quindi si tornerà in aula dopo le Amministrative.

Aec, il Campidoglio assume. Pd e Lega votano contro

Il Campidoglio prevederà in pianta organica l’assunzione diretta di 300 operatori cosiddetti “Aec”, assistenti e insegnanti dedicati ai bambini con disabilità. Ma il Partito democratico – oltre alla Lega – non è d’accordo, perché si programma non una stabilizzazione, bensì un nuovo concorso. Dunque ha votato contro. Un’inchiesta del Fatto Quotidiano datata ottobre 2020 aveva portato alla ribalta la difficile situazione lavorativa degli ex assistenti educativi (oggi Oepa) che da oltre 10 anni lavorano nelle scuole romane con contratti stipulati dalle cooperative. Una questione presa a cuore dall’amministrazione capitolina. La delibera presentata dalla consigliera Maria Teresa Zotta è stata votata lo scorso 21 luglio e dispone l’inserimento in pianta organica – prima volta in Italia – di questa particolare figura professionale. “Si chiude così la ferita aperta nel 2009, quando il Campidoglio decise di cancellare dal proprio organigramma questa figura di aiuto ai bambini disabili nelle scuole”, ha detto l’assessore al Personale, Antonio De Santis. “Grande vittoria delle lavoratrici e dei lavoratori che Usb e Cub hanno sostenuto con decisione in questo percorso di lotta”, si legge sul sito dell’Usb.

Resta il caso dei consiglieri Pd, in parte legati al mondo delle cooperative, che hanno votato contro un provvedimento sul quale è arrivata anche la convergenza di Fd’I. “Purtroppo è una misura inutile – afferma il dem Giovanni Zannola – Pochissimi degli attuali operatori saranno stabilizzati: il concorso pubblico sarà aperto a tutti e probabilmente si presenteranno anche persone più titolate. Inoltre, le 300 assunzioni previste sono comunque il 10% degli operatori attivi su Roma”. Zannola poi riflette: “Da Mafia Capitale c’è la moda di sparare sulle cooperative. Il problema, mele marce a parte, è l’ente pubblico che non sa gestire i contratti. Si tratta di un provvedimento demagogico”.

Dopo il Chievo, falliscono Livorno e Novara. Il sindaco toscano: “Imprenditori ci aiutino”

La favola ventennale del Chievo Verona non è l’unico sogno calcistico a infrangersi in questa estate post-Covid. Dopo quello degli scaligeri, ci sono altri due fallimenti eccellenti: il Novara e, soprattutto, il Livorno. Gli amaranto, al momento, non hanno avuto nemmeno il nullaosta a iscriversi in Serie D, penalizzati dalla “non idoneità del campo di gioco, oltre al non assolvimento degli obblighi finanziari”, sostiene la Lega nazionale dilettanti. “Da questo momento invitiamo imprenditori o gruppi interessati a presentare un progetto per portare avanti il titolo sportivo del Livorno Calcio”, ha detto il sindaco Luca Salvetti. Nel decennio del patron Aldo Spinelli (2004-2014) il Livorno aveva fatto la spola fra A e B, dando lustro a grandi bomber come Igor Protti e Cristiano Lucarelli. Finisce tra i dilettanti anche il Novara, squadra in cui prima delle guerra militò anche il grande Silvio Piola. Recentemente i piemontesi avevano anche disputato una stagione in A (2011-2012) conclusa all’ultimo posto ma in cui si sono tolti la soddisfazione di vincere entrambe le partite giocate contro l’Inter.

Tokyo, pessimo affare: un buco da 20 miliardi

Il motto sportivo delle Olimpiadi è “Più veloce, più in alto, più forte – insieme”. Ma se si guarda ai risultati economici, in realtà dovrebbe essere “più lento, più in basso, più debole – da soli”. Ormai da decenni i Giochi, se misurati sulle spese e lo sviluppo, non hanno più ragion d’essere. I Paesi ospitanti spendono miliardi per prepararli, fronteggiano enormi sforamenti dei budget e finiscono per indebitarsi. Tokyo poi è stata sfortunata: nonostante il rinvio di un anno, la pandemia ha colpito il bilancio. Ma il disastro era previsto da tempo.

I Giochi che si chiudono oggi, secondo stime dei media nipponici Nikkei e Asahi, sono costati 23,8 miliardi di euro al cambio attuale. Gli introiti finali di Tokyo non sono ancora noti, ma la parte del leone andrà al Comitato olimpico internazionale: i diritti tv sono la quota più sostanziosa e quelli Usa valgono più della somma di quelli di tutti gli altri Paesi. Ma i telespettatori a stelle e strisce hanno latitato, per il fuso orario “impossibile” e i mediocri risultati del team, mentre il Covid ha ridotto di 1,1 miliardi l’incasso dei biglietti, secondo l’Istituto Nomura, e azzerato quello del turismo estero. Gli sponsor hanno bruciato i 2,55 miliardi investiti. Eppure il Giappone ha speso meno dei 38,3 miliardi che costarono le Olimpiadi di Pechino 2008, le quali raccolsero ricavi per soli 3,06 miliardi nonostante il boom di turisti e diritti tv. Molto meno del budget stimato in 42,5 miliardi per i giochi invernali russi di Sochi 2014. È prevedibile che il conto si chiuderà dunque “in rosso” per una ventina di miliardi.

Si sta così ripetendo il ciclo negativo degli anni 70, analizzato dall’economista Andrew Zimbalist nel suo volume Circo Massimo: la scommessa economica dietro le Olimpiadi e i Mondiali di calcio. Cinquant’anni fa i Giochi stavano crescendo rapidamente ma ogni Olimpiade, da Roma 60 in poi, vide grandi sforamenti dei costi. I Giochi di Città del Messico 68 e di Monaco di Baviera ’72 furono poi macchiati dal sangue, i primi dei manifestanti, i secondi degli atleti israeliani. Le gare del ’76 a Montreal, da un preventivo di 124 milioni di dollari, finirono per costare 1,5 miliardi. Così sempre più città decisero di sfilarsi dalla candidatura, tanto che nel ’79 Los Angeles fu l’unica a presentare un’offerta per i Giochi estivi dell’84, facendo affidamento quasi solo su stadi e infrastrutture esistenti. Grazie ai diritti tv, la megalopoli californiana ottenne dai giochi un piccolo saldo attivo. Quel successo, male interpretato, fece scattare una nuova corsa a candidarsi, con le città in gara che salirono da due per le Olimpiadi 1988 a 12 per quelle del 2004, finendo per favorire i Paesi che spendevano di più.

Gli esperti palano di “maledizione del vincitore”. Esemplari furono i giochi di Atene del 2004, costati oltre 10 miliardi, che tra corruzione e sprechi sono considerati tra le cause del default della Grecia. Molte città negli ultimi anni hanno così ritirato le proprie offerte, dopo referendum vinti da elettori contrari o per la pressione di cittadini preoccupati. Per mancanza di candidati, nel 2017 il Cio ha scelto contemporaneamente le sedi del 2024, Parigi, e del 2028, Los Angeles. Il fatto è che costi e ricavi dei Giochi ricadono su tasche diverse. Le candidature sono spinte da grandi interessi privati: dietro ci sono le lobby di costruttori, architetti, hotellerie e turismo, media, compagnie di sicurezza, assicurazioni, banche, consulenti, avvocati e pr che per questi gruppi di pressione elaborano iperboliche stime sui potenziali benefici. I costi però non gravano sulle spalle di questi gruppi, che invece ne incassano i lucrosi appalti.

Per garantirsi i Giochi la città ospite deve spesso pagare centinaia di milioni solo per presentare e “spingere” la propria candidatura. Poi finisce per stravolgere i suoi piani urbanistici, il che spesso significa trasferire comunità e posti di lavoro, assumere manodopera migrante, ma soprattutto togliere risorse rilevanti ai servizi sociali, indebitarsi per miliardi, appesantire le tasse future. Ma le promesse non si realizzano e lungo il percorso le comunità locali sperimentano invece traffico e inquinamento in nome della costruzione di infrastrutture che spesso non hanno più alcun uso dopo i Giochi (Torino 2006 insegna) o che per restare attive dovrebbero far costare troppo i propri biglietti.

A soffrire, anche in termine di costi-opportunità, sono i bilanci pubblici. Il servizio del debito dopo aver ospitato i giochi può gravare sugli Stati anche per decenni e la crescita promessa quasi sempre è un miraggio. Nemmeno gli effetti occupazionali sono certi: per i giochi di Salt Lake City del 2002 vi fu un aumento a breve termine di 7 mila posti di lavoro, un decimo di quelli preventivati, ma nessuna crescita di lungo termine, mentre la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo ha calcolato che solo il 10% dei 48 mila posti temporanei creati dalle Olimpiadi di Londra 2012 è andato a disoccupati. Anche il turismo ne beneficia, ma a breve termine, mentre a correre è la corruzione, come nei casi di Nagano (1998), Salt Lake City (2002) e Rio (2016). Senza una vera riforma del Cio e controlli sovranazionali efficaci, affiancare affari e sport non sarà più un gioco.

Geopolitica dei XXXII Giochi: Cina, Usa e le altre

Dei 205 Paesi rappresentati ai Giochi Olimpici di Tokyo 2020, slittati al 2021 per Covid, San Marino coi suoi 61,5 km quadrati è il più piccolo ad aver vinto una medaglia. Anzi, ne ha vinte tre: un argento e due bronzi, ossia una ogni 11.303 abitanti. Prima di queste Olimpiadi, la Repubblica più antica del mondo era sempre rimasta a bocca asciutta. Oggi ha alle spalle 23 Paesi, come la Nigeria, il Messico, la Finlandia che un tempo bazzicava i piani alti delle Olimpiadi. Sono soddisfazioni, queste. Nel medagliere è in compagnia dell’Argentina che ha vinto, come il Titano, un argento e due bronzi, ma ha 46.010.234 abitanti… e oggi il sito del Clarin, il quotidiano più autorevole di Buenos Aires, pubblica in evidenza un reportage su San Marino paradiso (non fiscale) ma vaccinale. Sport e geopolitica sono indivisibili. Come ha dimostrato il banditesco tentativo dei bielorussi di rimpatriare forzatamente la velocista Kristina Timanovskaja perché aveva criticato la gestione della squadra.

Il podio olimpico, ormai, non è che la punta visibile di un colossale iceberg, quello in cui si affrontano interessi e affari che tengono in ostaggio lo sport. Le multinazionali dei 5 Cerchi, il marketing, il prestigio determinato dalla “fiera delle medaglie”. In questa logica competitiva a più livelli – non solo sportivi – il campione diventa depositario delle virtù nazionali. È il testimonial del Paese che rappresenta, al servizio della ragion di Stato. Come nei conflitti bellici, economici, sociali e culturali, l’olimpismo è la continuazione della politica tramite i record. O le prestazioni di vertice. O le vittorie sul filo di lana. Come quella della staffetta azzurra, con Filippo Tortu che è riuscito a battere il rivale britannico, staccandolo di un centesimo, ossia 10 centimetri e 7 millimetri. Che beffa! Ma vale miliardi.

Ori, medaglie, classifiche. Quella per nazioni non è riconosciuta, ufficialmente. Ma è un’ipocrisia del Cio. Ci sono, eccome. Stabiliscono le gerarchie. Sono il G7 dell’atletica, il G20 del nuoto, l’Onu della partecipazione: 93 paesi hanno vinto almeno una medaglia, 61 almeno un oro. L’Africa che in altri Giochi si era fatta largo con autorità, oggi è in recessione sportiva, come lo è in campo economico e sanitario e politico. Il Kenya è la prima nazione africana del medagliere, ma sta al 25esimo posto. Ha tre ori, la metà di quelli vinti a Rio nel 2016. L’Asia dello sport, invece, rispecchia i successi della sua economia. Domina il tabellone: prima la Cina, terzo il Giappone, 14esima la Corea del Sud.

Purtroppo, le classifiche possono essere manipolate. Il criterio più diffuso è quello che assegna le posizioni in base al metallo e non al numero delle medaglie. La Cina è prima perché ha 38 ori, due in più degli Stati Uniti. Ma il New York Times ribalta tutto, mettendo gli Usa in testa perché vantano 108 medaglie contro le 87 cinesi. Sport e patriottismo. C’è anche la classifica che stabilisce le posizioni col rapporto medaglie/popolazione. Favorisce i Paesi piccoli, ridicolizza i giganti del globo. La Cina, per esempio, ha una medaglia ogni 16.593.281 abitanti, gli Stati Uniti una ogni 3.068.974. Ieri l’India ha vinto uno storico oro nel lancio del giavellotto. Il suo cestino però contiene appena sette medaglie. Il che comporta un rapporto spaventoso: ognuna per quasi 200 milioni di abitanti (198.637.130). Fotografia impietosa di un gigante geopolitico che nello sport conta niente. E l’Italia? Servono più abitanti di Milano per ogni medaglia (1.519.424), ma stiamo meglio della possente Germania (2.770.161), della Francia (2.134.476), della Russia (2.146.806), del Giappone (2.253.156), della Corea del Sud (2.565.218), pure del Canada (1.629.423). Peggio, tuttavia, della Gran Bretagna (1.059.789), lontanissimi da Olanda (531.838) e Australia (547.776), dove il binomio scuola e sport è declinato in modo parossistico, come in Nuova Zelanda (246.678). In questo club di nazioni dal profilo assai sportivo, s’inserisce l’Ungheria (508.176), che vanta tradizioni antiche.

In verità, bisognerebbe tener conto anche di altri parametri: in quanti sport si sono ottenute le medaglie, qual è il rapporto tra popolazione e impianti sportivi, tutti elementi fondamentali per disegnare una mappa globale più realistica. Secondo i media americani, l’Italia sarebbe settima. Secondo la classifica normale è nona: come a Londra 1908, Pechino 2008, Londra 2012 e Rio de Janeiro 2016. Eppure, stavolta, ha stabilito il record di medaglie: 39. A Los Angeles 1932 furono 36 (e l’Italia, come nazione, seconda dietro gli Usa). Anche a Roma 1960 furono 36 (e l’Italia fu terza dopo l’Urss e gli Stati Uniti). Ma tutto è relativo. A Roma, i Paesi partecipanti erano 83, gli sport 20 e le gare 146. A Tokyo 2020/21 i comitati olimpici presenti sono 205 (più lo Ioc Refugee Olympic Team), gli sport 33 per 50 discipline e le gare 339.

L’Italia ha il rammarico di aver in parte deluso nella prima settimana (scherma, tiro), ma nella seconda c’è stata una svolta epocale con la prestigiosa vittoria di Marcell Jacobs nei 100 metri, emblema e manifesto di ogni Olimpiade. Suggellata, dopo i trionfi nel salto in alto con Tamberi e nella marcia (2 ori), dalla spettacolare 4×100. Messaggio: dietro Jacobs c’è un movimento, una scuola. L’atletica è la cartina di tornasole di ogni sport. Il successo della staffetta azzurra significa sapienza tecnica, perfezione e meticolosa preparazione. La “rinascita” italiana passava col testimone da Lorenzo Patta a Jacobs, a Eseosa Desalu a Tortu, sino al mondo intero. Precisione e sincronizzazione sbalorditiva. Inno alla tradizione italiana delle botteghe d’arte, dell’oreficeria, della meccanica che ha prodotto Ferrari, Maserati, Lamborghini, Ducati…

Non solo. L’immagine dell’Italia ai Giochi è stata quella di un Paese multietnico, e non xenofobo come quello narrato da certa politica italiana. Ben 46 dei 384 atleti portati a Tokyo sono nati all’estero, per non contare i figli degli immigrati. La nuova Italia avanza, sconfessa chi diffonde pregiudizi e odio: velocissima come i nostri campioni olimpici. Punta oltre il traguardo. Al futuro.

In Francia i “no pass” sfilano contro Macron

In Francia la mobilitazione contro il pass vaccinale continua per la quarta settimana di fila, con un altro sabato di manifestazioni, ieri, in 172 centri del Paese, da Parigi a Lille, nel nord, o Tolone, sulla costa mediterranea, dove il movimento no pass sembra particolarmente popolare. Al contrario che nelle scorse settimane non si sono registrati episodi di violenza né cariche della polizia, ma un primo bilancio parla di 150-200mila manifestanti in totale, con una significativa rappresentanza di personale sanitario e di pompieri.

Insieme all’obbligo di vaccinazione per chiunque sia a contatto con persone fragili, incluso il personale sanitario, il green pass fa parte di una serie di misure annunciate a metà luglio dal presidente Emmanuel Macron per contenere la preoccupante diffusione della variante Delta, in un Paese in cui il Covid ha già fatto 112mila vittime.

Benché sia stato reso obbligatorio dal 21 luglio solo dopo essere stato approvato dall’Assemblea nazionale sono immediatamente partite le proteste di massa contro quella che i manifestanti definiscono “una misura di dittatura sanitaria” e “un obbligo vaccinale sotto altra forma”. Proteste che non si sono fermate nemmeno di fronte alla sentenza di una sezione speciale della Corte costituzionale, che giovedì ha confermato la legittimità della decisione, definendo il pass “un compromesso equilibrato fra salute pubblica e libertà personale”. Finora l’obbligo si è applicato a luoghi di cultura o svago con più di 50 avventori, fra cui cinema, biblioteche, musei, alberghi, concerti e centri sportivi, a cui si può accedere solo dimostrando di essere negativi, vaccinati o guariti. Da lunedì però sarà esteso a bar e ristoranti, tutti i mezzi di trasporto di lunga distanza, case di cura, cliniche ed ospedali, questi con la sola eccezione delle sale operatorie. Nuove regole che si applicheranno, dal 30 settembre, anche ai maggiori di 12 anni, per incoraggiare la campagna di vaccinazione approvata nella fascia 12-15 anni, e saranno valide fino al 15 novembre.

“Ma è molto difficile credere che siano misure solo temporanee” ha dichiarato ieri a France 24 il 34enne Alexandre Fourez, guarito dal Covid, alla sua prima manifestazione no pass. “Il pass salute è una coercizione”. Testimonianza utile se, come appare, alla radice della rivolta c’è anche una componente di rifiuto dell’imposizione e di sfida all’autorità, percepita come autoritarismo, del presidente. Significativa la progressione delle proteste, dai 18mila manifestanti del 14 luglio ai quasi 200mila degli ultimi fine settimana: una partecipazione mai vista in piena estate.

Al di là dei numeri, il movimento no pass si inserisce nel solco dei movimenti di protesta contro le politiche del governo del presidente Emmanuel Macron, dai gilet jaunes in poi, ma è particolarmente significativo perché esplode a pochi mesi dalle Presidenziali dell’aprile 2022. Convergenza delicata cui guardano i leader di altri Paesi che stanno valutando l’adozione di pass simili. Una analoga proposta del ministro della salute tedesco socialdemocratico Jens Spahn è stata ricevuta con forte resistenze nel suo stesso partito; in Spagna la misura è stata attivata da alcune regioni, mentre il governo centrale nicchia; infine nel Regno Unito, Downing Street cerca la strada della persuasione, con una campagna informativa in collaborazione con esercenti, proprietari di club, musicisti e dj e mirata ai più giovani: la fascia fra i 18 e i 29 che è l’unica davvero restia a farsi immunizzare.

Scuola, non immuni 217 mila dipendenti. Lite Regioni-generale

Senza Green pass non potranno mettere piede nei loro istituti, ma sono ancora molti quelli che, secondo la struttura commissariale anti Covid 19 guidata dal generale Francesco Paolo Figliuolo, il certificato non ce l’hanno. A poche settimane dal rientro in classe che avverrà tra il 6 e il 20 settembre, sono ancora 217.870 i lavoratori della scuola che non hanno ancora ricevuto neanche una dose di vaccino, il 14,87% del totale secondo l’ultimo report del commissario. Il 16 luglio erano 221.354, il 15,15% del totale. Ventitré giorni dopo, quindi, sono praticamente gli stessi. Sotto la lente d’ingrandimento ci sono quattro regioni. In Calabria, dove si tornerà tra i banchi il 20.9, mancano all’appello 14.398 persone tra docenti, personale Ata e amministrativi, il 30,96%. Percentuale che sale al 33,11% in Sardegna (dove si rientra il 15), 12.036 persone, dove i dati sono “in corso di verifica”. Come per la Provincia di Bolzano, dove sale al 37,34% (7.971 persone) e c’è meno tempo per recuperare visto che si torna a scuola il 6 settembre. In Liguria i dipendenti che avrebbero ricevuto la prima dose sarebbero solo il 66%, il ciclo completo si fermerebbe al 40%. Ma la Regione contesta il calcolo. Per Alisa, cabina di regia della sanità, il 77% del personale avrebbe ricevuto la prima dose e il 66% avrebbe anche la seconda. Come si spiega il balletto di numeri? Secondo Alisa, con il fatto che molti insegnanti sono stati classificati in categorie diverse (ultrafragili, se soffrono di patologie particolari; nella fascia d’età corrispondente; nei gruppi che hanno aderito agli open day). Non solo: nell’elenco iniziale il ministero aveva “dimenticato” di inserire nella platea circa 4mila fra supplenti e precari (molti dei quali vaccinati). “I disallineamenti sono normali quando si parla di migliaia di dati – spiega Filippo Ansaldi, capo epidemiologo di Alisa – diciamo che i nostri sono più raffinati e precisi. Non sappiamo se quel 23% che non ha effettuato la prima dose non abbia la volontà di farlo, di certo occasioni ce ne sono state molte”. Il 4 agosto Figliuolo ha chiesto alle Regioni di specificare la distribuzione dei vaccinati tra personale scolastico (dirigente, docenti, personale Ata, amministrativi) e fra settore pubblico e privato. Una richiesta non pervenuta. “Oggi (ieri, ndr) ci hanno chiesto solo di dividere i dati comune per comune”, aggiunge Ansaldi. Neanche Piemonte in e Sicilia sanno di dover categorizzare i dati. “Entro il 20 dovremo sapere solo quanti sono i non vaccinati nelle scuole paritarie e non”, spiega l’assessore all’Istruzione della Regione Sicilia, Roberto Lagalla. Eppure fino a qualche mese fa le indicazioni erano chiare: fino al 10 aprile il personale scolastico che si andava a vaccinare era registrato in base alla categoria. Dall’11, dopo un’ordinanza firmata dal commissario, con l’imposizione della priorità di vaccinazione per età e non più per professione, i docenti, e non solo, hanno continuato a farsi vaccinare ma – almeno in alcune regioni – sono stati catalogati senza l’indicazione del loro ruolo. Ma tra l’isola e Figliuolo c’è disaccordo anche sui numeri. Per il commissario i soggetti che hanno ricevuto una sola dose sarebbero 78.894 (56,35%) mentre secondo Lagalla 105.641 (81,40%). Quelli con la dose unica o la seconda per Figliuolo sono 75.134 (53,67%) mentre per Palazzo d’Orleans 93.087, (71,70%). Senza alcuna dose non sarebbero 59.699 mila, quindi, ma circa 14 mila. “Abbiamo già trasmesso questi dati – spiega l’assessore – ma Roma non li ha ancora ufficializzati”. Intanto sono diverse le voci di coloro che si oppongono al Green pass. Filippo Chillemi, professore e pastore evangelico, non si definisce un “no vax”: “Alla primaria su 20 bambini non vaccinati è il docente il problema? Voglio fare di tutto per non fare il vaccino, a costo di fare il tampone ogni due giorni”. In base al decreto sulla scuola, i dipendenti dovranno esibire il certificato per entrare negli istituti: chi non lo farà dopo 5 giorni di assenza sarà sospeso e lasciato a casa senza stipendio. I dirigenti dovranno vigilare, pena multe fino a 1.000 euro. Una norma che crea malumori: la Cisl chiede di eliminare le sanzioni. Gli addetti ai lavori però scommettono: molti scettici cederanno. Marco Scarponi, docente di sostegno, si è arreso: “Purtroppo devo piegare la schiena. Se l’alternativa è perdere lo stipendio…”.