La macchina di Figliuolo s’inceppa sugli over 50: 4,4 mln senza dosi

Il premier Mario Draghi venerdì si è vantato: “Non voglio celebrare successi, però va detto che l’Italia ha inoculato più dosi per 100 abitanti rispetto a Francia, Germania e Stati Uniti. Occorre che questo sforzo continui”. Ma non sono tutte rose e fiori e nel conteggio pesano come un macigno i dati relativi al personale scolastico, con il conto alla rovescia per il ritorno settembrino sui banchi (altro servizio in pagina), e agli over 50, perché quasi quattro milioni e mezzo di persone della fascia di popolazione in questo momento più a rischio non hanno avuto ancora una dose.

Come riportato dalla fondazione Gimbe, infatti, a fronte di una variante Delta ormai prevalente, oltre 2,7 milioni di over 60 non hanno ancora completato il ciclo vaccinale. In dettaglio: 1,98 milioni (11%) non hanno ancora ricevuto nemmeno una dose con rilevanti differenze regionali (dal 19% della Sicilia al 6,2% della Puglia) e 0,77 milioni (4,3%) devono completare il ciclo con la seconda dose. Questi dati sono relativi alla settimana dal 28 luglio 2021 al 3 agosto 2021 e confermano l’esitazione vaccinale in questa fascia anagrafica con la macchina del generale Francesco Paolo Figliuolo in evidente difficoltà, e non solo: il trend di somministrazione delle prime dosi vede una flessione anche in tutte le altre classi d’età superiori ai 30 anni.

Se la platea di riferimento si estende a partire dagli over 50 sono oltre 4,4 milioni gli italiani che non hanno fatto neanche una dose di vaccino. Sono 71.071.465 le dosi al momento complessivamente inoculate in Italia, con un incremento nell’ultima settimana di 3.316.075.

Nello specifico: sono 2.257.514 della fascia 50-60 anni che non si sono ancora sottoposti alla prima dose del vaccino anti-Covid, pari al 23,39%. Nella fascia 60-70 quelli a cui non è ancora stata inoculato il vaccino sono 1.212.413, pari al 16,05%. Sono senza prima dose inoltre 657.727 (10,93%) nella fascia 70-80 e 298.591 (6,56%) over 80.

Invece sono quasi un milione gli under 19 già vaccinati contro il Covid e nella fascia 16-19 anni uno su due ha fatto la prima dose. I numeri dicono che è vaccinato il 32,43% dei ragazzi tra 16 e 19 anni, 753.068 su 2.322.000. Più della metà, il 54,27% ha fatto la prima dose (1.196.119) o la dose unica (63.950) e poco più di un milione (1.061.931) non ha fatto neanche una dose (45,73%). Nella fascia 12-15 i vaccinati sono il 9,02%, 207.850 su 2.305.514, la prima o unica dose l’hanno fatta in 533.034 (23,12%) e 1.772.480 (il 76,88%) sono in attesa di prima dose. A ogni modo i quattro milioni e mezzo di over 50 senza alcuna dose cominciano a preoccupare e per questo lo stesso Draghi ha esortato: “Vaccinatevi e rispettate le regole”. E l’Istituto superiore di sanità ha aggiornato le Faq sul sito per rispondere alle fake news che circolano in Rete, da “i vaccini causano il contagio” a “d’estate non serve vaccinarsi”. Gli effetti collaterali dei vaccini, ripete l’Iss, sono estremamente rari, tanto che il rapporto fra benefici e rischi è a favore dei primi. E soprattutto “i dati provenienti dai Paesi con una campagna vaccinale avanzata, Italia compresa, hanno dimostrato che il vaccino protegge dalle conseguenze peggiori della malattia, dal ricovero al decesso, oltre 9 persone ogni 10 vaccinate” e “riduce la capacità di infettare”.

Intanto dagli Stati Uniti giunge l’allarme Covid-19 per i bambini. I casi causati dalla variante Delta tra i più piccoli stanno montando come mai prima: in una sola settimana, dal 22 al 29 luglio, sono saliti dell’85%, raggiungendo quota 71.726. Lo denuncia la Accademia dei pediatri americani, che ha sollecitato formalmente la Food and Drug Administration (Fda) ad approvare in fretta un vaccino anti Covid-19 per i bambini al di sotto di 12 anni di età .

Impunità e Salva-B.: la destra ha pronta la sua giustizia-horror

La questione viene spesso minimizzata e ridotta a caricatura: garantisti contro giustizialisti. Ma questa legislatura ha dimostrato che la giustizia, con le sue sfumature, è spesso al centro dei tornanti più pericolosi dei diversi governo. E allora non è da escludere – come da previsione di Giuseppe Conte sul Fatto di ieri – che dai risultati delle prossime elezioni politiche dipenderà il destino della riforma Cartabia: i 5 Stelle, giura il leader, sono pronti a fornire maggiori garanzie contro il rischio di impunità; la destra è convinta di dover ancora limitare il presunto strapotere dei magistrati.

E non si tratta di tirare a indovinare, ma di mettere in fila quel che Lega e Forza Italia – spesso con l’appoggio dell’ex berlusconiano Enrico Costa, oggi in Azione – hanno già annunciato di voler realizzare. E che metteranno nero su bianco appena ne avranno la possibilità, se non in questo governo in una eventuale maggioranza a guida Matteo Salvini-Silvio Berlusconi.

Guai infatti a sottovalutare Silvio. Per quanto marginale rispetto ai tempi migliori, quando si parla di giustizia riesce ancora a farsi sentire. Così si spiega il tentativo di infilare l’ennesima norma ad personam nella riforma Cartabia, pericolo poi sventato grazie alla fuoriuscita da Forza Italia di Giusi Bartolozzi e al voto contrario dei totiani. Ma il tentato blitz resta, con FI che ha provato a modificare il reato di corruzione in atti giudiziari svuotando la figura del “pubblico ufficiale”. Con Berlusconi alla finestra, visti i processi in cui Silvio è imputato nei vari filoni del Ruby-ter, dove si difende dall’accusa di aver corrotto alcuni testimoni (“pubblici ufficiali”, appunto). L’emendamento avrebbe perciò fatto evaporare i processi, circostanza che ingolosisce i forzisti al punto di progettare già un nuovo tentativo dopo l’estate.

A proposito di impunità, resta sul tavolo la questione dell’abuso d’ufficio, reato già depotenziato dal governo Conte 2 e che ora la destra vorrebbe smontare. La ratio, giurano i berlusconiani e i leghisti, è farla finita con la “paura della firma” che attanaglia i sindaci, spaventati dalle possibili inchieste ogni volta che devono prendere una decisione. La cesoia sulle indagini si trasformerebbe però in un liberi tutti.

Con la maggioranza assoluta, il centrodestra avrebbe poi mani libere su due dei temi già oggetto dei referendum promossi da Lega e Radicali. E infatti una settimana fa alla Camera, durante la discussione della riforma, la forzista Cristina Rossello non ha nascosto di ambire alla “riforma delle riforma”: la “separazione delle carriere” di pm e giudici. Un sogno che si affianca a quello del superamento della legge Severino, la norma varata a suo tempo dal governo Monti che penalizza i politici condannati e che costò il seggio al Senato a Berlusconi.

Ma non è tutto, perché il concetto di “giustizia mediatica” spesso sventolato dalla destra presuppone che debba essere parecchio limitata l’attività informativa di giornalisti e magistrati. A questo proposito, già in queste ore il governo deve esaminare il testo di un decreto legislativo che recepisce una vecchia direttiva Ue sul tema della presunzione di innocenza. Tema sacrosanto, applicato però con fantasia, tanto che nella bozza del testo si legge il “divieto” per “le autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”.

Qual è però il discrimine per giudicare se qualcuno è stato “indicato pubblicamente come colpevole”? Il rischio è che così il bavaglio limiti le dichiarazioni su chi è stato sottoposto a misure cautelari o magari ha persino confessato un reato, ma resta innocente fino a prova contraria. Per chi trasgredisce, il pericolo è quello di sanzioni pecuniarie e disciplinari. E va pure bene, se si pensa che il solito Costa avrebbe voluto far approvare un emendamento per stabilire il divieto assoluto di conferenze stampa da parte degli inquirenti su indagini in corso. Uno scenario forse soltanto rimandato.

Viaggio nel M5S da rilanciare: al Nord Conte trova le macerie

“Da settembre girerò tutta Italia”. Non è un caso che Giuseppe Conte, appena dopo la chiusura del voto che lo ha eletto leader del Movimento 5 Stelle, si sia preoccupato di annunciare un tour su e giù per il Paese. Il problema emerge a ogni tornata di elezioni amministrative: i Meet Up si sono disgregati, nei Comuni si fa fatica a mettere in piedi le liste o anche solo a trovare un candidato sindaco. La frattura è profonda e neanche i facilitatori, primo palliativo messo in campo dai vertici nazionali, hanno invertito la tendenza. Ora ci proverà Conte, che però troverà parecchie macerie. A partire dal Nord.

Lombardia. Il gruppo regionale è attivo, ma le difficoltà del Movimento sono rese evidenti dallo sbando nella campagna elettorale per Milano. A meno di due mesi dalle urne – si voterà il 3 e 4 ottobre – non c’è il nome del candidato. I 5 Stelle hanno tentato l’accordo con Beppe Sala, messo però con le spalle al muro dal veto degli alleati centristi. E nell’immobilismo di queste settimane, se ne sono quasi tutti andati. Gianluca Corrado, aspirante sindaco nel 2016, non si ricandiderà. Patrizia Bedori è fuori, così come Simone Sollazzo (passato ai Verdi). Gli attivisti vorrebbero Elena Sironi candidata sindaca, ma il suo nome non è mai stato avallato da Roma, dove si è pensato anche alla senatrice Simona Nocerino. L’accordo col Pd sarà più semplice per le Regionali del 2023 (magari su Stefano Buffagni), unica strada per strappare la Lombardia alla destra.

Liguria. L’unico precedente di coalizione giallorosa alle Regionali è quello dello scorso anno in Liguria, dove la destra di Giovanni Toti ha battuto il giornalista del Fatto Ferruccio Sansa, sostenuto proprio da M5S e Pd. Senza per la verità troppa convinzione, visto l’eterno tira e molla sul suo nome concluso a poche settimane dalle elezioni. Dei 5Stelle della prima ora qui non resta granché, se si pensa che Marika Cassimatis fu una delle prime vittime del decisionismo di Beppe Grillo e Alice Salvatore se ne è andata portandosi dietro qualche compagno d’avventura. Degli otto parlamentari eletti in Liguria nel 2018, ne restano 3. Anche qui allora sarà quasi tutto da ricostruire, magari anche grazie a quel Luca Pirondini capogruppo a Genova e attivista di lungo corso.

Piemonte.Chiara Appendino – pur in mezzo alle turbolenze di maggioranza a Torino – è rimasta un punto di riferimento carismatico e si prepara – con ogni probabilità – alla vicepresidenza del M5S. Qui l’attivismo grillino ha spesso fatto rima con le proteste no Tav, anche se da Palazzo Chigi Conte fu costretto a ingoiare l’opera. Due consiglieri regionali su 5 se ne sono andati e chi rimane racconta che proprio sul Tav si sono consumati i malumori più grandi. La candidata sindaca a Torino Valentina Sganga, antica oppositrice dell’opera, può recuperare un po’ di legami con la Valsusa (ma i rapporti con Appendino sono assai freddi). In tutti i Comuni al voto, se non altro, i 5S sono riusciti a organizzare una candidatura.

Emilia-Romagna e Nord-est. A Bologna e dintorni la linea è chiara: i grillini sono nel “laboratorio politico” del centrosinistra. Il punto di riferimento è sempre Max Bugani, attivista della prima ora, incoraggiato dall’elezione di Conte. Il M5S appoggia il candidato sindaco del Pd Matteo Lepore. Una scelta che ha prodotto strappi e defezioni – l’ultimo ad andarsene è stato l’ex candidato governatore Simone Benini –, ma che almeno dà una prospettiva chiara al futuro.

Nel Nord-est invece è desertificazione totale: negli anni al governo il M5S è stato annichilito dalla concorrenza della Lega. Il consenso è quasi azzerato e i pochi punti di riferimento sono andati via, come l’ex europarlamentare trevigiano David Borrelli e il deputato no-euro e no-vax Gianluigi Paragone. Conte e i suoi dovranno ripartire da zero.

Sottosegretario nostalgico. Lo “sborone” di Salvini

Più che fascista tout court, Claudio Durigon è personaggio da Canale Mussolini, nipote di braccianti veneti emigrati per la bonifica dell’Agro pontino. Il sottosegretario leghista ha il gusto della battuta, spesso grossolana: è un po’ “sborone”, dice un compagno di partito. E l’ultima “sboronata” gli è scappata su un parco pubblico dedicato a Falcone e Borsellino, a cui Durigon vorrebbe restituire la denominazione originaria: “La storia di Latina è quella che qualcuno ha voluto anche cancellare, cambiando il nome a quel nostro parco che deve tornare a essere quel parco Mussolini che è sempre stato”, ha detto qualche sera fa in un comizio a “Littoria”. S’intende Arnaldo, fratello di Benito, ma il senso è chiaro.

L’improvvida uscita ha restituito carburante a chi chiede di rimuoverlo dalla carica di sottosegretario all’Economia, richiesta che è tornata ieri da più parti e da più partiti. Solo che Mario Draghi tace: nel governo dei migliori, Durigon pare intoccabile.

Lo è nonostante il video di Fanpage, nel quale si vantava, ripreso di nascosto, che il generale della Guardia di finanza che indaga sulla Lega fosse stato piazzato lì dallo stesso partito. È intoccabile nonostante gli intrecci con soggetti imbarazzanti dell’imprenditoria e della politica pontina, finiti nelle inchieste della Dda sulle infiltrazioni mafiose nel Basso Lazio. Inchieste alle quali Durigon è estraneo: nessun capo d’accusa, solo domande senza risposta sui personaggi e sui clan che hanno gravitato attorno alla Lega di Latina durante la campagna che l’ha portato in Parlamento.

Ed è intoccabile nonostante le circostanze poco nitide della sua carriera sindacale, tra gestioni allegre e tesseramenti fantasiosi. Durigon deve molto, se non tutto, all’Ugl (ex Cisnal, la sigla della destra sociale) di cui è stato vicesegretario dal 2014 al 2018. Quell’Ugl che ha trasformato nella base organizzativa di Matteo Salvini nel Lazio. Nelle stanze del sindacato in via delle Botteghe Oscure è arrivata prima la Bestia dello spin doctor Luca Morisi, poi il partito – che ha attinto liberamente a uomini e risorse – s’è preso un piano intero. Durigon benedice da Montecitorio, incassa forse la candidatura alla Regione Lazio e conserva una poltrona prestigiosa nel governo dei migliori. Nel silenzio ermetico del premier.

Ministro del concorso flop. L’ultima: incarico a Betulla

Lui, si sa, pensa sempre in grande: un tempo ambiva al premio Nobel, ma ha dovuto farne a meno ed è andata bene lo stesso. Le speranze di successo rimangono quelle di sempre: “Volevo vincere il Nobel, ma poi ha prevalso l’amore per la politica: comunque ho buone possibilità di diventare presidente della Repubblica” confessò nel 2008. Oggi Renato Brunetta accarezza l’idea di diventare almeno presidente del Consiglio, come ministro più anziano in carica, nel caso in cui Mario Draghi dovesse trasferirsi anzitempo al Quirinale. Nel frattempo si accontenta di stare al ministero della Pubblica amministrazione dove aveva chiamato anche il suo antico amico Renato Farina, l’agente Betulla già al servizio dei Servizi. Lo aveva voluto come consigliori , casomai la Patria lo chiamasse a Palazzo Chigi. Ma ieri il buon Farina ha rassegnato le dimissioni e il ministro ne ha preso atto, ringraziandolo per la “sensibilità istituzionale”.

A Palazzo Vidoni resterà senza di lui, Brunetta. Al secondo giro e sembra passato un secolo dai tempi dell’ex Cav. quando aveva tentato di imporre la cura del sale alla Pa, accusando i dipendenti pubblici di fancazzismo un giorno sì e l’altro pure, tanto li aveva sul gozzo. E minacciando licenziamenti à gogo tra i frega-tornelli, mangiapane a tradimento agli occhi suoi, figlio di un ambulante veneziano che a forza di sgobbare era riuscito a sedersi a tavola coi “siori”: De Michelis, Craxi e poi Berlusconi. Che dopo averne fatto brillare la stella per anni, lo ha messo da parte preferendo inseguire la sirena di Salvini. Oggi la rifondazione di Brunetta è completa: ha riscoperto le proprie origini lontane anni luce dai tempi in cui pigliava di petto i fannulloni “che spesso stanno a sinistra”. Rivendica di essere sempre rimasto socialista, anzi socialista liberale alla Carlo Rosselli, martire del fascismo. Nel tempo è diventato amatissimo dal Pd, ha sotterrato l’ascia di guerra con i sindacati, ha abbassato un bel po’ i toni: non sarà mai uno zuccherino perché il carattere resta quello che è, ma oggi Massimo D’Alema non lo definirebbe più un “energumeno tascabile”.

Sarà che il vento è cambiato o l’ebbrezza di essere nel governo dei Migliori, chissà. Con Draghi, con cui Brunetta ha cominciato a flirtare quando nella scorsa legislatura era vicepresidente della commissione d’inchiesta sulle banche (e il premier era ancora alla Bce), ha un eccellente rapporto. In più c’è il Rinascimento italiano da Pnnr che al ministero gli consente di assumere a tutto spiano. Peccato per quell’idea di poter reclutare le migliori professionalità proponendo contratti da 1400 euro al mese: il concorsone per rafforzare le amministrazioni del Mezzogiorno è stato un flop che ha costretto Brunetta ad ammettere l’errore. Miracoli draghiani.

Le guerre stellari per lo Spazio: senza deleghe Tabacci, ora caccia ai 2 mld

Saranno quei 2,3 miliardi da investire nell’aerospazio, come prevede il Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza. Sarà che il settore garantisce da sempre solidi rapporti internazionali, soprattutto con gli Stati Uniti, e una fitta rete di relazioni con le imprese italiane (e non solo) – a partire da Leonardo – che fanno affari per oltre 13 miliardi di euro l’anno. Passando poi per gli interessi elettorali, e di collegio, che scatenano sempre gli appetiti dei partiti. Sarà per tutto questo che nel governo è iniziata la guerra per accaparrarsi la delega alle politiche aerospaziali. L’antefatto è noto: Bruno Tabacci, sottosegretario a Palazzo Chigi con delega al Coordinamento delle Politiche economiche e allo Spazio, giovedì ha rimesso le deleghe nelle mani del premier Mario Draghi dopo la notizia, rivelata da Domani, dell’assunzione del figlio Simone a Leonardo, partecipata dello Stato e maggiore player italiano nell’ambito aerospaziale. Un conflitto d’interessi evidente visto che Tabacci junior è stato assunto nella struttura di Giovanni Saccodato, che è anche presidente e vicepresidente di due big del settore dello Spazio come Thales e Telespazio. Una vicenda che ha fatto irritare molto il presidente del Consiglio, il quale, secondo i ben informati, ha costretto Tabacci al passo indietro. Ma solo a metà visto che il leader di Centro Democratico e storico amico del premier ha lasciato solo le deleghe allo Spazio continuando a occupare comodamente la sua scrivania in Largo Chigi, da cui passeranno i dossier più importanti del Pnrr.

Ieri al Corriere Tabacci ha spiegato di essere stato fatto fuori da “una certa destra”, e nello specifico dalla Lega, per aver “tagliato i ponti con il passato”. Difficile sostenere la tesi di aver “rinnovato” le politiche dello Spazio visto che, da quando ha assunto la carica, Tabacci è tornato indietro su tutto rinnegando le politiche portate avanti dal suo predecessore, il sottosegretario Riccardo Fraccaro del M5S. Quest’ultimo infatti aveva deciso di dare un indirizzo politico forte alla strategia aerospaziale tramite il Comint e togliendo potere all’Asi, l’Agenzia Spaziale italiana presieduta da Giorgio Saccoccia, con l’obiettivo di ripristinare logiche di mercato nel settore. Il primo atto di Tabacci è stato invece quello di smantellare il comitato interministeriale per accentrare su di sé tutte le politiche aerospaziali e, questa è l’accusa dei suoi detrattori, di fatto ridando centralità all’Asi con la conseguenza di favorire la solita filiera indipndentemente dal merito. Che invece, dietro il suo siluramento, ci sia una “manina” leghista è un’ipotesi che gira nelle ultime ore tra Chigi e via Bellerio. D’altronde a Giancarlo Giorgetti, che aveva quella delega durante il Conte-1, la nomina di Tabacci non era mai andata giù. Il ministro dello Sviluppo economico sperava in quella poltrona e, da quando si è insediato in via Veneto, ha fatto il responsabile “ombra” di Tabacci allo Spazio trattando con il ministro francese Bruno Le Maire. Giorgetti poi è particolarmente sensibile al tema visto che, come si fa notare nella Lega, molte imprese del settore vengono proprio da Varese, terra natale e bacino elettorale del numero due del Carroccio. E così, dopo lo scandalo del figlio, è stata proprio la Lega a scagliare la prima pietra contro Tabacci, anche per la nomina di Elsa Fornero come consulente.

E dunque, tra i veleni incrociati, la guerra per la delega allo Spazio è iniziata. L’uomo designato da Draghi sarebbe il ministro dell’Innovazione, Vittorio Colao, ma i partiti di governo le stanno provando tutte per accaparrarsi la carica: oltre al sottosegretario Roberto Garofoli, chi ambirebbe a gestire lo Spazio sarebbe proprio il leghista Giorgetti, ma nel Pd si fanno i nomi anche di Enzo Amendola e Lorenzo Guerini. I 5S spingono per Fabiana Dadone. Ma Draghi non sembra avere dubbi e nelle prossime ore dovrebbe affidare le deleghe a quel Colao per cui è servita finanche una leggina ad hoc nel Cdm di giovedì: una modifica alla governance spaziale secondo cui le deleghe possono essere attribuite non solo a un sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ma anche a un ministro, per giunta, come Colao, senza portafoglio.

Il consulente Farina si dimette: “Io vittima di attacchi gratuiti”

Alla fine si è dovuto dimettere. Renato Farina non sarà più consulente del ministro Renato Brunetta. “Ho rassegnato con animo leggero le mie dimissioni da consigliere per la comunicazione istituzionale del ministro per la Pubblica amministrazione, per il venir meno delle condizioni per esercitare proficuamente le mansioni connesse a questo incarico fiduciario”, scrive Farina dopo le polemiche innescate dall’articolo del Fatto Quotidiano sul ruolo assunto al ministero nonostante i suoi discussi trascorsi di collaboratore dei servizi segreti.

Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana aveva immediatamente presentato un’interrogazione parlamentare per chiedere conto al presidente del Consiglio Mario Draghi dell’ingresso di Farina nello staff di Brunetta. Lo stesso ha fatto il Movimento 5 Stelle ieri, prima che Farina decidesse di gettare la spugna.

“Sono onorato e considero un grande privilegio aver potuto collaborare, in mesi di impegno entusiasta, con il ministro Brunetta. La mia gratitudine per lui non finirà mai. Nel momento però in cui la mia presenza diventa motivo di attacchi gratuiti allo scopo di indebolirne l’azione riformatrice, il miglior aiuto che posso dargli è ritirarmi. Il mio, tengo a dirlo, non è affatto un riconoscimento alle ragioni dei cultori del ‘fine processo mai’ che da quindici anni mi inseguono per negarmi il diritto ad ogni espressione pubblica, dopo che ho pagato quanto i giudici hanno stabilito. La mia – spiega Farina – è una decisione dettata dalla volontà di non danneggiare chi ha avuto e ha tuttora fiducia e stima non solo nelle mie qualità professionali quanto soprattutto nella mia persona. Ringrazio, inoltre, il direttore Alessandro Sallusti per la sua squisita solidarietà”.

Lapidaria la nota del ministero della Pa: “Il gabinetto del ministro per la Pubblica amministrazione ha ricevuto la lettera di dimissioni di Renato Farina dall’incarico di consigliere per la comunicazione istituzionale del ministro Brunetta. Il ministro lo ringrazia per l’impegno, la dedizione e la sensibilità istituzionale dimostrati”.

 

Presunti indecenti

La riforma Cartabia è un pozzo senza fondo di buone notizie. Per “rafforzare la presunzione di innocenza”, è “fatto divieto” a giudici e forze dell’ordine “indicare come colpevole l’indagato o l’imputato” fino a condanna definitiva e di chiamare le indagini con “nomi mediatici e roboanti”. Quando il poliziotto fermerà il rapinatore in fuga dalla banca col sacco in spalla pieno di banconote, dovrà fare il vago col gip e questi, nei gravi indizi di colpevolezza previsti dal Codice per la custodia cautelare, precisare: “Va arrestato perché innocente”. E poi mai più “Mafia Capitale” (per non offendere Romolo) o “Mani Pulite” (per non urtare chi le ha sporche).

Espressioni colpevoliste tipo “strage di Bologna” vanno riformulate in “Incidente ferroviario in Piazza Medaglie d’Oro”. Mostro di Firenze? “Indagine Sesso Sicuro”. Stragi di Capaci e via D’Amelio? “Incidenti d’auto per l’intenso traffico”. Omicidio Cucchi? “Rieducazione manuale”. Pestaggio alla Diaz? “Scuola di vita”. Morti in fabbrica? “Esuberi”. Tumori all’Ilva? “Fumo passivo”. Narcotraffico? “Operazione Borotalco/Biancaneve”. Preti pedofili? “Educazione sessuale precoce”. Stupratori seriali? “Indagine Banca del Seme”. Clinica degli orrori? “Allegro chirurgo”. Uxoricidio? “Divorzio breve”. Attentato kamikaze? “Fuochi d’artificio fai-da-te”. Rapine nelle ville? “Operazione Robin Hood”. Appalti truccati per tangenti? “Semplificazione del libero mercato”. Svaligiata gioielleria? “Decrescita felice”. Retata di mafia? “Operazione Octopussy”. Ladri d’auto? “Inchiesta Piste Ciclabili”. Sequestri di bambini? “Caso Mary Poppins”. Bancarotta per distrazione? “Operazione Abracadabra”. Negozi bruciati per estorcere il pizzo? “La Luna e i Falò”. Trattativa Stato-mafia fra il Ros e Ciancimino? “Caramba che sorpresa”. Le stesse cautele, onde evitare pericolose derive colpevoliste, dovrà adottare ciascuna vittima (con licenza parlando) di delitto (si fa per dire). In caso di scippo, la vecchina dovrà evitare di proferire espressioni tipicamente giustizialiste come “al ladro!”, ma chiamare il 113 e moderare i toni. Formula consigliata: “Un presunto innocente mi ha inavvertitamente sfilato la borsetta, ma vi prego di sottrarvi a pulsioni di giustizia sommaria e raggiungerlo per invitarlo col dovuto tatto a una riconciliazione con la sottoscritta, poi infliggergli una pena alternativa, tipo un quarto d’ora di servizi sociali, o avviarlo direttamente all’improcedibilità, con le pene accessorie previste in casi come questo: una rubrica fissa su Libero o sul Giornale, una consulenza per Brunetta, un contratto di opinionista tv, un seggio in Parlamento. Quanto a me, provvederò quanto prima a scusarmi per il disturbo arrecatogli”.

Il Canto notturno di un attore errante che si autointercetta

Due agosto. Bologna non dimentica. Sono passati 40 anni e Bologna non dimentica. Ma dimentica che lo Stato non ricorda. Lo Stato è per sua natura distratto. Freud e mia zia Beliseide però sostengono che chi è distratto lo è perché non vuole o non può ricordare. E qualcun altro aggiunge pure che lo Stato siamo noi. Personalmente faccio fatica a ricordare che lo Stato siamo anche noi. Come, quando, perché siamo noi? Chi l’ha detto? Siamo noi cosa? Quando mi hanno eletto? Scusate ma io non ricordo di aver mai trattato con la mafia. Scusate ancora, non mi ricordo più di cosa stavo scrivendo… Ah, comunque abbiamo vinto gli Europei di calcio. E le Olimpiadi. Mica roba che si dimentica. Magari io. Queste son storie da raccontare ai nipotini che quando avranno 40 anni saranno 80 anni che Bologna non dimentica. Ma dimentica che lo Stato non ricorda. Non può ricordare. Non sa ricordare. Da questo pensiero ho in mente di scrivere un monologo, ma devo segnarmelo da qualche parte se no rischio di scordarmelo.

Con la mascherina a molti è caduta la maschera. Nella commedia dell’arte è un riprovevole incidente. Nel teatrino della politica si chiama Restaurazione.

Lo smart working è una gran bella e nuova novità. Però… Prova a impastare il cemento in salotto, pirla.

Ieri ho incontrato un mio amico attore disoccupato che comincia ad avere fame. Ha detto che andava a chiedere un umile lavoro al Monte dei Paschi di Siena per poter fare almeno una spesa alla Coop. Io non voglio andare a lavorare alla Coop. Però andrei volentieri a fare la spesa al Monte dei Paschi di Siena. Poi lascerei da pagare.

Molti padroni dei teatri oggi non devono ricorrere più a intrighi, strategie relazionali, falsi in pubblico sbilanciati. Nemmeno cercare scorciatoie produttive per facili guadagni, onesti e legali. Per guadagnare o ristorarsi a questi nuovi padroni del teatro italiano basta star fermi. Immobili. Non far nulla… a parte forse licenziare le cassiere in biglietteria. Basta aspettare. I denari per loro stanno in una nuvola. Cloud, si dice in inglese. Ripeto, sono lì. Aspettano. Che piova. Tanto i denari arriveranno. Pioveranno dal cielo ministeriale, e finalmente sarà buono e giusto dire “piove governo ladro”.

I servizi deviati dello Stato non esistono. I cosiddetti servizi deviati sono sempre andati là dove erano stati indirizzati fin dall’inizio. Altro che deviati. I servizi deviati vanno sempre a bersaglio. Bisogna imparare per tempo a spostarsi.

In questa estate ho accumulato un dossier su me stesso. Ci lavoro da mesi. Mi sono intercettato telefonicamente. Ho tenuto tutte le fatture, le ricevute. Scontrini di tutto quello che mi sono preso. Anche quello di uno che ho pagato perché mi pedinasse. Mi sono mandato una raccomandata con un avviso di garanzia a me stesso. Arriverà, è questione di giorni. Se qualcuno leggendo queste righe sentirà un minimo del mio prurito morale per l’indifferenza, la negligenza e soprattutto l’egoismo e la smemoratezza nei quali abbiamo vissuto in questi ultimi anni può seguire il mio esempio e denunciarsi. Chiedo solo di perdonare la classe politica che in questi ultimi anni ha cercato di proteggermi occultando le prove delle mie colpe con il segreto di Stato. Piazza Fontana. Italicus. Bologna. Sono stato io. Chiudiamola qui. Mi sono rotto i coglioni di aspettare che si costituisca il vero colpevole.

Per i mediocri salutieri del teatro d’élite chi si dedica al teatro popolare è un egocentrico. Ossia un teatrante di cattivo gusto che si occupa più di sé con il pubblico che di loro con il teatro semi vuoto.

In un periodo d’emergenza i commedianti dell’arte popolare per fronteggiare il sistema devono allenarsi quotidianamente. Gli esercizi fondamentali sono quattro. Primo: pensare come un mulino a vento. Secondo: assumere un’aria da idiota. Terzo: agire senza il corretto preavviso come un terremoto. Quattro: dimenticare il fair play. È un termine inglese. E ci sono state la Brexit e gli Europei.

Le elezioni sono un grande spettacolo. Un marchingegno in cui l’elettore sceglie firmando con una croce una persona che non conosce, che a sua volta è stata scelta da persone che non si conoscono nemmeno fra di loro. Decidono in base alle indicazioni di non si sa bene chi. Non c’è mai un colpo di scena.

Un tempo quando si parlava di cultura qualcuno metteva mano alla pistola. Oggi è sufficiente mettere piede in un qualsiasi consiglio di amministrazione di un grande teatro. Un consiglio di amministrazione poi è uno scaltro meccanismo per procacciarsi vantaggi individuali senza personali responsabilità. Nel caso si trattasse di un consiglio di amministrazione teatrale, non sono richieste qualità artistiche.

La storia dell’umanità si divide in ere. L’era del bastone. L’era della frusta. L’era delle catene. L’era del debito. Il debito si divide (citando Draghi) in buono e cattivo. Quello buono è quello che non si paga. Affinché sia più che buono, ottimo, è fondamentale che non ricada sui figli. Un consiglio. Diseredateli! Se la caveranno meglio.

Finale corretto di una famosa favola affinché la satira trovi una possibile via di fuga. Il bambino nella piazza grida: “Il re è nudo!”. A questa sua verità, si levano acclamazioni e applausi da parte della folla. Il re arringa la folla. “Seguitemi precedendomi!”. Il bambino si volta e vede la folla spogliarsi e seguire sua maestà. Sulla piazza restano tutti i vestiti abbandonati dalle masse. Il bambino allora ne fa un gran falò. Sta per arrivare l’inverno e ognuno ha il re e il governo che si merita.

Con un comunicato su Instagram criptato, il grand jury dell’arte teatrale che governa il Paese ha proclamato che tutto il potere dell’arte teatrale andrà nelle mani dei mediocri di talento. Si nasce mediocri, ma poi bisogna allenarsi per arrendersi a questa evidenza e trarne motivo di vanto. Costoro, i mediocri di talento, che tra loro si definiscono gli scolastici, amano il teatro ma odiano il pubblico. Sono una calamità culturale. Scambiano il loro gusto e le loro amicizie con la perizia e l’ambizione con le loro capacità artistiche. Sono le guardie giurate in difesa della libertà di non espressione.

Quei “Quattro Siciliani” che esportarono il jazz a Ny

Sostenere che le origini del jazz siano italiane potrebbe apparire una tesi ardita, campanilistica e smargiassa, tuttavia nel viaggio alla riscoperta delle contaminazioni che contribuirono alla nascita del genere musicale – agli albori del XX secolo – si rinvengono le orme dei nostri connazionali emigrati. In particolar modo quelle della band, di cui a lungo si sono perdute le tracce, i Quattro Siciliani. Era composta da Rosario Catalano, Giuseppe Tarantola, Carmelo Ferruggia e Girolamo Tumbarello, partiti in America in cerca di fortuna. Suonavano rispettivamente mandolino, clarinetto, chitarra, contrabbasso o tuba. Il quartetto iniziò ad esibirsi i primi del ‘900 a New York. Inizialmente si dilettò allietando gli invitati ai matrimoni con polke, valzer, mazurche e tarantelle. Rosario Catalano era il leader della band. Aveva 21 anni quando nel 1908 arrivò a Ellis Island. A Marsala (Trapani) resta ad attenderlo il grande amore, Rosa che – poco più tardi – porterà con sé. Arde di passione Rosario per la sua Rosa e per la musica. Lascia la Sicilia per il sogno americano e assetato di riscatto sociale si fa strada. Nasce la band, si moltiplicano le esibizioni e finalmente nel 1917 arriva anche il primo 78 giri. Ne seguiranno altri 230. Rosario non intende fermarsi e diventa anche un vero businessman newyorchese con la fondazione di una propria etichetta discografica. I brani riscuotono successo. Rosario e i Quattro Siciliani sbarcano il lunario. L’America – nel loro caso – ripaga gli immensi sacrifici, la lontananza dagli affetti e la nostalgia per la propria terra natale con la fama e il benessere, tanto da costringere Rosario a parlare poco dei propri successi perché alla mafia italoamericana, la Mano Nera, la sua escalation non passa inosservata. Tuttavia nel 1925 il grande sogno si spegne: un’appendicite fulminante stronca la vita di Rosario. La sua fortuna finirà in frantumi. Rosa mette i risparmi in banca a Mazara del Vallo ma l’istituto fallisce. Di lui e della sua band ci si dimenticherà in fretta, fino a quando la studiosa Giuliana Fugazzotto ne ricostruisce la storia con l’audiolibro I Quattro Siciliani – La straordinaria vicenda di Rosario Catalano e del suo quartetto nell’America degli anni Venti (2015). Di questa storia parla anche il romanzo Cuori di Sicilia – La saga dei Catalano (Pienogiorno) scritto dalla pronipote di Rosario, Rosanna Catalano, che è anche, curiosità, madre dell’ex ministro Alfonso Bonafede.